VOLONTARIATO

VOLONTARIATO

Giancarlo Denicolò

 

1. Volontariato oggi

1.1. Una definizione operativa

1.2. Diffusione e tipologia

2. Volontariato e società

2.1. La crisi del Welfare State

2.2. I nodi del volontariato oggi

3. Il volontariato giovanile

3.1. Le radici culturali del volontariato giovanile

3.2. Quale volontariato giovanile?

4. Itinerario educativo al volontariato per un gruppo di adolescenti

4.1. Un punto di partenza e l’obiettivo

4.2. L’itinerario

4.2.1. Dalla ricerca di calore al lasciarsi coinvolgere nel gruppo

4.2.2. Dal lasciarsi coinvolgere nel gruppo alla fedeltà al caldo del gruppo

4.2.3. Dalla fedeltà al gruppo alla solidarietà gratuita con la sofferenza

4.2.4. Dall’incontro con la sofferenza alla scelta di un campo di intervento

4.2.5. Dalla scelta di un campo di intervento ai primi passi nel volontariato

4.2.6. Dal volontariato educativo al volontariato adulto

 

Da tempo ormai il volontariato ha acquistato grande rilevanza sociale e culturale. La sua identità e funzione, il suo significato, la novità che esso racchiude come «terzo spazio» che prefigura un ambito nuovo oltre la vecchia dicotomia pubblico-privato, sono state ampiamente analizzati, definiti, legittimati. A livello istituzionale gli si riconosce il diritto a rappresentare, accanto ad altre istituzioni, una corretta modalità di analisi delle domande emergenti dal territorio e dai soggetti sociali e di risposta alle stesse; a livello sociale e culturale un’originale coniugazione di solidarietà, partecipazione, offerta di qualità della vita; a livello individuale un ricco modo di impiego del «tempo libero» e di espressione dell’identità personale.

La consistente risposta giovanile attraverso il volontariato a forme diversificate di solidarietà ne lascia intravedere la capacità di saldare nella soggettività giovanile stessa identità personale e valori sociali, la funzione socializzante e aggregativa, un modo concreto di rendere visibile, operante e verificabile la dimensione di fede nella vita del credente. Senza sottacere problemi e ambiguità soprattutto nella «versione giovanile» del volontariato, si tende oggi a vedere con chiarezza l’importanza di forme di volontariato educativo, capace cioè di coniugare in forme nuove le esigenze tipiche del volontariato (adulto e vissuto da «adulti») e le esigenze giovanili legate alla loro cultura e modo di essere (precario, di attesa) nella società.

Il volontariato diventa così un «tema generatore», in quanto modo di vivere, di socializzare, di «progettare», di inventare il futuro, capace di costruire sul frammento e di «tirare» nuovi temi (sia legati alla soggettività che alla dimensione della solidarietà e — perché no? — della trascendenza) in un allargamento continuo e approfondente.

Ed è soprattutto da questo punto di vista — del volontariato educativo giovanile — che analizziamo questo fenomeno, pur riconoscendo che non può essere ridotto a questo, e che i problemi di esso, oggi, si collocano essenzialmente a livello di rapporto con le istituzioni e di legittimazione sempre meno formale di quello spazio (il terzo spazio) tra pubblico e privato che esso si è saputo conquistare.

 

1. Volontariato oggi

1.1. Una definizione operativa

Una migliore comprensione del ruolo, forma e contenuti del volontariato ha ormai permesso di evidenziare alcuni tratti dell’identikit di questo «spazio-impegno» di solidarietà sociale, sia che si svolga come azione singola che in gruppi o associazioni. Attraverso la sottolineatura di alcune caratteristiche essenziali che permettono differenziazioni da altre forme di impegno sociale, la definizione più completa e chiara può risultare la seguente.

«Volontario è il cittadino che liberamente, non in esecuzione di specifici obblighi morali o doveri giuridici, ispira la sua vita — nel pubblico e nel privato — a fini di solidarietà. Pertanto, adempiuti i suoi doveri civili e di stato, si pone a disinteressata disposizione della comunità, promovendo una risposta creativa ai bisogni emergenti dal territorio con attenzione prioritaria per i poveri, gli emarginati, i senza potere. Egli impegna energie, capacità, tempo ed eventuali mezzi di cui dispone, in iniziative di condivisione realizzate preferibilmente attraverso l’azione di gruppo. Iniziative aperte a una leale collaborazione con le pubbliche istituzioni e le forze sociali; condotte con adeguata preparazione specifica; attuate con continuità di interventi, destinati sia a servizi immediati che alla indispensabile rimozione delle cause di ingiustizia e di ogni oppressione della persona» (L. Tavazza).

Vengono in questa definizione sottolineati alcuni aspetti che formano come l’ossatura di una corretta concezione del volontariato, almeno come si è evoluto negli ultimi anni:

— la sua dimensione politica di lotta per la rimozione delle cause di povertà, emarginazione;

— la sua funzione liberatoria non riparatoria, per una piena valorizzazione della dignità della persona umana nei suoi diritti fondamentali;

— l’abbandono di ogni forma di concorrenzialità con lo stato e le sue strutture democratiche (assumendo così di volta in volta funzioni e ruoli di integrazione, di umanizzazione, di stimolo e denuncia, di verifica...);

— la sua concezione etica di stile globale di vita, non di impegno marginale;

— la qualificazione dell’intervento data dalla vera capacità di condivisione;

— la volontà di misurarsi nelle situazioni concrete;

— la gratuità e la scelta di campo del «più povero»;

— l’opportunità di collegarsi con tutte le forze sociali impegnate nelle medesime finalità;

— la scelta preferenziale dell’impegno di gruppo che garantisce continuità e confronto;

— il grande variare dei campi di intervento.

1.2. Diffusione e tipologia

La ricerca più recente e completa (almeno per quanto riguarda il contesto italiano) è quella di Colozzi-Rossi (1983), sui gruppi locali di volontariato: ne vengono rilevati alcuni aspetti quantitativi e qualitativi che è utile qui ricordare (anche se non si tratta di una ricerca condotta sull’universo o su un campione perfettamente stratificato).

