MAGISTERO
1. Il termine. È solo da tempi relativamente recenti (come ha dimostrato P. Congar in “Concilium” 7 [1976] 157-173) che il termine M. indica il corpo dei Pastori nella Chiesa. In passato, con esso si faceva riferimento a tutta l’ampia funzione di insegnamento, includendo i → catechisti; questo era ancora il senso che dava al termine M. il Rosmini nella sua opera Le cinque piaghe della Chiesa. Dopo il Vaticano I è invalso l’uso di chiamare M. il corpo dei Pastori (Papa e Vescovi); e normalmente per sottolineare la loro funzione di predicazione o di insegnamento, ma talvolta anche senza distinguerla dalle altre due funzioni, quella sacerdotale e quella pastorale; cosicché diventa quasi sinonimo di Pastori. Oggi però si constata, per l’opposto, la tendenza a tornare alla accezione più generale, che era in uso in passato; si parla perciò anche di M. dei teologi, di M. professionale, a volte anche del M. dei catechisti...
2. Compito, ambiti e caratteri. Anche se il termine provoca a sottolineare la funzione di insegnamento, il “munus docendi” di cui parla la Lumen gentium al n. 25, tuttavia bisogna rifarsi all’essenza generale del carisma dei Pastori nella Chiesa, prima di vederne ciò che caratterizza la funzione specifica richiamata dal termine M.
— Compito fondamentale e generale, che qualifica il carisma proprio dei Pastori, è quello di “guidare” le comunità, la Chiesa. In linguaggio giuridico il Vaticano I ha parlato anzitutto del Papa in termini di “principio visibile dell’unità”; ma il Vaticano II ha applicato questa definizione anche ai Vescovi, poiché essi sono all’interno delle loro Chiese particolari “principio visibile di unità”. Il “visibile” bisogna sottolinearlo fortemente, oggi; e i testi ecumenici, soprattutto dal decreto Unitatis redintegratio in poi, lo fanno esplicitamente, per annotare che reale principio perenne di unità rimane sempre Cristo (con la sua Persona, anche se ormai risorto e in cielo; ma anche con i doni e i segni lasciatici in testamento): è Cristo la “pietra”, e il “Pastore”, anche se ricorre alla vicarierà di persone che ne rendano visibile tale funzione di pietra e di pastore. E ciò va assunto dalla catechesi e dalla predicazione quotidiana, perché è abbastanza diffuso nella mentalità di chi giudica la Chiesa cattolica da fuori (ma talora anche da chi ci vive dentro) il convincimento che la Chiesa quasi sostituisca Cristo, e che i Pastori “succedano” a lui e ne occupino il posto.
— In quale ambito e quanto si esplica tale funzione? Direbbe ancora il Vaticano I (seguito, anche in questo, dal Vaticano II), con linguaggio giuridico: “Pienamente e sommamente”, cioè con potestà piena e suprema, vale a dire su tutto l’oggetto e su tutti i soggetti. Ma tale linguaggio non deve impressionare. Si tratta di misurarlo nel suo significato e nei suoi limiti; come insegna il Vaticano II.
I Pastori, ovviamente, devono servire da punto di riferimento, di armonizzazione e di guida per tutti i soggetti che costituiscono la comunità ecclesiale, e soprattutto per quelli che sono attivi nelle varie funzioni (nel caso specifico: nella ministerialità relativa alla Parola di Dio e alla fede dei credenti); e l’oggetto della loro competenza è quello stesso della Chiesa; la Parola di Dio, in quanto questa deve restare autentica e diventare fruttuosa. Con ciò si indicano già i limiti; e la LG 25, come pure la DV 10, proclamano a chiare lettere che i Pastori non dispongono di una nuova rivelazione, e che essi restano sotto la Parola di Dio. Per questo si dice spesso oggi (anche in qualche testo della Coni. Episc. Ital.) che il carisma dei Pastori non è “la sintesi dei carismi”, ma solo “il carisma della sintesi”.
Man mano, perciò, che si svilupperanno specifici carismi e ministeri nella Chiesa (catechisti, lettori, animatori di liturgia, oranti...), e che si realizzerà la partecipazione di tutti, in modo speciale del laicato adulto e formato, i Pastori saranno sempre meno impegnati ad esercitare in proprio le diverse funzioni concrete; potranno quindi sempre meglio evidenziare solo ciò che li specifica, ossia la funzione di armonizzazione e di guida; non favorendo dunque l’impressione che essi abbiano il monopolio dei compiti ecclesiali (come si rileva dalla LG 30, che ascrive al loro più alto impegno quello di “riconoscere” e “armonizzare” i carismi dei laici). Inoltre (e forse ciò vale ancora meglio a situare esattamente il ruolo del M.) si deve sottolineare sempre di più il carattere missionario della Chiesa, e cioè la finalità di evangelizzazione di tutti gli uomini e di tutte le culture; in questo modo l’impegno di inculturazione farà evidenziare maggiormente la complessità del ministero della Parola e obbligherà a fare spazio a competenze più articolate di altri M., e in particolare dei laici.
