UOMO
Giannino Piana
1. Quale prospettiva di approccio?
2. Le dimensioni dell’essere dell’uomo
2.1. Corporeità e spirito
2.2. Singolarità e socialità
2.3. Mondanità e storicità
2.4. Apertura a Dio
3. L’uomo nella prospettiva cristiana
3.1. Il dato biblico
3.1.1. La condizione creaturale
3.1.3. La nuova identità in Cristo
3.2. La riflessione teologica
3.2.1. La dignità dell’uomo
3.2.2. Cristo verità dell’uomo
3.2.3. Il destino dell’uomo
4. Il senso della vocazione dell’uomo
4.1. La relazionalità come dato e come compito
4.2. La carità come dono e come appello
4.3. Il progetto educativo
1. Quale prospettiva di approccio?
La riflessione attorno all’uomo avviene oggi attraverso una molteplicità di approcci, che ne mettono a fuoco aspetti diversi e non sempre del tutto complementari. Lo sviluppo assunto dalle scienze umane ha contribuito, in maniera considerevole, a fornire elementi di informazione, che consentono una comprensione più profonda del suo essere e del suo agire. Vi è tuttavia il pericolo che all’abbondanza dei dati raccolti, che sono inevitabilmente parziali, non corrisponda un altrettanto grande capacità di elaborare una visione d’insieme per la crisi in cui versa la ricerca filosofica. Etnologia e psicologia, sociologia e antropologia culturale hanno sottratto all’antropologia filosofica il compito di far luce su alcuni aspetti della realtà dell’uomo, che essa considerava in passato come propri. D’altra parte, le analisi sull’uomo, prodotte nell’ambito del pensiero filosofico contemporaneo — per la diversità dei presupposti sistematici e spesso per il condizionamento delle precomprensioni ideologiche — approdano a risultati discordanti e persino contraddittori. Si fa così strada un atteggiamento rinunciatario o di sfiducia, nei confronti del quale è necessario reagire. Se è vero, infatti, da un lato, che occorre fare il giusto spazio nell’interpretazione dell’uomo ai contributi delle scienze umane, non è meno vero, dall’altro, che tali contributi sono insufficienti da soli a dare ragione delle dinamiche profonde, che sono alla base della struttura ontologica dell’uomo.
D’altronde, la stessa riflessione teologica sull’uomo e sul suo mistero personale — riflessione dalla quale non si intende qui prescindere — non può esimersi dal riferimento ad alcune costanti filosofiche, che costituiscono uno strumento ineludibile per l’interpretazione stessa dei dati della rivelazione cristiana. Ci sforzeremo perciò, nello sviluppo di questa voce, di delineare le dimensioni costitutive dell’essere dell’uomo, quali risultano da una lettura di carattere razionale (I parte), per dare successivamente conto della visione dell’uomo presente nel contesto della tradizione cristiana (II parte) e pervenire, infine, a illuminare rapidamente il senso della sua vocazione nel mondo (III parte).
2. Le dimensioni dell’essere dell’uomo
La riflessione filosofica deve oggi procedere in stretto dialogo con le scienze umane. Suo compito è tuttavia quello di diventare, da una parte, teoria critica di queste stesse scienze, mettendo sotto processo i procedimenti in base ai quali esse operano e assolvendo pertanto a una fondamentale funzione epistemologica, e di concorrere, dall’altra, a dare senso compiuto ai risultati da esse acquisiti, inserendoli nel quadro di una struttura più ampia e unitaria.
Il tentativo che qui faremo è soprattutto orientato a far emergere gli elementi essenziali di tale infrastruttura, al fine di evidenziare l’unità e la complessità dell’essere dell’uomo.
2.1. Corporeità e spirito
L’uomo, in quanto persona, deve essere anzitutto considerato come un tutto unitario. È evidente pertanto la necessità di sgombrare il campo da tutte quelle concezioni dualistiche, caratteristiche del mondo greco, che separavano, o addirittura opponevano tra loro, corpo e anima. Dietro ad esse si celava infatti la convinzione che esistano nell’uomo due sostanze nettamente distinte e radicalmente separabili. Anima e corpo, lungi dall’essere considerati come fattori dell’unica e indivisibile natura umana, venivano piuttosto pensati come elementi autonomi, che davano origine, nel loro incontro, alla realtà dell’uomo.