Dai dati relativi agli oltre 7000 gruppi locali inchiestati, risulta anzitutto che il fenomeno del volontariato ha una capillare diffusione su tutto il territorio nazionale (1 volontario ogni 89 persone residenti), ma tale distribuzione non è uniforme: l’intensità maggiore è al Nord-Est e al Centro (1 a 67) rispetto al Nord-Ovest (1 a 105), Sud (1 a 109) e Isole (1 a 136). Nel Sud e nelle Isole però i dati mostrano una tendenza alla crescita numerica dei volontari e del tempo offerto, nonché l’espansione delle attività e dei servizi; mentre al Nord si assiste a un calo della capacità aggregativa soprattutto giovanile: per cui si può ipotizzare a breve scadenza un mutamento radicale della geografia del volontariato in Italia. Questo dato potrebbe — per quanto riguarda i gruppi giovanili — porre il problema del rapporto (del nodo): disoccupazione-volontariato, del volontariato dunque come spazio di attività per riempire il vuoto di lavoro, come surrogato di un tempo forzatamente libero.

Fra le tante tipologie possibili per illustrare-classificare i dati offerti, particolarmente interessante può risultare quella che — sulla base della «forma istituzionale» — distingue tra gruppi informali veri e propri, semiformalizzati (associazioni di fatto, cooperative) e formalizzati (associazioni legalmente riconosciute, fondazioni e confraternite).

Le principali caratteristiche di tali gruppi vengono qui descritte distinguendo per i singoli raggruppamenti tre aree tematiche: dinamica interna, rapporti con l’esterno, attività.

1. Gruppi informali.​​ Sono il 19% del totale, e quasi il 70% di dichiarata ispirazione religiosa.

Caratterizzati da piccole-medie dimensioni (non oltre i 50 soggetti), prendono decisioni in modo diretto, assembleare, che coinvolgono tutti i membri. Non infrequente è la presenza di un leader a cui il gruppo fa riferimento. La funzione del gruppo è anche socializzante e formativa, in quanto prevede non tanto l’acquisizione di competenze settoriali, quanto di attività formative vere e proprie, tenendo conto della componente pressoché totalmente giovanile della maggior parte di tali gruppi. La preferenza «giovanile» (anche se non totalmente giovanile) per questi tipi di gruppi si può spiegare o come gusto generalizzato per forme di vita libere e flessibili, fortemente interattive e partecipate, o come tappa di passaggio quasi obbligata verso l’azione volontaria più strutturata e formalizzata successiva.

Per quanto riguarda il rapporto con l’esterno, il gruppo «informale» si caratterizza per una certa chiusura, difficoltà di coordinamento con gli altri gruppi e di rapporto con l’ente pubblico.

Quanto alle attività, tali gruppi tendono ad operare in un solo settore (monovalenza): il più diffuso è quello socio-assistenziale, seguito dall’animazione culturale e difesa ambientale; in forme di servizi che vanno dall’assistenza domiciliare e sociale, a quella residenziale in case di cura, ospedali, istituti: interventi che non richiedono alti livelli di professionalità tecnica, quanto disponibilità e apertura all’altro.

Circa il tempo offerto, accanto a forme di tempo pieno si rileva prevalentemente la percentuale di circa 5 ore di servizio settimanali.​​ 

2.​​ Gruppi semiformalizzati.​​ Fenomeno peculiare degli anni ’80, essi comprendono essenzialmente le associazioni di fatto e le cooperative, che hanno costituito una nuova forma di intervento di volontariato stabilizzando forme più o meno saltuarie. La loro ispirazione prevalente è religiosa nelle associazioni di fatto, laico-umanitaria a-confessionale nelle cooperative.

Quanto alla dinamica interna, la maggior parte di essi è di dimensioni abbastanza ridotte (20 aderenti di massima), con forme di struttura decisionale complessa che evidenziano la presenza di modelli di partecipazione democratica alle decisioni di gruppo. Grande è l’interesse per la formazione dei volontari, sia gestita dal gruppo che da tecnici-esperti. Un’ipotesi interpretativa della prevalente diffusione negli anni ’80 di tali gruppi (negli anni cioè successivi al boom dei gruppi informali) lascia intravedere la prevalente funzione di «sbocco istituzionale» assunta per molti giovani dei gruppi informali, consentendo un intervento più organico e strutturato nel servizio volontario, pur conservando alcune forme di informalità.

La presenza di adulti è prevalente nelle associazioni di fatto, mentre nelle cooperative la quota adulti-giovani è pressoché pari. L’impegno nelle cooperative per molti giovani si è trasformato in una forma di servizio in parte gratuito e in parte retribuito, venendo così a creare una figura interessante e pur ambigua di giovane volontario, che nel campo della cooperazione riesce a sottrarsi all’esperienza della disoccupazione.

Il coordinamento effettuato con altre esperienze volontarie e il collegamento con il movimento federativo indicano il maggior grado di apertura all’esterno e di collaborazione, almeno da parte delle associazioni, mentre invece appare carente il rapporto con l’ente locale, che diventa caratteristica precipua delle cooperative (mediante la forma della convenzione) assieme al carattere più localistico e micro-sociale.

Quanto alle attività promosse, il campo di intervento delle associazioni di fatto è pressoché globale, soprattutto mediante servizi di carattere assistenziale, culturale, di difesa ambientale; per le cooperative prevale invece la caratterizzazione socio-assistenziale e culturale, con netta prevalenza per l’area della tossicodipendenza (con utenza quindi in gran parte giovanile).

