TRINITÀ

 

TRINITÀ

Nella teoria della pedagogia religiosa nessuno mette in dubbio che la tradizione cristiana ha sempre professato Dio come uno e trino, “Padre, Figlio e Spirito Santo” (Mi​​ 28,19) e che anche nella C. contemporanea deve essere presentato in questo modo. Rare volte però si affronta questo problema. In certe concezioni, espresse in forma privata piuttosto che pubblicamente, applicate nella pratica ma poco riflesse, esistono comunque diversità di opinioni circa le seguenti domande: Questa professione del Dio uno e trino è come tale comprensibile e significativa — almeno per fanciulli e giovani — oppure si tratta soltanto di una inutile eredità proveniente da antiche controversie concettuali? E ammesso che si tratti di una realtà comprensibile e significativa, in quale età, in quale contesto, secondo quali modalità bisogna trattare questa professione di fede?

I.​​ L’annuncio biblico​​ — anche se formulato per adulti e non per fanciulli o giovani — offre i seguenti orientamenti e compiti.

2.​​ Il​​ contesto​​ nel quale il NT parla del Dio uno e trino non è mai quello di una astratta speculazione sull’essenza di Dio, ma è quello del​​ lieto messaggio​​ di Gesù che è altamente significativo; questo messaggio lo si può formulare soltanto in forma trinitaria: Dio in quanto “Padre” ci invita, per mezzo di Gesù Cristo, suo “Figlio” (Parola, Immagine), ad accogliere in noi il suo “Spirito” e a vivere come suoi figli e sue figlie; in tutta la nostra sensibilità, nel nostro pensiero, nel nostro agire, come singoli e come partner sociali, dobbiamo poter dire insieme con Cristo e in forza del suo Spirito: “Abbà, Padre” (Rm​​ 8,15;​​ Gal​​ 4,6). Certamente nelle numerose e antiche formule trinitarie il NT (2​​ Ts​​ 2,13;​​ Ef​​ 1,3;​​ 1 Pt​​ 1,1;​​ Mt​​ 28,19) riflette anche su Dio in sé; tale riflessione però si iscrive sempre nel contesto “salvifico” della C. battesimale, della parenesi, della lode liturgica, della professione di fede e della benedizione, vale a dire: per annunciare e spiegare il lieto messaggio del nostro nuovo rapporto con Dio (F. J. Schierse 1967).

3.​​ I rapporti tra il Padre, il Figlio e lo Spirito, e i loro rapporti con noi costituiscono per il NT​​ una ben distinta trinità.​​ Il Padre è sempre e solo “Colui che manda”, l’Origine e il Fine; il Figlio è mandato, e con il Padre manda lo Spirito, il quale non manda ma viene soltanto mandato. Dall’angolatura dell’uomo: “Nello” Spirito “tramite” il mediatore Cristo abbiamo accesso “verso” il Padre (E/ 2,18).

Di fronte a questo dato i fanciulli e i giovani con una abituale istruzione religiosa provano grande difficoltà nel differenziare i loro rapporti con “Dio”. Anche se nella liturgia e nella C. hanno imparato la dossologia “Gloria al Padre...” e altre formule trinitarie, si dimostrano insicuri e perfino incapaci quando devono indicare in che modo i tre in Dio si riferiscono a noi e in che cosa si distinguono tra loro. Molti non sanno far altro che ripetere materialmente la formula solenne della professione trinitaria: “Padre, Figlio e Spirito Santo”, e si smarriscono subito quando iniziano con la persona sbagliata. Per esempio, ancora verso 12-13 anni, la voce “Dio” è associata con “Gesù Cristo, Spirito Santo, san Michele”; oppure: “Padre, Figlio, Gesù Cristo, tre persone divine”; oppure caratterizzano la prima Persona come “Padre di Dio”, o come “Chef delle tre persone divine” (J.-P. Deconchy 1967, 157ss). '