Il superamento di questa posizione è, in verità, già presente nella dottrina aristotelica, ripresa e ulteriormente approfondita da Tommaso D’Aquino, per il quale il corpo altro non è che il frutto dell’informazione che l’anima, unica forma sostanziale, esercita sulla pura materia. L’attenzione all’unità dell’uomo spinge l’Aquinate a sottolineare che l’anima non sarebbe sé stessa senza il corpo, né il corpo senza l’anima; in altre parole, lo porta ad affermare che l’uomo è, nello stesso tempo, corpo e anima, al punto che nell’anima separata verrebbe meno il carattere di persona. La dottrina tomista costituisce dunque il tentativo — in questo senso ampiamente riuscito — non solo di sottrarsi alle tentazioni proprie del materialismo e dello spiritualismo, che tendono ad assolutizzare unilateralmente ora l’uno ora l’altro dei termini in gioco — cioè corpo e anima —, ma anche di sconfessare le ipotesi di parallelismo psico-fisico, con le quali, a partire soprattutto da Cartesio, si è teso a risolvere il problema dell’unità operativa dell’uomo nel quadro di una persistente concezione dualistica. L’attività dell’uomo è infatti da Tommaso ricondotta, come a principio e come a termine, all’uomo stesso, il quale opera come corpo animato o come anima incorporata, non potendosi pertanto più distinguere in lui un agire sensibile legato al corpo da un agire spirituale riferibile esclusivamente all’anima. L’antropologia contemporanea tende tuttavia ad andare oltre, mettendo radicalmente in discussione la stessa terminologia — ancora sostanzialmente dualistica — di corpo e di anima. La categoria che acquista, in proposito, un rilievo sempre più consistente è quella di corporeità. Essa tende a evidenziare il carattere proprio del corpo dell’uomo, in quanto dimensione costitutiva della sua soggettività, perciò in quanto stato originario dell’uomo uno e completo, il quale è, nel suo costituirsi ontologico, «incorporazione» dello spirito. La corporeità è dunque la «figura» attraverso la quale l’uomo si inscrive nel mondo degli enti, ma, al tempo stesso, in virtù della sua natura specifica, che è, in ultima analisi, spirituale, esercita su di essi il proprio intervento, che ha come obiettivo la propria realizzazione. Il mondo appare così come l’ambiente dell’uomo, il contesto entro il quale si definisce la sua appartenenza, cioè il suo inserimento nella realtà, ma anche il luogo a partire dal quale egli è concretamente impegnato a sviluppare la propria attività, orientata a dare alle cose significati propriamente umani.
La corporeità è, in definitiva, l’ambito proprio dell’essere e dell’agire dell’uomo. Attraverso di essa lo spirito umano, che trascende il mondo materiale, interviene sul mondo, dando forma a tutto ciò che è in esso presente per metterlo al servizio della crescita umana.
2.2. Singolarità e socialità
Situato, in virtù della corporeità, nel mondo, l’uomo è dunque costitutivamente aperto a una gamma di rapporti che sono essenziali al suo sviluppo. L’autocoscienza che egli ha di sé stesso è la risultante di una complessa trama di relazioni che si svolge nel quadro concreto del processo reale della vita. Ciò non toglie che l’uomo — ogni uomo — debba essere pensato come una realtà unica e irripetibile, caratterizzata cioè da un’assoluta singolarità. È come dire che l’uomo non può essere ridotto a un concetto universale e astratto, a una generica essenza. Ciò finirebbe infatti per vanificare la sua peculiarità, che è una peculiarità personale. L’emergere dell’uomo dal mondo e il suo ergersi su di esso è la conseguenza della sua identità, non circoscrivibile entro l’ambito della realtà materiale. Il singolo è senza dubbio realtà mondana, limitata; ma si qualifica per la propria capacità di trascendere continuamente il limite, per l’anelito verso il superamento di ciò che lo circoscrive, in virtù delle capacità che egli scopre dentro di sé e che sono del tutto singolari.
Mediante il termine persona si vuole alludere proprio a questa singolarità della vocazione di ogni uomo, al carattere esclusivo della sua esperienza, che lo fa qualitativamente diverso dagli altri esseri e fonda la sua responsabilità nei confronti del mondo e della storia. Radicato nel mondo — e perciò segnato dalla finitezza e dal limite che sono costitutivi di ogni realtà mondana — egli si scopre, al tempo stesso, come essere capace di esercitare il dominio sul mondo e di aprirsi agli altri mediante un processo che gli consente di disvelarsi a sé stesso, prendendo sempre più profondamente coscienza del proprio essere e del proprio destino.
La definizione dell’irripetibilità e della singolarità umana, in altri termini dell’assoluta trascendenza dell’uomo rispetto al mondo, non deve tuttavia condurre alla contrapposizione delle due realtà, quale si manifesta in alcuni filoni della riflessione filosofica contemporanea. L’astratta opposizione tra soggetto e oggetto, oltre a dar vita a un antropocentrismo chiuso che è alla radice delle prevaricazioni messe in atto dalla cultura tecnologica nei confronti del cosmo, è una delle ragioni dell’attuale situazione di conflitto tra filosofia e scienze umane. La rigida assolutizzazione della soggettività umana fa nascere infatti, per reazione, l’opposta tendenza a un’altrettanto rigida oggettivazione dell’uomo, che finisce per disconoscerne del tutto la peculiarità specifica. L’uomo si costituisce come persona nel suo rapporto con il mondo e con gli altri, pur rintracciando, peraltro, in sé stesso le radici ultime della propria identità.
In questa rete di rapporti che lo costituiscono, un ruolo privilegiato occupa la relazione all’altro uomo. L’identità personale dell’uomo non può infatti essere fatta coincidere con una individualità chiusa, autonoma, autosufficiente. L’uomo è essenzialmente co-umanità o essere-con-gli-altri, nel senso che la relazione interumana non va pensata soltanto come qualcosa di accidentale o di accessorio, lasciato alla sua libera iniziativa, ma come un dato ontologico, che è parte essenziale della definizione stessa del suo essere.