3.​​ Gruppi formalizzati.​​ Sono quei gruppi che hanno acquisito una forma istituzionale «forte» in associazioni legalmente riconosciute, confraternite, fondazioni, all’interno delle quali l’azione volontaria assume una caratterizzazione insieme flessibile e stabile. L’ispirazione dichiarata è in genere laico-umanitaria a-confessionale. Quanto alla dinamica interna, le dimensioni dei gruppi sono grandi e complesse, con gruppo di dirigenza e strumenti di rappresentatività tipici di organismi con considerevole tradizione storica, e vari gradi interni di istituzionalizzazione. Il buon livello di interazione e scambio di informazioni è garantito da riunioni periodiche. Pur venendo storicamente anche da lontano, è tipico degli anni ’80 una accentuazione giuridica per la garanzia e tutela del proprio servizio, specialmente là dove esso è svolto come supplenza totale del pubblico. La strutturazione complessa, l’utilizzo di lavoratori dipendenti come supporto di garanzia, l’impegno in settori particolari come la protezione civile, fanno sì che l’attività volontaria sia condotta quasi esclusivamente da adulti.

Quanto ai rapporti con l’esterno, l’adesione a federazioni (da regionali a internazionali) è largamente diffusa, così come il coordinamento con gruppi operanti nella stessa zona o settore di attività. Notevoli sono anche i rapporti continuati e formalizzati con l’ente pubblico (intese, contratti, convenzioni); tuttavia la forma principale di sovvenzione è una combinazione di finanziamento esterno e autofinanziamento da parte dei soci stessi.

Le attività sono ad ampio raggio e i servizi offerti molto diversificati: nel campo sanitario, in quello della protezione civile, che esigono alto livello di competenza e professionalità. Un’azione che si svolge prevalentemente all’interno di grandi unità geografiche.

 

2.​​ Volontariato e società

A partire dagli anni ’70 il volontariato esplode come fenomeno sociale, in cui la presenza di gruppi e soggetti sociali impegnati in una miriade di iniziative e di offerte di servizio nei settori più disparati viene riconosciuta, accettata, valorizzata. L’approfondimento culturale successivo e il dibattito sull’identità del volontariato stesso accompagnano tale presa di consapevolezza e sono sollecitati dall’esigenza di crescita, di differenziazione, di chiarezza.

 

2.1. La crisi del Welfare State

L’esperienza sociale che in parte ha sollecitato, in parte ha «guidato» l’esplosione del volontariato è la crisi della società degli anni ’70, in quella forma particolare tipica dei Paesi occidentali che è denominata «Welfare State» o stato del benessere. Il volontariato diventa fenomeno sociale rilevante di solidarietà e partecipazione quando percepisce di poter essere risposta al «sovraccarico di domanda sociale» a cui le strutture del pubblico non sono in grado di rispondere.

Per Welfare State si intende un sistematico intervento pubblico, anche decentrato (sia nei settori della sanità, della previdenza e dell’assistenza, sia nei settori dell’istruzione, dell’edilizia popolare e di quant’altro essenziale alla vita), rivolto a tutti in previste condizioni di bisogno, e finanziato attraverso l’imposizione personale diretta e progressiva e attraverso contributi dei lavoratori interessati e delle imprese.

Lo caratterizzano essenzialmente (rispetto per esempio allo stato assistenziale e sociale) l’universalismo delle prestazioni e la sistematicità e interdipendenza delle stesse.

Tale attuazione dei sistemi pubblici di sicurezza sociale e di servizi per il benessere è certamente un grande progresso civile e umano, perché dà corpo alla «sostanza sociale» del diritto di cittadinanza (pensioni, cure sanitarie, solidarietà collettive verso i poveri...). Non per nulla il consenso sul mantenimento di questi diritti sociali è pressoché universale, nell’Europa comunitaria, anche se vengono rilevati — in certe forme di eccessiva espansione della spesa pubblica di welfare per ragioni di consenso elettorale ai partiti e di accordi neo-corporativi dello stato con le forze sociali — ostacoli per la ripresa economica e carenza di controlli sull’efficacia ed effettiva difesa dei diritti degli ultimi.

Le prime imputazioni di crisi del Welfare State non sono — come si è tentato di far credere — prima di tutto la crisi economica internazionale post-73-74 e la connessa crisi finanziaria degli Stati nazionali più espansivi in fatto di intervento pubblico. Sono piuttosto — a metà degli anni ’60 — dubbi e contestazioni circa l’efficacia universalistica delle prestazioni, specie nei confronti della povertà, miseria ed emarginazione.

Viene scoperta in questi anni da osservatori e operatori sociali — proprio nelle nazioni a più ricco sviluppo economico — la persistenza della povertà e della miseria. Al crescere della spesa pubblica di Welfare State non hanno corrisposto progressi proporzionati nella lotta alla miseria, alla emarginazione sociale, alla povertà, quanto piuttosto maggiori benefici e potere a vantaggio delle persone di ceto medio, più asimmetrie tra operatori e cittadini, meno qualità umana della cura, più industrializzazione della medicina. Si aggiunga — dal punto di vista della personalizzazione, cioè della qualità del servizio — che essa è spesso soffocata dall’elefantiasi burocratica, dalla freddezza dell’anonimato, dalla passività e massificazione indotte dalla maggior parte dei servizi pubblici.

Un’altra critica che ha cominciato a farsi strada già dalla seconda metà degli anni ’60 è che rimpianto centralistico e specialistico dello stato del benessere risulta sempre meno atto a combattere in positivo le nuove forme di povertà da handicap psichici, da solitudine involontaria — specie in anziani —, da perdita di senso della vita o da tossicodipendenza: nuovi bisogni che nel corso degli anni ’70 si sono diffusi a fasce sempre più ampie di popolazione, bisogni che non è facile immediatamente cogliere, interpretare, darvi risposta. Sono le cosiddette «nuove povertà» di una società post-industriale che si aggiungono alle vecchie, sempre persistenti e talvolta anche aggravantisi. Per riconoscerle viene oggi utilizzato il costrutto di doppia natura — assoluta e relativa — dell’emarginazione sociale, povertà, handicap. Oggi, si afferma, si ha a che fare con misure sempre meno assolute di miseria e povertà, e sempre più legate a un contesto, a una «posizione», indipendentemente dal soddisfacimento dei bisogni essenziali alla vita biologica.

