MATURITÀ DI FEDE

Oggi si parla molto di “maturità di fede” nell’ambito della pastorale e della cat. di estrazione cattolica, mentre questa espressione è generalmente guardata con sospetto, forse non sempre a torto, da parte della pedagogia evangelica, influenzata dalla teologia dialettica di K. Barth. In ogni caso, si tratta di una formula che cela al suo interno una certa ambiguità, per cui un chiarimento diviene necessario. È quanto ci proponiamo, tanto più che la maturità di fede del cristiano viene vista come la meta dell’azione cat.-pastorale.

1.​​ Dobbiamo esplicitare anzitutto ciò che intendiamo quando usiamo il termine → “fede”.

La fede, almeno nella sua accezione biblica, è una realtà complessa, in cui sussistono distinti, eppure profondamente connessi e inscindibilmente uniti nella persona del credente, l’aspetto​​ esistenziale​​ e quello​​ noetico,​​ la dimensione della​​ grazia​​ e quella dell’impegno.

Dal punto di vista esistenziale essa è radicale accettazione di Dio che salva in Cristo, morto e risorto; è “fiducia” nel Padre; è opzione fondamentale con cui si mette in discussione tutta la propria vita, mentre si accetta incondizionatamente il piano salvifico del Padre, manifestato e realizzato pienamente nel Cristo e mediato dalla Chiesa. La fede fiorisce nella “speranza” della​​ vita eterna,​​ e si traduce nella “carità” (agape), che è amore di Dio e donazione totale ai fratelli. Dal punto di vista noetico invece la fede si identifica con il possesso del messaggio salvifico di Dio, a cui l’uomo che crede aderisce incondizionatamente, facendone la norma suprema del suo pensare e del suo agire. In questo senso la fede è “mentalità nuova”, modo nuovo di vedere le cose, la vita, l’uomo, l’universo; è un dare un senso nuovo a tutto. Da questo punto di vista, pur restando sempre una realtà decisamente personale, la fede è pure “formulazione linguistica”, legata ai moduli interpretativi di una determinata cultura, dei contenuti intellettivi del messaggio salvifico, espresso in modo privilegiato nella Bibbia (AT e NT), trasmesso, vissuto, interpretato dall’esperienza di fede della comunità ecclesiale a cui il credente appartiene. In altri termini, dal punto di vista noetico la fede è realtà oggettivabile e comunicabile.

Una fede così intesa ingloba virtualmente tutta la vita del cristiano, sia nelle sue dimensioni sacrali che in quelle profane. Quindi è ascolto della Parola di Dio, preghiera, vita liturgica, slancio ascetico-mistico, amore del prossimo, ecc.; ma è pure vita quotidiana nel mondo, lavoro manuale, impegno professionale, vita familiare, ecc., il tutto vissuto nell’orizzonte significativo della Parola di Dio, alla luce della speranza escatologica e sotto l’impulso della carità-agape.

Nel concetto cristiano di fede esistono anche due dimensioni che non vanno mai dimenticate, se si vuole evitare di decurtarne la ricchezza: la fede è “grazia”, ma è anche impegno, processo di conversione.

Nel linguaggio cristiano si parla spesso del dono o della → grazia della fede. Tutto il NT afferma in modo inequivocabile che all’inizio della conversione sta l’iniziativa di Dio. La conversione cristiana, prima di essere opera dell’uomo, è opera di Dio. Il kerygma e la C. hanno solo la funzione di mediare il dono della salvezza che il Padre offre agli uomini nel Figlio suo, Gesù Cristo. La conversione è grazia che si traduce in impegno. Nell’esperienza di fede del cristiano che si converte, il dono di Dio (la “grazia”) e la risposta dell’uomo (la “fede”) si coniugano in una profonda unità esistenziale. E questa simbiosi del dono di Dio e della risposta dell’uomo si prolunga per tutta la vita del cristiano, proprio perché essa non è altro nella sua essenza che un continuo processo di conversione e di crescita in Cristo.

