PREGHIERA (Educazione alla)
Ogni generazione ha da riscrivere, insieme al suo “quinto evangelio” (M. Pomilio), anche la sua P. Educare alla P. significa abilitare a fare propria l’esperienza della tradizione cristiana e dare vita a nuove forme di P. Come non c’è educazione alla P. senza radicamento nell’esperienza secolare dei cristiani, così non c’è educazione alla P. senza creazione di nuove modalità e stili per le nuove generazioni.
Per salvare “radicamento” e “creatività” è necessario affrontare due ordini di riflessioni per rintracciare anzitutto un terreno comune alla tradizione cristiana e ai giovani d’oggi, in cui sia possibile uno scambio significativo e arricchente nelle due direzioni. Un primo ordine di riflessioni riguarda gli elementi che la tradizione ecclesiale ritiene irrinunciabili per pregare “secondo Gesù”. Come pregare da cristiani? Qual è lo specifico della P. cristiana? Nella tradizione sono presenti due impostazioni. Secondo la prima, il mondo, la vita, la storia sono essenzialmente luoghi di assenza di Dio che si fa presente in determinati spazi, tempi, azioni, riti che diventano così privilegiati (sacri) rispetto agli altri (profani) per incontrare Dio. In questa concezione è facile individuare il ruolo e il compito della P. e della celebrazione liturgica.
Nella seconda impostazione il mondo, la storia, la vita delle persone sono percepiti a livello di offerta, e quindi con la possibilità tragica di rifiuto, come luogo della comunicazione immediata di Dio all’uomo. Tutto diventa luogo di misterioso incontro con Dio. La preghiera e la celebrazione non sono allora l’unico o il principale luogo dell’incontro con Dio, ma piuttosto il luogo della “esplosione” di quel misterioso incontro. Ovviamente il momento della esplosione è un momento di originale e decisiva esperienza di Dio, non in opposizione all’assenza di Dio nel quotidiano, ma in continuità con tale evento misterioso. La P. è “memoriale” e “sacramento” dell’incontro con Dio nel quotidiano.
Entrambe le impostazioni sono presenti nella tradizione cristiana. La prima è più diffusa. La seconda, per molti versi, sembra più “evangelica”, cioè legata alla “rivoluzione” di Gesù nell’ambito dei rapporti tra uomo e Dio. Per Gesù infatti la preghiera è un appuntamento importante solo dopo aver affermato che ogni uomo si decide a favore o contro Dio quando si pone a servizio del prossimo o rifiuta di “fare compagnia” ad ogni uomo, soprattutto ai poveri, agli ultimi e agli emarginati (Mt 25).
Se entrambe le concezioni sono possibili, si pone una ulteriore domanda: qual è la più significativa oggi? Non bisogna rispondere in astratto, ma cercando di comprendere il modo con cui l’uomo e, nel nostro caso, i giovani d’oggi, tendono a vivere il dialogo con Dio.
Così facendo entriamo nel secondo ordine di riflessioni a cui è necessario rispondere per individuare il terreno su cui è possibile costruire con i giovani il nuovo edificio della P. Da questo punto di vista si possono raccogliere alcune affermazioni.
Pur essendo passati gli anni di una secolarizzazione esasperata, per i giovani d’oggi il luogo di appuntamento con Dio rimane il modo complessivo di vivere la vita. Il modo di vivere, preso in senso morale ma soprattutto esistenziale, è il luogo del misterioso dialogo. Il giovane d’oggi tende a vivere un “rapporto diffuso” con Dio: per lui Dio è presente ovunque, e ovunque l’uomo può “incontrarlo”.
Questa consapevolezza, più o meno esplicita, porta a distaccarsi sensibilmente dalle pratiche religiose e a ricercare nuove modalità di rapporto con Dio.
L’esito purtroppo è sconfortante. Assieme alla crisi delle pratiche sopravviene spesso la crisi della stessa religiosità come atteggiamento di dialogo con Dio. Senza una fedeltà o una riscoperta del ruolo delle pratiche religiose nella vita, la fede stessa rischia facilmente di avvizzire e morire. D’altra parte indietro non si può tornare, facendo finta che la secolarizzazione non sia avvenuta o non sia in atto.
Siamo al nodo centrale del problema: può un giovane secolarizzato pregare? Tre considerazioni si impongono a questo punto per superare l’impasse.
La prima è che, nonostante tutto, non è morta la domanda religiosa e la stessa domanda di P. Nell’insieme siamo di fronte a una domanda di vita che lascia intravedere diversi spazi di apertura e ricerca di un’esperienza religiosa della vita.
Proprio le modalità con cui la domanda di vita si esprime tra i giovani fino a diventare domanda religiosa, sono il terreno su cui è possibile radicare una proposta di P., e, prima ancora, una proposta di fede, attivando uno scambio fra tradizione e cultura giovanile.