All’origine di questa relazionalità vi è senza dubbio la strutturale differenziazione sessuale tra uomo e donna. La sessualità non deve essere concepita soltanto come un aspetto o una funzione dell’umano, ma come una realtà che investe integralmente l’uomo, in tutte le dimensioni del suo essere e nel suo divenire storico. L’umano appare come un’unità che si esprime e si realizza in una differenza, che non ha carattere esclusivamente biologico, ma coinvolge radicalmente la vita psichica e spirituale. L’essere-uomo e l’essere-donna sono due modi di essere-al-mondo, due configurazioni dell’intera esistenza, contrassegnate dall’istanza connaturale della reciprocità e della comunicazione. Il determinarsi della rispettiva differenza non è ascrivibile unicamente al dato organico originario; è frutto di un processo storico condizionato dalla «cultura», perciò da un insieme di fattori che concorrono, in varia misura, a delineare concretamente il senso delle relazioni.
È evidente che ciò a cui la sessualità anzitutto tende è il configurarsi di quei rapporti interumani che danno origine alla famiglia, come luogo in cui si attua in senso pieno rincontro tra uomo e donna e si realizza insieme, grazie al mistero della fecondità, l’apertura al dono della vita. Ma non si può ignorare che alla sessualità va ricondotto, in senso più ampio, il fondamento ultimo di tutte le relazioni umane: relazioni che consentono all’uomo di realizzarsi nel contesto della società mediante lo sviluppo di processi di crescita collettiva.
L’equilibrio tra conservazione (e approfondimento) della propria identità e apertura agli altri — pur nella diversa profondità dei livelli sui quali vanno ponendosi i vari rapporti e tenendo conto delle inevitabili mediazioni strutturali e istituzionali — è dunque un compito fondamentale che l’uomo è chiamato ad assolvere per incarnare concretamente la propria vocazione e concorrere a una sempre maggiore umanizzazione di sé e del mondo.
2.3. Mondanità e storicità
Si è già sottolineato ampiamente, soprattutto a partire dalla dimensione della corporeità, l’essenziale struttura mondana dell’uomo, il fatto cioè che egli sia integrato in una natura così da poter essere definito, a tutti gli effetti, come essere-nel-mondo. L’attenzione a questa struttura, che dà concretezza all’interpretazione dell’essere e dell’esistere umano, si è fatta particolarmente acuta in questi ultimi anni, grazie soprattutto al dispiegarsi di fenomeni di radicale espropriazione della natura, che hanno gravemente compromesso lo stesso sviluppo della vita umana.
Si deve riconoscere che, per troppo tempo, il pensiero occidentale è proceduto nella direzione di una svalorizzazione del mondo, svalorizzazione che ha le sue radici nella concezione greca e da cui non si è del tutto liberata neppure la riflessione moderna. Affidando radicalmente all’uomo il compito di dominare il mondo, considerato come puro oggetto esterno, l’Occidente ha aperto la strada a quei processi di manipolazione del cosmo che sono propri della tecnologia contemporanea, le cui conseguenze negative sono oggi sotto gli occhi di tutti. La tendenza ad affermare l’interiorità dell’uomo è andata di pari passo con la sua demondanizzazione e con l’affermarsi di una visione esclusivamente strumentale di tutte le realtà infraumane.
È allora necessario ricuperare fortemente la dimensione cosmica dell’essere dell’uomo. Egli si definisce infatti e si conosce nel mondo e attraverso il mondo come essere solidale con gli altri enti mondani. La sua trascendenza rispetto al mondo deve essere compresa a partire dalla sua originaria comunione con tutti gli esseri che costituiscono la natura nel cui contesto egli stesso è inserito. Il mondo non è dunque una realtà esterna all’uomo, sulla quale egli possa indiscriminatamente esercitare il proprio potere, ma è parte integrante del suo essere, è lo spazio — uno spazio che si presenta con un ordine ben definito, che non può essere totalmente alterato — all’interno del quale si colloca la sua esistenza, pur rimanendo aperta la possibilità e la legittimità di una sua continua trasformazione.
La costitutiva collocazione dell’uomo nel mondo e la sua struttura ontologica di essere relazionale danno ragione della storicità e temporalità che contrassegnano la sua esistenza e che trovano la loro concretizzazione nella produzione culturale. L’uomo si presenta infatti, nello stesso tempo, come essere naturale e come essere culturale, nel senso che egli è costantemente sollecitato a ricuperare la propria identità e la propria autonomia mediante un processo di dominio della natura entro la quale egli stesso è inscritto. La cultura definisce l’attività specifica dell’uomo, ciò che lo fa esistere come soggetto capace di determinare il senso della propria vita. Ma tale attività non può d’altronde prescindere, nel suo svilupparsi, dallo stretto collegamento con la natura, in quanto «datità» originaria, che segna il limite dell’intervento umano e ne orienta positivamente il corso. La strutturale storicità dell’uomo non deve peraltro essere fraintesa. Se è vero che l’uomo è un essere essenzialmente storico, non è meno vero che egli non si esaurisce nella storia. L’interpretazione storicistica dell’uomo, che ha trovato in epoca moderna la sua formulazione compiuta nella dottrina hegeliana, è infatti segnata dalla negazione del valore del singolo, ma soprattutto della sua libertà e della sua trascendenza. La possibilità del suo superamento è legata all’assunzione della storicità come struttura trascendentale, che collega in sé stessa presente, passato e futuro, ricuperando le dimensioni della memoria e della progettazione a partire dal presente in cui l’uomo è situato. Ma è, ancor più, legata all’assunzione di tale struttura come orientamento di fondo o come condizione formale di possibilità, che va concretamente riempita dalla storia concreta e dalla prassi quotidiana, le quali hanno, a loro volta, il potere di gettare un nuovo fascio di luce sulla stessa struttura originaria. La storicità va pertanto concepita come una struttura dinamica, capace di fondare l’impegno dell’uomo nella storia, nella quale egli è di fatto chiamato a dare contenuto e senso alla propria esistenza.