E siamo così alla seconda dimensione della fede: il processo continuo di conversione. Questa è costituita strutturalmente da una​​ → opzione fondamentale,​​ globale e totalizzante, cioè determinante e inclusiva di tutte le scelte ulteriori, e tendenzialmente definitiva. Essa è una forza che tende a permeare tutta l’esistenza del cristiano, dando senso a tutte le sue componenti; è la celebrazione della libertà umana, perché è il gesto con cui l’uomo decide del suo destino.

Non si deve dimenticare, però, che la conversione, in quanto atto libero e responsabile dell’uomo, è soggetta a tutte le vicissitudini della libertà umana. Ora tutti sappiamo che quest’ultima varia nell’uomo secondo le età, le condizioni psicologiche e le situazioni socio-culturali; che libertà e senso di responsabilità nell’uomo sono doti germinali, che possono crescere solo se coltivate mediante l’educazione; infine, che sono profondamente condizionate nel loro sviluppo e nella loro maturazione da un’infinità di fattori di ordine psicologico, sociale, culturale, politico, economico, ecc. Quindi la conversione, proprio in quanto opzione fondamentale che tende a permeare tutta la vita, non solo non è mai uguale in tutti, ma deve essere necessariamente concepita come un processo di crescita in Cristo, all’interno di tutti i condizionamenti, individuali e sociali, inerenti all’incarnarsi della fede nella realtà concreta di una determinata persona e di una determinata cultura.

Concludendo, possiamo dire che la fede, come grazia e come impegno, è una realtà germinale, in crescita sia dal punto di vista esistenziale che noetico.

2.​​ Occorre ora chiarire l’altro termine: la​​ maturità.​​ Questo termine ha subito di recente molte contestazioni in campo psicologico; inoltre esistono attualmente molte teorie psico-pedagogiche sulla maturazione umana, difficilmente conciliabili tra loro, non sempre utilizzate in modo corretto da teologi e catecheti per definire i parametri di una fede matura.

Le categorie bibliche che esprimono la nuova condizione ontologica del convertito, ne indicano la meta e ne definiscono gli impegni fondamentali, sono molteplici: essere immagini di Dio e di Cristo; seguire e imitare Cristo; crescere in Cristo; rivestirsi di Cristo; arrivare all’uomo perfetto in Cristo; realizzare la santità, la perfezione, ecc. Però hanno un significato profondamente unitario: esprimono le mete utopiche di un processo di conversione che non cessa mai, che si rinnova continuamente, perché la perfezione definitiva si avrà solo nel mondo escatologico. La tradizione cristiana ha ripreso, sviluppato, tradotto, approfondito e adattato ai differenti contesti culturali queste categorie bibliche; però ha sempre affermato chiaramente che il cristiano non riuscirà mai, durante la sua vita terrena, ad essere perfettamente “maturo in Cristo”; sarà sempre un essere in cammino. La sua fede, intesa come processo di conversione e come formulazione linguistica del messaggio salvifico, non sarà mai perfetta. La stessa cosa si deve dire delle comunità cristiane: il processo pluriforme di maturazione della fede, per cui la Chiesa tende incessantemente a convertirsi e a crescere in Cristo, processo che ha come meta ultima il mondo parusiaco della risurrezione, non sarà mai compiuto durante la dimensione terrestre della vita umana.

In secondo luogo, questo processo di conversione implica necessariamente anche un processo di maturazione umana. L’azione pastorale, il cui scopo è quello di innescare un processo continuo di conversione che tenda a far crescere indefinitamente in Cristo, non può riuscire se non diviene anche un autentico processo di maturazione umana della persona e della comunità. Non si tratta di due processi paralleli che avvengono contemporaneamente; ma neppure di due processi in successione temporale. Si tratta di un unico processo dal punto di vista esistenziale della persona o della comunità che maturano: il processo di conversione e crescita in Cristo, il quale è esistenzialmente lo stesso processo di maturazione umana, individuale e comunitaria.

