TEMPO LIBERO
Emilio Butturini
1. Concetto e realtà del tempo libero nella tradizione culturale dell’Occidente
1.1. «Memoria» del riposo di Dio e occasione di iterazione dell’uomo nella tradizione ebraicocristiana
1.2. Un privilegio per pochi nella tradizione greca
1.3. La persistente concezione elitaria nell’età romana e nella società medievale e moderna
1.4. Rivoluzione industriale e origine dell’attuale concezione del tempo libero
1.5. La critica marxiana in direzione «utopica» e «riformistica»
1.6. Neocapitalismo e sviluppo del tempo della «conoscenza» e del «consumo»
1.7. Il tempo libero come momento di separazione e di omologazione
2.1. La moderna concezione e realtà dell’età giovanile
2.2. Il forte aumento di tempo libero per i giovani
2.3. La società adulta e il tempo libero giovanile
3. Per un diverso modo di intendere e vivere il rapporto fra il tempo di studio e di lavoro e il tempo libero
3.1. Per una concezione più libera e costruttiva del tempo libero
3.2. Educare i giovani all’uso del tempo, specie attraverso la scuola
3.3. Favorire usi alternativi del tempo libero giovanile attraverso una «strategia delle interconnessioni»
1. Concetto e realtà del tempo libero nella tradizione culturale dell’occidente
1.1. «Memoria» del riposo di Dio e occasione di liberazione delPuomo nella tradizione ebraico-cristiana
Possiamo definire il tempo libero un tempo non lavorativo (direttamente o indirettamente destinato alla produzione del reddito) né «biologico» (destinato alla riproduzione della vita nelle sue esigenze fondamentali), un tempo — per dirla con Huizinga (Homo ludens, 34 e 229) — situato al di fuori della razionalità della vita pratica, al di fuori della sfera del bisogno e dell’utile. Si potrebbe identificarlo con il tempo del gioco, intendendo per gioco un momento categoriale «autonomo» e «libero» della personalità, un momento fondamentale di espressione dell’umanità, dato che «l’uomo gioca unicamente quando è uomo nel senso pieno della parola ed è pienamente uomo unicamente quando gioca» (Schiller F., Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, Armando, Roma 1971, 174). E questo sia nel gioco infantile, dove è dato vedere il massimo di concentrazione e di creatività, sia nell’attività ludica degli adulti, dove è possibile riscontrare una particolare disponibilità ad accettare gli altri davvero come «ugualmente umani», come nota Erikson E. H. (I giocattoli del bambino e le ragioni dell’adulto, Armando, Roma 1981, 42 e 55-56).
Grande il rilievo anche nella tradizione biblica della «festa» e del «gioco», che «prendono senso e luce — come scrive Maggioni B. (Festività, gioco e tempo libero, CEM-Mondialità, 1978, 1-2, 8) — dal riposo di Dio di cui sono un’imitazione e dal riposo futuro di cui sono un anticipo». In Isaia (58,1314) il sabato appare come «delizia dell’uomo nel Signore» e nella visione di Ezechiele (1,4-28; 10,1-22) vi è il volo, del tutto simile a un gioco, dei fiammeggianti Cherubini; come li chiamò Guardini R. (Lo spirito della liturgia, Morcelliana, Brescia 1935, 125-126), mentre nei Proverbi (8,30-31) è la stessa «Eterna Sapienza» che si ricrea ogni momento nella presenza di Dio, «dilettandosi» sulla superficie della terra e ponendo le sue delizie tra i figli dell’uomo.
Festa e gioco sono manifestazione e celebrazione dei doni ricevuti da Dio, della vita anzitutto e poi della liberazione dal faraone, che aveva imposto un lavoro da schiavi. «Sono fannulloni — diceva il faraone — per questo protestano: vogliamo partire, dobbiamo sacrificare al nostro Dio! Pesi dunque il lavoro su questi uomini... non diano retta a parole false» (Es 5,8-9).