4.​​ Per il NT la trinità di Padre, Figlio e Spirito​​ non contiene alcuna contraddizione con la fede nell’unico Dio,​​ non vi è in nessun modo la fede in tre divinità (Tritheismus). Il NT ha parlato senza problemi di questa trinità nell’opera di Dio verso di noi (“trinità salvifica”) e nel suo essere (“trinità immanente”), anche se gli occorreva rivendicare fortemente la fede nell’unico Dio contro il politeismo del tempo. Per il NT la Trinità indica con ogni chiarezza trinità-unità, intendendo questa unità come aperta e non già come rigida. Fanciulli, giovani e adulti oggi provano invece notevoli difficoltà con questa trinità in Dio:

a)​​ Spesse volte la sentono come​​ contrapposta alla fede nell’unico Dio;​​ finché non ci riflettono molto, concepiscono i tre in Dio come tre Esseri indipendenti, tre Io, che​​ collaborano​​ tra loro come una famiglia armoniosa. Nel modo abituale di comprendere la fede questo “grossolano triteismo, non enunciato come tale ma presente “sotto la pelle”“ è probabilmente molto più frequente che non la tendenza contraria, vale a dire concepire la Trinità in forma modale, soltanto come tre modi di operare (non come tre modi di essere) di un Dio che in sé è strettamente unitario (K. Rahner 1967, 342). Più tardi questo conduce all’obiezione: Dio non può essere che​​ una sola persona;​​ non ci può essere che​​ uno solo​​ Ultimo, Infinito, verso il quale ci rivolgiamo nella preghiera e al quale dobbiamo la nostra esistenza.

b)​​ Perciò molti hanno l’impressione che la Trinità di Dio sia una​​ contraddizione logica:​​ non è possibile che Dio consista contemporaneamente di una e di tre persone. Non appena nei ragazzi di 11-12 anni si sviluppa il pensiero logico-formale, essi diventano progressivamente sensibili a questa difficoltà.

II.​​ Per la educazione religiosa e l’IR oggi​​ questi problemi conducono alle seguenti finalità e compiti.

1.​​ Il​​ contesto​​ in cui, anche abbastanza presto, il discorso del Dio uno e trino diventa comprensibile e significativo è, stando al NT,​​ il lieto messaggio dell’agire salvifico del Dio uno e trino verso di noi.​​ Occorre sempre e soprattutto far vedere come nella nostra ricerca, nel nostro ringraziamento e nella nostra preghiera entriamo in contatto con​​ Dio Padre,​​ con il suo Figlio Gesù Cristo e con il suo Spirito. Soltanto a partire dalla Trinità nel nostro rapporto con Dio — per i più piccoli sarà inizialmente soltanto in modo intuitivo, più tardi con maggiore riflessività — potrà essere resa comprensibile la trinità di Dio in sé. Una riflessione sulla trinità di Dio in sé deve sempre e soltanto venire come chiarimento del lieto messaggio. Non deve mai essere presentata come una dottrina su Dio isolata dal lieto messaggio. In forma più esplicita se ne deve parlare al fanciullo soltanto dai 9 anni in poi.

2.​​ Riuscire a distinguere chiaramente e in riferimento all’esperienza la trinità di Padre, Figlio e Spirito è un obiettivo che per fanciulli di 6-8 anni è già rilevante e raggiungibile. Lo dimostrano le osservazioni, tuttora valide, fatte con il testo didattico canadese​​ Viens vers le Pere​​ (Équipe catéchétique 1965; Marie de la Visit. 1966; B. Grom 1970,​​ 123128;​​ 138-147).

Dopo i primi stimoli per il raccoglimento, i fanciulli vengono introdotti ad avere fiducia in “Dio-Padre”, a ringraziarlo, a collaborare con lui e a usare correntemente questo titolo; poi viene chiaramente presentato Gesù come messaggero e Figlio di “Dio-Padre”, con il quale possiamo pregare insieme il Padre nostro; infine è presentato lo Spirito Santo come colui che ci aiuta affinché anche noi possiamo parlare e agire con Dio-Padre come ha fatto Gesù. Quindi se la prima iniziazione al lieto messaggio viene impostata in questo modo, il fanciullo sarà presto in grado, senza confusione e incertezza, di costruire rapporti differenziati con le tre Persone, e sarà anche in grado di chiarirli. Il risultato è attendibile almeno nel caso in cui il fanciullo (e i suoi genitori) si dimostrano interessati a una regolare preghiera personale. Sul piano linguistico occorre distinguere chiaramente tra “Gesù” e “Dio” (o → “Dio Padre”), e non già, come capita spesso, chiamare Gesù “buon Dio” o “salvatore”, ma semplicemente “Gesù”.

3.​​ L’altro obiettivo, complementare con il precedente, cioè arrivare a vedere la​​ unità nella trinità,​​ evitando il fraintendimento triteistico, può essere affrontato da due punti di vista:

a)​​ A partire dalla trinità,​​ quindi piuttosto nella linea della teologia orientale: in qualsiasi discorso sul Padre, sul Figlio, sullo Spirito deve apparire implicitamente che questi tre sono​​ sempre in relazione tra loro,​​ e quindi vanno visti insieme e non già a sé stanti. Invece per allievi a partire dai 9-10 anni, all’occasione, occorre esprimere esplicitamente questa unità.