3.​​ Indichiamo ora brevemente le componenti di questo processo unitario di conversione e maturazione umana.

— L’opzione globale di fede con cui ci si converte al Cristo, per il suo carattere radicale e totalizzante, è di fatto un autentico “progetto di vita” che unifica tutta la personalità. Ora, aiutare i giovani di oggi a sviluppare una crescente capacità critica di fronte alle pressioni delle forze egemoni dei vari sistemi socio-culturali e a costruirsi un progetto di vita autenticamente umano, costituisce uno dei compiti fondamentali dell’educazione, intesa come processo critico di promozione e liberazione umana. Quindi un’azione pastorale-cat. che, proponendo e testimoniando il messaggio di Cristo, aiuti il giovane o l’adulto a fare un’opzione globale di fede, è contemporaneamente azione educativa. E ogni conversione è sempre un primo passo nel processo di maturazione umana.

— Però il nuovo progetto di vita, incluso nell’opzione di fede, spesso provoca nel convertito un profondo sconvolgimento sia sul piano del pensiero (nuova, visione del mondo e della vita) sia su quello dell’azione e del comportamento (nuovo stile di vita). Si viene pertanto a creare una situazione conflittuale tra “l’uomo vecchio” e “l’uomo nuovo”. È una situazione che va superata nel rispetto degli autentici valori umani. Una “sequela Christi” di tipo disumanizzante può avere come conseguenza una mistificazione involontaria degli imperativi etici della fede, e anche un’involuzione della personalità. È indispensabile che il convertito, nell’orizzonte della saggezza che proviene dal Vangelo, operi gradualmente una scelta sempre più chiara e decisa tra le aspirazioni e i valori che aveva fino allora coltivato; ricostruisca in modo organico l’immagine di sé, del mondo e di Dio; riformuli il suo progetto di vita, nel quale trovino posto organicamente le aspirazioni e i valori umani. Cristo, che è il centro della fede, non entrerà certamente in concorrenza con i valori umani; ma neppure si limiterà a coabitare passivamente con essi; sarà invece il determinante definitivo della loro importanza e il significato ultimo della loro validità. La fede, esercitando nei confronti dell’umano una funzione critica e integratrice, fa maturare il credente come uomo; il processo di conversione, quando è autentico e non mistificante o nevrotico, comporta necessariamente una maturazione umana.

— Anche quando l’opzione globale di fede si è trasformata in progetto cristiano di vita, nel quale le aspirazioni e i valori umani sono assunti organicamente, occorre ancora colmare il vuoto che esiste tra ciò che si vuole essere e ciò che di fatto si è ancora, anche dopo la conversione; tra la mentalità di fede che si vuole acquisire e quella che si aveva prima della conversione; tra la condotta ideale che ci si propone e quella che di fatto viene ancora messa in opera nel quotidiano. In altri termini, il processo di conversione-maturazione implica ancora un lungo e faticoso lavoro di acquisizione delle​​ attitudini cristiane,​​ cioè di quelle strutture dinamiche che orientano il cristiano a valutare e ad agire costantemente, con una certa facilità e soddisfazione, secondo gli obiettivi, remoti o prossimi, del progetto di vita ispirato dalla fede. Questo lavoro comprende due momenti distinti, anche se non sempre separabili temporalmente: il momento dell’apprendistato della vita cristiana o “iniziazione cristiana” (catecumenato) e quello del pieno inserimento nella comunità e della vita cristiana integrale, momenti che corrispondono in modo solo lontanamente analogico a quelli della minore e della maggiore età. Però anche il cristiano maggiorenne è sempre in un continuo processo di conversione, per cui è esatto affermare che l’apprendistato della vita cristiana dura in qualche modo tutta la vita, allo stesso modo che il processo di maturazione dell’uomo non è mai completamente concluso.

