INIZIAZIONE CRISTIANA

Dei 18 milioni circa di battezzati cattolici annuali, quasi un milione sono adulti, e il resto bambini sotto i sette anni (cf​​ Annuarìum Statisticum Ecclesiae,​​ Città del Vaticano, 1971ss; volumi annuali). Non si intende qui parlare del milione di battezzati adulti, per i quali si possono vedere le voci → Iniziazione cristiana degli adulti (Rito della) e → Catecumenato moderno. Si intende invece affrontare il problema di quel particolare tipo di IC che riguarda i 17 milioni di battezzati in età infantile, che vengono in seguito educati cristianamente attraverso la preparazione ai sacramenti della confermazione, dell’Eucaristia e della penitenza, connessa con una solida istruzione e formazione cristiana.

1.​​ Per lungo tempo, e cioè fino ai giorni nostri, non vi è stata praticamente una istituzione che preparasse le nuove generazioni a “diventare cristiani”. Era un compito lasciato a quella specie nuova di catecumenato, la “società cristiana”, che era succeduto al catecumenato personale dei secoli II-VIII. Il nuovo cristiano era formato soprattutto dall’opera di socializzazione spontanea operata dalla società e, in essa, dalla tradizione familiare. Dal secolo XVI in poi, a completamento di essa, sorse l’istituzione cat. parrocchiale. Ma questa, più che di iniziare alla vita cristiana, aveva il compito di spiegare e precisare una vita che già era vissuta. Ne può essere una prova il fatto che l’espressione stessa “Iniziazione cristiana”, usata qualche volta nel sec. IV, è ripresa solo nel XX (la si fa risalire al Duchesne, 1908) e anche allora serve a designare una parte della iniziazione, il suo elemento liturgico sacramentale. Ancora nella​​ Enciclopedia Cattolica​​ (Città del Vaticano, 1951, vol. 6°) la voce «iniziazione” è riferita ad altre religioni, e non a quella cristiana. Sarà il Concilio Vaticano II a diffondere l’uso del termine (cf AG 14). Tuttavia, in molta letteratura cat.-liturgica anche postconciliare, IC significherà ancora, di volta in volta, o la prima educazione religiosa, o la preparazione alla prima comunione, o, al massimo, i sacramenti detti della “iniziazione”.

2.​​ Uno dei primi ad avere una percezione netta della nuova situazione fu il catecheta francese J. → Colomb, che già nel 1948 scriveva: “Il grande fatto, nuovo nella storia della Chiesa, e assolutamente opposto a tutta la sua tradizione, è che i nostri fanciulli arrivano all’età adolescenziale e adulta senza essere passati per un​​ autentico catecumenato.​​ Il catecumenato è un periodo di preparazione che deve rendere il discepolo di Cristo​​ capace​​ di essere​​ fedele​​ ai suoi impegni battesimali. Esso è​​ illuminazione​​ e​​ prova​​ per la lotta spirituale che il battezzato deve portare avanti... Quando i popoli barbari furono convertiti, il battesimo dei bambini si generalizzò. L’antica organizzazione del catecumenato scomparve a poco a poco.​​ La Chiesa affidò ai genitori l’istruzione e la prova che costituivano l’essenza del catecumenato.​​ Questa cessava di essere una disciplina strettamente ecclesiastica, per diventare un fatto familiare, compiuto dai genitori o dai padrini; un fatto sociale anche, compiuto dalla società civile, sociologicamente unita alla società religiosa... Ma che cosa accadrà se i padrini e i genitori e la società non saranno più in grado di compiere le promesse che fanno ancora, e di cui la Chiesa sembra accontentarsi?... Ora il dramma della nostra epoca è che il mondo sociale si è a poco a poco scristianizzato; l’ambiente familiare, che dipende da quello sociale come una cellula dal corpo, costituisce abbastanza raramente un ambiente cristiano, formatore di “fedeli”... Eppure si continuano a battezzare quasi tutti i bambini. E così​​ si battezzano dei bambini senza che sia loro offerto un catecumenato efficace.​​ I nostri bambini cristiani, in maggioranza forse, non sono degli​​ illuminati;​​ non sono veramente degli​​ esorcizzati.​​ Come potranno, senza un miracolo continuo della grazia, restare​​ fedeli?...​​ Di fatto il catechismo dovrebbe, in parte almeno, assicurare il catecumenato necessario. Veramente non lo fa, e la ragione principale è che​​ non ha operato i cambiamenti di struttura richiesti dalla scomparsa della cristianità;​​ non è adattato al clima di laicismo, nel quale, in Francia almeno, l’adulto è chiamato a vivere.​​ Il nostro catechismo è quasi interamente legato a una situazione scomparsa;​​ concepito per questa situazione, eccellente per essa, appare quasi inefficace nella situazione di oggi” (Pour un catéchisme efficace,​​ Lyon, Vitte, 1948).

3.​​ La riflessione degli ultimi tempi si è concentrata proprio su questo aspetto. Non si fanno più dei cristiani oggi attraverso la socializzazione spontanea se non in misura minima. Occorre un’opera formativa e una decisione personale simile a quelle del catecumenato antico: una specie di “catecumenato post-battesimale” o di “formazione a itinerario catecumenale” per le nuove generazioni. Partendo dai dati del Concilio relativi al catecumenato si potrebbe proporre un concetto di IC più ampio, che comprende tutto il tirocinio di apprendimento cristiano, definibile come​​ “processo di formazione o di crescita, sufficientemente ampio nel tempo e debitamente articolato, costituito da elementi cat., liturgico-sacramentali, comunitari e comportamentali, che è indispensabile perché una persona possa partecipare con libera scelta e adeguata maturità alla fede e alla vita cristiana” (Gevaert 1982).

