TEOLOGIA PASTORALE

TEOLOGIA PASTORALE

Mario Midali

 

1. L’Ambito materiale

1.1. Ricognizione storica

1.2. Vaglio critico

1.3. La tematica

1.3.1. Necessità di una catalogazione aperta

1.3.2. Un elenco essenziale e indicativo

1.3.3. Legittimità e limiti dell’articolazione in discipline particolari

2. L’oggetto formale

2.1. Richiamo storico

2.2. Delimitazione critica

3. L’itinerario metodologico

3.1. Il metodo applicativo

3.2. Il metodo «vedere giudicare agire»

3.3. Metodo teologico, empirico-critico

3.4. Una proposta

3.4.1. La fase kairologica

3.4.2. La fase progettuale

3.4.3. La fase strategica

3.4.4. Itinerario teologico empirico-critico

4. La connotazione pastorale o pratica

4.1. Autocoscienza scientifica di un processo prussico

4.2. Rapporti con istanze autorevoli e decisionali

5. La qualifica teologica

5.1. Superamento di una contestazione

5.2. Mutua implicanza di prassi credente e teoria teologica

5.3. Riferimento specifico ai luoghi teologici

6. Il carattere scientifico

6.1. Inadeguatezza del modello scolastico

6.2. Utilizzo di una concezione moderna di scienza

6.3. L’istanza veritativa e l’esigenza di senso

7. Conclusione

 

La teologia pastorale è pure denominata teologia pratica (specialmente nei contesti di lingua tedesca) quando allarga il suo orizzonte di ricerca dal pastore alla comunità cristiana e al più vasto fenomeno della religione. La sua attuale configurazione è fatta in base ai seguenti punti di riferimento qualificanti: 1) l’ambito materiale; 2) l’oggetto formale; 3) l’itinerario metodologico; 4) la connotazione pastorale o pratica; 5) la qualifica teologica; 6) il carattere scientifico.

 

1. L’ambito materiale

1.1. Ricognizione storica

Storicamente attorno al termine «pastorale» usato per designare l’ambito di studio di questa disciplina teologica si sono radunati, in sostanza, tre gruppi di significati: 1) la delimitazione e fissazione del codice morale del pastore d’anime e l’organizzazione delle attività ecclesiastiche che a lui fanno capo; 2) la tematica riguardante il «ministero» pastorale considerato come esercizio di una «potestas» e la connessa sistemazione della capacità di iniziativa nella costruzione e conduzione della Chiesa; 3) la problematica attinente la configurazione storica dell’agire animato dalla fede in Gesù Cristo e, quindi, dell’azione della Chiesa nel suo divenire e modellarsi più o meno diversificato nella storia. Attualmente sono rilevabili tre distinti punti di vista: essi convergono nel riferirsi all’azione o alla prassi o all’esperienza; divergono nel delimitare la maggiore o minore ampiezza di tale azione o prassi o esperienza. Secondo l’orientamento tuttora prevalente nei documenti ecclesiastici, l’ambito di questa disciplina è​​ il campo d’azione proprio dei pastori,​​ considerato però in un’ampia prospettiva comprendente il rapporto Chiesamondo.

Per un consistente numero di autori cattolici e protestanti, l’oggetto materiale è piuttosto​​ l’azione o la prassi dell’intera comunità ecclesiale,​​ vista nel suo insopprimibile innesto nella società contemporanea e con particolare riferimento all’amplissima area dell’esperienza, intesa come realtà inglobante l’esistenza umana nel suo complesso.

Alcuni qualificati pastoralisti protestanti e cattolici allargano questa sfera di intervento della Chiesa alla​​ prassi religiosa extraecclesiale​​ o al più vasto e differenziato fenomeno religioso.

Se per i precedenti il centro di interesse è rispettivamente «il pastore» o la «Chiesa» o il «rapporto Chiesa-mondo», per questi ultimi è la «religione» o il «rapporto religione-chiesa-società».

Ognuna delle tre posizioni risponde a istanze che non si possono disattendere e poggiano su ragioni plausibili. D’altra parte la delimitazione di tale ambito non può essere fatta in base a una presunta concezione prevalente, tanto meno a una scelta convenzionale e arbitraria. Va piuttosto vagliata criticamente.

 

1.2. Vaglio critico

In un’impostazione sufficientemente ampia, coerente e attenta a tutto questo, l’ambito oggettuale della disciplina dovrebbe abbracciare la problematica concernente il​​ rapporto religione-chiesa-società​​ per le seguenti ragioni di fondo:

— tale scelta è quella maggiormente rispondente all’attuale realtà socio-culturale e religioso-ecclesiale assai pluralista e differenziata;

— è coerente con il messaggio biblico circa il primato e la maggiore estensione del Regno di Dio rispetto alla Chiesa, che di tale Regno è germe e segno;

— si colloca nella linea aperta dal magistero pastorale del Vaticano II riguardante la promozione del dialogo della Chiesa cattolica con le altre Chiese e comunità cristiane, con le religioni non cristiane e con la società contemporanea;

— consente di superare un presunto ecclesiocentrismo, una visione conflittuale tra prassi sociale e prassi ecclesiale, una contrapposizione tra concentrazione su tematiche intraecclesiali e apertura alla più vasta realtà socio-religiosa: questa tensione​​ ad intra - ad extra​​ attraversa il vissuto della Chiesa durante l’intera sua storia, per cui non è giustificata la scelta della tematica​​ ad intra​​ con esclusione di quella​​ ad extra,​​ e viceversa. All’interno di tale vasto orizzonte e in fedeltà a un’irrinunciabile ottica cattolica (è nota la minore attenzione del mondo evangelico alla tematica della Chiesa e il suo maggiore interesse alla realtà «religione»), soggetto portante e protagonista dell’intera azione cristiana e pastorale è sicuramente la Chiesa, popolo di Dio, comprendente pastori e fedeli nel senso del capitolo II della​​ Lumen Gentium.​​ Senza dubbio, tale azione va rapportata al fenomeno religioso presente al di là dei confini verificabili del cristianesimo e va considerata nel suo impatto nella società, secondo le prospettive aperte dal Vaticano II. Il posto e il ruolo specifico e insostituibile di coloro che, nella e per la Chiesa, sono rivestiti di un ministero ordinato va ormai inquadrato in una rinnovata ecclesiologia di comunione-partecipazione, che sviluppi alcuni asserti del recente Concilio e renda ragione del fatto che tutti i membri del popolo di Dio sono chiamati a essere soggetti attivi dell’intera azione ecclesiale, per altro da attuare con modalità e competenze distinte in forza di carismi e ministeri differenti.

 

1.3. La tematica

1.3.1. Necessità di una catalogazione aperta

Le proposte attuali rispecchiano le tre differenti delimitazioni appena segnalate e, nel loro insieme, offrono una caleidoscopica varietà di temi, che è difficile per non dire impossibile unificare.

Va rilevata la radicale insufficienza di ogni descrizione rigida della realtà oggetto di studio di questa disciplina, specie se condotta secondo schemi classici precostituiti com’è ad es. quello delle tre funzioni: profetica, sacerdotale, regale, o quello delle quattro azioni ecclesiali: annuncio della parola (kerigma), culto​​ (leitourgia),​​ rapporti ecclesiali (koinonìa)​​ e impegno sociale (diakonìa). Tali schemi rilevano alcuni aspetti significativi dell’azione o prassi religiosa cristiana ed ecclesiale, ma si dimostrano insufficienti a coglierla e inquadrarla nel suo insieme in modo soddisfacente.

Redigere un catalogo esauriente delle tematiche teologico-pastorali o teologico-pratiche è un’impresa di fatto impraticabile, attesi il divenire e il cambio storico della prassi studiata da questa disciplina.

Di conseguenza, ogni catalogazione attenta a tale dato deve rimanere aperta, per essere in grado di assumere, in modo organico, problematiche variamente nuove e successivamente emergenti tanto nei campi tradizionali dell’agire ecclesiale, quanto in nuovi progetti umani.