Le strutture dinamiche cristiane sono, come la fede,​​ germinalmente​​ dono del Padre per mezzo di Cristo nello Spirito, però crescono mediante la risposta positiva dell’uomo, cioè mediante lo sforzo quotidiano di utilizzare tutte le risorse umane per agire da “uomini in Cristo”. Dono di Dio e frutto di un lavoro e di uno sforzo che, sia pure in modo diverso, durerà tutta la vita, queste attitudini cristiane, tra le quali fondamentale sarà la →​​ creatività​​ o, con linguaggio biblico, la “libertà cristiana”, abiliteranno progressivamente il cristiano a inventare nelle concrete circostanze della vita quelle condotte, quegli atteggiamenti, a prendere quelle decisioni che realizzeranno effettivamente il suo progetto cristiano.

Bibliografia

E. Alberich,​​ Catechesi e prassi ecclesiale,​​ Leumann-Torino, LDC, 1982, 90-131;​​ D.​​ M. Berridge,​​ Crescere in maturità. Sviluppo morale ed educazione cristiana,​​ Assisi, Cittadella, 1971; L. Cian,​​ Cammino verso la maturità e l’armonia,​​ Leumann-Torino, LDC, 1981; G. Del Lago,​​ "Dinamismi della personalità e grazia. L’innesto dello sviluppo cristiano nello sviluppo psichico,​​ ivi, 1970; L. S. Filippi,​​ Maturità umana e celibato. Problemi di psicologia dinamica e clinica,​​ Brescia, La Scuola, 1973; G. Groppo,​​ Educazione cristiana e catechesi,​​ Leumann-Torino, LDC, 1972; B. Kiely,​​ Psicologia e teologia morale. Linee di convergenza,​​ Torino, Marietti, 1982; A. Liégé,​​ Adulti nel Cristo,​​ Torino, Boria, 1964; J. M. Pohier,​​ Psicologia e Teologia,​​ Roma, Ed. Paoline, 1971; R. Tonelli,​​ Pastorale giovanile,​​ Roma, LAS, 1982; In.,​​ Un itinerario dei giovani alla tede,​​ in “Note di Pastorale Giovanile” 18 (1984) 8, 57-88.

Giuseppe Groppo

MEDIOEVO (Catechesi del)

La storia della C.M. occupa il periodo che va dalla fine del sec. V agli inizi del sec. XVI e si identifica praticamente con quella della predicazione (= P.). In questo periodo infatti non esiste più il catecumenato; il battesimo dei bambini è universale. L’istruzione del popolo cristiano è affidata alle varie forme di predicazione. Per i bambini battezzati il processo di iniziazione cristiana avviene nella famiglia e nella comunità, tutta permeata dalla dimensione religiosa cristiana.

Due studi recenti sulla P. medioevale (la​​ Geschichte der katholischen Predigt​​ di J. B. Schneyer e​​ La prédication medievale​​ di J. Longère) oSrono una panoramica sufficientemente ampia della materia e orientamenti validi per la ricerca. Sulla loro traccia divideremo la P. medioevale in quattro periodi principali.

1.​​ La P. nelle Chiese dell’Occidente​​ barbarico-,​​ secoli VII-VIII.​​ Durante i primi cinque secoli l’azione evangelizzatrice della Chiesa si era sviluppata quasi esclusivamente all’interno delle frontiere dell’Impero. Invece, quando l’Europa continentale fu invasa dalle popolazioni germaniche e queste durante il V sec. si installarono definitivamente sul territorio dell’Impero, la Chiesa, che prima non si era molto preoccupata di questi barbari odiati e disprezzati, sentì urgere il problema della loro evangelizzazione. Non possiamo ora tracciare la storia di quest’azione missionaria della Chiesa; diciamo soltanto che verso la fine del sec. VII la Germania del sud è cristiana, almeno di nome; la Gallia e la Spagna lo sono già da un secolo; l’Irlanda celtica ancora prima. La Chiesa latina va alla conquista dei popoli a nord del Meno con una grande disparità di uomini e metodi. Il battesimo viene amministrato in modo piuttosto frettoloso, senza una vera preparazione di tipo catecumenale, talvolta anche con la forza.