Si potrebbe, per es., riflettere nel seguente modo: Che cosa si vuol esprimere chiamando “padre” una persona umana? Che cosa di questa caratteristica è valida anche per Dio-Padre e che cosa è diverso in lui? A differenza del padre umano, Dio-Padre non si può mai pensare senza il Figlio, perché egli è totalmente origine, fonte, donazione al suo (unico) Figlio. Analogamente il “Figlio di Dio” non è come il figlio di una persona umana che deve al padre umano la nascita e l’educazione, diventando però sempre più indipendente da lui: Gesù è totalmente “del Padre” di modo che — come nessun altro figlio — egli può dire di sé che è nel Padre e che il Padre è in lui (Gv​​ 14,9.11). Lo “Spirito” infine è precisamente l’amore con il quale i due sono collegati tra loro, e non già qualcosa d’altro che esiste accanto a loro, o paragonabile a un sentimento tra esseri umani che presto può scomparire o tramutarsi in odio. “Padre, Figlio e Spirito Santo” non significa quindi, come noi quasi spontaneamente ci immaginiamo, tre Io autonomi, che costituiscono per così dire un gruppo, ma un unico Dio, al quale posso dire “Tu”, anche se gli parlo come “Padre” (come nel Padre nostro) o come “Gesù” o come “Spirito Santo”, o come “Dio”, “Signore”, ecc.

La venerabile espressione del II Concilio di Costantinopoli: “Una divinità (natura) in tre persone” non è più utilizzabile oggi come formula cat., poiché a causa dei cambiamenti linguistici essa induce a malintesi. Nel tempo di quel Concilio e nel medioevo il termine “persona” indicava soltanto una componente di un tutto. Invece nell’attuale comprensione linguistica significa qualcosa che è assai più autonomo, vale a dire pienamente soggetto, coscienza di sé, Io (K. Rahner 1967, 343; 353ss; 365ss; W. Kasper 1982, 349). Di “tre persone” in Dio è meglio parlare soltanto a studenti (più grandi) che hanno già sentito parlare di questa formula e quindi devono essere istruiti circa il fraintendimento al quale sono esposti.

b)​​ A partire dall’unità,​​ e quindi piuttosto nella tradizione della teologia occidentale: senza aver la pretesa di “chiarire” o di risolvere il mistero di Dio, si potrebbe, partendo da una esperienza umana analoga, trasmettere una precomprensione del fatto che Dio non è un Io immobile, isolato, ma un Io comunicativo con “emanazioni”.

Per es.: un essere umano non è soltanto un Io, è pure un Io in dialogo con se stesso. Mi domando sempre di nuovo chi sono, e se posso accettarmi così come sono. In un certo senso si potrebbe dire che io sono trinitario: vivo come Io, sono consapevole di me stesso (sono anche un tu per me), sono da me stesso rifiutato o accettato. Analogamente Dio non è soltanto Io, ma è in qualche modo un​​ permanente colloquio con se stesso in tre tappe-,​​ il suo Io (come “Padre”, “Origine”) riconosce se stesso e si rispecchia, come se dicesse a se stesso “Tu”. Perciò è anche “Figlio” o “Parola” o “Immagine”. Dio però non rifiuta questo Tu o Immagine di sé, ma lo accetta radicalmente nella forza dell’amore, nello “Spirito Santo”. In questo senso Dio è interamente dialogo, affermazione di sé, è un sì. Anzi, anche a noi Dio vuol dire questo sì, nel suo Figlio e con la forza del suo Spirito, affinché siamo in grado di dire sì a noi stessi e al prossimo.

Questo tentativo può apparire non abituale e impegnativo. Partendo però dall’esperienza dell’uomo con se stesso, dovrebbe essere maggiormente plausibile che non i tanti paragoni impersonali e le tante “tracce della Trinità”, che a partire dai Padri della Chiesa sono state ripescate sempre di nuovo: l’unico triangolo, costituito da tre angoli; il trifoglio composto da tre foglie; oppure il fuoco composto da luce, calore e movimento, ecc. Scopo di questi e altri tentativi è permettere di farsi una vaga idea del fatto che Dio uno e trino significa “Dio è amore” (1​​ Gv​​ 4,8).

Bibliografia

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Bernhard Grom

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