Questa​​ iniziazione,​​ o​​ apprendistato cristiano,​​ o​​ scuola di cristianesimo,​​ dovrebbe comprendere: 1) la catechesi (una sufficiente evangelizzazione con scelta personalizzata di Cristo: conversione); 2) l’apprendistato di preghiera e di vita liturgica e l’inserimento sacramentale (o il richiamo dei sacramenti già ricevuti, in modo anche celebrativo-rituale); 3) l’esperienza di comunità cristiana e il progressivo inserimento nella comunità esistente; 4) la crescita nell’impegno​​ sociale, caritativo, apostolico​​ rivolto non solo alla comunità, ma anche al mondo. Questa iniziazione non può durare tutta la vita, né può essere confusa con la crescita e la maturazione che accompagnano l’esistenza cristiana come tale. Se tutta la vita cristiana è una iniziazione, allora l’IC, intesa come caratterizzazione del​​ processo di inserimento nella vita cristiana,​​ perde il proprio significato.

Alcuni interventi recenti dimostrano una rapida evoluzione in questo senso. Il documento dell’UCN per l’Italia, del 1977, sulla​​ Iniziazione cristiana dei fanciulli,​​ afferma al n. 35 che, dopo la cresima, “va impostata una pastorale “che segua i nuovi cresimati e li aiuti ad inserirsi con responsabilità nella Chiesa, assumendo l’impegno cristiano nel loro ambiente di vita” (CEI,​​ Evangelizzazione e sacramenti,​​ 1973, n. 90)”. Questa indicazione viene ripresa da documenti di diverse diocesi (Torino, Udine, ecc.), anche se spesso l’attenzione prevalente è ancora rivolta alla fanciullezza. Il documento del Consiglio permanente della CEI del 23-10-1981,​​ La Chiesa italiana e le prospettive del Paese,​​ parla al n. 22 di “un più severo tirocinio di vita ecclesiale”.

La Conferenza Episcopale Piemontese ha pubblicato, per la Pasqua del 1984, il documento:​​ Linee orientative per una pastorale comune nelle Chiese del Piemonte-, l’iniziazione cristiana dall’infanzia alla fanciullezza, fino alla maturità della vita cristiana nell’età giovanile.​​ Anche l’Episcopato del Lazio (che aveva già dato direttive per l’IC nel 1974), a partire dal Convegno Cat. Regionale del seti. ’84 (cf bibl.) si sta avviando verso una nuova disciplina dell’IC, insistendo su un periodo prolungato fino alla adolescenza e su criteri adeguati di valutazione del percorso fatto. Le comunità neocatecumenali, a loro volta, tengono conto di un problema diverso, ma anch’esso molto attuale. Quello di un cammino di re-iniziazione di molti battezzati a cui è mancata una adeguata IC nella giovinezza. Qualcosa di analogo sta avvenendo in diverse cristianità in vari continenti.

Bibliografia

G. Angelini et al.,​​ Iniziazione cristiana e immagine di Chiesa,​​ Leumann-Torino, LDC, 1982; D. Borobio,​​ El​​ catecumenado​​ y​​ la​​ catcquesis en los procesos iniciáticos actuales,​​ in​​ “Teología y Catcquesis” 2 (1982) 2, 193-211; L.​​ Bouyer,​​ L’Initiation chrétienne,​​ Paris, Plon, 1958;​​ Chiesa​​ locale,​​ catechismo e iniziazione cristiana dei fanciulli,​​ in “Via Verità e Vita” 24 (1975) 51, num. monogr.;​​ G. Delcuve,​​ Devenir chrétiens dans​​ le​​ Christ.​​ Le​​ dynamisme​​ sacramentaire:​​ baptême, confirmation, eucharistie,​​ in “Lumen Vitae” 27 (1972) 607-624; J. Gevaert,​​ Diventare cristiani oggi. Quadro dei problemi e chiarificazione terminologica,​​ in “Catechesi” 51 (1982) 15, 3-17, e anche nel vol.​​ Diventare cristiani oggi,​​ Leumann-Torino, LDC, 1983, 7-21; U. Gianetto,​​ Iniziazione cristiana a itinerario “catecumenale”,​​ in “Catechesi” 43 (1974) 9, 13-20; In.,​​ L’iniziazione cristiana nel progetto cat. italiano. Una proposta unitaria di fondo: un quadro globale di formazione cristiana dalla iniziazione alla catechesi permanente,​​ in “Rivista diocesana di Roma” 25 (1984) 5, 1074-1094;​​ Initiation chrétienne dans​​ un​​ secteur missionnaire de la​​ banlieu​​ parisienne,​​ in «Lumen Vitae» 5 (1950) 2-3, 408-417;​​ L'initiation des enfants de l’antiquité à nos jours,​​ nel​​ vol.​​ Communion Solennelle et Profession de Foi,​​ Paris, Cerf, 1952, 13-110.