Per educare alla P. è allora importante muoversi in due direzioni: abilitare a vivere religiosamente e abilitare a vivere in modo nuovo la P. Non è nostro compito indicare come educare “a vivere religiosamente”. Ci limitiamo ad affermare che la P., nella maggior parte dei casi, può nascere solo dalla riscoperta che la vita ha un senso, che questo senso è dono dall’alto e insieme conquista, che il quotidiano va vissuto continuamente in uno “sguardo di fede” dentro cui si fa visibile l’invisibile intessersi del rapporto personale con Dio. Man mano che questo cammino procede sarà possibile proporre la P. non come alternativa, ma come espressione, esplosione, comprensione profonda di tale incontro con Dio.
A questa considerazione ne va però aggiunta una seconda. Il decantamento della secolarizzazione sta portando a scoprire, accanto all’importanza Aerazione o impegno per affrontare i problemi della vita e della riflessione scientifica per collocare le proprie esperienze nel più vasto divenire sociale e culturale, l’importanza della contemplazione, intesa come “distaccarsi” dalle cose della vita non per rendersene assenti, come in certe religiosità orientaleggianti, ma per comprenderla, giudicarla, progettarla a partire da un valore, una scommessa esistenziale, una fede che riconosca a loro una direzione, un senso, una via alla salvezza. Tale esigenza contemplativa è insita nel modo di vivere l’insieme della giornata, ma sembra sempre più comportare il ritagliarsi spazi e tempi in cui preservare l’intimità della propria persona e in cui lasciar esplodere la ricchezza misteriosa delle cose che si vivono. Non siamo ancora alla P., ma certamente alla disponibilità ad un certo modo di pregare; anche tra i giovani.
Veniamo a una terza considerazione, in continuità con le cose dette. La secolarizzazione non è di per sé, come si è visto, morte della P., ma solo esigenza di riformulazione. Abbiamo verificato l’esistenza di una domanda religiosa e di una domanda di contemplazione. Forse è possibile un altro passo in avanti, dicendo che sembra oggi importante riscoprire il ruolo delle pratiche religiose nella vita dell’uomo e, in particolare, del giovane.
Una volta affermato che Dio lo si può incontrare dovunque, ed è questa una lezione positiva della secolarizzazione, si intuisce sempre più che il pregare e celebrare sono richiesti dalla struttura fondamentale dell’uomo, il quale, senza momenti concreti in cui tematizzare l’incontro con Dio nel quotidiano, rischia di disperdere nel vento la sua religiosità. Se la religiosità odierna rifiuta le pratiche sacrali come monopolio dell’incontro con Dio, ha tuttavia bisogno di luoghi, tempi, spazi, personali e comunitari, in cui contemplare, meditare con calma, celebrare con la comunità. Ha bisogno di gesti e parole, di riti e miti, né più né meno di come l’amore tra un uomo e una donna vissuto nel quotidiano, dal lavoro al mangiare, ha bisogno di gesti simbolici che lo attualizzino.
Quale può essere, a questo punto, la pratica di P. significativa per i giovani oggi? A quale “modello” o “scuola” di P. fare riferimento? E, più ancora, verso quale stile di P. incamminarsi per il futuro?
Oggi siamo in presenza di tre grandi modelli. Il primo è quello più tradizionale imperniato sulla Messa domenicale e sulle P. del buon cristiano. Il secondo è il tipo liturgico-monacale, con diverse possibilità di espressione. Il terzo è di tipo carismatico-popolare.
Il modello più organico e trainante nella Chiesa oggi sembra quello liturgico-monacale. In esso sembra raccogliersi la grande lezione del Concilio con la riscoperta della parola di Dio, della liturgia, di Lodi e Vespro, della comunità che celebra. L’impressione tuttavia è che questo modello sia poco significativo e, per molti versi, improponibile alla grande maggioranza dei cristiani e dei giovani. Del resto, mentre valorizza alcuni insegnamenti del Concilio, rischia di vanificare altri valori non meno importanti, riassumibili nella riscoperta della figura del laico e della laicità come modo originale di esperienza di Dio, diverso da quello monacale o clericale.
Se c’è una fatica educativa da fare oggi non è di allargare ai laici modalità di P. clericali e monacali, ma piuttosto individuare con pazienza come il laico e quindi il giovane possono pregare “da laici”. Non è sufficiente una riduzione della P. monacale ad uso dei laici. Basti pensare al linguaggio che si usa nella P., al modo di leggere la parola di Dio, alla lettura della vita che offrono certi canti, all’uso indiscriminato di salmi per tanti versi incomprensibili ai giovani, e non solo a loro, al voler radunare i giovani in chiesa per Lodi e Vespro alla maniera dei monaci...
