S. FILIPPO NERI
(1515-1595)
Agostino Favale
1. La vita
2. L’attività apostolica
2.1. La pastorale giovanile
2.2. L’azione pastorale verso gli infermi, ipoveri e i pellegrini
2.3. La pastorale degli adulti
2.4. L’Oratorio «grande» e «piccolo»
2.5. La «Visita» alle sette chiese
2.6. La fondazione della Congregazione dell’Oratorio
3. La metodologia pastorale
La figura e l’opera di Filippo Neri si collocano nel composito quadro della riforma e Controriforma cattolica, che ebbero in Roma nella seconda metà del secolo XVI il loro centro propulsore.
1. La vita
Nato a Firenze, in Oltrarno, il 21 luglio 1515 dal notaio Francesco e da Lucrezia di Antonio da Mosciano, Filippo perdette presto la madre. Potè tuttavia godere delle cure affettuose della matrigna e delle due sorelle, Elisabetta e Caterina. Da ragazzo maturò la sua formazione cristiana sotto la guida dei Padri domenicani del convento di San Marco, dove era ancora vivo il ricordo di fra Girolamo Savonarola, per il quale egli nutrì un’imperitura devozione.
Dopo l’assedio e la resa di Firenze alle truppe imperiali di Carlo V nel 1530, Filippo si recò a San Germano (Cassino) presso un parente che si adoperò per invogliarlo a occuparsi di mercatura. Ma egli decise di trasferirsi a Roma, il centro della cattolicità, che esercitava un richiamo particolare nel suo animo di credente e divenne la sua città di adozione per tutta la vita.
Mentre era ospite e istitutore dei figli del gentiluomo fiorentino Galeotto Caccia, Filippo si dedicò anche per qualche tempo agli studi di filosofia presso la Sapienza e agli studi di teologia presso gli agostiniani. Incontratosi con Ignazio di Loyola, non aderì al suo invito di entrare nella Compagnia di Gesù. Preferì invece stringere rapporti di amicizia con il gruppo di «spirituali» della Chiesa di San Girolamo della Carità, fra i quali scelse il suo confessore nella persona del sacerdote Persiano Rosa. Si diede inoltre alla frequentazione di chiese e catacombe, per soddisfare il suo interiore bisogno di preghiera e di raccoglimento, e alle visite degli ospedali per portare conforto e sollievo ai malati. In queste sue peregrinazioni e visite era accompagnato da alcuni suoi simpatizzanti.
Nel 1551, acconsentendo alle reiterate insistenze del Rosa, Filippo ricevette l’ordinazione sacerdotale, che gli permise di immergersi corpo e anima nell’esercizio del ministero a lui più congeniale, quello di confessore, di guida spirituale e di operatore pastorale, cui si consacrò ininterrottamente fino alla morte avvenuta nella notte del 26 maggio 1595. Fu canonizzato il 12 marzo 1622 con Ignazio di Loyola, Francesco Saverio, Teresa di Gesù e Isidoro.
L’attrattiva che si sprigionava dalla sua persona ilare e anticonformista, semplice e comunicativa, amabile e compita, di religiosità profonda e di geniale inventiva, gli accrebbe intorno una grande schiera di discepoli di ogni età e condizione, che egli seppe orientare con spirito di discernimento, comprensione e fermezza. A partire dalle testimonianze del processo di canonizzazione, si cerca qui di documentare l’attività apostolica di Filippo, individuandone la metodologia pastorale cui fece ricorso nei suoi rapporti con i giovani, con gli infermi, i poveri e i pellegrini e con gli adulti.
2. L’attività apostolica
2.1. La pastorale giovanile
Fu anzitutto a favore del mondo giovanile che Filippo svolse buona parte del suo multiforme apostolato, tanto che la sua immagine tra i giovani è stata fissata ampiamente nell’agiografia e iconografia filippina. Fin dalla sua fanciullezza, incline a raccogliersi in preghiera, invitava le due sorelle, specialmente la maggiore, Elisabetta, alla recita dei salmi. I coetanei lo amavano e stimavano per il suo impegno e il suo temperamento scherzoso. Il fatto che lo chiamassero «Pippo buono» sta a indicare il fascino della sua bontà. Nella sua prima diretta esperienza educativa con i due figlioli del Caccia, Filippo dimostrò le sue capacità di istruirli «nelle lettere e nei buoni costumi» e di ammaestrali «nella purità e modestia».