Ubaldo Gianetto

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INIZIAZIONE CRISTIANA

Riccardo Tonelli

 

1. Il termine

1.1. Iniziazione cristiana come tirocinio al «diventare cristiani»

1.2. La comunicazione come schema interpretativo

2. La crisi dell’iniziazione cristiana dei giovani

2.1. La difficile socializzazione religiosa

2.2. Scarsa significatività in un tempo di cambi culturali

2.3. Le strane attese di molti educatori

2.4. Tra soggettivizzazione e disattenzione all’educativo

3. Verso un modello di iniziazione cristiana dei giovani

3.1. Il processo

3.1.1. L’iniziazione cristiana tra «traditio» e «redditio»

3.1.2. La comunità ecclesiale come vero soggetto collettivo

3.1.3. Fare proposte facendo fare esperienze

3.1.4. Un ambiente dove fare esperienza

3.2. Gli atteggiamenti al centro del processo

3.2.1. I comportamenti

3.2.2. Atteggiamenti e conoscenze

3.3. Riformulare i «sistemi simbolici» dell'esperienza cristiana

 

1. Il termine

Il tema della iniziazione cristiana dei giovani è centrale in ogni ricerca di pastorale giovanile.

La ragione è evidente: la formula esprime l’insieme degli interventi attraverso cui la comunità ecclesiale prepara le giovani generazioni a «diventare cristiani».

1.1. Iniziazione cristiana come tirocinio al «diventare cristiani»

Proprio la complessità e la molteplicità degli interventi realizzabili colloca però il tema tra quelli non immediatamente univoci. Dicendo «iniziazione cristiana», operatori e ricercatori richiamano problemi e prospettive diverse. Si parla infatti di iniziazione cristiana per indicare la preparazione ai sacramenti dell’Eucaristia, della Penitenza e della Confermazione; si usa il termine per sottolineare lo sviluppo della catechesi; qualche volta diventa sinonimo di «catecumenato» (considerato, a sua volta, in senso tecnico o in senso analogico).

In questo contesto, dò al termine un significato ampio e globale.

Iniziazione cristiana riguarda perciò tutto il tirocinio di apprendimento cristiano: l’interiorizzazione dei contenuti della fede, comunicati attraverso le diverse modalità in cui si realizza l’evangelizzazione; l’apprendistato alla preghiera, alla vita liturgica e alla celebrazione dei sacramenti; il progressivo inserimento nella comunità ecclesiale; la crescita nell’impegno sociale, caritativo, apostolico.

1.2. La comunicazione come schema interpretativo

Per muovermi in modo organico in questa complessità di problemi e prospettive, utilizzo come schema interpretativo unificante quello della comunicazione. Non è certamente l’unico possibile. Ha però evidenti motivazioni per chi assume l’evento dell’Incarnazione come criterio orientativo globale. L’evento di Dio si rende comunicabile all’uomo attraverso le parole umane che lo esprimono (cf​​ DV​​ 13). La risposta dell’uomo s’invera nella sua esperienza quotidiana. Appello e risposta possiedono perciò una struttura visibile che veicola un evento più profondo e radicale. Perché comunicazione «ad» un uomo e «di» un uomo, sono nell’ordine simbolico: una struttura di significazione in cui un senso diretto, primario, letterale, designa un altro senso indiretto, secondario, figurato, che può essere appreso solo attraverso il primo.

Anche l’iniziazione cristiana si realizza in questo intreccio simbolico: la comunità ecclesiale che lancia l’appello dell’evangelizzazione e il credente che offre la risposta della sua decisione di vita, non propongono direttamente la parola di Dio o il misterioso gioco di una libertà piegata verso Dio. Quello che si vede, si può controllare e manipolare è solo un segno umano di un grande evento di salvezza e d’amore. Attraverso questo segno la comunità ecclesiale rende presente nella parola umana l’ineffabile parola di Dio e il credente esprime la sua decisione radicale nella fede, speranza e carità.

L’oggetto scambiato è il «contenuto» della comunicazione; il processo che porta due interlocutori a scambiarsi oggetti linguistici si definisce di solito come la «relazione comunicativa».

Purtroppo, una vecchia abitudine intellettualistica ci porta spesso a considerare i contenuti come più importanti o più decisivi della relazione. Gli studi attuali sulla comunicazione procedono spesso in una logica quasi opposta.

Una corretta verifica del processo di iniziazione cristiana chiede invece di studiare i due momenti in modo interattivo. Ed è quello che cerco di fare in questo contributo.

2. La crisi dell’iniziazione cristiana dei giovani

L’iniziazione cristiana dei giovani si realizza sempre in un contesto preciso e concreto. Esso la condiziona: la orienta, la sostiene, qualche volta la mette in crisi. Una ricerca sulla iniziazione cristiana dei giovani deve muovere quindi da una comprensione del contesto. A questo riguardo è facile costatare la presenza oggi di alcuni fatti che fanno problema.

2.1. La difficile socializzazione religiosa

Nell’attuale situazione culturale, l’iniziazione cristiana dei giovani è minacciata nella sua funzionalità dalla diffusa e più generale crisi della socializzazione primaria. L’approfondimento del processo di secolarizzazione in atto nella nostra società spinge il discorso religioso e l’istituzione che lo propone verso la marginalità. I giovani vengono così a trovarsi, in un momento cruciale della loro maturazione, di fronte ad alternative di peso molto diverso: da una parte le esigenze della fede e dell’etica cristiana e dall’altra il messaggio della modernità, nella sua etica e nei suoi valori.