Il problema non va semplificato quasi si volesse sostituire una serie di pratiche con un’altra. Il problema è piuttosto ripensare globalmente il dialogo tra fede e cultura oggi, in modo che lentamente si dia vita a modi nuovi di vivere la tradizione e insieme a nuovi linguaggi e nuovi gesti di P. Linguaggi e gesti che si inventano soltanto sperimentando il gioco del “dare” e “ricevere” tra tradizione e giovani oggi.
Educare i giovani alla P. vuole dire, a questo punto, accettare che i giovani, e più in generale l’uomo, il laico oggi, educhino la P. della Chiesa, aiutandola a interrogarsi con calma su come divenire contemplativi “dentro” la vita quotidiana, come apprendere a meditare le cose della vita in uno sguardo di fede senza avere a disposizione troppi tempi di silenzio o di solitudine personale, come fare di un’ora di celebrazione domenicale un grande appuntamento dentro i tanti appuntamenti della settimana per certi versi non meno importanti e decisivi per incontrare Dio... Solo un attento riconoscimento e una concreta valorizzazione della vita laicale può portare a uno stile di P. significativo per i giovani, nella direzione di quella che nella esperienza di Charles de Foucauld è “la preghiera della povera gente” con le sue “scorciatoie” per arrivare a Dio.
Dopo esserci soffermati sulla domanda: “A quale P. educare le nuove generazioni?”, concludiamo offrendo alcune piste relative al come educare alla P.
La prima indicazione educativa è la valorizzazione dei germi umanissimi di P. in molti giovani. Anche se non lo manifestano, esiste in molti un bisogno e una disponibilità alla P., come pure esistono alcune intuizioni per un nuovo modello di P. Da questo punto bisogna apprendere a leggere in profondità dentro il vissuto giovanile.
La seconda indicazione educativa è di preoccuparsi, più che dei comportamenti immediati, di abilitare ad una serie di atteggiamenti umani che possano nel futuro rendere significativo e interiore il pregare: la gratuità e la consapevolezza che la vita è sensata per dono, il porsi domande profonde sulla vita, la partecipazione alla sofferenza e alla gioia, il ritirarsi di tanto in tanto negli spazi più intimi della propria persona, il dialogo con gli altri per scambiare le intuizioni sul senso della vita...
La terza indicazione riguarda il luogo dove apprendere a pregare. Per la maggior parte dei giovani questo è il gruppo. Altrimenti le intuizioni personali rischiano di vanificarsi e, soprattutto, di non incontrarsi e arricchirsi della tradizione cristiana. Oggi è difficile mantenersi fedeli, almeno da giovani, alla P. senza un gruppo.
La quarta indicazione è che il giovane normalmente apprende a pregare in un ambiente educativo capace di chiedergli, perché lo percepisce a servizio della sua vita, di partecipare alla sua P. e di prendere parte ad esperienze che lo provocano — senza stordirlo — a ripensare il proprio incontro con Dio. È però necessario un paziente lavoro di decodificazione e riflessione in vista della utilizzazione del positivo, lasciando cadere il negativo che ogni esperienza porta con sé. Ed è nel contesto delle esperienze che vanno date alcune informazioni sulla P. cristiana. La quinta indicazione è l’educazione ad una corretta interpretazione della parola di Dio nella P., in modo da rispondere a due domande: che significa comprendere la vita alla luce della parola di Dio? Che significa leggere la parola di Dio alla luce della vita? Troppe volte ci si trova di fronte a letture fondamentaliste, emotive, privatizzate e dunque non rispettose del testo biblico. Solo una educazione a interpretare correttamente la parola può permettere di considerare realizzato il compito del Concilio di dare una Bibbia in mano alla gente. E solo da una corretta interpretazione nasce una P. corretta. La sesta e ultima indicazione è di abilitare ad un equilibrio tra P. personale, P. di gruppo e P. della comunità. Se il gruppo è per noi il luogo dell’educazione alla P., è innegabile che la laicità comporta che esso abiliti alla P. personale, oggi soprattutto nel ritmo vorticoso della vita, e alla P. con la comunità più vasta dei credenti, riconoscendovi un segno della presenza di Dio.
Una riflessione, prima di concludere, su come valutare il comportamento di ognuno nella P. Educare è mettersi dalla parte della crescita delle persone e dei passi da fare per crescere. Fin che non si individuano questi passi l’educatore non può porsi in atteggiamento di giudizio. Una volta poi individuati i passi da compiere, come gruppo o come persona, l’educatore apprende a valutare le persone e il proprio lavoro, sapendo che dove si è fatto l’unico passo in avanti possibile e praticabile, là si è compiuto “tutto” dell’uomo, della fede e della P. Dove l’uomo in situazione ha compiuto la sua parte, per quanto piccola, là — nella povertà — si è compiuta per intero l’umanità, la fede, la P. È con questo atteggiamento da educatore e da credente che va valutato il cammino dei giovani. Anche dei giovani che faticano a pregare.
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Franco Floris