Un terzo elemento di critica viene sottolineato dall’accettazione di una nuova «filosofia del sociale», che in una formula si può riassumere come passaggio «dal Welfare State alla Welfare Society», cioè come passaggio dal politico al civile, al sociale, come rifiuto di uno stato onnicomprensivo e garantista, che tutto assorbe, pianifica, dirige. È un nuovo modello di cultura dello stato che rifiuta la pretesa di conferire solo al pubblico statale la prerogativa di unico agente di mutamento sociale. Vengono rimessi al centro i soggetti sociali (individui, gruppi, associazioni) con la loro soggettività e capacità di responsabilizzazione, azione, dono. Accanto a questa «filosofia» si può collocare anche quella ricerca collettiva di un nuovo modo di essere, di nuovi significati e della nuova qualità della vita, dentro cui è possibile sperimentare solidarietà, portatrice di senso personale, oltreché collettivo.

Questo è stato il terreno, l’humus dentro il quale hanno trovato spazio e legittimità nuove forme di presenza e di intervento, tra cui il volontariato.

Il volontariato si viene dunque a porre come uno degli spazi più innovativi e fecondi all’interno del quale la società riscopre il terreno della solidarietà, della partecipazione, della responsabilità, della riscoperta della qualità della vita, del ricupero dei valori della persona. In una parola, di un nuovo senso tra gli spazi del privato sociale.

 

2.2. I nodi del volontariato oggi

Tutto ciò è tanto più vero quanto maggiormente vengono individuati e risolti i nodi all’interno dei quali si muove oggi il volontariato (e che tra l’altro risultano i grandi temi del dibattito attuale, come rileva ad esempio la Conferenza Nazionale di Assisi del marzo 1988).

Tralasciamo quelli più direttamente legati al rapporto con le istituzioni, al collegamento con le altre organizzazioni di volontariato, all’individuazione dei campi in cui l’opera volontaria diventa veramente innovatrice e profetica, alla formazione interna dei membri (non soltanto «professionale»). Evidenziamo piuttosto​​ il​​ nodo costante: l’identità del volontariato, che ormai un’abbondante letteratura indica nel rapporto tra pubblico e privato, tra la sfera istituzionale e la sfera del «mondi vitali», così come si è venuto delineando e sviluppando alTinterno della società odierna.

Tale rapporto può essere configurato in maniera del tutto distorta: o nel senso della liquidazione del pubblico in una somma puramente materiale di tutti i privati, o nell’assorbimento totale del privato nel pubblico, o infine nella rigida separazione tra pubblico e privato: sono le tre posizioni «classiche» del liberalismo, del marxismo e del neofunzionalismo.

In Italia — così notano gli studiosi — ci si sta avviando verso quest’ultima forma di rapporto. La crisi dello stato del benessere va dunque interpretata come assenza di comunicazione tra sistema pubblico-istituzionale e area del privato, la sfera cioè dei mondi vitali. In questa situazione vien dunque a mancare quella forma di controllo che dovrebbe venire dal basso, là dove la domanda sociale si formula e dove le risposte e i servizi dovrebbero ricadere.

In assenza di un sufficiente sistema di comunicazione tra le due sfere, il Welfare State è necessariamente indotto a interpretare unilateralmente il proprio rapporto con la sfera dei mondi vitali. Ciò avviene generalmente attraverso i due meccanismi della pubblicizzazione del privato e della privatizzazione del pubblico: in forza del primo meccanismo si tende da parte dello stato all’appropriazione delle domande e dei bisogni, con un atteggiamento di onnipervasivo garantismo, che a lungo andare provoca lo svuotamento della giusta autonomia dei mondi vitali, la deresponsabilizzazione, l’insofferenza e da ultimo la mercificazione totale degli stessi bisogni e delle risposte che si danno loro; in forza del secondo meccanismo si avvia un processo irreversibile di burocratizzazione e lottizzazione dei servizi pubblici che genera necessariamente l’incapacità a far fronte alle domande reali del sistema.

La soluzione di questi problemi sembra allora definirsi come «ripristino di una migliore relazione tra pubblico e privato, che abbia caratteri di una transazione aperta e dinamica, permanente e articolata, tale cioè da presupporre e valorizzare l’irriducibilità e l’originalità e del pubblico e del privato» (G. Milanesi). Attraverso questa restituita capacità di comunicazione tra le due sfere dovrebbe essere possibile il processo di ridefinizione del concetto stesso di benessere, da realizzarsi non solo dall’alto ma anche dal basso, non solo sulla base di indicatori obiettivi ma anche sulla base di istanze soggettive, in modo che il pubblico sia sempre meno autoritario e corporativistico, e il privato sempre più vivace, efficace, disposta al confronto, capace di gestire non solo le proprie domande ma anche di produrre servizi autogestiti a esplicita valenza sociale.

Qui allora si percepisce la funzione del volontariato, il luogo dove si gioca la sua validità e legittimità, in una parola la sua identità: come realtà di confine, anzi cerniera tra pubblico e privato, espressione della capacità del privato di partecipare all’autoregolazione del sistema «aspettative-risposte» e soprattutto espressione di un privato-sociale da affiancare al pubblico in funzione integratrice e non sostitutiva. Il volontariato allora si pone come la terza dimensione emergente tra pubblico e privato, proprio perché sembra in grado di gestire il privato sociale, cioè quella serie di iniziative che hanno come oggetto non solo l’attivazione della coscienza dei propri diritti, ma anche la disposizione a partecipare direttamente all’uso e alla gestione dei servizi che sono destinati al benessere collettivo.