Per quanto riguarda le popolazioni già cristiane va rilevato che la generalizzazione del battesimo dei bambini provoca non solo la scomparsa definitiva del catecumenato, ma anche di una vera preparazione cat. dei genitori dei battezzandi, anche per la concentrazione delle cerimonie che accompagnavano il battesimo in pochi giorni. L’istituzione del “padrinato” si trasforma totalmente: i padrini da garanti della conversione del battezzando adulto diventano i supplenti dei genitori nella formazione cristiana dei figli. Quello però che da loro si richiede è molto limitato: dovevano conoscere il​​ Credo,​​ il​​ Pater noster​​ e le virtù cristiane da insegnare poi ai loro figliocci; purtroppo non erano sempre in grado di farlo. Infatti, le scuole esistenti presso monasteri, chiese cattedrali e parrocchiali sono quasi esclusivamente per il clero; tra i laici l’analfabetismo è generalizzato; unica fonte di istruzione per loro resta la P. liturgica. Si tenga presente però che la cultura del clero rurale era limitatissima. Purtroppo della P. tra le popolazioni barbariche ci è rimasta pochissima documentazione. Possiamo ricordare il​​ De correctione rusticorum​​ di Martino di Braga (569-570) e le​​ Adnotationes de cognitione baptismi​​ di Ildefonso di Toledo (t 667), cioè una spiegazione delle cerimonie del battesimo, del Credo e del Pater, fatta ai fedeli dopo la recezione del sacramento; inoltre un manuale pastorale attribuito a san Pirmino, lo​​ Scarapsus,​​ in realtà uno scritto anonimo, redatto tra la metà del VII sec. e la fine dell’VIII, per servire da modello ai predicatori; una collezione di 15 sermoni attribuiti a san Bonifacio (+ 754), opera invece di un compilatore anonimo del IX sec.

È in questo periodo che nascono gli “Omeliari”, cioè delle raccolte di omelie dei Padri disposte generalmente secondo l’ordine del ciclo liturgico e destinate sia alla lettura privata sia a quella pubblica nei monasteri, ed anche a fornire ai pastori d’anime strumenti o modelli per la loro P. Siccome gli Omeliari rimastici appartengono ai secoli seguenti, ne riparliamo più avanti.

2.​​ La P. nei secoli IX-XII: Omeliari patristici e carolingi; la legislazione carolingia; P. missionaria e popolare.​​ Soprattutto dopo gli studi di H. Barre e di R. Grégoire emerge sempre più l’importanza degli Omeliari per la storia della P. nei secoli VIII-XI. Anche se la raccolta di omelie patristiche è iniziata sicuramente nei secoli precedenti, tuttavia sono i secoli VIII-XI l’epoca della maggior diffusione degli Omeliari. Questi vengono divisi generalmente in due categorie: gli Omeliari patristici e quelli carolingi; e ciò in base al criterio della loro utilizzazione: i primi sono compilazioni concepite in funzione dell’ufficio liturgico, i secondi invece in funzione dell’uso personale o pastorale. Tuttavia questa distinzione non va intesa in senso rigido.

Tra gli Omeliari patristici ricordiamo: quello di​​ san Pietro di Roma​​ (seconda metà del VII sec.), rimasto in uso fino al X sec.;​​ Alano di Farfa​​ (t 770): il suo omeliario ha avuto una rapida diffusione soprattutto in Baviera;​​ Paolo Diacono​​ (fine dell’VIII sec.): il suo omeliario, compilato a Monte Cassino su invito di Carlo Magno, fu certamente il più diffuso e ispirò molte altre raccolte similari; ecc.