 

1.3.2. Un elenco essenziale e indicativo

In ogni caso, pur nella complessità e disparità delle proposte, è possibile individuare alcuni​​ plessi tematici​​ attorno ai quali, storicamente, si sono radunati i vari problemi. Toccano elementi o fattori costitutivi dell’azione o della prassi, vista nella sua struttura statica e nel suo divenire dinamico. Concretamente essi riguardano:

— la questione generale e fondante attinente il​​ rapporto teoria-prassi​​ in ambito teologico pratico;

—​​ i soggetti​​ individuali e collettivi dell’azione o della prassi, con particolare attenzione alla loro differente qualifica antropologica, rispettivamente maschile o femminile, alla loro diversa competenza ministeriale (vescovi, presbiteri, diaconi, laici), alla loro forma specifica di vita (matrimonio cristiano, varie forme di vita consacrata) e ai vari modelli di interazione (ad es. i vari tipi di comunità);

—​​ i referenti​​ di tale azione o prassi, considerati in rapporto all’età, alle diverse forme esistenziali di vita (celibi o sposati, operai, intellettuali, professionisti, anziani, malati...), a differenti ambienti sociali (familiare, rurale, urbano, cosmopolita), a particolari situazioni socio-economiche o politico-culturali (poveri, emarginati, emigrati, borghesia, aristocrazia);

—​​ i tipi generalissimi di tale azione​​ o prassi: l’annuncio della parola, la celebrazione liturgica, l’interazione ecclesiale, il servizio sociale;

—​​ i modelli di azione pastorale:​​ la pastorale di cristianità stabilita oppure di nuova cristianità; la pastorale della maturità della fede; la pastorale profetica o evangelizzatrice; la pastorale estensiva o di massa; la pastorale intensiva o di élite; la pastorale a scacchiera che ricopre un’intera zona, oppure la pastorale a poli di nuova evangelizzazione di tipo dialogale;

—​​ le dimensioni​​ che sono vitalmente innervate in ogni forma di azione o prassi religiosa cristiana ed ecclesiale e che ne attraversano ogni momento: la​​ comunicazione​​ tanto nel rapporto personale io-tu (comunicazione personale), come nell’esperienza di gruppo (comunicazione gruppale), come nella comunicazione di massa (comunicazione sociale);​​ l’educazione​​ o la formazione; la​​ consulenza​​ attuata specialmente nel rapporto interpersonale; il​​ servizio​​ considerato soprattutto nel suo aspetto sociale;

—​​ le forme istituzionali​​ e​​ organizzative​​ che strutturano tutti gli aspetti dell’azione e della prassi finora elencati;

—​​ i campi d’azione​​ (ad es. la pastorale giovanile, la predicazione, la catechesi, la pastorale liturgica, l’animazione comunitaria...) compresi come un insieme di attività collegate tra loro: essi corrispondono ai vari referenti, ai tipi d’azione, alle dimensioni della prassi, alle sue forme istituzionali, e vanno mantenuti aperti alla problematica che emerge sempre di nuovo;

— i differenti contesti socio-culturali e religioso-ecclesiali in cui tutti questi aspetti sono inseriti, con la connessa problematica generale concernente l’inculturazione e-o l’acculturazione propria delle aree afro-asiatiche; l’identità cristiana nell’ambiente post-cristiano e-o post-religioso che caratterizza l’occidente; la dipendenza, la cattività e la liberazione che attraversano il cristianesimo dell’America Latina e di altri paesi del terzo mondo.

 

1.3.3. Legittimità e limiti dell’articolazione in discipline particolari

La diversità e la complessità di tale tematica giustificano l’articolazione di questa disciplina in teologia pastorale o pratica​​ fondamentale​​ e in discipline teologico-pastorali​​ particolari​​ (catechetica, omiletica, pastorale liturgica, odegetica, pedagogia religiosa, pastorale giovanile, pastorale sociale, pastorale familiare...).

Il fatto che tale tematica è fortemente intrecciata e inscindibile mette in evidenza i​​ limiti o​​ l’aspetto​​ relativo​​ di tali discipline particolari: esse producono conoscenze che rilevano settori limitati della prassi e, di conseguenza, non possono esibire un discorso completo e tanto meno esauriente. Sono esposte al rischio di isolarsi, di costituirsi in discipline a se stanti e chiuse in sé stesse, impedendo di affrontare questioni che richiedono un più ampio contesto.

Per superare tali limiti ed evitare tali rischi, in cui di fatto sono incorse lungo la loro storia, occorre che rimangano costantemente aperte agli apporti delle altre discipline e della riflessione teologico-pastorale di tipo generale e fondante.

 

2.​​ L’oggetto formale

L’ambito dell’azione o della prassi religiosa cristiana ed ecclesiale, così delimitato, può essere accostato da differenti punti di vista: ad es. per stabilirne la previa giustificazione (teologia fondamentale); per approfondirne la natura o l’essenza teologale (teologia biblica storica e sistematica); per coglierne gli aspetti etici (teologia morale); per descriverne e valutarne l’evoluzione storica nel passato (storia delle religioni, del cristianesimo e della Chiesa).

Da parte sua la teologia pastorale o teologia pratica ne rileva determinate dimensioni e ciò costituisce il suo compito o oggetto specifico, anche se al riguardo vi sono tuttora posizioni differenti.

Come per l’ambito materiale, così per l’oggetto formale non ci si può attenere alla concezione prevalente o affidare a una scelta convenzionale.

Occorre coglierlo storicamente e vagliarlo criticamente.

 

2.1. Richiamo storico

Secondo una lunga (ma non ininterrotta) tradizione tanto cattolica quanto evangelica, questa disciplina riflette sull​​ 'attuale divenire storico della Chiesa​​ in vista della sua realizzazione nell’oggi. Ciò è stato espresso con varie formule: «l’autorealizzazione della Chiesa nel presente» (K. Rahner), e il suo «rinnovamento permanente» (Liégé), la sua «attuazione vitale» (Klostermann), la sua mediazione della salvezza più aderente al qui-ora della situazione storica (Cardaropoli).

Per i fautori di una configurazione della teologia pastorale o teologia pratica nell’ottica di una «teologia dell’azione o della prassi», è compito di tale scienza non semplicemente rilevare e orientare l’attuale divenire della prassi credente cristiana ed ecclesiale, quanto piuttosto definirne, con una teoria, le​​ leggi​​ (ad es. la gradualità, la comunione, la conflittualità) e i​​ modelli​​ di cambio (ad es. il modello cibernetico autoregolativo della prassi, il modello di pastorale intensiva oppure di pastorale estensiva, il modello a scacchiera oppure quello a poli di evangelizzazione) (M. Lefebvre, Zerfass).

I sostenitori delle varie teologie della liberazione prendono in considerazione la prassi storica (economica, politica, culturale, sociale, religiosa ed ecclesiale) in quanto è determinata da​​ concreti contesti socio-culturali.​​ Per essi, questa disciplina elabora una riflessione teologica al servizio della prassi cristiana liberante da situazioni di dipendenza e cattività che attraversano il cristianesimo latino-americano e vaste zone del cosiddetto terzo mondo.

 

2.2. Delimitazione critica

Benché formulate in distinti momenti storici e in riferimento a differenti situazioni socioculturali e religioso-ecclesiali, le tre posizioni non sono inconciliabili. Si completano, anzi, a vicenda pur nella loro diversità.

Ad ogni modo, per tener conto delle istanze in esse mergenti e delle motivazioni da esse addotte, l’oggetto formale di questa disciplina può essere così delimitato:​​ rilevare, valutare e orientare, alla luce della fede e con l’ausilio di principi unificatori, di leggi, di modelli e di categorie interpretative, il divenire della religione, del cristianesimo e della Chiesa, considerato nell’oggi e nei differenti contesti umani, cristiani ed ecclesiali.

I principi unificatori​​ dell’intera riflessione teologico-pratica sulla prassi religiosa cristiana ed ecclesiale sono, ad es. il principio d’incarnazione (Arnold), il principio dell’evento Gesù (H. Schuster), il principio dell’autorealizzazione della Chiesa (K. Rahner), il principio di correlazione tra chiamata divina e risposta umana (Tillich)...

I modelli​​ interpretativi di tali prassi sono, ad es., il modello cibernetico proposto dallo Zerfass, i modelli di comunicazione prospettati dai cultori delle scienze della comunicazione...

Le prospettive o​​ le categorie con cui vengono studiati tutti i fattori della prassi finora segnalati sono, ad es. la prospettiva sociologica, ermeneutica, critica, ideologica, simbologica, didattica, retorica, giuridica, pedagogica, comunicativa: si possono ricordare al riguardo le suggestioni di S. Hiltner e di Otto Gert.

 

3.​​ L’itinerario metodologico

L’oggetto di questa disciplina così definito è studiato con un proprio metodo o, meglio, con un proprio itinerario metodologico, perché si tratta di prendere in considerazione non un fatto puntuale, ma una prassi nel suo passaggio dalla situazione data a quella desiderata. Anche su questo argomento vi è attualmente una pluralità di proposte.

 

3.1. Il metodo applicativo

Nel suo cammino storico la teologia pastorale o pratica è stata sovente ridotta semplicemente a​​ scienza applicativa,​​ cioè a una somma di corollari di tesi dogmatiche, di leggi morali, di norme canoniche, di indicazioni liturgiche da​​ applicare​​ appunto nella prassi del pastore o dell’azione ecclesiale. In tale visuale il procedimento metodologico è semplice: occorre elaborare una dottrina o delimitare dei principi o chiarire delle norme da​​ applicare​​ all’azione o alla prassi.