Il quartiere di Ponte-Parione, dove era solito aggirarsi nel tempo libero, divenne un luogo d’incontro con giovani, soprattutto fiorentini o toscani della colonia romana, i quali, conquistati dalla sua allegria e dal suo affetto disinteressato, lo ricambiavano con la loro amicizia. Egli si intratteneva con loro, li interessava con le sue arguzie e, nel momento opportuno, li invitava a pregare, li catechizzava e li stimolava a compiere opere di carità.
L’ordinazione sacerdotale non fece che intensificare in Filippo lo zelo per la salvezza dei ragazzi e dei giovani. Andava alla loro ricerca, si industriava per strapparli dai pericoli delle strade e dell’ozio, li portava a passeggio ora in un luogo ora in un altro per metterli a contatto con le bellezze della natura e assurgere da queste al pensiero di Dio, giocava con loro alla palla e alle piastrelle, si preoccupava dei loro problemi, li assisteva nelle loro necessità e non risparmiava fatiche e sacrifici per formare la loro coscienza cristiana e aiutarli a essere fedeli ai loro doveri religiosi. Soffriva quando s’accorgeva che i giovani erano insoddisfatti, tristi e melanconici. Desiderava vederli spontanei, allegri e vivaci. Sapeva contemperare le esigenze della pietà con il bisogno di libertà e di divertimento dei giovani. Non appesantiva la loro vita di orazioni e devozioni, ma inculcava quello che era essenziale per alimentare la loro fede. Evitava di proporre penitenze fisiche. Raccomandava piuttosto l’esercizio delle opere di misericordia corporali e spirituali, e le penitenze interiori più adatte a stimolare i giovani nella loro graduale maturazione cristiana. Insisteva sulla necessità di vivere un culto autentico a Cristo-Eucaristia, una devozione filiale a Maria santissima, una venerazione sentita verso i santi martiri, di cui si faceva memoria nelle catacombe e nelle chiese di Roma.
Tra i detti o aforismi più comuni, che animavano la sua metodologia pastorale, i contemporanei di Filippo ricordano i seguenti:
1) Figlioli, state fermi se potete.
2) Scrupoli e malinconie, fuori di casa mia.
3) Figlioli miei, fuggite le occasioni di peccato, fuggitele!
4) Figlioli, state allegri, state allegri, voglio che non facciate peccati.
5) Purché non facciano peccati, nel resto sopporterei che mi tagliassero la legna addosso.
6) Non bisogna lasciare gli esercizi devoti, ma se si vuole andare a spasso, prima si adempiano questi, poi si vada.
7) Non vi caricate di troppe devozioni, ma intraprendetene poche e perseverate in esse.
Inoltre, Filippo consigliava ai giovani la recita frequente delle giaculatorie, riferite a Gesù e Maria, e dava loro cinque ricordi per mantenersi puri:
1) Fuggire i cattivi compagni.
2) Non nutrire delicatamente il corpo.
3) Aborrire l’ozio.
4) Fare orazione.
5) Frequentare spesso i sacramenti, particolarmente quello della confessione.
In Filippo le spiccate capacità educative e le intuizioni psicologiche si univano e si assommavano al suo zelo pastorale che, pervaso di afflato evangelico e di una serena visione cristiana della vita, puntava sulle concrete risorse che i giovani possiedono, per aiutarli a vivere con serietà gli impegni religiosi. Più che con gli scritti, egli attendeva alla formazione delle nuove generazioni con l’esempio e la parola, il consiglio e l’esperienza della sua vita interiore, la vicinanza e la disponibilità al servizio, ossia con la pedagogia del buon senso, nella ricerca di una sintesi armonica tra i doni di natura e di grazia, i valori umani e divini. Servendosi della sua paternità affabile, dopo averli fatti amici nella maniera più gioviale, li istruiva nelle verità della fede, li guidava con esortazioni e anche con comandi improvvisi, li induceva a riflettere, li spingeva a esercizi di umiltà, li frenava nei loro impulsi istintivi e nelle loro ambizioni secolari, li conduceva sulla strada voluta dal Signore. Le testimonianze di quanti lo conobbero parlano di «schiere» di ragazzi e di giovani che, attratti dalla sua bontà gioiosa, lo cercavano, lo ascoltavano e si lasciavano guidare sulla via del bene. Il suo amore e la sua tenerezza verso i giovani non venne mai meno col passare degli anni.