Tra gli Omeliari carolingi (compilati come sussidi ai predicatori, anche se nella loro struttura appaiono più libri da biblioteca che esempi di prediche realmente tenute) ricordiamo: le due raccolte di omelie di​​ Rabano Mauro​​ (ca. 784-856), differenti fra loro, con una diffusione piuttosto ristretta, però significative per farsi un’idea dell’omiletica carolingia. La prima (Homiliae de festis praecipuis item de virtutibus) ha una destinazione cat.-popolare: insegnare al popolo la maniera di osservare le feste liturgiche, di praticare le virtù e combattere i vizi. È stata compilata dall’A. all’inizio del IX sec., mentre la seconda risale alla metà dello stesso secolo, quando Rabano Mauro era vescovo di Magonza (Flomiliae in euangelia et epistolas).​​ Ricordiamo ancora la catena esegetica di Smaragdo (ca. 820):​​ Collectiones epistolarum et euangeliorum de tempore et de sanctis,​​ che conobbe un notevole successo in Spagna e nei paesi germanici e franchi; il cosiddetto Omeliario italiano del Nord dal titolo:​​ Flores euangeliorum in circulo anni,​​ raccolta rimasta ancora inedita e che meriterebbe di essere studiata, sia perché ebbe un enorme successo, sia anche perché non è, come gli altri omeliari, una semplice compilazione di passi patristici, ma una composizione originale di più di cento prediche per tutto l’anno liturgico, ispirata al pensiero dei Padri. Altri omeliari sono ancora i cosiddetti omeliari bavaresi​​ (Sermonario​​ di​​ Würzburg;​​ Omeliario di Mondsee, ecc.) degli inizi del IX sec.; quelli della Scuola di Auxerre (di Haymone, Erico, ecc.), i quali, pur ispirandosi ai Padri, manifestano una forte impronta personale.

Le raccolte di omelie patristiche e le compilazioni di prediche che ad esse si ispirano, sebbene non sembrino riflettere una predicazione eSettiva (non è facile stabilire l’uso effettivo che ne hanno fatto monaci e preti secolari nella loro pratica pastorale), tuttavia vanno viste come il risultato di un impegno serio dell’autorità ecclesiastica e civile di offrire al popolo cristiano, attraverso la P., quell’istruzione cat. di cui ha bisogno. Ne fa fede la legislazione carolingia in merito. Quest’ultima è piuttosto abbondante, ripetitiva, segno forse della sua inefficacia, ma anche dell’importanza che veniva attribuita alla P. per la formazione cristiana della gente. Ricordiamo:​​ Y Admonitio generalis​​ del 23 marzo 789, che contiene parecchie disposizioni riguardanti la predicazione. Scopo di questa è promuovere la fede nella Trinità, nell’Incarnazione, Passione, Risurrezione e Ascensione di Cristo. Sono indicati come contenuti della predicazione: il simbolo degli apostoli e temi morali (peccati da evitare; comandamenti e norme di morale cristiana da osservare). In diverse assemblee (Francoforte, 794; Magonza, 813) si trovano disposizioni che riguardano l’obbligo di insegnare ai fedeli il Pater e il Credo da parte dei sacerdoti in cura d’anime; a questo scopo ci si deve accertare del grado di cultura dei sacerdoti mediante apposito esame. Non mancano richiami anche ai vescovi: visitare le parrocchie, amministrando la confermazione e predicando, senza tuttavia essere loro di aggravio; formare in ogni diocesi preti colti per la P.; ogni vescovo dovrebbe avere un collaboratore per formare i preti di campagna nella fede, nell’osservanza dei comandamenti, nella dottrina da trasmettere, ecc. Esiste anche la prescrizione per i sacerdoti di avere, oltre i libri liturgici (sacramentario, lezionario, ecc.), anche un omeliario. Il concilio di Tours (813) invita i predicatori a parlare in volgare, perché la popolazione comprenda meglio le verità cristiane.