Si tratta di un procedimento metodico pienamente​​ legittimo,​​ in quanto è diretto a evidenziare le implicanze pratiche di asserti dottrinali, di principi morali e di norme canoniche, oppure a motivare teologicamente determinate scelte operative. Il Vaticano II l’ha ampiamente praticato nei suoi decreti e ha invitato i teologi a rielaborare i contenuti delle loro discipline in modo da evidenziarne la dimensione pastorale o pratica.

Assodato questo, va però riconosciuto che tale metodo presenta vistosi limiti segnalati da numerosi pastoralisti che nell’ultimo ventennio hanno affrontato l’argomento. Essi criticano una comprensione del sapere teologico incline a identificarlo con la teologia dogmatica o sistematica e a ridurre la teologia pastorale o pratica a sapere applicativo nel senso appena indicato. Nel fare ciò, gli autori cattolici hanno presenti concezioni e prassi purtroppo ancora prevalenti in non pochi contesti ecclesiali; gli autori evangelici si riferiscono principalmente alla teologia della Parola promossa da K. Barth e alle varie teologie esistenzialiste e personaliste degli ultimi decenni.

Va precisato, a scanso di dannosi equivoci, che con tale critica non si è voluto né si vuole negare la legittimità di tale metodo. Si è inteso e s’intende rifiutare una posizione acritica che propone una derivazione unilaterale della prassi dalla teoria: tale posizione è incapace di cogliere il sapere o la teoria (spesso prescientifica) presente in ogni prassi credente cristiana ed ecclesiale, e di percepire la funzione di verifica empirica che tale prassi può svolgere nei confronti della teorizzazione, come si chiarirà più oltre (vedi n. 6.2). E soprattutto si è voluto e si vuole affermare che la teologia pastorale o pratica non può essere ridotta a tale operazione: il suo cammino conoscitivo volto a rilevare, valutare e orientare la prassi è assai più complesso e articolato.

 

3.2. Il metodo «vedere giudicare agire»

Come è noto, in alcuni suoi documenti e specialmente nella​​ Gaudium et spes,​​ il Vaticano II ha adottato un procedimento che parte dalla rilevazione e valutazione di una situazione, ad es. della persona, della società e dell’attività umana nel mondo contemporaneo, al fine di definire la missione della Chiesa nell’attuale epoca storica. Ciò è rilevabile in modo particolare nello sforzo compiuto dal Concilio nel cogliere e valutare i segni dei tempi, da esso considerati altrettanti imperativi per la Chiesa, cioè altrettanti impegni, che essa deve fronteggiare per essere fedele alla presenza dello Spirito di Dio rivelantesi nell’attuale situazione storica.

Tale modo di riflettere, qualificato a ragione come «pastorale» (e in tale senso la costituzione​​ Gaudium et spes​​ venne denominata «pastorale»), è stato ampiamente adottato da successivi documenti del magistero sia pontificio (ne è un esempio recentissimo l’enciclica​​ Solicitudo rei socialis)​​ sia episcopale, ad es. i documenti di Puebla dell’episcopato latino-americano.

Si è pure imposto in numerosi contesti ecclesiali e in pubblicazioni pastorali per lo più di tipo divulgativo, che Io mettono a tema attorno al trinomio «vedere giudicare agire». Tale metodo aiuta indubbiamente a cogliere alcuni aspetti importanti del divenire della prassi credente cristiana ed ecclesiale, come sono: la descrizione (=​​ vedere)​​ e la valutazione (=​​ giudicare)​​ di una determinata situazione socio-religiosa in base a un quadro di riferimento (=​​ dottrina​​ o​​ criteri)​​ e le indicazioni operative per il suo miglioramento (=​​ agire).​​ Tuttavia lascia in ombra o non rileva riflessamente altri aspetti imprescindibili del divenire della prassi. Più precisamente, presenta in modo globale e non tematizza sufficientemente la fase progettuale e quella strategica, come tosto si spiegherà.

 

3.3. Metodo teologico, empirico-critico

Nel tentativo di superare i limiti di questi due metodi, vari progetti di teologia pastorale o pratica, prodotti specialmente nell’area di lingua tedesca e inglese, si ispirano al metodo empirico critico proprio delle scienze della prassi o dell’azione. Ma all’atto di configurarlo o di attuarlo presentano assieme a sicure convergenze anche palesi divergenze. Convergono, in linea di massima, nell’individuare alcuni punti qualificanti, come sono: l’analisi della situazione o della prassi vigente, gli obiettivi da raggiungere per rinnovarla, l’esigenza di programmare il passare dalla prassi rilevata a quella prospettata, e tutto questo alla luce della fede o in una prospettiva teologica, cioè in base a un’adeguata criteriologia teologica.

Si differenziano nel descrivere le distinte fasi e i connessi momenti dell’intero cammino metodologico: alcuni ad es. lasciano in ombra la fase programmatica o strategica; altri non tematizzano in modo adeguato il momento criteriologico cioè i criteri teologici utilizzati nell’intero itinerario metodologico.

A dire il vero, nessuna proposta prospetta un cammino completo e ben articolato in ogni suo momento indispensabile e insopprimibile. L’attuazione pratica poi di tale itinerario metodologico comporta il riferimento alle altre discipline teologiche e alle scienze umane; e ciò è diversamente concepito dai vari pastoralisti.

 

3.4. Una proposta

Per sopperire a tale lacuna, personalmente ho prospettato in forma telegrafica un itinerario metodologico, che integra in modo unitario e articolato le suggestioni avanzate dalle recenti correnti di teologia pastorale o teologia pratica. Esso comprende le tre fasi distinte della prassi: l’analisi valutativa della situazione data (o fase kairologica); la fase progettativa della prassi desiderata (o fase progettuale); la fase programmatrice del passaggio dalla prassi vigente alla nuova prassi (o fase strategica). Ognuna di esse comprende vari momenti da concepire non come separati tra loro, ma come mutuamente implicati gli uni negli altri. In ognuna di queste fasi sono presi in considerazione gli elementi costitutivi della prassi.

Ciò che caratterizza questo itinerario metodologico, chiaramente empirico-critico, rispetto a quello percorso da analoghe scienze dell’azione è il suo​​ riferimento alla fede,​​ ovvero a​​ criteri teologici​​ ricavati dal Vangelo, dalla Tradizione cristiana e dalla lettura ecclesiale dai segni dei tempi. Tale riferimento qualifica appunto questo tipo di riflessione e la fa essere «teologica» o, come si dice comunemente, «pastorale».

 

3.4.1. La fase kairologica

In questa prima fase si tratta di analizzare o descrivere​​ (momento fenomenologico-descrittivo)​​ e d’interpretare e valutare (momento ermeneutico e critico)​​ una determinata situazione o prassi con l’ausilio sia delle scienze umane e sia della fede​​ (momento criteriologico),​​ al fine di cogliere le indicazioni che lo Spirito Santo offre alla comunità credente in una determinata congiuntura storica​​ (momento kairologica).​​ I vari momenti in cui si articola tale analisi valutativa della situazione rivestono un valore diverso.

Il momento fenomenologico​​ corrisponde al «vedere» del secondo metodo. Esso riguarda l’analisi o la descrizione di una determinata situazione attuale della religione, della Chiesa e della società nei suoi molteplici aspetti. Per lo più comprende anche il richiamo retrospettivo a dati del passato, da cui tale situazione può variamente dipendere. Concretamente e a grandi linee essa prevede distinti passaggi:

— innanzi tutto la descrizione della società con particolare riferimento al rapporto tra persona e società e, inoltre, alle vicendevoli relazioni tra le principali situazioni sociali;

— in tale contesto viene chiarito lo​​ status​​ sociale della religione e della Chiesa;

— in connessione con tutto ciò viene quindi rilevata la relazione intercorrente tra cittadino-religione-Chiesa;

— infine, dato che religione-Chiesa-società sono grandezze non statiche ma dinamiche, va descritto il cambio dello​​ status​​ sociale della Chiesa come della religione in tutte le loro componenti col mutare della realtà sociale;

— e siccome le situazioni socio-religiose ed ecclesiali differiscono da luogo a luogo e da un sistema sociale all’altro, ciò fa parte di tale descrizione fenomenologica.

Più in particolare, s’intende generalmente indicare questo momento descrittivo quando si ricorre alle seguenti formule sintetiche: dati della situazione, congiuntura storica, fenomeni socio-culturali e-o economico-politici, fenomeni strutturali e-o congiunturali, situazione o domanda religiosa, situazione ecclesiale, condizione umana, condizione femminile, condizione giovanile.

Tale analisi fenomenologica viene condotta sulla base di una griglia di lettura offerta dalle scienze interessate all’azione e con il ricorso a criteri teologici nella prospettiva di un ben inteso dialogo interdisciplinare e, all’occorrenza, transdisciplinare.