Tra i giovani che Filippo con la sua solerzia e preveggenza riuscì a legare più strettamente alla sua esperienza spirituale, si possono ricordare il celebre storico (poi cardinale) Cesare Baronio, Alessandro Fedeli, Gian Francesco Bordini (poi arcivescovo di Avignone), Angelo Velli, Francesco Maria Tarugi (poi cardinale), Antonio Talpa (autore del trattato dell 'Istituto della Congregatione dell’Oratorio), Antonio Gallonio, Flaminio Ricci, Germanico Fedeli, Tomaso e Francesco Bozzi.
2.2. L’azione pastorale verso gli infermi, i poveri e i pellegrini
Oltre che verso i giovani l’azione pastorale di Filippo si estese anche agli infermi, ai poveri e ai pellegrini. La carità pastorale tende a fiorire in opere di assistenza materiale e spirituale. Convinto che qualunque cosa venisse fatta a un fratello bisognoso, Cristo la riteneva come fatta a sé stesso (cf Mt 25,40-42), Filippo seppe condividere la sofferenza del prossimo dalla sua giovinezza fino alla vecchiaia. Gli ospedali di San Giacomo degli incurabili, San Giovanni in Laterano, Santa Maria della Consolazione, Santo Spirito in Sassia divennero le mete preferite delle sue peregrinazioni. Egli entrava negli ospedali, e dovunque vi erano malati anche nelle case private, animato dalla carità di Cristo e dal desiderio di portare aiuto, conforto e incoraggiamento. Durante le visite, si improvvisava infermiere, provvedeva alla pulizia, rifaceva i letti, lavava i piatti, parlava della bontà e della misericordia di Dio, invitava a sopportare la malattia pensando alle sofferenze del Signore e al premio del Paradiso, riservava una cura e un’attenzione particolare ai malati più gravi e li preparava a ricevere i sacramenti. Nello svolgere questa sua opera di misericordia corporale e di assistenza spirituale, egli sollecitava l’intervento degli amici che a mano a mano si andava facendo con le sue sollecitudini pastorali.
Si interessò anche dei poveri, che in quei tempi si trovavano nei crocicchi delle strade di Roma, presso i portoni delle case dei nobili, sotto i portici delle chiese o nascosti in misere abitazioni. Tra questi vi erano anche pellegrini che, consumate le loro risorse, non potevano più provvedere al viaggio di ritorno nelle terre d’origine, perciò si rassegnavano a rimanere a Roma, vivendo in condizioni di estrema povertà. Per alleviare le loro indigenze, Filippo non si stancava di bussare alle porte dei ricchi allo scopo di raccogliere vitto, vestiti e denaro da distribuire a quanti non ne avevano. In tal modo egli, nonostante gli ostacoli incontrati e talune malevole imboscate, riuscì a portare soccorso a intere famiglie disagiate, a zitelle, a carcerati e a studenti poveri. La sua liberalità, accompagnata talvolta da fatti prodigiosi e animata sempre da spirito evangelico, era diventata famosa e quasi proverbiale in Roma.
Vedendo inoltre che i pellegrini, che durante l’anno venivano a Roma per acquistare le indulgenze, erano spesso abbandonati a sé stessi, sia per il vitto sia per le cure in caso di malattia, e per l’ospitalità, con alcuni suoi amici decise di realizzare una specie di opera di previdenza sociale. Sorse così con sede presso la Chiesa di San Salvatore in Campo la «Confraternita della SS.ma Trinità dei Pellegrini», la quale, formata inizialmente da sole 15 persone, provvide in case affittate a offrire ospitalità a quanti giungevano in città, privi di ogni accoglienza. L’importanza di questa istituzione si manifestò in tutta la sua portata con l’Anno Santo del 1550, quando vennero assistiti fino a 500 pellegrini al giorno. Nel Giubileo del 1575 più di 200.000 pellegrini ricevettero assistenza materiale e spirituale. Infatti, i membri della Confraternita non davano soltanto vitto e alloggio ai pellegrini, ma si preoccupavano anche di intrattenerli in «sante conversazioni», al fine di prepararli alla recezione dei sacramenti della confessione e della comunione e alla visita delle catacombe e delle basiliche romane, sorretti da un forte spirito di penitenza e di preghiera.