 

3.​​ Il volontariato giovanile

Il volontariato vero e proprio è compito dell’adulto. Quello giovanile è da molti considerato un volontariato «anomalo», perché l’adolescente e il giovane non sono in grado di garantire un servizio che richiede competenza, capacità di scelte mature e impegnative, continuità, resistenza al dolore, tempi lunghi: essi sono invece ancora concentrati nella lotta per definire la loro identità in una società complessa. Preferiamo parlare, nei loro riguardi, di «volontariato educativo», cioè di un’esperienza concreta che, mentre è di aiuto gratuito alla lotta contro la povertà e l’emarginazione, è anzitutto luogo di maturazione dell’identità umana e cristiana dei giovani.

Bisogna tuttavia riconoscere che — pur con queste precisazioni che riprenderemo in seguito — i giovani occupano all’interno delle diverse forme di volontariato un posto rilevante, sia sotto il profilo quantitativo (prevalentemente nelle forme dei gruppi «informali» e «semiformalizzati», secondo la tipologia proposta), sia in rapporto alla qualità delle motivazioni che ne caratterizzano le scelte e l’impegno.

 

3.1. Le radici culturali del volontariato giovanile

La crescita di interesse verso il volontariato evidenziata in molte ricerche sui giovani può essere collegata, almeno per una minoranza di essi, con il fatto che in molti casi esso si mostra come una esperienza capace di collegarsi ad alcune istanze culturali presenti nel mondo giovanile.

La cultura dei giovani si caratterizza oggi per un imprevedibile cocktail di tratti provenienti dalla cultura adulta e di tratti provenienti da una pluralità di subculture, i cui ingredienti di fondo, comuni a più scelte e esperienze, possono essere ricondotti ai seguenti.

Un primo ingrediente è la dilatazione della soggettività, cioè un’attenzione privilegiata per i problemi che riguardano l’esperienza di ciascun individuo. Si tratta certamente di una forte reazione ai vari tentativi di espropriazione della persona negli anni ’70 (gli anni della «liberazione politica») e di una reazione alla marginalità che i giovani oggi sperimentano. Reazione che certamente si inserisce nel quadro di istanze culturali più generali presenti nel nostro paese, a connotazione garantistica e consumistica, carente di speranza e di progettualità, ma che esprime anche — al positivo — un forte senso della concretezza e quotidianità, un distanziamento critico dalle ideologie totalizzanti, la capacità all’uso di strumenti più complessi di analisi della realtà, la possibilità di scegliere tra una pluralità di proposte. Nell’insieme si configura dunque come una istanza indilazionabile di restituire senso alla vita individuale e di rifondarne la qualità essenziale. Diverse sono le strade che può imboccare questa attenzione privilegiata alla soggettività da parte dei giovani, dal mero individualismo consumista alla rinnovata esigenza di personalismo. Ed è appunto in quest’ultima direzione che possono saldarsi — per una minoranza di giovani — soggettività personalistica e volontariato: nella riscoperta dei grandi temi del significato individuale e collettivo dell’esistenza, della priorità delle grandi questioni concernenti la qualità della vita per l’umanità intera. È qui che matura una disponibilità a gestire la domanda non in termini individualistici, rivendicativi, ma comunitari, promozionali. Il volontariato può costituire allora per questi giovani il luogo in cui saldare bisogni espressi dalla loro soggettività con un contenuto capace di esprimere una valenza sociale.

Una seconda componente del cocktail culturale dei giovani va ricercata nella riscoperta problematica delle istituzioni e della politica. Dopo aver a lungo parlato della disaffezione dei giovani per il politico, oggi le posizioni si sono fatte più sfumate: il rifiuto radicale dell’impegno politico riguarda infatti solo le forme totalizzanti, dogmatiche e utopiche. C’è un modo dimesso ma concreto di far politica, come attenzione ai problemi emergenti dal quotidiano, intervento nel territorio limitato ma concreto e operativo, disponibilità a interazioni nella trama del vissuto sociale, propensione a lavorare in piccole aggregazioni non burocratizzate. Anche il rifiuto delle istituzioni è, per certi versi, superato nella misura in cui servono alla formazione della propria identità e a fornire risposte alle proprie contraddizioni.

Il volontariato, rispetto a questo secondo «ingrediente», si offre come «mediazione» tra personale e politico, tra ricerca di identità e disponibilità a una nuova transazione col sistema sociale, e dunque come luogo in cui esigenze personali e attenzione al pubblico si saldano e si integrano.

Un terzo ingrediente è l’atteggiamento di differenziazione delle scelte: e cioè la moltiplicazione illimitata di appartenenze, interessi e iniziative, senza attribuire a nessuna di esse un carattere di totalizzazione e di definitività, tendendo caso mai a relativizzare ogni esperienza e impegno. Non è difficile vedere la ragione ultima di tutto ciò nelle caratteristiche di estrema differenziazione dello stesso sistema sociale italiano e nelle difficoltà obiettive della condizione giovanile nella nostra società. Tale atteggiamento e pratica di differenziazione non solo viene utilizzata come meccanismo di adattamento alla frustrazione sociale, ma è anche causa immediata della scarsa progettualità presente nei giovani oggi: si progetta poco e si cerca di vivere alla giornata, le grandi decisioni e opzioni fondamentali vengono rimandate, scarsa è la propensione a assumersi responsabilità nella partecipazione.

È certamente alto il rischio della dissociazione. E ciò rende maggiormente significativo il fatto che esistano, nonostante ciò, giovani che si impegnano e scelgono: una minoranza, difficilmente quantificabile, ha trovato una soluzione al rischio della disgregazione personale affidandosi al rischio del coinvolgimento. Nella scelta di impegno di volontariato si vuole affermare che è possibile opporsi alla disgregazione, vivendo o convivendo sì con la crisi e con la frammentazione dell’esperienza, ma cercando anche di trovare un senso all’esistenza per sé e per gli altri.