— Quali i caratteri del M.? Di solito, anche in certa C. non aggiornata, si sottolinea precipitosamente l’infallibilità, quale nota peculiare del M. Invece il Concilio (cf LG 25 e DV 10) indica come normali altri due caratteri: il M. è autentico e pastorale. Il primo termine resta tuttora un po’ equivoco; ma il senso inteso dal Concilio è chiaro: autentico significa “con autorità”; infatti i Pastori sono guide e principio di unità; e quindi impegnano l’obbedienza, soprattutto quando parlano con autorità; e ciò non vuol dire che quando essi parlano, sempre e automaticamente parla Cristo (avremmo una costante infallibilità!); bensì essi ci richiamano il fatto-principio che siamo “molti, ma un solo corpo”, e che quindi dobbiamo procedere “insieme” anche nel cammino della Parola.
Il termine “pastorale” è più evidente; indica che i Pastori parlano in vista del “bene comune”, anche quando si rivolgono a singoli; e in questo il loro M. si distanzia da quello dei Dottori, e tanto più da quello degli Accademici, che riguarda la dottrina oggettiva, e in quanto bene dell’intelligenza speculativa e quindi della scienza; il M. dei Pastori invece riguarda in prima istanza la Parola in quanto bene del popolo di Dio e in ordine alla vita. Lo Spirito Santo li assiste perché al popolo di Dio sia offerto cibo sufficiente, opportuno, sicuro e sano. L’infallibilità, invece, secondo ambedue i Concilio (Vat. I e II), si verifica raramente, solo a determinate condizioni, e si risolve nell’impedire che la Chiesa intera cada direttamente nell’errore. Perciò, mentre l’autenticità e la pastoralità sono caratteri che qualificano il M. in modo costante, l’infallibilità qualifica solo alcuni suoi atti, anzi meglio, alcune “proposizioni” da esso definite.
3. Come e quanto interviene il M.? Possiamo scandire tre momenti significativi.
— Anzitutto, il M. ha la responsabilità di individuare il nucleo essenziale della Parola di Dio. Infatti la Parola di Dio è costituita da tanti elementi; è un tutto vivo, ma molti dati sono solo strumentali, e appartengono alla cultura che riveste la Parola (pensiamo alla Bibbia in concreto, ai molti suoi libri, alle molte tradizioni umane che coinvolgono...). Il popolo di Dio deve poter attingere la sostanza, perciò il seme vitale e centrale. Tutto ciò comporta precisazioni, richiami, interpretazioni. Quindi la DV 10 riafferma giustamente il celebre principio: il M. “pie audit (ascolta devotamente; come ogni altro credente sottostà alla Parola; si metta dunque più dalla parte dei fedeli che non dei dottori e teologi), sánete custodii (ha la responsabilità di conservare gelosamente il Deposito), et fdeliter exponit (trasmette e spiega la Parola con fedeltà)”.
— Inoltre, il M. è chiamato in causa ai fini di rendere possibile e facile la comunicazione nella Chiesa. Qui entra in causa il problema del “linguaggio”, e soprattutto di quel fondo di “linguaggio comune” (“koinè”) senza il quale nella Chiesa non ci si potrebbe intendere né comunicare la fede. La comunità deve non solo accogliere la Parola di Dio, ma anche parlarla (con essa parlare), e soprattutto evangelizzare, comunicarla a quelli “di fuori”. Ogni società e comunità hanno bisogno di una lingua, e specialmente di alcune parole chiave per intendersi. Ecco un campo di responsabilità del M. Pensiamo ai primi Concili, che sembrano esaurirsi nella consacrazione di alcuni pochi termini!
— Infine, il M. non solo non deve escludere altri ministeri, ma deve anzi promuoverli; perché solo così la ricchezza infinita della Parola viene autenticamente valorizzata. Il M. ha il compito di capitalizzare le esplorazioni e le verifiche già maturate e che sono frutto dello Spirito degno di nutrire tutta la Chiesa; deve perciò curare la circolazione e lo smistamento dei doni di sapienza e scienza spirituale.
La C. dovrebbe anch’essa fornire suoi propri doni, perché la Verità cristiana è seme che si riconosce dai frutti, cioè Parola (e Verità) che esige verifica nella vita, nella crescita concreta della fede. Per questo, però, anche la C. ha bisogno di essere “guidata” dal M.; sia per avere indicazioni sui nuclei centrali della fede, e sia per ricevere orientamenti pastorali di fondo. Ecco il senso, per l’Italia, del Documento Base e dei Nuovi Catechismi. Solo a queste condizioni il M. specifico che è proprio dei catechisti saprà integrarsi col M. dei Pastori, così che tutta la Chiesa sia condotta dallo Spirito nella pienezza della Verità.
Bibliografia
Commissione Teologica Internazionale, I mutui rapporti tra magistero ecclesiastico e teologia (6-61976), in Enchiridion Vaticanum, vol. V, Bologna, EDB, 1979, 1310-1325; 1 linguaggi della fede, in “Credere oggi” 4 (1984) n. 19 (problema specifico del rapporto tra il M. [e il suo linguaggio] e le altre istanze linguistiche [teologia, C...] nella Chiesa; con relativa bibl.); G. Marinelli, Il Magistero, Rovigo, 1st. Pad. Arti Grafiche, 1972.
Luigi Sartori