Accortosi poi che non era sufficiente curare i malati poveri negli ospedali ma era opportuno assisterli anche nella loro convalescenza e nelle loro possibili ricadute, fondò un piccolo ospedale detto dei «convalescenti», che unì alla Confraternita, denominata nel 1548 «Confraternita dei Pellegrini e dei Convalescenti». Per l’erezione dell’ospedaletto, egli prese in pigione, in un primo momento, una piccola casa presso la stessa Chiesa di San Salvatore in Campo. In questo modo i malati erano assistiti fino alla completa guarigione, e ai pellegrini infermi veniva assicurata in quel luogo di cura la permanenza fino al loro pieno ristabilimento e ritorno in patria.
La pratica delle visite ai malati, del soccorso ai poveri e del sostegno ai pellegrini aumentò nell’animo di Filippo l’amore del prossimo in necessità e lo spinse a moltiplicare le iniziative assistenziali e pastorali a loro favore. In effetti, proprio per formare persone generose, capaci di abbandonare tutto per avvicendarsi con premura e pazienza nella cura dei fratelli sofferenti o, comunque, in necessità, egli istituì la «Scuola delle Corsie». Messi a confronto diretto con gli ammalati e i bisognosi, non pochi discepoli di Filippo, dopo aver vinto disagi e ripugnanze, finirono per dare tutte le loro sostanze ai poveri e dedicarsi al lenimento delle sofferenze fisiche e morali del prossimo.
2.3. La pastorale degli adulti
Nell’esercizio della sua azione pastorale Filippo non escludeva nessuno. Nel medesimo tempo e con lo stesso spirito si rivolgeva sia verso i piccoli sia verso i grandi di qualsiasi condizione sociale. L’ordinazione sacerdotale non fece che acuire in lui il problema della salvezza dei fratelli e lo spinse a ricercare e a porre in atto nuovi metodi di azione pastorale, per singoli e gruppi, allo scopo di provvedere alle loro urgenze spirituali. Egli aveva la chiara percezione che come prete non era solo più l’amico, il confidente, il consigliere, il predicatore faceto, ma anche il dispensatore delle grazie del Signore. Perciò, attratto dal modo di vivere dei preti della chiesa di San Girolamo della Carità, nel 1552 si aggregò a quella comunità di «spirituali» e cominciò a prestare il suo servizio pastorale in quella chiesa. In tal modo, alle strade, agli ospedali, ai negozi, alle case degli amici, alle chiese romane si aggiungeva per l’apostolato sacerdotale di Filippo una chiesa distinta e una stanzetta sempre aperta a tutti. Non vi erano ore della giornata in cui Filippo non fosse disponibile ad ascoltare quanti lo cercavano. La sua messa era frequentatissima. Al suo confessionale si accostavano non solamente i romani ma anche i forestieri. La sua stanza diventò come un porto di mare, dove piccoli e grandi, giovani e vecchi, persone semplici ed ecclesiastici di alto rango si susseguivano per consultarlo, risolvere problemi di coscienza ed essere stimolati a perseverare nel bene. A seconda dei casi che gli si presentavano, egli, di volta in volta, sapeva dire la parola adatta per ciascuno per invogliarlo a cambiare vita oppure a impegnarsi di più nella ricerca della perfezione. Amava ripetere: «Importante è che siamo santi». Anzi: «Bisogna desiderare di fare cose grandi per il servizio di Dio e non contentarsi di una bontà mediocre».