 

3.2. Quale volontariato giovanile?

A fronte dell’affinità quasi «elettiva» tra alcuni tratti del mondo culturale giovanile e il volontariato, permangono tuttavia esigenze di un volontariato maturo che poco si confanno ad alcune modalità tipiche dell’esperienza giovanile, ed evidenziano le obiettive contraddizioni di un volontariato (come quello giovanile) perlopiù esercitato in condizione di precariato occupazionale, di marginalità sociale, di incertezza psicologica.

Per cui, ancorché una certa minoranza di giovani ha operato questa scelta di impegno e di gratuità, la maggioranza non appare ancora matura per decidersi per il volontariato. Sottolineiamo soltanto due esigenze che sembrano decisive.

Anzitutto il volontariato si presenta come «impegno post-occupazionale», da praticare nel tempo libero da attività produttive e dalla vita familiare: esso quindi non vuole essere il sostituto alienante del lavoro che non c’è e nemmeno l’equivalente del lavoro nero o il sostegno dell’economia sommersa o l’anticamera del mercato del lavoro. E neppure una fuga dalla routine della responsabilità del proprio ruolo sociale. Si sa però che spesso il volontariato giovanile si tramuta nella fiera delle vane promesse e delle illusioni occupazionali, oppure si carica di tutte le tensioni provenienti da altri settori della vita privata, cui dovrebbe servire da polivalente valvola di sfogo. Per molti giovani — che non credono più al lavoro produttivo come luogo ideale e normale per assicurarsi un’identità personale — il volontariato rischia di servire da «realizzazione alternativa» con tutte le ambiguità e rischi che ne seguono, cioè come alternativa gratificante, luogo del lavoro che piace, del lavoro libero, del lavoro socialmente utile, e non invece occasione di arricchimento personale e di effettivo servizio alla comunità, al di là dell’attività produttiva e dei doveri di ruolo. Se si è fuori dal mondo del lavoro (e dunque o ancora «dipendenti» o non sufficientemente «sicuri», e dunque senza un minimo aggangio con la logica prevalente del pubblico), il volontariato difficilmente può da solo farsi carico dei problemi di sicurezza, autostima, identità soprattutto dei giovani.

La seconda «difficoltà» riguarda l’esigenza di continuità di intervento, come superamento delle iniziative sporadiche, carenti di vera programmazione e verifica, e che finiscono per illudere e deludere. Tutto questo non si confà molto alla limitatezza del tempo dei giovani, ma soprattutto alla loro tipica riluttanza a assumersi impegni di lunga durata e alla tendenza a non legare la propria identità e autorealizzazione a una sola esperienza, sia pur significativa.

È difficile sottrarsi dunque all’impressione che — pur riconoscendo la quantità notevole e la qualità di presenza dei giovani nel volontariato — questo può essere vissuto pienamente solo oltre l’età della naturale indecisione giovanile, o che esso è un’esperienza da riservare solo a una minoranza di giovani già maturi per scelte impegnative.

Accettato questo, riconosciamo pure che l’esperienza di volontariato in età giovanile non può che far maturare la coscienza e le motivazioni per un impegno-intervento continuativo. Il volontariato giovanile non può infatti esaurirsi in funzione di servizi e di animazione del sociale e del politico; deve anche svolgere, e necessariamente, una funzione educativa. Non solo di educazione umanistica e etica, ma più propriamente socio-politica. Un impegno nel volontariato può offrire a tutti i giovani uno stimolo a uscire dall’indifferenza e dalla rassegnazione, e soprattutto offre ai giovani più poveri di ragioni per vivere, un senso nuovo all’esistenza nel servizio alla comunità e ai più poveri, nel segno della condivisione, della partecipazione, della passione per le cose grandi. È in questo contesto e con questo significato «educativo» che il volontariato giovanile trova la sua legittimazione e insostituibilità, diventando il luogo della verifica dell’identità e dei valori attorno a cui essa si organizza: sapendo che dalla costruzione della propria identità l’impegno ritorna a una nuova partecipazione sociale e politica.

 

4.​​ Itinerario educativo​​ al volontariato​​ per un gruppo di adolescenti

Abbiamo considerato il volontariato giovanile come un volontariato «anomalo» in funzione prevalentemente educativa: un’esperienza concreta che, mentre è di aiuto gratuito alla lotta contro la povertà e l’emarginazione, è anzitutto luogo di maturazione dell’identità umana e cristiana dei giovani. Perché ciò avvenga, alcune attenzioni educative sono prioritarie: un lavoro serio di animazione culturale dei giovani e il sostegno di gruppi o associazioni-movimenti che garantiscano l’affidabilità delle iniziative e l’accompagnamento del giovane, l’individuazione di uno «spazio» in cui fare tale esperienza e un cammino educativo. Lo spazio adeguato è probabilmente la disponibilità giovanile alla solidarietà interpersonale, e l’incontro tra questa solidarietà e la sofferenza umana che richiede una risposta del tutto gratuita.

Sulla base di questa ipotesi evidenziamo, ripercorrendo un cammino tracciato dalla rivista «Note di pastorale giovanile» a cui rimandiamo, un itinerario educativo di gruppo per un volontariato nello stile dell’animazione. Lo pensiamo — come proposta esemplificativa — per un gruppo di adolescenti che vive nell’area dei gruppi ecclesiali.

 

4.1. Un punto di partenza e l’obiettivo

Come ricordavamo, si assiste oggi a un forte distacco tra mondi vitali e sistema sociale. Di fatto, per molti adolescenti, il sistema sociale è un luogo dove non si riconoscono, in cui i messaggi-informazioni sui problemi della società e del mondo non riescono a coinvolgere o rischiano di rendere angosciati o indifferenti per la impossibilità pratica di risolverli. Se dunque una forma di partecipazione al sociale può svilupparsi, per gli adolescenti non sarà perché prendono consapevolezza della complessità e urgenza dei problemi sociali, e neppure attraverso visioni ideologiche della realtà (l’ideologia dell’impegno collettivo per cambiare il mondo o quella del progresso, tecnologia, rivoluzione).