2.4. Apertura a Dio
Le diverse dimensioni dell’essere dell’uomo, fin qui tratteggiate, non raggiungono la loro pienezza di senso se non vengono viste nella prospettiva dell’apertura dell’uomo all’Assoluto. La tensione che connota l’uomo tra immersione nella materia e nel mondo ed esigenza di emergere da essi ne rivela l’essenziale struttura religiosa. Ma è soprattutto l’esigenza di trascendimento verso l’altro e la simultanea constatazione del limite di ogni incontro umano a postulare il bisogno di incontro, non con un Assoluto astratto e impersonale, ma con un Altro con un volto preciso, dotato della capacità di una relazionalità illimitata e di una comunicazione inesauribile. Questo desiderio, che è radicato nell’essere dell’uomo, dà ragione del suo valore inestimabile, della profondità degli orizzonti cui si apre la sua esistenza e dello stesso significato ultimo del mondo, in quanto mondo dell’uomo.
La conoscenza dell’ordine strutturale implicato nelle radici ontologiche dell’esperienza umana apre dunque trascendentalmente l’uomo alla verità di Dio e lo mette conseguentemente di fronte alla possibilità di decidersi, nella libertà, ad assumere fino in fondo il senso della sua esistenza mediante la costruzione di rapporti veri con il mondo, con l’altro e con Dio. Tutto ciò è ovviamente connesso alla condizione di possibilità e di limite rappresentata dalla corporeità. Il che spiega, da un lato, il carattere di autodeterminazione soggettiva proprio della realizzazione umana e ci fa comprendere, dall’altro, gli scacchi e persino la radicale perdizione cui l’uomo può andare incontro, quando non riconosce l’ordine originario o si rifiuta di rispondere positivamente ad esso.
3. L’uomo nella prospettiva cristiana
L’antropologia cristiana è la risultante dell’incontro tra alcuni dati generali, desunti dalle tradizioni culturali del contesto entro cui giudaismo e cristianesimo si sono sviluppati, e altri dati più specifici, che riflettono la visione dell’uomo inscritta nella rivelazione e rielaborata successivamente dalla ricerca teologica.
3.1. Il dato biblico
La riflessione cristiana sull’uomo ha anzitutto il suo fondamento nella parola di Dio. L’obiettivo primario della Bibbia non è tanto quello di rivelare l’uomo a sé stesso, in tutte le sue determinazioni strutturali, quanto piuttosto quello di rivelare all’uomo la verità salvifica di Dio. I testi della parola di Dio vanno pertanto accostati tenendo presente questa preoccupazione che li guida. Non si tratta di ricercare in essi una visione globale dell’uomo, considerato in sé stesso, ma di cogliere la prospettiva particolare secondo la quale si muovono, che è quella di presentare la situazione dell’uomo nel suo stare davanti a Dio e di aiutarlo, di conseguenza, a finalizzare la propria vita a lui.
Se questa è l’ottica specifica della rivelazione — un’ottica alla quale è doveroso attenersi — non si può d’altronde negare che la Bibbia ci fornisca elementi di grande interesse, che rivestono un’importanza decisiva per la comprensione dell’uomo e del suo destino.
3.1.1. La condizione creaturale
Il primo di tali elementi concerne anzitutto la condizione creaturale dell’uomo (Gn 1-2). Il concetto di creazione è nella Bibbia inserito nel quadro più vasto del contesto storico-salvifico, che è il contesto dell’alleanza. La creazione acquista così il suo significato in quanto è pensata in funzione dell’uomo e della comunione con Dio che egli è chiamato a realizzare. L’atto di Dio, che dà origine al mondo, è ultimativamente finalizzato all’uomo come essere al quale egli intende liberamente comunicare il suo amore.
La creaturalità definisce, in primo luogo e negativamente, la differenza radicale che esiste tra Dio e l’uomo, il suo essere cioè altro da Dio e il non avere in sé stesso le ragioni della propria sussistenza. Ma, positivamente, sottolinea il fatto che l’uomo deve la sua sussistenza al dono di Dio, che ciò che lo costituisce è la relazione che lo lega a lui e che rappresenta la base di tutte le relazioni di cui è intessuta la sua esistenza storica. In quanto creatura, l’uomo dipende da Dio nella vita, ma tale dipendenza non va concepita come un rapporto di sudditanza, bensì come la risultante di un rapporto di amore, che esige di essere ricambiato da un atteggiamento permanente di amore.