2.4. L’Oratorio «grande» e «piccolo»
Intuendo che era troppo poco accogliere i penitenti per la confessione, Filippo cominciò a radunarli anche al pomeriggio al fine di confrontarsi con la parola di Dio, e alla sera per pregare con loro. Si sviluppò così l’Oratorio, un vero e proprio cenacolo di vita spirituale. All’inizio era bastata la stanzetta di Filippo, poi, verso il 1556, le riunioni vennero fatte in un granaio adattato nella soffitta della chiesa di San Girolamo della Carità e, infine, le «tornate» oratoriane furono trasferite in chiesa. Le linee strutturali originarie dell’Oratorio consistevano in una lettura di brani della Sacra Scrittura, di vite dei santi, di libri della dottrina cristiana o di narrazioni della storia della Chiesa, seguita da brevi trattazioni dialogiche su un tema offerto e in sermoncini semplici, fatti anche da laici, che sgorgavano dalla mente e dal cuore dei lettori; il tutto era intramezzato da laudi sacre. A questi incontri partecipavano nobili e popolani, laici e ecclesiastici, personalità della cultura e dell’arte, affascinati dalla forma spontanea con cui venivano esposte le verità cristiane.
Da questo che era detto l’Oratorio «grande» o pubblico, si staccò l’Oratorio «piccolo», riservato per i più assidui, le cui pratiche serali quotidiane comprendevano una mezz’ora di orazione mentale, una serie di preghiere litaniche e la disciplina tre giorni la settimana.
Ogni domenica, ai sodali dell’Oratorio piccolo venivano affidate le visite agli ospedali, che essi dovevano compiere nel corso della settimana.
2.5. La «Visita» alle sette chiese
Oltre la cura dei malati, l’assistenza ai poveri e ai pellegrini e gli incontri destinati ad approfondire la conoscenza e l’esperienza della vita cristiana, per il completamento della formazione spirituale dei suoi seguaci e dei suoi simpatizzanti Filippo ideò la «Visita alle sette chiese maggiori di Roma». Si trattava di peregrinazioni che, al seguito di Filippo, tra preghiere, canti e momenti di riflessione, attraversavano le principali vie di Roma e parte della campagna circostante la città, portavano la gente da una chiesa all’altra e si concludevano con la celebrazione della messa e la comunione generale. Il giovedì grasso del 1565 furono circa 2.000 le persone presenti alla Visita delle sette chiese. Queste visite avevano un quadruplice scopo: far conoscere le vetuste basiliche della Roma cristiana e cattolica; richiamare alla mente dei visitatori le ricchezze di storia religiosa e culturale che esse racchiudevano; consentire ai fedeli un incremento della loro pietà attraverso la meditazione della vita di Cristo, della Madonna, degli apostoli e dei martiri; e, infine, edificare con l’esempio e la preghiera coloro che si limitavano a guardare dal di fuori l’iniziativa. La Visita alle sette chiese divenne una delle manifestazioni più importanti dell’Oratorio, perché, svolgendosi all’aperto e in diverse zone della città, suscitava l’ammirazione, o almeno la curiosità di molti.
2.6. La fondazione della Congregazione dell’Oratorio
L’ultima delle fondazioni di Filippo è la Congregazione dell’Oratorio. Invitato dai suoi conterranei ad accettare la cura pastorale della chiesa di San Giovanni de’ Fiorentini in Via Giulia, Filippo decise di restare a San Girolamo della Carità, ma cercò di sistemare a San Giovanni alcuni suoi figli spirituali, che vennero ordinati sacerdoti. Dietro consiglio di Filippo, essi costituirono una comunità presbiterale, che Gregorio XIII il 15 luglio 1575 con la bolla Copiosus eresse canonicamente in «Congregazione dell’Oratorio», affidandole la chiesa di Santa Maria in Vallicella, che venne ricostruita dalle fondamenta. Scopo della Congregazione — una «Società di vita comune», formata da preti secolari e da laici senza voti e collegati solamente dal vincolo della carità sotto una regola comune — era quello di perseguire le finalità specifiche dell’Oratorio, assicurandone la continuità e genuinità con l’annuncio quotidiano della parola di Dio, l’amministrazione dei sacramenti, l’orazione e la direzione spirituale.
Ai membri della Congregazione Filippo raccomandò di occuparsi in modo particolare dei giovani con l’organizzazione di iniziative adatte per loro. Si sviluppò così in forma definitiva l’Oratorio Giovanile o «Congregatione de’ Giovani», la prima istituzione giovanile promossa dalla Congregazione filippina e nata in seno all’Oratorio con una sua struttura, orientata a favorire il protagonismo dei giovani nella loro formazione umana e cristiana.