È innegabile l’ipotesi di una crescente condizione di iposocializzazione religiosa delle nuove generazioni, dal punto di vista quantitativo (meno persone sono raggiunte dalle proposte formative) e qualitativo (più persone interiorizzano la proposta religiosa come un contenuto periferico rispetto alla cultura complessiva).

Esiste inoltre una tendenza a reagire alla crisi dei processi formativi mediante l’adozione di risposte rigide e polemiche, finalizzate alla definizione di una identità personale di difesa e di isolamento. Questo modo di fare produce uno stato di ipersocializzazione che, all’atto pratico, aumenta l’indice di marginalizzazione e di privatizzazione dell’esperienza religiosa.

2.2. Scarsa significatività in un tempo di cambi culturali

Le difficoltà non riguardano solo la crisi dei processi di socializzazione, in un contesto che tende a marginalizzare l’esperienza religiosa. Spesso i contenuti della fede, proposti nell’evangelizzazione ecclesiale, risultano soggettivamente poco significativi: esiste una distanza notevole tra le espressioni culturali del progetto di esistenza cristiana e i suoi destinatari.

Molti osservatori riconoscono che la riaffermazione in termini rigidi del progetto cristiano e la difesa ad oltranza delle sue modalità culturali rappresentano qualche volta una reazione, implicita e poco motivata, al tentativo in atto di marginalizzare l’esperienza ecclesiale. In altri casi, invece, gruppi e singoli credenti cercano di recuperare rilevanza, in questo contesto sociale ridimensionando in modo scorretto le esigenze della fede. Per questa ragione, c’è una crisi di iniziazione cristiana che va oltre la crisi dei suoi processi. Investe il progetto stesso.

Sono certamente molto meno di un tempo i giovani socializzati all’interno della comunità ecclesiale. Anche coloro che usufruiscono di questo servizio formativo, fanno fatica a raggiungere una vera maturazione cristiana perché non avvertono soggettivamente come significativa la proposta. Oppure si creano una falsa coscienza élitaria, come autoriconoscimento in situazione di diffuso misconoscimento.

2.3. Le strane attese di molti educatori

Molti operatori di pastorale giovanile caricano l’iniziazione cristiana dei giovani delle stesse attese con cui veniva risolto il processo in un tempo ormai lontano. Per essi, la verifica sull’esito è assicurata su alcuni indicatori facili e sicuri: la capacità di riesprimere la fede attraverso formule linguistiche precise e corrette, la partecipazione assidua ai sacramenti, l’impegno etico coerente. Quando queste attese non sono saturate, viene spontaneo chiamare in causa i meccanismi di trasmissione. Si riconosce una consequenzialità abbastanza rigida tra interventi di socializzazione religiosa ed esiti positivi. In questa prospettiva, l’iniziazione cristiana è tutta sbilanciata dalla parte della ricerca di strumenti adeguati. Qualche volta sono rivisitati con nostalgia quelli che un tempo davano buoni frutti; altre volte sono frettolosamente attivati meccanismi alternativi.

2.4. Tra soggettivizzazione e disattenzione all’educativo

Fanno da cassa di risonanza negativa alcuni dati, caratteristici di questo nostro tempo. Alla complessità, culturale e sociale, molti giovani reagiscono assumendo una dimensione «debole» del loro vivere individuale e sociale. Essa si manifesta nella diffusa soggettivizzazione e nella ricostruzione di una identità fragile e di ricerca. Tutto questo condiziona notevolmente i processi di iniziazione cristiana. Li sbilancia dalla parte di uno spontaneismo e di una verifica solo a partire dal consenso soggettivo, che tende ad escludere dalla formazione le esigenze indiscutibili della «verità» (teologica ed etica) della esperienza cristiana.

Qualcuno reagisce a questa situazione problematica, proponendo modelli in cui la risonanza educativa risulta davvero povera. Ci si rifugia in un linguaggio inverificabile, dove prevale il gergo mistico e le formule ad effetto. Ci si immerge in un fondamentalismo biblico o liturgico, che dimentica frettolosamente il cammino lento della Parola e dell’Evento di salvezza nella storia dell’uomo. Gli imperativi etici risuonano con una radicalità che ha poco dell’amore accogliente e impegnativo dell’evangelo. Si afferma la distinzione rigida tra i rituali di appartenenza ad una comunità umana e l’introduzione dell’uomo al mistero della vita nuova in Dio. Qualche volta l’enfasi sul «cristiano adulto», come esito della iniziazione cristiana, spinge a considerare solo il dato cronologico. L’attenzione si sposta così lontano dal mondo giovanile, dalle sue esigenze e dalle sue sensibilità.

 

3. Verso un modello di iniziazione cristiana dei giovani

Da questa situazione di crisi non si esce certamente solo recuperando i sentieri tradizionali con un entusiasmo rinnovato. Soprattutto non basta affatto risolvere qualcuno degli elementi conflittuali. L’iniziazione cristiana dei giovani richiede progetti capaci di afferrare la situazione problematica in tutta la sua globalità.

Suggerisco un modello, fatto di tre preoccupazioni.