Il momento critico o interpretativo​​ corrisponde al «giudicare» del secondo metodo. Di fronte all’attuale prassi religiosa cristiana ed ecclesiale, la teologia pastorale o pratica non si limita a descriverla, né tanto meno assume un atteggiamento di acritica accettazione dello​​ sta tu quo.​​ Mira invece a interpretarla e a valutarla criticamente. Essa è espressione qualificata di una legittima e corretta​​ opinione pubblica​​ nella Chiesa e per la Chiesa.

Tale interpretazione è diretta alla formulazione di​​ giudizi di fede sulla situazione​​ o a una valutazione «pastorale» della medesima. È volta, cioè, a stabilire se e in che misura una determinata situazione è conforme a valori evangelici e rispondente a legittime attese umane riconducibili alla presenza di Dio nella storia attuale: sono i cosiddetti giudizi «pastorali».

È necessariamente condotta con criteri teologici, utilizzati in collaborazione con le scienze umane interessate, che vanno considerate come scienze non puramente fenomenologiche, ma anche valorative.

L’interpretazione critica della prassi attuale concerne sia la tradizione in essa presente e sia la problematica da essa emergente.

In riferimento alla​​ tradizione vigente,​​ la teologia pastorale o teologia pratica sviluppa una riflessione retrospettiva volta a valutare criticamente un’eredità del passato che spesso ritarda l’impegno nel costruire il futuro. Ciò avviene con un approccio che prevede vari passaggi: collocazione di fatti, norme, modelli di comportamento, strutture, usi, costumi, ecc. nel loro contesto storico d’origine; esplicitazione, tramite l’analisi storico-sociologica e teologica, della continuità o discontinuità fra il contesto socio-culturale e religioso-ecclesiale di tale passato e quello attuale; riesame dei valori evangelici e della tradizione cristiana pertinenti; delimitazione di spazi attualmente praticabili, perché liberati da condizionamenti di ieri e non più rispondenti a legittime esigenze dell’oggi.

Il riferimento alla​​ problematica oggi emergente,​​ la teologia pastorale o teologia pratica è attenta agli interrogativi e ai sospetti avanzati dalle scienze umane e produce un discorso diretto a valutarla criticamente rispetto tanto alla tradizione debitamente vagliata quanto alle attuali istanze irrinunciabili.

Di più, questa disciplina pone costantemente in discussione il dato attuale e forme storiche in cui si è strutturata ed espressa la prassi sociale religiosa ed ecclesiale. E ciò non certo per attaccamento a una volontà di critica, a sua volta criticabile e inaccettabile, ma allo scopo di favorire un miglioramento di tale prassi.

Il momento criteriologico​​ corrisponde alla «dotrina» del metodo applicativo, che però viene rielaborata in criteriologia. La descrizione fenomenologica e l’interpretazione critica della situazione sono attuate non a piacimento o, peggio, arbitrariamente, ma in base a un determinato «quadro di riferimento» o a una «scala di valori» o a una «griglia di lettura» o — come si è già accennato — a determinati «criteri» di ragione e di fede, ricavati in dialogo interdisciplinare rispettivamente dalle scienze dell’azione e dalle scienze teologiche.

I​​ criteri teologici​​ possono essere, secondo i casi, principi dottrinali, valori evangelici, norme morali, modelli ecclesiali, comportamenti operativi, aspirazioni pronfonde... Saranno, quindi, di volta in volta criteri cristologici, pneumatologici, ecclesiologici, antropologici, storico-salvifici, considerati nelle loro successive formulazioni storiche e tenuto conto specialmente di quelle attuali.

Nel cammino metodologico in esame non sono assunti (come nel metodo applicativo) per essere​​ applicati​​ alla situazione, ma utilizzati piuttosto per analizzare o​​ descrivere​​ e per valutare o​​ interpretare​​ la situazione. Le due prospettive sono palesemente diverse e non vanno identificate. Altra cosa è ad es. utilizzare i concetti di Chiesa-comunione e Chiesa-servizio come criteri per descrivere e giudicare se e in che modo una determinata comunità li realizzi, e altra cosa è applicarli alla vita di una comunità col supporre che essa li realizzi o debba realizzarli.

Questo momento criteriologico è determinante rispetto ai due precedenti, in quanto da esso dipende il tipo di analisi e di valutazione di una determinata prassi e il suo valore. In effetti, in base ai criteri razionali e teologici invocati, tale analisi valutativa risulterà puramente umana o teologico-pratica, completa o incompleta, unilaterale o riduttiva, selettiva o funzionale a istanze ad es. di mantenimento dello​​ statu quo​​ oppure di rinnovamento. Per queste stesse ragioni, il momento criteriologico è determinante anche per quello kairologico.

Il momento kairologico.​​ La descrizione e l’interpretazione della situazione, attuate con criteri teologici mirano a cogliere valori da conservare o da riattualizzare, aspetti da abbandonare, attese e aspirazioni a cui rispondere, problemi da risolvere, nuovi valori o espressioni culturali da recepire, fenomeni o eventi da denunciare, criticare, rigettare, secondo i casi.

In definitiva, si prefiggono di interpretare l’attuale realtà storica, religiosa sociale ed ecclesiale, come storia rispettivamente di salvezza (kairòs) o non salvezza, in cui la Chiesa è chiamata da Dio a operare. È il discorso, in particolare, sui segni dei tempi. È il riconoscimento dell’irruzione carismatica, fino al paradosso, nella storia umana, nelle varie forme religiose, nella vita del cristianesimo. È il “discernimentopastorale.

 

3.4.2. La fase progettuale​​ 

In questa seconda fase, a partire dal «disagio» nella Chiesa​​ (elemento soggettivo) si tratta d’identificare gli obiettivi o le mete a lungo termine, generali e settoriali, da raggiungere per ottenere una prassi rinnovata o riorientata​​ (momento normativo),​​ avvalendosi in tutto questo di criteri razionali e teologici​​ (momento criteriologico).​​ Rientra qui, in certo modo, l’«agire» del secondo metodo.

L’elemento soggettivo.​​ L’esigenza progettuale nasce dall’insoddisfazione o dal disagio soggettivo di singoli, di élites, di gruppi, di intere comunità, di una o più Chiese particolari nei confronti della situazione fattuale rilevata e valutata.

Entra qui in giuoco la cosiddetta «critica nella e della Chiesa», che sorge ed è alimentata dalla «crisi nella e della Chiesa». La prima consiste sostanzialmente in un atteggiamento sia spontaneo (per lo più negli operatori, nei gruppi, nei responsabili ai vari livelli) sia riflesso (proprio generalmente dei​​ leaders​​ qualificati, dei pastoralisti, ecc.) di non piena accettazione della situazione concreta e di volontà di migliorarla. La seconda consiste nel fatto che una data situazione socio-religiosa e cristiano-ecclesiale è colta, secondo i casi, come imperfetta o lacunosa o inadeguata o variamente criticabile o decisamente da riformare. La teologia pastorale o teologia pratica (lo si è rilevato nella precedente fase) sviluppa un discorso critico circa la situazione data e mette a tema in modo critico tale situazione di insoddisfazione, di disagio e di critica spontanea.

Il momento normativo​​ è costituito dalle mete, dagli​​ imperativi​​ morali che si prospettano per migliorare la prassi. Tali imperativi riguardano tutte le componenti della prassi cristiana ed ecclesiale rilevata e valutata.

E siccome a monte di tali mete vi sono sempre determinate visioni e scelte teologiche, cristologiche, pneumatologiche, ecclesiologiche e antropologiche, è necessario esplicitarle. In caso contrario, c’è il rischio di comprenderle in maniera assai differente. E ciò ostacola l’intervento operativo nella prassi. In tale esplicitazione si dovrebbe rispondere, in modo adeguato e aderente alla situazione rilevata, ai seguenti interrogativi di fondo: quale Cristo vogliamo annunciare? Quale visione dello Spirito e della sua azione nella storia abbiamo? Quale esperienza ecclesiale vogliamo promuovere? Quali modelli di comunità vogliamo attuare? Quale servizio all’uomo, nelle situazioni attuali, vogliamo offrire? Quali cambi della società vogliamo promuovere, seguendo il Vangelo? Nell’attuale periodo post-conciliare, le grandi mete sono quelle segnalate dal Vaticano II, aggiornate dai successivi documenti pontifici ed episcopali in riferimento ai differenti contesti. Sono, ad es. l’attuazione del rinnovamento ecclesiale di tipo spirituale, morale, operativo dottrinale e strutturale; la promozione del dialogo con le altre Chiese e comunità cristiane, con le religioni non cristiane; l’evangelizzazione delle culture, della politica e dell’ideologia, della religiosità popolare; l’impegno per la giustizia e per la pace; la valorizzazione dei bisogni umani primari. Tali mete non vanno identificate con una​​ dottrina​​ attinente gli obiettivi indicati. Altra cosa è una dottrina ad es. circa la natura teologale dell’evangelizzazione, ed altra cosa sono le mete dell’evangelizzazione in una determinata situazione: la prima ne chiarisce la natura o l’essenza, le seconde ne indicano i traguardi storici da raggiungere.