3. La metodologia pastorale
La metodologia dell’azione pastorale di Filippo aveva sostanzialmente le stesse movenze sia che trattasse con i giovani che con gli adulti. Tutto prendeva inizio dall’incontro cordiale con le persone, dalla creazione di un clima di familiarità e dal tentativo di entrare in un rapporto di reciproca confidenza, evitando ciò che poteva causare imbarazzo, timore o senso di superiorità. Costruita la «buona atmosfera», seguiva il momento dell’ascolto, della conoscenza e della comprensione dell’interlocutore e dei suoi problemi. Quindi Filippo interveniva per chiarire, correggere ciò che doveva essere corretto, risolvere le angustie, presentare gli aspetti gioiosi e, nello stesso tempo, esigenti della vita cristiana e animare al bene, ma sempre con grande spirito di adattamento e disinvoltura, dolcezza e discrezione.
Riteneva che il segreto della fedeltà agli impegni cristiani non consistesse tanto nel comando o nel rimprovero, quanto nell’aiutare il soggetto a creare profonde convinzioni, capaci di giustificare le proprie scelte al servizio di Dio e del prossimo, anche quando queste dovessero significare un «cambio di rotta» nella vita. Le sue richieste non oltrepassavano i limiti del «senso comune». Infine, conquistata la fiducia dell’interlocutore, cercava di stringere con lui un vincolo di sincera e duratura amicizia per sostenerlo come amico e padre amoroso nel cammino della santità. Nella sua azione pastorale Filippo era dunque incline a partire dalle «relazioni umane». Solo dopo aver ispirato confidenza nell’animo dell’interlocutore per mezzo dei contatti umani dava il via ai colloqui spirituali, che avevano sempre l’intento di ricostruire la vita del cristiano dall’interno con il rinnovamento della mentalità, dei sentimenti e dei costumi d’accordo con le esigenze evangeliche. Quali i principali strumenti di cui si servì Filippo per promuovere questo rinnovamento? La confessione, la direzione spirituale, la preghiera, l’amore all’eucaristia, la parola di Dio e la pratica delle opere di misericordia corporali e spirituali.
Filippo fu un convinto promotore della confessione, cui dedicava parte delie ore diurne e anche notturne. La considerava un mezzo indispensabile per favorire la crescita della vita interiore. Pur avendo incontrato oppositori al suo modo di facilitare la confessione ai fedeli, egli tuttavia si attenne alla regola di non spezzare «una canna incrinata», né di spegnere «uno stoppino dalla fiamma smorta» (Is 42,2-7). Appena stabilito un rapporto di fiducia con il penitente, Filippo lo introduceva in una vera e propria direzione spirituale, che mirava a penetrare sempre più a fondo nella coscienza dell’interlocutore, per renderlo docile alle mozioni dello Spirito nel rispetto della più libera spontaneità di adesione dell’interessato.
Ai suoi penitenti Filippo raccomandava la «preghiera frequente», e quando tale esercizio dovesse stancare, consigliava almeno la recita di brevissime giaculatorie. Il suo ardore per l’eucaristia lo portava a raccomandare ai penitenti di partecipare alla santa messa e di comunicarsi secondo gli opportuni suggerimenti che dava loro. Era solito consentire la celebrazione ogni giorno e la comunione quotidiana ai suoi più stretti seguaci. Più spesso consigliava la comunione settimanale, per timore che l’assuefazione alla comunione quotidiana potesse nuocere alla preparazione necessaria per una fruttuosa recezione dell’eucaristia. Fu anche opera sua se in Roma si diffuse la devozione al sacramento dell’altare mediante l’esposizione che veniva fatta ogni prima domenica del mese, ogni anno nella settimana santa e durante le Quarantore. Filippo, che fin dalla sua giovinezza era stato un assiduo uditore della parola di Dio, fece di quest’annuncio una delle attività principali di tutta la sua vita e delle sue varie istituzioni. I suoi sermoni erano brevi, semplici, familiari, accessibili ad ogni categoria di persone, capaci di commuovere e di convertire. Prendevano lo spunto dalla parola di Dio, venivano intercalati da letture riguardanti la fede e i costumi e comprovati da fatti desunti dalle vite dei santi. Questo tipo di predicazione quotidiana, inaugurata e promossa da Filippo con il suo Oratorio, si diffuse non solo a Roma ma in tutta Italia e altrove. Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, ordinò ai suoi Preti Oblati di predicare come si faceva all’Oratorio di Roma.