La creaturalità come dimensione costitutiva dell’essere dell’uomo lascia perciò intendere che egli può essere pensato solo in rapporto a Dio, che al di fuori di tale rapporto diviene un non-senso e che, di conseguenza, il fine ultimo del suo agire va rintracciato nell’impegno, che egli deve costantemente mettere in atto, di approfondire tale rapporto, rendendolo sempre più intimo e personale.
3.1.2. L’uomo immagine di Dio
Il secondo elemento essenziale, fornito dalla Bibbia per la comprensione dell’uomo, è costituito dal tema dell’immagine di Dio. Tale tema delinea il concetto dominante dell’antropologia biblica e ha la sua principale attestazione nella redazione sacerdotale del racconto della creazione (Gn l,26s).
Il contesto culturale entro il quale la formula «immagine di Dio» è sorta e si è sviluppata è quello della mitologia orientale, soprattutto egiziana e mesopotamica. La trasposizione di essa nel contesto storico-salvifico le conferisce tuttavia una nuova ricchezza di significato. Il termine «immagine» possiede infatti, nel linguaggio biblico, un senso pregnante. Lungi dall’essere una rappresentazione sbiadita della realtà — come talora noi oggi la intendiamo — l’immagine è la trasposizione della realtà stessa in una dimensione nuova. Essa contiene pertanto la realtà nella sua sostanza più profonda; è — protremmo dire con una formula moderna — in continuità ontologica con essa. L’uomo dunque, in quanto immagine di Dio, è la proiezione nel mondo visibile della realtà stessa di Dio. È come dire che tra lui e Dio esiste una continuità di natura, pur nell’infinita distanza che separa il Creatore dalla creatura. La radice di tale continuità sta nel fatto che l’uomo, unico tra tutti gli esseri creati, è in grado di ascoltare Dio che parla e di rispondergli, di entrare cioè in un rapporto personale con lui: un rapporto da soggetto a soggetto. In altri termini, l’uomo è il partner di Dio, l’interlocutore che egli dà a sé stesso, colui che può stabilire con lui una relazione di comunicazione e di comunione. L’essere immagine di Dio è allora per l’uomo il presupposto stesso dell’alleanza e il fondamento della sua trascendenza rispetto al
mondo, non solo perché egli appare al verti ce della piramide cosmologica, ma soprattut to perché acquisisce nei confronti del mon do una sovranità, che è partecipazione della stessa sovranità di Dio e per la quale diventa mediatore tra Dio e il mondo. L’antropologia dell’immagine, così come ce la propone la rivelazione veterotestamentaria, è estremamente realistica, estranea alle interpretazioni dualistiche e spiritualizzanti che hanno avuto in alcuni momenti il sopravvento anche nella tradizione cristiana. L’essere immagine di Dio non è infatti circoscritto a un aspetto particolare dell’essere dell’uomo, ma coincide con la totalità della realtà umana, colta nella sua concretezza fisico-spirituale e storica, e definisce, al tempo stesso, la destinazione dell’uomo, il ruolo fondamentale di dominio che egli esercita nei confronti del mondo.
Il significato più profondo di questa categoria ci viene rivelato da Paolo, quando ci presenta Cristo come la vera immagine di Dio, nel dispiegarsi della sua funzione mediatrice (Col 1,15ss; Eb. 1,1 -4). Il motivo dell’immagine definisce così il rapporto tra Cristo e il cristiano (Rm 8,29) in termini di continuità e di tensione secondo la logica che segna di sé l’intera storia della salvezza.
3.1.3. La nuova identità in Cristo
Infine, il terzo elemento dell’antropologia biblica — in questo caso esclusivamente neotestamentario — è rappresentato dalla nuova identità che l’uomo acquisisce in Cristo. I testi del NT insistono nel sottolineare che la novità cristiana consiste soprattutto in un radicale rinnovamento ontologico dell’uomo, una vera e propria rigenerazione o ri-creazione. L’uomo diviene così figlio di Dio, consorte della divina natura, inabitato dal mistero trinitario.
Ma è, in modo particolare, Paolo a esplicitare il fondamento cristologico di questo rinnovamento. Il mistero dell’incarnazione e quello pasquale costituiscono la realizzazione definitiva dell’alleanza. Attraverso di essi si stabilisce la piena comunione di Dio con l’uomo e dell’uomo con Dio: una comunione che si realizza nella stessa persona del Verbo incarnato. Gesù è infatti l’alleanza, in quanto è il «sì» definitivo di Dio all’uomo e insieme il «sì» definitivo dell’umanità a Dio. Se l’alleanza è, per definizione, chiamata di Dio e risposta dell’uomo, Cristo ha realizzato in sé stesso questa duplice dimensione. Ne deriva che la vita cristiana è essenzialmente vita in Cristo; è partecipazione alla sua stessa vita, che obbliga il credente ad assumere Cristo come modello e a imitare il suo stile di esistenza. La figliolanza divina, è donata all’uomo per la mediazione di Cristo, il Figlio nel quale siamo fatti figli. L’uomo ricupera in questo quadro la sua piena dignità ed è chiamato a rendere trasparente nella propria vita quotidiana la configurazione alla realtà di Dio, radicata nelle profondità del suo stesso essere.