Con il primo paragrafo sottolineo la necessità di elaborare un nuovo modello formativo, capace di fornire un’alternativa seria a quello rigido e oggettivistico, entrato violentemente in crisi, e a quello della facile soggettivizzazione, inutile e inefficace. Propongo una «relazione» nuova per mettere in comunicazione giovani e comunità ecclesiale.

Nel secondo paragrafo affermo e preciso una scelta di fondo del progetto: la centralità degli atteggiamenti nella vita cristiana e la loro conseguente centralità nella attuazione e nella verifica dell’iniziazione cristiana.

Nel terzo paragrafo considero i «contenuti» fatti scorrere in questa relazione. Per collocarmi meglio dalla parte della comunicazione, chiamo «sistemi simbolici» i contenuti attraverso cui la comunità ecclesiale fa la sua proposta e il soggetto esprime l’avvenuta iniziazione.

 

3.1. Il processo

L’iniziazione cristiana è un processo formativo. Come ogni processo formativo può essere compresa e risolta secondo modelli procedurali differenti. Essi non sono mai neutrali rispetto alla qualità e all’incidenza del processo stesso.

L’attenzione va posta perciò prima di tutto sulla verifica di questi modelli, alla ricerca di quello più adeguato per esprimere le sue logiche costitutive.

 

3.1.1. L ’iniziazione cristiana tra «traditio» e «redditio»

L’iniziazione cristiana è fatta di «traditio» e di «redditio». La comunità ecclesiale consegna ai giovani il patrimonio vitale della sua fede; i giovani restituiscono la fede ricevuta, piena della loro storia, personale e collettiva. Mostrano di riconoscere in essa il fondamento di una qualità nuova di vita non quando la sanno riesprimere in una ripetizione passiva, ma quando vivono la loro quotidiana esistenza in modo che il Signore Gesù risulti veramente il «determinante» di tutte le decisioni e gli orientamenti che contano.

La fede infatti è una risposta personale, libera e responsabile, pronunciata all’interno di un progetto dotato di una sua consistenza normativa e segnato da una precisa dimensione comunitaria.

Per formare a questa decisione si richiede, nello stesso tempo, l’educazione alla libertà e responsabilità e all’accoglienza di progetti già dati. La libertà riconquista alla verità personale il dono in cui siamo collocati, che giudica e misura questa stessa libertà.

Per dire questo processo in modo concreto, con una terminologia che proviene dalle scienze dell’educazione, affermo che l’iniziazione cristiana dei giovani è una sintesi dinamica di socializzazione, inculturazione e educazione.

La «traditio» assicurata attraverso interventi riconducibili alla socializzazione (il processo mediante il quale l’individuo viene progressivamente inserito nelle strutture, nei ruoli e nelle forme della vita sociale) e alla inculturazione (il processo mediante il quale l’individuo acquisisce il patrimonio sociale di idee e valori che caratterizzano la «cultura» dell’insieme sociale di cui è parte).

Il processo formativo richiede però anche un incontro di intenzionalità educativa (un incontro tra società, educatore, educando), una chiara definizione di finalità condivise, l’attivazione di precise e impegnative responsabilità, per assicurare, nel vivo della storia personale e comunitaria, un’esistenza cosciente.

 

3.1.2. La comunità ecclesiale come vero soggetto collettivo

Il soggetto di questo processo è veramente tutto il popolo di Dio: la comunità ecclesiale in una piena corresponsabilità. Oggi, spesso, il processo invece viene attuato da qualche addetto ai lavori, forte della sua competenza intellettuale, trincerato nelle sue sicurezze e accuratamente isolato per non essere disturbato dal rumore della storia.

Quando la comunità ecclesiale, come soggetto popolare e collettivo, non viene espropriata delle sue responsabilità (proprio perché condivide spontaneamente vita e cultura con gli uomini del suo tempo), opera senza paure, fuori da quegli schemi difensivi che considerano 1’esistente come un ingiusto aggressore.

Nel grembo della comunità ecclesiale il credente si appropria del modo di dire la sua fede. Elabora una sua organizzazione dei contenuti religiosi. Intreccia su essi la sua storia, assicurando una spontanea integrazione tra fede e cultura. E così non è abbandonato alla solitudine della propria libertà. Al contrario, vive e respira dentro la sua comunità umana. È sostenuto, protetto, guidato in forza della pressione di appartenenza.

 

3.1.3. Fare proposte facendo fare esperienze

Nelle logiche tradizionali, il diritto e la possibilità di collocare una proposta dove si cerca e si produce il senso della vita, era segnato prevalentemente dalla discriminante vero-falso. Quando una proposta era oggettivamente vera, possedeva il diritto di essere offerta con decisione. Al diritto del proponente corrispondeva il dovere di ogni persona saggia di accogliere.

Al massimo, difficoltà e resistenze erano tollerate sul piano della prassi spicciola, per rispetto della costitutiva debolezza dell’uomo. Questo era il modello, diffuso e pacifico, in una cultura della oggettività, quando la ricerca personale sul senso della propria vita era risolta nella fatica di riscrivere, nelle righe della propria storia, il senso che la realtà si porta dentro, quasi strutturalmente. Oggi, le logiche sono molto diverse.

La discriminante è tracciata sulla frontiera della significatività. Solo quello che è sentito come soggettivamente significativo, perché si colloca dentro gli schemi culturali che una persona ha fatto ormai propri, merita di essere preso in considerazione. Ci si interroga sulla «verità» solo dopo aver risposto affermativamente alla domanda della significatività.