È soltanto attraverso un lungo cammino educativo che può aprirsi uno spazio per l’adolescente di oggi in cui riconoscersi e darsi un’identità che faccia spazio al volontariato e alla partecipazione sociale e politica.

Il punto di partenza sembra dunque essere un segnale debole ma continuo, manifestato dagli adolescenti, nella direzione della solidarietà, intesa come capacità di immedesimazione nell’altro e nella sua sofferenza, pagando gratuitamente il prezzo necessario per darvi una risposta. L’ambito vitale proprio — e dunque il luogo educativo — è il gruppo dei coetanei, dove appunto in modo intenso sperimentare e offrire solidarietà alla persona concreta, nel momento della sua sofferenza. In questa risposta solidale l’adolescente apprende che la gratuità del proprio gesto salva l’altro e insieme fa crescere la propria dignità. Nella solidarietà gratuita l’adolescente apprende poi lentamente la dura ascesi della fedeltà all’altro, del calore da offrire con continuità perché l’altro possa vivere, del servizio non occasionale ma fedele, della competenza come modo di realizzare il bene dell’altro.

 

4.2. L’itinerario

Individuato il punto di partenza e un luogo educativo, è possibile indicare anche un obiettivo generale nella direzione del volontariato e della solidarietà sociale. Esso si può così esprimere: abilitare gli adolescenti a riconoscere e lasciarsi compenetrare dalla solidarietà nei «mondi vitali», in particolare nel gruppo dei pari, in modo da consolidare legami personali che tengono nel momento in cui da qualsiasi parte s’avanza la sofferenza, e così apprendere a coinvolgersi nel darvi risposta gratuita, dentro la quale prendere atto della più grande lotta tra vita e morte che si svolge attorno a loro e parteciparvi usando le proprie forze a servizio dell’uomo. Per raggiungere questo obiettivo è necessario un lungo itinerario di gruppo, che indichiamo qui con alcune tappe da percorrere.

 

4.2.1. Dalla ricerca di calore al lasciarsi coinvolgere nel gruppo

Il primo momento dell’itinerario non sta nel richiamo degli adolescenti all’impegno e al servizio, né nel convincerli mediante analisi o teorizzazioni sui problemi della società e del mondo. Esso sta piuttosto nella sperimentazione concreta del gusto dello stare insieme, del legarsi agli altri, dell’accoglienza dell’altro nella diversità, della consapevolezza che lo «stare-con» è il modo più originale di definire lo stesso senso della vita. Solo quando l’adolescente ha sperimentato intensamente un clima di accoglienza disinteressata e calda, si apre agli altri ed è capace di «fusione» con altri soggetti e modi di vivere e pensare, soprattutto negli ambiti caldi del gruppo dei pari e nella relazione del gruppo con l’animatore. Questo sembra l’inizio percorribile della strada per arrivare al volontariato gratuito: e comporta un faticoso cammino che se da una parte abilita a non creare difese dagli altri e dalla loro «invasione», dall’altra chiede di preservare spazi di intimità, silenzio e dialogo interiore dove far risuonare i tanti messaggi che sono gli altri con la loro presenza.

Tocca all’educatore poi esorcizzare il rischio di non uscire dall’isolamento e dal narcisismo individualista.

 

4.2.2. Dal lasciarsi coinvolgere nel gruppo alla fedeltà al caldo del gruppo

11 coinvolgimento nel gruppo è fonte di esigenze e scelte per gli adolescenti, soprattutto quella di non tradire il gruppo e di pagare un prezzo personale perché il clima duri nel tempo e sia di aiuto alle persone nella loro singolarità e nei modi diversi in cui questo aiuto si può esprimere. Nasce così e si manifesta la solidarietà tra i membri del gruppo, caratterizzata dai rapporti di amicizia e dal tentativo di dare una risposta personale ai problemi degli altri. È una solidarietà che fa sperimentare non solo che è affascinante stare-con, ma anche faticoso, perché gli altri non sono sempre teneri e perché si sente l’esigenza di non usarli a proprio piacimento. Il progressivo consolidarsi di legami nel gruppo scatena nuove forze educative che portano i soggetti ad assumersi piccole responsabilità, a cedere parte del proprio tempo agli altri senza ricavarne nulla, a entrare in un circolo più profondo di comunicazione e condivisione, a sviluppare competenze e doti a servizio del gruppo, a partecipare a attività programmate attraverso momenti di analisi-decisione-realizzazione-verifica.

Si impara così a entrare nella logica del dare e ricevere; e l’attento educatore vigila perché la fedeltà al gruppo non diventi totalizzazione di questa esperienza, quasi non esistano più altri problemi e interessi che quelli del gruppo.

 

4.2.3. Dalla fedeltà al gruppo alla solidarietà gratuita con la sofferenza

La fedeltà al gruppo non basta: non tutti i gruppi di adolescenti diventano gruppi di volontariato. L’esperienza che permette il «salto» è rincontro con la sofferenza e la risposta gratuita alle sue provocazioni. L’incontro con essa (non importa se di uno del gruppo o di fuori, se esperienza singola o collettiva, se «spontanea» o provocata) fa uscire dalla logica del «dare-ricevere», dello scambio: la risposta che essa esige è, in qualche modo, senza ricompensa e richiede un’uscita da sé stessi per vedere le cose dal punto di vista della sofferenza dell’altro. È richiesto qui un nuovo atteggiamento, la gratuità, che si impone soprattutto in casi esemplari, quando esplode la sofferenza dell’altro che investe con tutta la sua forza.

Ma perché essa sia davvero una provocazione per l’adolescente e perché questi possa rispondervi in maniera gratuita, è necessario che si verifichino alcune condizioni: anzitutto che la sofferenza sia «immediata», vicina, provocante ma non che distrugga chi vi si avvicina (tenuta sotto controllo educativo); che richieda di rispondervi personalmente senza demandare agli altri qualsiasi tipo di risposta; e infine che attraverso la riflessione di gruppo essa diventi un’esperienza «esemplare», che susciti cioè domande «esistenziali» e che esiga l’analisi di possibili risposte.