3.2. La riflessione teologica
Compito della teologia è la esplicitazione, attraverso un impiego costante di riflessione, di ciò che è implicitamente contenuto nella parola di Dio. Nell’esercizio di questo compito essa deve necessariamente confrontarsi con le correnti culturali del tempo — soprattutto con le diverse antropologie storiche — e, ai nostri giorni, con gli stessi esiti delle scienze umane.
I temi essenziali dell’antropologia teologica richiamano gli elementi fondamentali della rivelazione riproposti nel quadro sistematico di una visione d’insieme che accoglie — sia pure criticamente — le provocazioni di ogni momento storico. Tutto il discorso sull’uomo che la teologia è sollecitata a sviluppare può essere sintetizzato in questa formula: «L’uomo creato da Dio a sua immagine, ribellatosi a lui con il peccato, è stato salvato per assoluta e gratuita benevolenza e misericordia da Dio stesso, che lo ha fatto suo partner in un’alleanza definitivamente costituita nel Cristo, logos fatto carne, e che raggiungerà il suo compimento nella partecipazione dell’uomo e dell’intero creato alla risurrezione di Gesù, ed alla sua comunione di vita con il Padre» (G. Bof, Uomo, in NDT, 1846). Sarebbe interessante sviluppare analiticamente queste diverse tematiche, ma riteniamo non sia questo il contesto per farlo. Ci limitiamo pertanto ad offrire alcune rapide indicazioni attorno ai problemi che oggi si pongono più acutamente alla coscienza del credente.
3.2.1. La dignità dell’uomo
La dignità dell’uomo trae origine dal fatto che egli è, per la sua stessa natura, il frutto di una chiamata personale alla vita da parte di Dio. Ogni uomo sta di fronte a Dio con i doni che ha da lui ricevuti e che determinano la sua irripetibile vocazione. Il fondamento della singolarità dell’uomo è dato infatti dal carattere assolutamente unico con cui egli è stato interpellato da Dio nell’atto della creazione e dal compito che gli è assegnato nella storia della salvezza. La vita dell’uomo assume, in questo quadro, il significato di una risposta a Dio, che egli deve dare nel concreto della sua esistenza, facendo proprio il progetto del Signore.
La rilevanza di questo dato è tale da non poter essere scalfito neppure dalla realtà del peccato. Se esso costituisce, infatti, un momento inevitabile di arresto nel cammino di crescita che l’uomo è chiamato ad attuare, non cancella tuttavia la fondamentale immagine e somiglianza divina che è inscritta nella stessa natura umana. In tale immagine deve essere rintracciato lo stesso fondamento della relazionalità umana, la cui struttura portante risiede nello statuto bisessuale secondo cui l’umano si presenta, e della possibilità di esercitare il dominio nei confronti del mondo. Il rapporto con Dio, istituito nell’atto stesso della creazione, trova una sua ulteriore esplicitazione nel farsi storico dell’alleanza, frutto della libera e gratuita iniziativa divina. La comunione cui l’uomo è chiamato è dono che esige di essere accolto dalla libera decisione umana. La libertà di cui l’uomo è dotato è una prerogativa del tutto singolare; è la condizione perché egli possa prendere in mano responsabilmente il proprio destino, diventare artefice della propria storia e della stessa storia del mondo. Certo essa, in ragione della condizione mondana, è costantemente minacciata. Il pericolo di un asservimento radicale al mondo è sempre incombente. Ma altrettanto incombente è la possibilità del riscatto, se è vero che la logica di Dio è segnata da una permanente fedeltà al suo progetto e da un amore assoluto, che si esprime attraverso il perdono e la misericordia senza limiti.
3.2.2. Cristo verità dell’uomo
Ma l’uomo raggiunge soprattutto la piena comprensione di sé e del suo destino nel mistero di Cristo. In lui, logos incarnato, la creazione trova il suo centro e il suo punto di consistenza, e la storia della salvezza il proprio vertice. Cristo è l’uomo perfetto, in cui tutta la realtà umana riceve la più alta illuminazione. La lettura della sua coscienza umana, del modo con cui in essa si riflette il mistero della figliolanza divina, della sua libertà di fronte a Dio e al mondo, ci consentono di cogliere altrettanti aspetti significativi della realtà dell’uomo; o meglio, ci aiutano a comprendere, a partire dal modello perfetto, quale è la natura più autentica dell’uomo, ciò che egli, in ultima analisi, è e la traiettoria o la parabola della sua realizzazione. L’esperienza di Cristo, nella concretezza storica degli avvenimenti che l’hanno costituita, è il referente per attingere la verità dell’uomo e insieme per rintracciare la strada da percorrere, se si vuole dare senso compiuto alla propria vita. La realtà umana è assunta nella sua totalità, inclusa la corporeità e la condizione storico-mondana, ma viene, nello stesso tempo, proiettata verso una salvezza che ha la sua origine dall’alto e che, pur avendo già inizio nella storia, non trova in essa la sua piena realizzazione.
3.2.3. Il destino dell’uomo
Il destino ultimo dell’uomo è infatti segnato dalla stessa manifestazione della realtà escatologica, quale traspare dalla persona di Cristo, soprattutto nel mistero pasquale.