Le costituzioni della Congregazione degli Scolopi prescrissero di usare la forma di eloquenza, adottata dai Padri dell’Oratorio alla Vallicella. Vincenzo de’ Paoli raccomandò ai suoi preti missionari di ispirarsi alla predicazione filippina.
L’azione pastorale di Filippo non mirava soltanto a riportare le persone a Dio nella maniera più libera e familiare, ma le stimolava anche a crescere nell’amore verso il prossimo con l’esercizio delle opere di misericordia corporali e spirituali, termini con i quali allora si faceva quello che noi intendiamo oggi con l’espressione «promozione umana e cristiana». Le parole, i consigli e i suggerimenti di Filippo avevano lo scopo di introdurre i suoi discepoli in un impegno perseverante di autenticità cristiana, che richiamasse, nella sua sostanza, all’esperienza religiosa e fraterna della Chiesa delle origini.
L’epicentro dello zelo pastorale di Filippo è consistito nella volontà di creare comunità di persone in cammino verso la celeste Gerusalemme, nelle quali tutti si riconoscessero figli di un unico Padre e fratelli tra loro in Cristo, sostenuti da un concreto amore reciproco. Nel compimento di questo suo apostolato, egli rivelò una «singolare tenerezza di carità» verso il prossimo, una permanente letizia di spirito soffusa di dolcezza e di mistico ardore, la ricerca e l’attuazione della semplicità evangelica, e la prevalenza data alle mortificazioni interiori su quelle esteriori, confermando ancora una volta che il santo non distrugge ma eleva mediante la grazia la realtà umana e naturale e la pone al servizio di Dio e dei fratelli.
Con le sue comunità autonome di sacerdoti e di laici, diffuse in Europa, nell’America Latina e negli Stati Uniti, la Congregazione dell’Oratorio continua a operare al servizio delle Chiese particolari con una molteplicità di iniziative pedagogiche, culturali, ricreative e pastorali.
Bibliografia
Fonti
Il primo processo per San Filippo Neri nel Codice Vaticano Latino 3798 e in altri esemplari dell’Archivio dell’Oratorio di Roma, edito e annotato da G. Incisa della Rocchetta e N. Vlan, con la collaborazione del p. C. Gasbarri d.O. (Studi e Testi), voll. 4, Biblioteca Apostolica vaticana, Città del Vaticano 1957-1963; Instituto della Congregatione dell’Oratorio. Trattato del p. A. Talpa sulle origini e sul significato dellTstituto della Congregazione dell’Oratorio, edito a cura di G. Incisa della Rocchetta, Oratorium, Romae. ANN. IV. S.I.-N.N. l.-Jan.-Jun. 1973, pp. 5-37.
Studi
Angilella G., Intuizione ed esperienza educativa nell’apostolato di S. Filippo Neri, Tipografia Giordano, Pisa 1957; Cistellini A., San Filippo Neri e la sua patria, in «Rivista di Storia della Chiesa in Italia» 23(1969) 1, pp. 54-119; Id., S. Filippo Neri e la spiritualità dell’Oratorio, in «Le grandi scuole della spiritualità cristiana», a cura di E. Ancilli, Ed. O.R., Milano 1984, pp. 502-517; Gasbarri C., Filippo Neri nelle testimonianze dei contemporanei, Città Nuova Ed., Roma 1974; Mengarelli A., La metodologia nell’azione pastorale di S. Filippo Neri (parte della tesi), Pontificia Universitas Lateranensis, Roma 1974; Ponnelle L. - L. Bordet, S. Filippo Neri e la società romana del suo tempo (1515-1595), trad. dal francese di T. Casini, Libreria Ed. Fiorentina, Firenze 1986; Venturoli A., S. Filippo Neri. Vita, contesto storico e dimensione mariana, Ed. Piemme, Casale Monferrato 1988.