Quando la proposta viene avvertita come poco significativa, è fuori gioco, perché è fuori dal gioco personale. Non basta alzare il tono della voce; non è sufficiente la convinzione di chi propone. Se non riesce a far esplodere l’indifferenza, viene considerata una delle tante voci, cui si riconosce il diritto di parlare perché dice cose che non contano. L’esodo verso l’attenzione e la decisione passa attraverso il fare esperienza. In un tempo di soggettivizzazione e dì pluralismo, le offerte di senso diventano proposte, capaci di saturare la forte e sofferta ricerca di senso, quando sono esperienze di vita, che diventano messaggio.

Fare proposte significa «far fare esperienze». La forza comunicativa, evocata dalle esperienze, sollecita verso decisioni impegnative e coinvolgenti, anche in un tempo di basso investimento progettuale.

Un momento fondamentale in cui la comunità ecclesiale concretizza l’esigenza del «fare esperienza», è quello della celebrazione liturgica e sacramentale.

Per approfondire questo tema, rimando ai molti e stimolanti contributi contenuti in questo «Dizionario». In questo contesto lo riaffermo esplicitamente per sottolineare due motivi.

L’iniziazione cristiana dei giovani è un processo formativo, che condivide preoccupazioni e stile di ogni processo educativo. Ha però una sua originalità costitutiva: introduce l’uomo nella vita nuova, trasformandolo intensamente dall’interno, lo impegna ad una decisione di fede, lo integra in una comunità che lo accoglie (nel battestimo), lo ispira nell’agire (nella cresima), lo nutre con il pane e la parola (nell’eucaristia), lo rigenera a vita nuova (nella riconciliazione). Per questo, l’iniziazione cristiana ha come suo ambito privilegiato il momento liturgico.

Questo momento non va considerato «strumentale» rispetto al processo. È invece profondamente «esperienziale». Il cristiano celebra la sua vita e la sua religiosità in una esperienza che lo immerge nel mistero di Dio. Facendone esperienza, nella comunità ecclesiale, lo scopre vicino e decisivo, anche quando lo adora «in spirito e verità» nel ritmo della sua vita quotidiana.

 

3.1.4. Un ambiente dove fare esperienza

Una esigenza ritorna con prepotenza, come condizione irrinunciabile per assicurare la significatività e la possibilità di fare davvero esperienza: un ambiente come luogo di identificazione e struttura di attendibilità. Soggetto dell’iniziazione cristiana è la comunità ecclesiale nella sua dimensione globale e istituzionale. Per molti giovani però essa resta una esperienza astratta e lontana. Difficilmente è in grado di assicurare quella identificazione che è richiesta per l’iniziazione. Diventa vicina, significativa quando assume il volto concreto di uno spazio fisico, a misura giovanile e d’intenso respiro ecclesiale.

Possono essere diversi questi ambienti.

Nel vasto panorama ecclesiale attuale ritroviamo gruppi e movimenti, oratori e centri giovanili, luoghi di intensa esperienza cristiana, riferimenti culturali a leaders o a proposte. L’esigenza resta, al di là della pluralità di espressioni. E il guadagno per l’iniziazione cristiana dei giovani è costatabile immediatamente.

Questi spazi vitali sono per chi li frequenta una urgente esperienza di rassicurazione, di nuova qualità di vita, di ricostruzione della personale identità, di proposta di senso. Questa stessa esperienza viene interpretata e ricompresa nella sua ragione più intima e sollecitante. Diventa così un messaggio religioso: una parola su Dio. Questa parola risuona di una particolare forza comunicativa perché è costituita dalla esperienza viva di testimoni che riempiono questi luoghi della loro intensa vita cristiana ed ecclesiale, dando le ragioni della loro presenza e del loro operare.

Nell’identificazione a questi testimoni e nella proposta globale che essi esprimono i giovani incontrano la Chiesa come evento di salvezza che si fa annuncio e progetto. La Chiesa è il gruppo stesso, gli educatori credenti, le celebrazioni della fede partecipate corresponsabilmente. Queste esperienze permettono e sostengono il cammino di progressivo riavvicinamento nei confronti dell’istituzione ecclesiale.

La forte risonanza comunitaria si pone inoltre come struttura di attendibilità a livello di contenuti dottrinali, di pratiche, di leadership. I modelli di vita incarnati nelle norme e nei leaders, il controllo sul dissenso fanno di questi luoghi l’ambito ideale per definire, proporre, sperimentare e consolidare una nuova qualità di vita, umana e cristiana.

 

3.2. Gli atteggiamenti al centro del processo

L’iniziazione cristiana ha come obiettivo la maturazione e il sostegno della vita cristiana. Su questo sono tutti d’accordo.

Non basta però certamente restare ad un livello così generale. Esso suscita più equivoci di quelli che aiuta a risolvere.

Per determinare concretamente la qualità del processo e i criteri di verificazione della sua funzionalità, dobbiamo trovare un accordo previo attorno alle «competenze» che definiscono questo obiettivo.