La risurrezione di Cristo, che segna il compimento delle promesse fatte da Dio all’uomo nella storia della salvezza, è promessa di un ulteriore compimento per l’uomo e per il mondo. La storia, in quanto storia salvata, contiene già in sé stessa la possibilità della liberazione umana, ma rinvia, nello stesso tempo, oltre, alla pienezza di una liberazione, che non può essere semplicemente il frutto dell’impegno umano, ma di un intervento gratuito e imprevedibile del Signore, nel quale la storia riceverà la sua consumazione. L’uomo è pertanto chiamato a impegnarsi nel mondo per costruire un habitat umano, che garantisca a tutti sempre nuove possibilità di emancipazione e di crescita, ma è chiamato, insieme, a vivere nell’attesa del totale compimento del disegno divino.
La tensione alla parusia non lo sottrae all’impegno storico, ma lo obbliga a relativizzare costantemente il senso di tale impegno, evitanto di trasformare il frutto del proprio lavoro in sterile idolo. Il destino ultimo dell’uomo è la pienezza della comunione con Dio, che avrà attuazione soltanto nei «cieli nuovi» e nelle «nuove terre», cioè nella consumazione escatologica, alla fine dei tempi.
4. Il senso della vocazione dell’uomo
La vocazione dell’uomo riceve dunque il suo senso e il suo orientamento dalla lettura di ciò che l’uomo è, partendo dall’analisi della sua realtà umana e proiettandosi, più profondamente, nella recezione del mistero cristiano. L’uomo è ontologicamente persona, ma è insieme chiamato a diventare a tutti gli effetti persona, sviluppando ciò che è inscritto nella sua stessa natura. In altri termini, egli è chiamato a costruire la propria personalità mediante un processo storico che lo conduce alla assunzione della sua datità originaria.
4.1. La relazionalità come dato e come compito
In quanto persona, l’uomo è soggetto di relazione. Le relazioni all’altro, al mondo e a Dio sono costitutive del suo stesso essere. Il che significa che egli si autocomprende e si realizza solo vivendo autenticamente l’insieme dei rapporti che lo definiscono e sviluppandoli armonicamente secondo un ordine rispettoso della loro gerarchia. Il personalismo, di matrice cristiana, ha dato un contributo determinante alla corretta interpretazione di questo processo. Il soggetto umano viene infatti da esso considerato come sussistenza personale, che si sviluppa dinamicamente all’interno di un’esistenza personale e nell’apertura connaturale alla trascendenza personale.
L’essenziale storicità dell’uomo comporta tuttavia che ciò avvenga nel contesto di una precisa cultura e nel rispetto delle tappe progressive della maturazione umana. Grande importanza assumono, in proposito, i contributi delle scienze umane. La psicologia, partendo dall’assunto che l’identificazione personale è sempre legata alle dinamiche di socializzazione — soprattutto a quelle connesse con i rapporti primari, in cui svolgono un ruolo decisivo le figure parentali, — non ci aiuta soltanto a comprendere i complessi meccanismi soggiacenti agli stati di frustrazione di molti soggetti, ma ci fornisce soprattutto strumenti preziosi per orientare correttamente la crescita umana. La sociologia e l’antropologia culturale, mettendo l’accento sulla rilevanza delle strutture e delle istituzioni in ordine al dispiegarsi della vita personale, ci consentono di entrare nel vivo dei complessi procedimenti che sono alla base dell’inculturazione soggettiva. La possibilità dell’uomo di diventare padrone della propria vita e di progettarne il corso è connessa al crearsi di una serie di condizioni — sia psicologiche che socio-culturali — che gli consentano di affermare la propria identità stabilendo una rete equilibrata di rapporti con gli altri e con il mondo.
La crescita della personalità — soprattutto nella fase iniziale — è strettamente dipendente dal contesto familiare e sociale in cui il soggetto vive. Le lacerazioni e i traumi, dovuti alle conflittualità negative esperite in quel periodo, si riflettono pesantemente anche sul cammino successivo.
Ma non si può per questo negare che l’uomo rimanga comunque padrone del proprio destino e debba pertanto assumersi, in prima persona, il compito di imprimere un orientamento responsabile alla propria vita. La coscienza della propria identità, in quanto identità relazionale, è alla radice dello stesso senso morale. Ciò comporta che l’uomo debba concepire la propria autorealizzazione non in senso individualistico ed egocentrico, ma nella prospettiva dell’apertura all’altro e della costruzione dell’altrui realizzazione. Se è vero che l’uomo è essenzialmente intersoggettività, allora l’edificazione della sua personalità passa attraverso lo sviluppo di rapporti veri, che mettono gli altri in grado di essere, a loro volta, sé stessi.
La relazione, che è dato originario e costitutivo, si trasforma così in compito preciso e ineludibile, rimesso alla responsabilità della persona; diventa, in altri termini, il senso stesso della ricerca e dell’impegno che devono animare l’intera sua esistenza.