Il momento criteriologico​​ corrisponde alla «dottrina» del metodo applicativo, ma rielaborata in criteriologia progettuale. L’identificazione di tali obiettivi o imperativi non può essere lasciata alle pur rispettabili preferenze personali o di gruppo, ma va vagliata con l’aiuto di criteri il più possibile obiettivi. Altrimenti c’è il pericolo di sostituire un criticabile clericalismo della conservazione o della restaurazione con un altrettanto criticabile clericalismo della contestazione e del cambio, e viceversa.

A livello di riflessione puramente razionale, tali criteri sono derivati dalle acquisizioni attendibili delle scienze cosiddette progettuali: in parte la psicologia e la sociologia; in modo particolare la metodologia pedagogica, la futurologia e la politica.

A livello di riflessione teologico-pastorale o pratica, essi sono attinti, in dialogo con tali scienze, a una ricognizione, sempre rinnovata e aggiornata, delle mete assegnate dal messaggio della Bibbia e della Tradizione al fatto religioso cristiano ed ecclesiale: l’attualizzazione dell’evento Gesù e dell’esperienza fondante della comunità cristiana primitiva. Sono ricavati, inoltre e sempre nel confronto dialogico con le scienze progettuali, dalle indicazioni emerse dall’analisi valutativa della situazione effettuata nella prima fase. In effetti, gli imperativi sono ricavati tanto dalla memoria critica del passato cristiano ed ecclesiale, quanto dalla lettura critica e profetica del presente religioso, cristiano ed ecclesiale e, cioè dal momento kairologico.

È compito della teologia pastorale o teologia pratica non semplicemente accostare questi due ordini di criteri, ma operarne un confronto: si tratta, in sintesi, di decodificarli in riferimento alla prassi biblica e storica passata, e di ricodificarli in riferimento alle presenti differenti congiunture ambientali e regionali. È il rapporto dialettico e ineludibile tra memoria e profezia, collocato a livello di riflessione teologica scientifica.

Anche in questa fase, il momento criteriologico è decisivo ai fini dell’identificazione e comprensione di quello normativo.

 

3.4.3. La fase strategica

Il vocabolo «strategia», oggi sovente abusato, può essere utilizzato in non pochi sensi. In questa sede lo s’intende come complesso di elementi e fattori necessari per consentire di passare dalla situazione data a quella desiderata, delineata nelle mete generali e settoriali appena indicate. Non va quindi affrettatamente identificata con espedienti tattici, con tecniche operative o con ricette pratiche per altro utili e rispettabili, ma che non rientrano in questo discorso metodologico. Viene attuata mediante la cosiddetta «programmazione» pastorale comprendente ad es. piani annuali, biennali, pluriennali. Questa va elaborata criticamente​​ (momento critico)​​ utilizzando determinati criteri di ragione e di fede​​ (momento criteriologico).​​ Questa fase esplicita l’«agire» del secondo metodo recensito.

Il momento descrittivo-critico.​​ Per essere fedele alla struttura e alla dinamica dell’azione, la strategia deve prendere in considerazione, criticamente, almeno i seguenti elementi:

— gli​​ operatori​​ interessati, ai vari livelli, al raggiungimento delle mete: delimitato il ruolo tanto dei singoli come di organismi e di istituzioni, va pure specificato il tipo d’interazione attuato da singoli agenti fra loro e nell’ambito dei vari organismi e istituzioni a ciò deputate; quindi, i tipi di comunicazione, le sedi decisionali o di ricorso, ecc.;

— i​​ referenti​​ coinvolti nella prassi rilevata e nelle mete identificate: di essi va definito ad es. il tipo di collaborazione o di co-protagonismo che sono chiamati ad assumere con gli operatori;

— le​​ modalità di attuazione​​ attinenti ad es. gli obiettivi prioritari, le possibilità sicure o probabili, gli ostacoli o le difficoltà prevedibili o immancabili e come e in quali sedi superarle; i possibili imprevisti e come e dove provvedervi per risolverli; le nuove urgenze e come e dove affrontarle per potervi rispondere con tempestività; le inevitabili forme di tensione e conflittualità e come e dove trovarne un esito positivo; le possibili espressioni di autoritarismo o di democraticismo e come comportarsi in merito...;

— i​​ tempi di attuazione​​ concernenti ad es. gli obiettivi a breve o a medio termine, la durata dei possibili piani d’azione, i momenti per la necessaria personalizzazione delle mete da raggiungere, per la verifica e la rettifica dell’itinerario compiuto;

— i​​ mezzi necessari​​ al conseguimento delle mete: mezzi di comunicazione, mezzi finanziari, istituzioni addette a illuminare, accompagnare e sostenere l’intero cammino di rinnovamento della prassi: esperti, centri di ricerca, di consulenza, di formazione e di riqualificazione;

— la​​ sperimentazione,​​ siccome l’agire ecclesiale e pastorale acquista determinatezza tramite la «decisione», i cui risultati non sono previamente assicurati ma solo desiderati, si rende necessario sperimentare nelle debite forme (generalmente limitate), in modo da aprire vie fondatamente agibili e proficue alla prassi credente e all’azione ecclesiale;

— la periodica​​ verifica​​ e l’eventuale​​ rettifica​​ tanto dell’analisi valutativa della situazione, quanto delle mete generali e settoriali come pure dell’intera strategia intrapresa: ciò è imprescindibile per fare in modo che l’azione avviata sia sempre rispondente agli imperativi proposti, pur essi periodicamente verificati e aggiornati; in tale compito di verifica e rettifica è importante attuare un processo di cosiddetta «onda di ritorno»​​ (feed-back), che sia corretto e ispirato ai più aggiornati e attendibili sistemi cibernetici (ad es. quello proposto dallo Zerfass);

— la​​ personalizzazione: la lettura critica della situazione, gli imperativi proposti e la strategia programmata vanno conosciuti e recepiti da parte di tutti gli agenti interessati o comunque in ciò implicati: senza consenso diventa oggi assai difficile raggiungere le mete fissate.

Il momento criteriologico​​ corrisponde alla «dottrina» del metodo applicativo, ma rielaborata in criteriologia strategica. Allo studio di una strategia d’azione, dei suoi fattori e della loro composizione di tipo operativo si dedicano in modo speciale alcune scienze: ad es. la metodologia pedagogica, la didattica, la politica. Vi è pure interessata, a titolo proprio, la teologia pastorale o pratica, benché questo aspetto sia sovente disatteso dalla letteratura in merito, anche recente. Di fatto, nell’attuazione di una strategia sono implicati imperativi da raggiungere, comportamenti morali da assumere, valori evangelici da rispettare: realtà tutte teologali e morali che vanno messe a tema e chiarite, in modo riflesso e rigoroso, appunto da una riflessione teologico-pastorale.

A titolo esemplificativo, la delimitazione dei ruoli degli agenti e dei referenti e dei modelli d’interazioone può essere rispettosa, oppure no, dei loro diritti, può valorizzare o meno le loro capacità, può favorire o limitare la comunicazione e la partecipazione. La definizione delle modalità d’intervento può essere conforme a imprescindibili esigenze evangeliche di comunione, comunicazione, partecipazione, oppure può essere variamente difforme da esse. La statuazione di determinati tempi d’intervento può condurre a disattendere esigenze rilevanti, e ciò può essere valutato fondatamente negativo da un punto di vista morale. Un discorso analogo vale per l’impiego dei mezzi, per la verifica, la rettifica e la personalizzazione del progetto pastorale. In breve, il passaggio strategico dalla prassi data a quella desiderata comporta una riflessione teologico-pratica assai impegnativa ai fini di un pilotaggio, ispirato dal Vangelo ed efficace, dell’azione ecclesiale verso il conseguimento dei traguardi programmati.

Questo delicato e nevralgico ingranaggio dell’agire cristiano ed ecclesiale non può essere lasciato all’inventiva e all’esperienza, pure necessarie, degli operatori oppure demandato alle libere scelte politiche o diplomatiche, da tenere nel dovuto conto, dei responsabili ai vari livelli. Va cioè sottratto alla riflessione spontanea, al pragmatismo, al «si è sempre fatto così».