Anche qui il rischio è che il gruppo di adolescenti sia così impermeabile da non farsi neppure colpire dalla sofferenza, o che questa sia così «forte» da spingere a una risposta emotiva immediata senza la necessaria «protezione».

 

4.2.4. Dall’incontro con la sofferenza alla scelta di un campo di intervento

Normalmente l’incontro con un’esperienza di sofferenza suscita immediatamente la decisione di darvi risposta come gruppo: in questo caso il gruppo ha già scelto il suo luogo di intervento e la sua specializzazione nell’ambito del volontariato. Spesso tuttavia ciò che provoca il gruppo è la risposta che qualcun altro sta dando: più che identificazione con la sofferenza vale, allora, l’identificazione in modelli di risposta alla sofferenza. Il gruppo però prima di darsi all’attività deve prendere una decisione collettiva e ponderata: può nascere in un confronto con chi già opera, a livello di motivazioni, comportamenti, stili di vita, decisioni concrete. Il gruppo individua così una sua possibile «area» di volontariato.

Diventano urgenti a questo punto alcuni compiti educativi: rendersi operativamente competenti (iniziare piccole esperienze stendendo un «progetto» di intervento che contempli analisi, obiettivi, piste di azione, criteri di verifica); ristrutturare il gruppo e le persone stesse secondo un nuovo e originale stile di vita che faccia leva su valori e atteggiamenti di amore per la vita, di dono, di sacrificio e impegno.

Rischi a cui porre attenzione sono in particolare l’emozionalismo attivista di chi si lascia prendere dalla frenesia del fare senza un minimo di progettualità, l’intellettualismo di chi si limita a rendersi competente sui libri e nelle discussioni, l’incapacità di confronto con altre esperienze analoghe (e voler ricominciare tutto da capo), il rinchiudersi nelle forme tradizionali di intervento senza fantasia e coraggio.

 

4.2.5. Dalla scelta dì un campo di intervento ai primi passi nel volontariato

È necessario ora un periodo di delicato apprendistato: un volontariato «educativo», non per questo però meno serio e impegnativo. Il gruppo ora sa cosa fare, ognuno ha il suo ruolo, ci sono tempi e modalità di intervento da sperimentare: siamo a un’azione di gruppo.

Alcuni compiti di questa fase sono riassumibili nel compito di elaborazione culturale dell’esperienza in atto, nella maturazione di una coscienza politica e nella collaborazione. Circa il primo, si tratta di collocare la propria esperienza dentro l’ambito culturale e sociale più vasto, per cogliere il distacco tra mondi vitali e sistema sociale, la crisi dello stato assistenziale, l’emergere di nuove sacche di povertà, la necessità di ripensare la vivibilità del vivere odierno...; e di elaborare la propria visione di uomo e società verso cui si vuole tendere. Circa il secondo, ci si deve render conto che molti problemi a cui il volontariato vuol dare risposta affondano le radici in una serie di fatti strutturali e di leggi economiche, e che la loro soluzione va affrontata a livello di istituzioni e di cambi strutturali. E che il volontariato, lungi dall’essere un rifugio nell’azione «cieca», può aiutare la politica a ritrovare motivazioni e stile, «un’anima». E infine, la collaborazione: risolvere problemi vuol dire imparare a collaborare con tutte le forze sociali e politiche, con associazioni già operanti sul territorio e cariche di tradizione e cultura.

Solo così l’esperienza che si sta facendo diventa arricchente, perché capace di compiere tutto il tragitto che dall’azione passa alla riflessione per riprogettare una nuova azione.

 

4.2.6. Dal volontariato educativo al volontariato adulto

Abbiamo considerato il volontariato di gruppo come momento formativo per adolescenti e giovani; ma c’è una fase successiva, quasi uno «sbocco» necessario in ogni gruppo che «muore» per dare vita a forme adulte di aggregazione, a modi nuovi di essere cittadini e cristiani adulti: ed è appunto il volontariato «adulto».

In questo passaggio vi sono alcuni compiti a cui prestare attenzione. Il primo riguarda il tipo di aggregazione da ricercare: generalmente si attua quasi una emigrazione verso i nuovi contesti di vita in cui ci si sta inserendo, determinati dal tempo a disposizione, dai nuovi amici, dal tipo di lavoro o ruolo sociale che si occupa, dal servizio che si intende svolgere. Un ulteriore compito riguarda la ridefinizione dei propri parametri di vita, perché lavoro e famiglia non diventino gli unici ambiti di interesse e di azione. Entra qui appunto l’idea di «volontariato» come tempo dedicato ad attività gratuite a servizio di altri, una volta terminati i principali impegni di lavoro e di cura della famiglia. Un terzo compito spinge alla fantasia nelle scelte di volontariato, che non deve essere necessariamente in continuità con le esperienze precedenti. A questo punto si può collocare anche una possibile decisione di passare a un impegno più specificamente politico (che ha altre sedi e altre modalità di intervento). Il volontariato non è il luogo della politica, ma certamente un luogo di apprendimento di essa, là dove anche la politica può ricevere motivazioni più ideali. In ogni caso, anche nella forma del volontariato educativo, esso può essere un luogo di riscoperta non solo di una nuova qualità della vita e dei rapporti interpersonali, ma anche un luogo di senso per i giovani d’oggi.

 

Bibliografia

Verso uno statuto del volontariato, Dehoniane, Bologna 1982;​​ Volontariato giovanile tra lotta contro la povertà e lotta per l’identità personale. Dossier in «Note di pastorale giovanile» 19 (1985) n. 4, pp. 336;​​ Volontariato giovanile tra Welfare State e nuova povertà. Dossier in «Note di pastorale giovanile» 19 (1985) n. 2, pp. 3-32;​​ Volontariato, società e pubblici poteri, Dehoniane, Bologna 1980;​​ Volontariato: valorizzazione e promozione di esperienze, AVE, Roma 1982.

 

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