In un ambito prevalentemente formale, si tratta di determinare l’organizzazione di queste competenze nella struttura di personalità del giovane cristiano. Di solito, il richiamo alle «competenze» connota un riferimento a conoscenze da interiorizzare, comportamenti da assicurare, atteggiamenti a cui abilitarsi. Per organizzare operativamente questi livelli, dobbiamo scegliere un modello concreto. Come organizzare il rapporto tra conoscenze, comportamenti, atteggiamenti?

La mia proposta colloca al centro del processo di iniziazione cristiana dei giovani la preoccupazione di abilitarli ad atteggiamenti e ripensa da questo orientamento la funzione delle conoscenze e dei comportamenti. La prospettiva è abbastanza articolata. Per questo devo approfondirla con qualche battuta.

 

3.2.1. I comportamenti

Ricordo prima di tutto la distinzione tra atteggiamento e comportamento. Comportamento è la reazione soggettiva con cui la persona esprime la sua presenza nel contesto sociale di cui è parte. Queste reazioni sono osservabili e quantificabili. Nella persona adulta, esse sono normalmente coerenti e stabili; incanalano quindi la sua spontanea reattività verso l’esistente, secondo modalità che vanno consolidandosi. La ripetizione di comportamenti assicura quindi una specie di «pacchetto» stabilizzato di credenze, sentimenti, risposte particolari, sempre presente, pronto ad essere usato quando l’individuo si trova a dover affrontare l’oggetto appropriato. Questo sistema è l’atteggiamento: una strutturazione del proprio dinamismo psichico, che orienta i comportamenti a riguardo di un oggetto proposto.

La reale personalità di un individuo, le sue tendenze valutative e operative, i quadri di orientamento del vissuto sono espressi dagli atteggiamenti acquisiti.

Molte variabili influenzano i comportamenti, in tutte le direzioni. Gli atteggiamenti invece orientano la persona verso un progetto d’insieme in cui si esprime una decisione più carica di responsabilità e di libertà delle diverse decisioni parziali e dei comportamenti concreti che a questo progetto danno esecuzione.

Attraverso il tessuto degli atteggiamenti e dei differenti progetti d’insieme che li fondano, la persona manifesta la presenza di un disegno unitario che sorregge, comanda e rende comprensibile la scelta di fondo della vita. Tutto questo pesa, in modo particolarissimo nella vita cristiana.

Il giovane vive da credente quando è educato al pensiero di Cristo, vede la storia come Lui, giudica la vita come Lui, sceglie ed ama come Lui, spera come insegna Lui, vive in Lui la comunione con il Padre e lo Spirito Santo (cf​​ RdC​​ 38). In questo «progetto di vita» dice la sua decisione radicale nei confronti di Dio.

Sul piano delle prassi quotidiane, si riconosce invece sempre un peccatore in trepida attesa di salvezza. I suoi comportamenti manifestano più il grido verso la salvezza di Dio che la novità di vita in cui già siamo costituiti. Per questa consapevolezza, antropologica e teologica, l’iniziazione cristiana non si rivolge eccessivamente al piano dei comportamenti. Non li relega certo tra le cose che non contano. Sul piano educativo, infatti, i comportamenti rappresentano la via obbligata per la costruzione e la stabilizzazione degli atteggiamenti. Ne manifestano la qualità e ne consolidano l’esistenza nella personalità in crescita. Nell’iniziazione cristiana non sono però il fine, ma, in qualche modo, solo il «mezzo», parziale e ambivalente.

 

3.2.2. Atteggiamenti e conoscenze

Diverso è il tono rispetto alle conoscenze. L’abilitazione a vivere nell’integrazione tra fede e vita rappresenta un insieme organico di competenze in cui si coniugano atteggiamenti e conoscenze: un insieme di atteggiamenti, normati e oggettivati linguisticamente da conoscenze precise e irrinunciabili. Solo quando si è fedeli a queste «conoscenze», così come sono documentate nell’autocoscienza ecclesiale, si può vivere da credenti. La dimensione veritativa dell’esperienza cristiana (quella attenzione alla formulazione corretta della fede e all’assimilazione personale delle conoscenze in cui si esprime) viene sottolineata come davvero importante. Lo è sempre; lo diventa in modo speciale in questo tempo di soggettivizzazione sfrenata.

Le conoscenze però non sono fine a sé stesse; né rappresentano il terreno su cui verificare il livello di maturità cristiana. Non si tratta infatti di «sapere» e di dimostrare di «sapere», ma di investire tutta l’esistenza di questo «sapere». Vivere da credenti significa fondamentalmente operare una ristrutturazione di personalità, tale da restituire all’evento di Gesù la funzione di «determinante» nelle scelte e nelle decisioni di vita. Non ricerchiamo quindi conoscenze di tipo nozionistico, ma conoscenze che permettano di valutare e di intervenire nelle concrete situazioni di vita, con costanza e con coerenza. Questo modo di comprendere le «conoscenze» sposta l’accento dalle conoscenze stesse verso T«atteggiamento»: una capacità operativa che armonizzi le doti personali in una disponibilità, agile e pronta, ad intervenire quando è il momento, sapendosi richiamare a motivazioni di riferimento. Gli atteggiamenti sono quindi il centro delle preoccupazioni pastorali.