Occorre tematizzarlo scientificamente e svilupparlo rigorosamente, anche per portare alla luce precomprensioni presenti in esso, che possono rivelarsi non conformi al Vangelo o ispirate da interessi molto umani e non sempre giustificabili come, ad es. il desiderio di possesso, la ricerca di prestigio o di potere... Tra le cause per cui, nel periodo postconciliare, nonostante le migliori buone intenzioni e le energie profuse in non poche generose iniziative apostoliche, non si sono raggiunti gli sperati obiettivi di rinnovamento, con ogni probabilità vi è la messa in opera di una carente strategia pastorale, perché non vagliata con rigore scientifico.

 

3.4.4. Itinerario teologico empirico-critico

Dal rapido esposto dovrebbe apparire ormai abbastanza palese che l’itinerario metodologico descritto non può essere ricondotto al metodo applicativo e a quello «vedere giudicare agire». Di questi due metodi recepisce le istanze irrinunciabili. Tuttavia, rispetto ad essi, è assai più complesso e più rigorosamente articolato nel tentativo di cogliere gli elementi costitutivi dell’azione o prassi nel suo divenire concreto.

Può essere connotato con fondamento come itinerario metodologico empirico-critico e teologico.

È​​ empirico​​ perché prende le mosse​​ dall’empeirìa​​ cioè dalla prassi, dall’azione, dalla situazione fattuale; perché è finalizzato a riprogettare una prassi o un’azione rinnovata e riorientata; perché accompagna in modo riflesso il cammino strategico che va dalla prassi vigente alla prassi prospettata.

È​​ critico​​ perché elaborato in maniera rigorosa e autocontrollata; perché sviluppa una riflessione critica attinente l’interpretazione e valutazione della situazione data, la fissazione delle mete desiderate e la definizione della strategia d’intervento; perché vaglia criticamente, nel dialogo interdisciplinare o nel discorso transdisciplinare, le informazioni che gli provengono dalle altre discipline teologiche e dalle scienze interessate all’azione. È​​ teologico​​ perché in ognuna delle sue tre fasi di attuazione e dei connessi momenti procede facendo riferimento esplicito a criteri di fede e producendo giudizi di fede (vedi n. 5).

 

4.​​ La connotazione pastorale o pratica

Nel corso della sua storia plurisecolare, la caratteristica​​ pastorale​​ o​​ pratica​​ di questa disciplina teologica è stata diversamente concepita. Le posizioni vanno da coloro (per lo più persone di azione o pastoralisti con preoccupazioni pragmatiche) che l’hanno giudicata troppo teorica e​​ poco pratica,​​ perché percepita più o meno distante dalle problematiche e attese degli operatori pastorali, a coloro (per lo più teologi dogmatici e pastoralisti accademici) che l’anno reputata​​ troppo pratica​​ e poco teorica, fino al punto da non annoverarla tra le discipline teologiche e da relegarla al rango di arte o sapere prescientifico di competenza non della ricerca universitaria, ma degli ecclesiastici responsabili ultimi delle rispettive Chiese. Tra queste due posizioni estreme vi è una variegata gamma di altre concezioni intermedie.

Negli ultimi tempi, in seguito a una più approfondita comprensione del rapporto inscindibile tra teoria e prassi, si è raggiunto un consistente consenso attorno ad alcuni asserti rilevanti. Sicché, al di là delle presentazioni più o meno complete e delle differenti accentuazioni riscontrabili nei singoli autori, è possibile individuare i seguenti tratti pratici o pastorali caratterizzanti questa disciplina.

 

4.1. Autocoscienza scientifica di un processo prassico

La teologia pastorale o teologia pratica ha numerosi e peculiari legami con la prassi. Infatti, la prassi religiosa e l’azione del popolo di Dio, ivi compresi i pastori, sono il suo ambito di ricerca; e il divenire storico attuale, concreto e differenziato, secondo i diversi contesti socio-culturali e religioso-ecclesiali di tale prassi, è il suo oggetto formale di studio. Di più, essa è un momento qualificante di tale prassi: ne è l’autocoscienza scientifica.​​ In effetti, in ogni prassi credente cristiana ed ecclesiale è sempre innervata vitalmente, come suo costitutivo insopprimibile, una teoria: sono le motivazioni e i contenuti della propria scelta religiosa o del proprio credere cristiano e cattolico; sono le comprensioni che si hanno della situazione sociale, culturale, politica, religiosa ed ecclesiale; sono i progetti che si coltivano guardando al proprio futuro; è la strategia che si pensa di mettere in opera per raggiungerli. Tale teoria è generalmente spontanea, ma può essere già abbastanza riflessa e critica. Mossa dall’esigenza di penetrare in modo razionale e rigoroso tale teoria spontanea, la teologia pastorale o teologia pratica si propone di sottoporre a vaglio critico le mediazioni culturali, ideologiche, politiche e teologiche operanti in essa. Di conseguenza si configura come riflessione scientifica, cioè rigorosa, controllata e verificabile, di tale teoria quotidiana per lo più prescientifica.

Inoltre, in quanto è proposta da pastoralisti, membri della Chiesa e organicamente collegati ad essa, si autocomprende non come variamente staccata dalla prassi o dall’esperienza credente, ma come​​ speciale momento critico e profetico: tende infatti a cogliere il momento di grazia (kairos) e il mistero di iniquità operante in esso.

Senza dubbio la prassi e la connessa riflessione teologica dei credenti, dei cristiani, degli operatori e responsabili pastorali, ai vari livelli, è​​ atto primo​​ rispetto alla teologia scientifica elaborata dai pastoralisti, che è quindi​​ atto secondo.​​ Tuttavia, entrambe fanno parte di un unico processo esperienziale o prassico: tale è infatti il fenomeno religioso, il cristianesimo vissuto e l’esperienza ecclesiale quotidiana. In tale processo, la teologia pastorale o teologia pratica risponde a un’esigenza umana ineliminabile, perché costitutiva della razionalità della persona: l’esigenza di una prassi illuminata e orientata criticamente da una consapevolezza controllata, verificata e sistematizzata. È ciò che si propone appunto di offrire un sapere teologico scientifico.

 

4.2. Rapporti con istanze autorevoli e decisionali

In questa visuale generale vanno pure compresi i rapporti dei pastoralisti con gli operatori pastorali e con i responsabili dell’azione ecclesiale ai vari livelli.

È criticabile e inaccettabile un agire cristiano delle comunità e dei loro pastori, che prescinde da una riflessione teologico-pratica (quando non la disattende volutamente) e procede autonomamente, senza verificare seriamente le comprensioni che sono a monte delle proprie scelte pastorali. L’azione cristiana ed ecclesiale non può essere lasciata in balia della pur lodevole iniziativa di singoli o di gruppi, o essere improntata a improvvisazione, a dilettantismo, a empirismo pratico: comportamenti tutti degni di attenzione e rispettabili, ma inadeguati ai fini di un’agire cristiano ed ecclesiale rispondente a esigenze di criticità e il più possibile di completezza. Nell’attuale contesto sociale e culturale, essa deve ormai valersi degli apporti seri e aggiornati della teologia pastorale o teologia pratica.

D’altra parte è criticabile e inaccettabile una teologia pastorale o teologia pratica tendente a sostituirsi alle libere scelte degli operatori e dei responsabili pastorali, primi protagonisti dell’azione cristiana ed ecclesiale, o a sviluppare un magistero pastorale parallelo: ciò esula dalle sue competenze di sapere teologico scientifico. A ragione tale fenomeno è stato denunciato e criticato dalle autorità ecclesiastiche.

I rapporti dei pastoralisti con tali istanze operative e autorevoli sono per alcuni aspetti di dipendenza e per altri di anticipazione e, in ogni caso, di servizio responsabile e qualificato. Data l’origine e la finalità esperienziale e prassica del sapere da loro prodotto, questo è volto al servizio degli agenti e referenti pastorali: prende le mosse dal loro mondo di vita e d’azione (e in ciò dipende da loro), per riflettervi sopra scientificamente, per illuminarlo e per offrire indicazioni progettuali e strategiche atte a un suo miglioramento (e in ciò anticipa un loro possibile futuro migliore).

In tale modo questa disciplina teologica favorisce la creazione e la maturazione di più corretti processi comunicativi e di più vasti spazi di motivato consenso, senza per altro disattendere i benefici che possono derivare da una ben intesa e controllata dinamica conflittuale, tanto all’interno della comunità cristiana, quanto tra questa e la società.

Più precisamente, col suo sapere scientifico essa contribuisce a intensificare la «competenza pratica o pastorale» degli operatori e dei responsabili ai vari livelli. Tale competenza pastorale va intesa come capacità di determinarsi alla decisione ragionevole e fondata, da collegarsi a un apprezzamento realistico delle possibilità effettive dell’agire cristiano in una determinata situazione e in rapporto a un agibile progetto di futuro.