D’altra parte, è doveroso ricordare che la vera relazione non è quella in cui si tende ad appiattire le differenze mediante indebiti processi di identificazione con l’altro, ma è quella che si sviluppa in un rapporto da soggetto a soggetto e che consente perciò a ciascuno di preservare la propria sfera di intimità personale, pur aprendosi costantemente all’altro e mirando a costruire con lui un progetto comune. Il rapporto con l’altro, quando è autentico ed è vissuto in termini di incarnazione effettiva nella realtà, lungi dal vanificare o anche soltanto dall’attenuare le differenze, le assume e le approfondisce, favorendo l’arricchimento reciproco mediante l’apporto della diversità dei doni di ciascuno. La vocazione dell’uomo è dunque anzitutto da mettere in relazione alla sua realtà umana, colta nell’insieme degli elementi che la costituiscono. La dinamica dei rapporti, nel suo concreto articolarsi, è condizione essenziale per il ricupero dell’identità, la quale rimanda tuttavia, quanto più l’esperienza delle relazioni si estende e cresce, nel contempo, la coscienza della loro importanza e della loro precarietà, all’esigenza di una relazione trascendente, che l’uomo può soltanto invocare, aprendosi alla recezione del mistero assoluto.
4.2. La carità come dono e come appello
Il cristianesimo è risposta a questa invocazione attraverso la rivelazione stessa del mistero di Dio. L’assynzione della storia umana, che avviene soprattutto nell’evento-persona di Gesù di Nazaret, coincide con la definitiva assunzione dell’uomo nel contesto salvifico. La vocazione cristiana dell’uomo si identifica perciò anzitutto con la sua vocazione umana, con lo sviluppo globale delle potenzialità inscritte nella natura e nella singolarità della persona. L’uomo non deve rinnegare, per vivere l’identità cristiana, la sua essenza ontologica, che ha del resto fondamento nel piano della creazione; deve piuttosto esplicitarne i contenuti ultimi, che hanno in sé stessi potenzialità trascendenti. Facendosi in tutto simile all’uomo, eccetto il peccato, Cristo evidenzia la fondamentale bontà del mondo umano. Il cristianesimo si presenta così con i caratteri di un vero umanesimo, che restituisce all’uomo la capacità di dare sbocco positivo alle sue più profonde aspirazioni. Nulla di ciò che è autenticamente umano può andare perduto; tutto viene ricuperato e inserito in una nuova dimensione. La vocazione dell’uomo trova infatti il suo ultimo orizzonte nel rapporto con Dio, che avvalora la dinamica relazionale propria dell’esperienza umana e conferisce ad essa definitiva consistenza. La rivelazione del Dio cristiano è rivelazione di un Dio personale, anzi tripersonale, capace di instaurare con l’uomo un rapporto intersoggettivo e di soddisfare l’esigenza di assoluto, che è la struttura stessa del desiderio umano.
Ma tale rivelazione mette anche in evidenza il connotato specifico che la relazionalità umana deve assumere, se intende essere vissuta nella sua più profonda verità. Nel mistero del Dio cristiano, che è il Dio-Trinità, le relazioni hanno carattere sostanziale, nel senso che fanno essere le persone, e sono soprattutto relazioni caratterizzate dalla totalità del dono reciproco. È come dire che il Padre, il Figlio e lo Spirito sussistono in quanto reciprocamente si donano. La definizione di Dio come «Carità» acquista in questo contesto il suo pieno significato. La carità è infatti puro dono, assoluta gratuità; è comunicazione e comunione di persone, che si realizzano secondo la logica della donazione assoluta.
L’uomo, che è «immagine di Dio» in ragione del suo essere relazionale, partecipa del mistero di Amore che è la natura stessa di Dio ed è chiamato a renderlo trasparente nei rapporti con gli altri uomini, facendo propria la stessa logica di Dio. La vocazione del cristiano è dunque vocazione all’amore da vivere nell’ottica di una donazione totale, fino alla perdita della propria vita. Gesù è il modello al quale appellare: in lui infatti l’amore ha assunto i connotati della condivisione piena della vita dell’uomo (essere-con) e del dono senza limiti (essere-per).
Il pieno ricupero della propria identità, e dunque lo sviluppo integrale della propria vocazione, è paradossalmente legato per il credente alla perdita di sé per ritrovarsi nel segno della comunione totale con Dio e con i fratelli.
4.3. Il progetto educativo
Il progetto educativo, attraverso il quale dare concreto sviluppo alla crescita umana, deve pertanto assumere la globalità degli elementi costitutivi dell’essere dell’uomo e la ricchezza dei significati che qualificano la sua esistenza. L’educazione deve tuttavia soprattutto tendere alla singolarità della persona per mettere in grado ciascuno di scoprire le proprie potenzialità e metterle responsabilmente al servizio degli altri. Ognuno ha diritto di essere aiutato a prendere in mano il proprio destino per giocarlo, nella concretezza della propria situazione esistenziale.
Tutto ciò diventa, d’altra parte, possibile solo nella misura in cui si stabiliscono relazioni vere nel segno di un’autentica comunicazione e di una sempre più piena comunione con gli altri. Se l’essere dell’uomo è costitutivamente un essere relazionale e il senso ultimo della relazione risiede nella capacità di amare, allora compito dell’educazione è far crescere questa capacità, aiutando l’uomo a intessere rapporti veri e profondi, che lo aprano progressivamente alla relazione con il mistero dell’Amore assoluto: mistero attraverso il quale egli ricupera pienamente la propria identità e attinge il senso ultimo della propria vita.
Bibliografia
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