Gli atteggiamenti rimandano continuamente alle conoscenze. Di esse esprimono la dimensione operativa e da esse, soprattutto, riprendono la qualità cristiana. Come ho già sottolineato, non qualsiasi atteggiamento fa il cristiano: egli deve misurarsi su Gesù Cristo, il suo messaggio e la testimonianza attuale della Chiesa. C’è quindi una linea di demarcazione netta tra atteggiamenti «determinati» in Gesù Cristo e atteggiamenti lontani dal suo progetto di vita. Le conoscenze sono la verifica oggettiva degli atteggiamenti, la loro riappropriazione nella direzione della verità dell’evento di Gesù.

 

3.3. Riformulare i «sistemi simbolici» dell’esperienza cristiana

Il processo di iniziazione cristiana dei giovani richiede anche una riformulazione dei «contenuti» teologici che descrivono il dover-essere del cristiano.

L’affermazione ricorda due esigenze complementari.

Sottolinea prima di tutto, almeno implicitamente, l’importanza del momento propositivo. L’iniziazione cristiana dei giovani non è un processo che macina qualsiasi contenuto. Richiede al contrario la diffusione e l’interiorizzazione dei contenuti normativi dell’esistenza cristiana, a tutti i livelli (dogmatico, liturgico, etico). Questa esigenza va proclamata con fermezza, soprattutto oggi, in un tempo di relativizzazione e soggettivizzazione.

La dichiarazione ricorda però, nello stesso tempo, che l’iniziazione cristiana non è però neppure il supporto metodologico per far passare contenuti, rigidamente bloccati, o per assicurare esiti, predefiniti con eccessiva sicurezza. Coinvolge, nello stesso ritmo, relazione e contenuto, per ridire il processo nello schema di una corretta comunicazione. Le riflessioni precedenti hanno già sottolineato lo stretto rapporto esistente tra processo e contenuti. Collocati in una ricerca sull’iniziazione cristiana dei giovani, non possiamo immaginare i «contenuti» isolati dal processo, come se potessero essere definiti in uno spazio protetto e sicuro e poi affidati a chi ha il compito di trasmetterli. Mi piace invece ipotizzare una «traditio» e «redditio» in termini anche diacronici: la comunità ecclesiale attuale restituisce la fede che ha ricevuto dalla tradizione, fatta nuova perché riespressa dentro la cultura che la segna intensamente.

Per questo, indico la necessità di «riformulazione»: sottolineo che le espressioni con cui la comunità ecclesiale testimonia la sua fede e quelle con cui i giovani manifestano la loro esperienza cristiana sono sempre segni evocativi di una realtà, più grande e meno facilmente verificabile; le riconosco segnate profondamente dalla cultura e ne cerco una continua riespressione per assicurare meglio la loro risonanza autoimplicativa.

Nel titolo del paragrafo ha chiamato «sistemi simbolici» dell’esistenza cristiana questa trama di eventi normativi ed espressioni culturali. Simbolo infatti è un segno la cui funzione non è di promuovere la conoscenza puramente cognitiva di una realtà (indicandola, ricordandola, spiegandola...), ma di stabilire con quella realtà una relazione che coinvolga il soggetto nell’insieme del suo esistere, verso la frontiera misteriosa del suo bisogno di senso.

Molti dei «contenuti» tradizionali sono diventati «opachi» per l’uomo contemporaneo, mettendo in questione così proprio la loro funzione simbolica. So che una certa estraneità è indispensabile, perché solo così possono orientare verso un’esperienza religiosa che resta, in parte, indicibile. Per questo cerco dei «simboli», che evocano la realtà significata senza mai renderla totalmente manipolabile.

È importante «riempire di vita vissuta» i sistemi simbolici tradizionali, per restituirli alla loro carica simbolica, quando l’operazione è possibile. Ed è urgente ricostruire nuovi «simboli», senza rinunciare a quel livello di estraneità di cui dicevo, per restituire anche ai giovani di oggi la possibilità di dire la loro esperienza religiosa in un linguaggio attuale e significativo. In questa operazione, le comunità ecclesiali sono chiamate a «svegliare» (alla significatività anche religiosa) i molti simboli che dormono nascosti sotto le ceneri dell’attuale cultura, continuando anche oggi quel modo di fare che ha caratterizzato sempre la storia religiosa dell’uomo e la vita della Chiesa nelle sue stagioni più felici.

In questo contesto mi basta affermare l’urgenza. Per procedere oltre dovrei ripetere in modo approssimativo espressioni contenute in molti contributi del «Dizionario». Mi basta affermare l’esigenza, per restituire l’iniziazione cristiana dei giovani alla sua verità e alla sua funzionalità.

 

Bibliografia

Angelini G.,​​ Iniziazione cristiana e immagine di Chiesa, LDC, Leumann 1982; Gevaert J.,​​ Diventare cristiani oggi. Quadro dei problemi e chiarificazione terminologica, in «Diventare cristiani oggi», LDC, Leumann 1983, 7-21; Gianetto U.,​​ Iniziazione cristiana, in «Dizionario di catechetica», LDC, Leumann 1986, 345-357; Kaufmann F. X. - Metz J. B.,​​ Capacità di futuro. Movimenti di ricerca nel cristianesimo, Queriniana, Brescia 1988;​​ Quali «sistemi simbolici» per l’iniziazione cristiana dei giovani, in «Note di pastorale giovanile» 21 (1987) 8, 3-23; Rizzi A.,​​ Differenza e responsabilità. Saggi di antropologia teologica, Marietti, Casale M.to 1983.

 

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