Tale competenza va ricondotta non alla figura​​ dell’homo faber​​ cristiano ed ecclesiale (il praticone, il faccendiere) e neppure a quella delì’homo sapiens​​ (il teorico puro, astratto), ma piuttosto alla figura dell’homo ludens,​​ abilitato e impegnato all’invenzione di modelli atti a animare e orientare sapientemente ed efficacemente l’azione.

Tutto questo praticamente è possibile solo a una condizione di fondo: la messa in opera, dove mancasse, e l’incentivazione, dove già esistesse, di rapporti tra pastoralisti da un lato e operatori pastorali e autorità ecclesiastiche dall’altro, improntati a sincero e costante dialogo e a franca e permanente collaborazione, attuati nel rispettoso riconoscimento delle distinte competenze.

 

5.​​ La qualifica teologica

A motivo del suo riferimento all’azione, all’esperienza, alla prassi e del conseguente suo livellamento su un piano operativo, la teologia pastorale o teologia pratica ha sofferto storicamente una persistente contestazione della sua natura teologica e ha subito la tentazione di autoemarginarsi dalla teologia.

 

5.1. Superamento di una contestazione

Questo annoso divario tra teologia pastorale e teologia in generale va attribuito a una determinata concezione di teologia, in cui pensiero ed esperienza, teoria e pratica sono contrapposti.

Quando tale disciplina, per avvicinarsi il più possibile alla pratica, assume la figura di tecnologia o di ricettario operativo cessa di essere teoria teologica e viene rigettata dal consenso delle scienze teologiche.

Quando, al contrario, prende più o meno le distanze dalla pratica e si costituisce in teoria, si configura sovente come semplice variazione del sapere teologico di tipo biblico, storico, sistematico specialmente ecclesiologico.

Solo di recente, grazie a una più approfondita comprensione degli stretti legami che intercorrono tra teoria e prassi, tra pensiero ed esperienza, tra riflessione ed azione si è riusciti ad esplicitare e definire in maniera meno problematica e inadeguata del passato la compatibilità teologica di questa disciplina.

 

5.2. Mutua implicanza di prassi credente e teoria teologica

Occorre ormai superare inveterate concezioni dualiste che separano azione e fede, e fare propria una visione integrale della prassi religiosa, cristiana ed ecclesiale in cui agire e credere sono implicati costituzionalmente l’uno nell’altro.

Ciò è rilevabile nelle azioni elementari del testimoniare e del confessare la fede e nelle attività sorrette dalla speranza cristiana e dalla carità evangelica: non sono semplici azioni umane o impegni temporali e filantropici, ma agire credente, testimoniante, confessante, sperante e amante.

Più precisamente ancora, per essere autenticamente cristiana ed ecclesiale, un’esistenza umana dev’essere illuminata dalla fede tanto nella sua comprensione per lo più spontanea della situazione, come nella sua progettazione anch’essa generalmente irriflessa di mete da raggiungere, come pure nella definizione variamente esplicita della strategia da impiegare per conseguire gli obiettivi desiderati. In ogni prassi credente ed ecclesiale, considerata nella sua dinamica concreta, è necessariamente immanente un sapere​​ teologale.​​ La teologia pastorale o teologia pratica mette a tema in maniera sistematica e controllata tale sapere teologale prescientifico: essa formula giudizi di​​ fede​​ sulla situazione; delimita imperativi​​ evangelici​​ per l’agire ecclesiale e pastorale; elabora strategie d’intervento vagliate col ricorso a criteri di​​ fede.​​ In breve, essa produce un sapere scientifico della​​ fede: è originariamente intelligenza della​​ fede,​​ cioè teologia.

E lo è in un modo particolare a lei proprio, dovuto al suo approccio specifico alla prassi: infatti è intelligenza della fede in riferimento alle tre fasi costitutive (situazione, progetto, strategia) della prassi credente e dell’azione ecclesiale. Essa invoca l’evento Gesù e la presenza dello Spirito nella storia per valutare se, in che modo e in quale misura questi sono operanti oggi nella prassi credente, cristiana ed ecclesiale, allo scopo di progettare una prassi del cristianesimo e della Chiesa più conforme e fedele ad essi e di programmare una strategia atta a raggiungere tali traguardi evangelici.

La​​ verità​​ da essa ottenuta è, dunque, di natura​​ teologica.​​ Non risulta da pura evidenza teorica, né può essere verificata semplicemente con criteri di efficienza. Rivela la sua efficacia nell’esperienza di fede, speranza e amore. In essa fa trasparire la presenza del Signore e del suo Spirito e, insieme, riconosce la distanza tra essa e l’evento Gesù e l’azione dello Spirito Santo: in tal modo rende possibile un loro concreto accoglimento più fedele e sempre da rinnovare.

 

5.3. Riferimento specifico ai luoghi teologici

Alla pari di ogni riflessione teologica, la teologia pastorale o teologia pratica fa riferimento ai luoghi teologici tradizionali, ma con modalità corrispondenti al proprio oggetto materiale e formale e al proprio itinerario metodologico. In concreto, vi ricorre per disporre di criteri teologici con cui formulare giudizi di fede sulla prassi vigente, identificare e vagliare valori e imperativi morali da perseguire, programmare adeguate strategie conformi alla fede cristiana.

Ricorre alla​​ Bibbia​​ a partire dall’attuale concreta situazione di vita e d’azione e in dialogo con le scienze bibliche: ne rilegge il contesto sociale, culturale, politico e religioso; ne ricomprende il messaggio veritativo e i valori da attualizzare; ne circoscrive i limiti e le mediazioni da non assolutizzare e da superare; ne coglie possibili risposte a problemi posti dalla prassi attuale contestata o da quella riprogettata.

Ricorre in maniera analoga alla​​ Tradizione​​ passata, considerata come portatrice di valori e di un senso che possono e debbono essere fatti valere per il qui-ora del cristianesimo e della Chiesa. In tale ottica, il motivato abbandono di forme storiche ritenute caduche e ormai da abbandonare è espressione di fedeltà dinamica alla Tradizione; e il mantenimento della memoria del passato è garanzia di fedeltà e coerenza nel progettare il futuro.

Ricorre alle indicazioni autorevoli del​​ Magistero pastorale vivente​​ come a luogo teologico irrinunciabile. Lo fa nella prospettiva di un corretto rapporto di dialogo e di collaborazione, e nella consapevolezza della comune responsabilità e della distinta competenza di fronte all’inculturazione e acculturazione del Vangelo e della Chiesa nel vivere e operare umano di un oggi proteso verso il suo domani.

Ricorre​​ alla prassi credente cristiana e pastorale​​ considerata anch’essa come luogo teologico: tale ricorso, anzi, costituisce il compito determinante di una ricerca teologico-pratica, in quanto ne è il momento kairologico.

 

6.​​ Il carattere scientifico

La domanda di una riflessione di tipo scientifico è ricorrente nella storia della disciplina, specialmente in riferimento a una situazione ecclesiale dominata dal pragmatismo pastorale e da una concezione puramente applicativa di questa branchia del sapere teologico.

Storicamente la risposta a tale domanda è stata offerta seguendo due differenti tracciati: l’uno, di ispirazione aristotelico-tomista, utilizza il modello scolastico di scienza; l’altro fa propria la figura di scienza maturata dalle moderne scienze sperimentali specialmente dell’azione.

 

6.1. Inadeguatezza del modello scolastico

Secondo il modello scolastico, la scienza è un sapere apodittico, il cui nerbo è costituito dalla dimostrazione, cioè dalla coerenza logica tra premesse e conclusioni: a partire da principi sicuramente appurati procede in modo rigorosamente deduttivo (in forma di sillogismo) fino a scoprire nuove verità nelle conclusioni.

Nel caso specifico, la qualifica scientifica della teologia pastorale o teologia pratica è assicurata assumendo il comando missionario di Cristo come principio rivelato circa l’agire della Chiesa e deducendo da esso l’intero agire pastorale.

I limiti di questa concezione sono dovuti al fatto che la scientificità è ristretta alla coerenza logica tra premesse e conclusioni, e collocata a livello di sapere universale e necessario. Il singolare, la situazione fattuale non è raggiunta da tale conoscenza. Per poter fare ciò essa deve ricorrere a un’altra componente, la virtù della prudenza, che si pone fuori dal proprio ambito di conoscenza e che offre apporti distinti da essa.

In tale modo le mediazioni necessarie per passare da un sapere universale e necessario all’intervento operativo sono demandate all’inventiva dell’operatore pastorale, alle sue doti e alla sua esperienza: sono quindi situate fuori dal campo proprio di un sapere teologico-pratico di tipo scientifico. Coerentemente, accanto a una​​ scienza​​ pastorale è esigita​​ un’arte​​ pastorale.

In questa impostazione, teoria e prassi sono considerate come separate e il loro raccordo è puramente estrinseco in quanto attuato dalla prudenza.