Nel sec. IX abbiamo due opere che si ispirano al​​ De catechizandis rudibus​​ di sant’Agostino:​​ l’Ordo de catechizandis rudibus,​​ sorto nella cerchia del vescovo Arno di Salzburg agli inizi del sec. IX sotto l’influsso di Alcuino;​​ e il De ecclesiastica disciplina​​ di Rabano Mauro, rielaborazione verso la metà del IX sec. di un’opera anteriore dello stesso A. dal titolo:​​ De clericorum institutione.

Ampia diffusione hanno avuto nell’Italia del Nord 14 omelie, ispirate al pensiero dei Padri, scritte con stile concreto e immaginoso, che commentano i misteri liturgici celebrati (cf “Sources Chrétiennes”, n. 161).

3.​​ La P. nei secoli XII e XIII: nei monasteri, nelle università e al popolo.​​ È questo un periodo di intensa P., della quale possediamo una documentazione imponente, come dimostra il​​ Repertorium​​ dello Schneyer. Può essere comodamente distinta in tre tipi diversi in base alle differenti categorie degli uditori: monaci; studenti universitari; il popolo dei fedeli. I primi due tipi hanno la caratteristica comune di essere una P. per persone colte; il terzo ha caratteri propri. Diciamo brevemente di ciascuno.

a)​​ La P. nei monasteri.​​ Dalla documentazione che abbiamo possiamo concludere che la P. è ampiamente praticata nei monasteri. Molti di questi sermoni per sé erano adatti anche ai “clerici” secolari e ai laici, in quanto l’ideale di vita cristiana che in essi veniva proposto non era diverso da quello dei fedeli, però la forma elaborata di esegesi scritturistica, per lo più di tipo allegorico, esigeva un pubblico colto e spiritualmente raffinato, piuttosto raro tra i laici o il clero semplice delle parrocchie rurali. Tra i più importanti predicatori ai monaci di questo periodo ricordiamo san Bernardo di Clairvaux (1090-1153).

b)​​ La P. all’università.​​ Regolata dagli “Statuta”, si tiene sia nel quadro generale dell’università sia in quello più ristretto degli “studia” dei vari ordini religiosi. Essa si propone la formazione spirituale degli studenti (che erano religiosi o clerici) e la preparazione alla loro futura attività pastorale. Predicavano sia i “magistri in sacra pagina” che i “bacchalarii” in teologia, cioè coloro che si preparavano a diventare magistri. Secondo l’espressione divenuta celebre di Petrus Cantor, la P., assieme alla lectio e alla disputatio, costituisce uno dei compiti fondamentali del magister, anzi dei tre è il principale (cf​​ Nerbum Abbreviatum,​​ 1; PL 205,25). Rimandiamo agli studi dello

Schneyer e del Longère per l’elenco di questi predicatori universitari, del resto tutti noti dalla storia della teologia, anche se molte delle raccolte delle loro prediche sono ancora allo stato manoscritto.

c)​​ La P. al popolo.​​ La P. che veniva fatta nei monasteri o agli studenti delle università non era certo adatta al popolo che frequentava le cattedrali delle grandi città o le povere chiesette di campagna; ad esso era indispensabile un insegnamento più appropriato. Le iniziative per fronteggiare queste esigenze furono numerose.

Possiamo dire che l’autorità ecclesiastica in questo periodo si è preoccupata, a tutti i livelli, di promuovere e di controllare l’istruzione religiosa dei fedeli: abbiamo papi come Innocenzo III, egli stesso ottimo predicatore, che prende iniziative pastorali importanti riguardanti la P.; concili, come il Lateranense IV (1215) con i canoni 10 e 62; vescovi come Maurizio di​​ Sully,​​ la cui raccolta di sermoni (1160) contiene un importante “Prologo” che interessa la C. al popolo; sinodi come quello di Parigi del 1204 e il cosiddetto “sinodale dell’Ovest” (c. 1220) con 12 canoni sui contenuti della P.