Alla radice di tale concezione vi è la mancata tematizzazione dell’esperienza e della prassi, tale da consentire di superare il dualismo soggetto-oggetto nel processo conoscitivo; tale cioè da non giudicare scientificamente spurio ogni conoscere alla cui costituzione concorre anche il soggetto; e tale da non ridurre l’intrinseca connessione tra conoscenza teorica ed esperienza vissuta a pura argomentazione di convenienza.

Questi limiti hanno condotto a un più o meno generalizzato abbandono di una teologia pastorale o teologia pratica concepita come scienza delle conclusioni attuata secondo il metodo applicativo, e hanno stimolato il progressivo ricorso a una concezione moderna di scienza, capace di assumere in modo riflesso la prassi nel suo divenire storico con l’utilizzo del metodo empirico-critico.

 

6.2. Utilizzo di una concezione moderna di scienza

Riferendosi allo sviluppo della concezione di scienza impostosi nell’epoca moderna e contemporanea, la teologia pastorale o teologia pratica mira a produrre una riflessione scientifica intesa come sapere rigoroso, controllato, falsificabile perché verificabile.

Tale verifica è duplice. L’una è​​ logica​​ e concerne la consistenza degli asserti teologici quanto alla loro spiegazione, sistemazione, e validità delle ragioni prò e contro addotte a sostegno. L’altra è​​ empirica​​ e riguarda la corrispondenza o meno degli asserti teologici attinenti la prassi religiosa cristiana ed ecclesiale, compresa come comunicazione interpersonale, e l’esperienza vissuta o progettata delle persone.

L’itinerario metodologico precedentemente proposto assume appunto tale concetto di scienza in ognuna delle sue fasi costitutive. In effetti, mira a produrre una riflessione organica, riflessa e verificabile tanto nella descrizione valutativa della situazione, quanto nella delimitazione delle mete e della strategia d’intervento.

Esso prevede il ricorso, in un discorso interdisciplinare e transdisciplinare, alle scienze interessate a ciascuna di tali operazioni conoscitive. A tale scopo elabora​​ teorie​​ intese come insieme coerente di asserti circa la realtà rilevata, riprogettata e riprogrammata in modo strategico. Sia che ciò avvenga nella direzione razionalistico-critica, che evidenzia la funzione integrativa della teoria nei confronti del sistema sociale, oppure nella direzione della «teoria critica» della società, che sottolinea invece la funzione critica della teoria nei confronti dell’assetto sociale vigente. Essendo teorie verificabili e falsificabili, i loro asserti rivestono il carattere di​​ ipotesi: sono affermazioni ottenute mediante un’analisi regolata, rivedibile in base al controllo della loro capacità di spiegare la realtà rilevata e di prevedere il possibile andamento dei fatti socio-religiosi.

Allo stesso scopo ricorre pure allo strumento conoscitivo offerto dai​​ modelli,​​ ad es. di Chiesa, di società, di intervento generale o settoriale nella prassi: modelli di catechesi, di pastorale giovanile, di pastorale liturgica, di impegno sociale... Essi sono rappresentazioni teoriche della realtà fenomenica; in essi sono individuate le variabili caratterizzanti una prassi; sono catalogate le interdipendenze; il tutto al fine di programmare interventi migliorativi nel campo dell’azione o della prassi.

Un ampio consenso riscuote oggi, fondatamente, l’utilizzo del modello cibernetico di autoregolazione della prassi, proprio del sistema comunicativo cosiddetto dell’onda di ritorno​​ (feed-back): esso è diretto ad assicurare le condizioni ottimali in vista di una costante verifica dell’efficacia dell’intervento rapportato al raggiungimento delle mete progettate.

Il ricorso a teorie e a modelli, intesi come strumenti scientifici atti ad aggredire la realtà o la prassi per orientarla nel senso desiderato, si prefigge di conferire agli operatori o responsabili pastorali una competenza operativa nel campo dell’agire credente, cristiano ed ecclesiale.

Secondo le differenti impostazioni, tale competenza sarà capacità di autoregolare l’azione, nel senso inteso dal razionalismo critico; oppure capacità di denuncia e di smascheramento delle strutture sociali repressive, nella linea della teoria critica della società; oppure capacità critica e insieme costruttiva della prassi, nella prospettiva più accettabile delle due precedenti, perché ne supera il dualismo​​ (o​​ costruttiva​​ o​​ critica) con cui designano la funzione della teologia pastorale o teologia pratica.

 

6.3. L’istanza veritativa e l’esigenza di senso

La critica mossa, specialmente da parte dei teologi sistematici evangelici, alla recezione del concetto moderno di scienza parte dal presupposto che la teologia è scienza​​ sui generis​​ rispetto alle altre scienze: essa è dotata di una propria figura in quanto si autocomprende come intelligenza della fede, e ciò non è adeguatamente riconducibile ad altri generi di sapere umano. Inoltre è inerente ad essa una specifica istanza veritativa e di senso. Al riguardo va chiarito che la configurazione finora proposta di questa disciplina tiene debitamente conto di tale duplice esigenza veritativa e di senso. Lo fa non nella linea di alcuni autori protestanti e cattolici che propongono una combinazione di metodi e, precisamente, l’integrazione di metodi analitici propri delle scienze positive e di sapere ermeneutico proprio delle discipline teologiche, bibliche, storiche e sistematiche. Se ciò risponde all’esigenza di accostare con metodi diversificati aspetti diversi dell’oggetto di studio, si risolve di fatto in un eclettismo metodico, che esige di essere ulteriormente giustificato, per non scadere in accostamento soltanto sincretico delle componenti che prende in considerazione.

La soluzione precedentemente avanzata e motivata è quella di un itinerario metodologico che, nel suo insieme, è empirico-critico. Il ricorso alla fede come orizzonte ultimo di verità e di senso è debitamente integrato in ognuna delle tre fasi di tale itinerario. Tutte e tre, infatti, sono condotte sulla base di criteri evangelici e sono volte, rispettivamente, quella kairologica a percepire il senso, alla luce della fede, di una determinata situazione; quella progettuale a definire gli imperativi di fede da raggiungere e, quindi, il senso cristiano del futuro; quella strategica a identificare e valutare in base a criteri di fede i vari elementi che la compongono e, quindi, il senso di un itinerario cristiano di rinnovamento.

Si tenga presente la distinzione fondamentale tra significati o contenuti di fede e loro formulazioni culturali tanto prescientifiche che scientifiche, e tra verità propria dei significati di fede e verità delle loro formulazioni culturali.

I contenuti di fede sono assunti dalla teologia come principi non dimostrabili: sono semplicemente creduti. In quanto​​ intelligenza​​ della fede, la teologia verifica e falsifica (nel senso appena spiegato) le mediazioni culturali prescientifiche e scientifiche in cui vengono espressi tali contenuti di fede.

Al riguardo, occorre premunirsi contro il rischio di trasferire alla teologia, intesa come sapere umano scientifico, prerogative di verità e di assolutezza che sono esclusive della fede. Ciò è indispensabile se si vuole rendere un servizio corretto sia alla verità di fede e sia alle possibilità del sapere teologico di accedervi con i propri strumenti umani, sempre limitati e inadeguati.

In breve, non si deve identificare la teologia con la fede, il sapere teologico, frutto della ricerca umana, con il senso teologale, dono dello Spirito di Dio, la verità e il valore della fede con la verità e il valore della teologia: la teologia è​​ intelligenza verificabile​​ della fede e non s’identifica con la fede.

Tale distinzione, già basilare nell’ambito della teologia sistematica, è ancor più importante in sede di teologia pastorale o teologia pratica. Infatti, questa mira a formulare giudizi di fede su situazioni concrete, su mete future, su itinerari strategici da seguire per raggiungerle. Tali valutazioni formulate alla luce della fede e tramite un complesso e delicato discernimento teologale, riguardano aspetti contingenti della realtà; rivestono senza dubbio un senso e un valore veritativo, ma in misura diversa da quelli ad es. inerenti a formule bibliche e dogmatiche di fede che si riferiscono a realtà assolute. È quanto viene dichiarato dalla nota esplicativa annessa all’introduzione della​​ Gaudium etspes​​ del Vaticano II.

 

7.​​ Conclusione

II modello di teologia pastorale delineato costituisce un progetto di massima piuttosto ambizioso. Senza dubbio la sua rigorosa attuazione, a raggio di riflessione generale e fondante e a raggio di singole discipline particolari, richiede dal pastoralista l’acquisizione di una solida informazione di base in non poche scienze teologiche e umane interessate al medesimo oggetto di studio. Al pari degli altri modelli di teologia esige dai suoi cultori non un sapere enciclopedico, oggi impensabile e irrealizzabile, ma una specifica competenza teologico-pastorale capace di dialogare con le scienze segnalate.

 

Bibliografia

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