Esistono anche iniziative individuali di clerici (monaci, eremiti) che predicano al popolo indipendentemente da qualunque ministero parrocchiale. Ricordiamo: Pierre l’Ermite (1050-1115), la P. della “crociata”; san Norberto, fondatore dei Premostratensi​​ (10821134),​​ ecc. Si tratta spesso di poveri o di penitenti, preoccupati di imitare la “vita apostolica”, che percorrono città e villaggi all’interno delle diocesi nelle quali hanno il permesso di predicare, richiamando la gente alla pratica della morale evangelica. A questo tipo di predicatori appartengono pure laici o clerici eterodossi e ostili alla gerarchia, che predicano senza alcuna autorizzazione. Famosi furono: Pierre de Bruys e Pietro Valdo; gli Umiliati o Poveri Lombardi; il movimento cataro, ecc.

Tra le iniziative che contribuirono maggiormente all’evangelizzazione del popolo con una P. capillare in tutta l’Europa dobbiamo nominare la fondazione dei due grandi Ordini Mendicanti agli inizi del secolo XIII: i Francescani e i Domenicani (Predicatori), i quali ultimi nel nome stesso esprimevano la loro principale missione. Questi nuovi ordini, unitamente all’attività pastorale esercitata dagli antichi ordini monastici e dai canonici regolari, supplivano nel campo della P. alle lacune spesso vistose del clero secolare. La controversia sulla “potes tas​​ praedicandi” tra ordini religiosi e clero secolare non fu altro che il risvolto sul piano giuridico e teologico di questo dato di fatto. Teologi e canonisti, sia del clero religioso che di quello secolare, studiarono a fondo questo problema; non solo, ma molti di loro si impegnarono anche in prima persona nell’azione evangelizzatrice del popolo cristiano; si pensi alla P. di san Tommaso d’Aquino a Napoli in dialetto napoletano.

Le raccolte di sermoni, sia di tipo universitario che popolare, sono numerosissime e testimoniano l’intensa attività pastorale dei teologi del secolo d’oro della Scolastica. Per i nomi si vedano le citate opere di Schneyer e Longère.

4.​​ La P. nei secoli XIV e XV.​​ L’amplissima documentazione, nella maggior parte dei casi allo stato manoscritto, della P. in questo periodo non permette di farne una sintesi che non sia estremamente riduttiva. Ci limitiamo pertanto a indicare unicamente alcune piste di ricerca: a) Uno studio sulla traccia del Longère (op. cit.,​​ 93ss) circa la legislazione e la formazione dei predicatori degli Ordini Mendicanti; Domenicani e Francescani. b) Una ricerca, attraverso le innumerevoli raccolte di sermoni “de tempore” e “de sanctis”, dei costumi e delle tradizioni popolari, per avere come di riflesso un’immagine dei risultati positivi o negativi dell’attività pastorale nel M.E. c) Uno studio dei sussidi dei predicatori: oltre la Bibbia, le raccolte di “exempla”, i diversi “florilegi”, i “bestiari e lapidari”, le formule mnemoniche, ecc., ma soprattutto le “Artes​​ praedicandi”, per comprendere la struttura dei sermoni medioevali.

5.​​ Conclusione.​​ Potrebbe servire egregiamente da conclusione di questo panorama imperfetto e lacunoso della P. medioevale la costituzione che il Concilio Lateranense V emanò nella sess. V del 19-12-1516 sulla P. In essa si trova sia l’eco delle difficoltà incontrate dalla Chiesa nei secoli precedenti sia il compendio delle disposizioni e delle raccomandazioni prese nei sinodi o nei concili anteriori. Si tratta di un buon documento riformatore. Però, come tutte le decisioni del Concilio, è servito ben poco al rinnovamento della P. e in genere dell’attività pastorale della Chiesa. Ci vorrà la scossa della riforma protestante a risvegliare la Chiesa dal torpore e a impegnarla in un rinnovamento radicale​​ della​​ sua prassi pastorale, corne awerrà poi col Concilio​​ di Trento​​ e col​​ movimento di​​ riforma​​ ehe​​ ne segul.

Bibliografia

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→ Gersone; Elucidarium.

Giuseppe Groppo

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