La polemica contro il riposo sabbatico come espressione di pigrizia si ritroverà in vari autori greci e latini, che vedranno in essa la perdita della settima parte della vita («Septimam fere partem aetatis suae perdunt vacando», Seneca, De Superst., frg. XII, 41 in Agostino, De Civitate Dei, VI, 11), per non parlare dell’anno sabbatico aggiunto al riposo settimanale blandiente inertia, al dire di Tacito (Historiae, V, 4. Cf Giovenale, XIV, 105-106), anche se Giuseppe Flavio (Contro Apionem, 11,39) osserverà che «non c’è città greca o barbara dove non sia penetrata la pratica del settimo giorno».
La tradizione cristiana si inserisce su quella ebraica ribadendo l’osservanza del «sabato», o meglio della domenica, a ricordo dell’evento centrale della storia della salvezza: la risurrezione di Cristo. Continua infatti la concezione ebraica del tempo, lineare e non ciclica come quella greca, e la visione appunto di una storia della salvezza, ben diversa da ogni metafisica dell’« Aldilà», ma con una nuova «divisione del tempo», che pone il centro della storia non più nell’avvenire ma nel passato, nella venuta del Regno attraverso la vita, la morte e la risurrezione del Signore, anche se rimane l’attesa della «parusia» e del pieno compimento della salvezza (cf Cullmann O., Cristo e il tempo, Il Mulino, Bologna 1965, 106-119).
Vi è poi nel cristianesimo una maggiore sottolineatura del riposo come liberazione dell’uomo («Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato», Me 2,27) e della dignità del lavoro anche manuale. Si pensi a Gesù faber e filius fabri o alla sua attenzione al lavoro umano in tante parabole, al lavoro manuale di Paolo e al suo invito a lavorare per aver diritto di mangiare e poter aiutare i bisognosi, al chiaro riconoscimento della piena dignità del lavoro manuale, contenuto in tanti testi dei padri della chiesa, i quali considerano, ad esempio, come un segno distintivo del cristianesimo il fatto che «Cristo non ha, come Socrate, soltanto filosofi o uomini dotti per discepoli, ma anche operai e persone di poca cultura», come scriveva nel II secolo il filosofo e martire Giustino (II Apologia, 10. Cf anche Didaché, 12; Erma, Pastore, 27; Atenagora, Supplica per i cristiani, 11; Tertulliano, Apologeticus, 46,9; Lattanzio, Divinae Institutìones, II, 25, 2-5; III, 16,16 ecc.).
Si cita, come per ribadire che anche nel vangelo vi è un qualche riconoscimento della inevitabile divisione fra attività manuale e intellettuale, l’episodio di Marta e Maria (Lc 10,38-42), ma questo ha un significato specificamente religioso, con il richiamo a non disperdersi in mille faccende per concentrarsi su ciò che è più importante e dà senso e unità ad ogni altra cosa. Gesù, come aveva, ben capito la tradizione patristica, non aveva inteso avallare la divisione del lavoro, facendo delle due sorelle, come invece è avvenuto nel pensiero scolastico, i simboli di due diverse «professioni». Per la coscienza cristiana non esistono due categorie di uomini, l’homo faber destinato al lavoro e l'homo sapiens destinato alla contemplazione, ma uno stesso uomo che è faber e sapiens ad un tempo, essendo tutti chiamati alla libertà dei figli di Dio (cf Negri A. Le travail dans la nouvelle conscience chrétienne, «Notes et Documents», 11-12, 1985, 104).
1.2. Un privilegio per pochi nella tradizione greca
Ben diversa è la concezione della tradizione classica, caratterizzata da una netta divaricazione fra la classe lavoratrice che deve lavorare per vivere e la classe agiata che è libera da questa necessità ed ha «agio» ( = scholé, dalla radice del verbo écho, ho, possiedo la libertà di disporre del mio tempo) di dedicarsi ad altre attività. Platone nell’Apologia di Socrate (23c), mette un significativo riconoscimento in bocca al suo maestro, che cioè sono i figli delle famiglie più ricche a cercare la sua compagnia e il suo magistero, semplicemente perché essi hanno più tempo, più scholé degli altri. E che non sia una battuta irrilevante viene confermato da un passo del Teeteto (172" - 173b), in cui l’avere o no tempo viene assunto esplicitamente come il tratto discriminante fra i veri uomini liberi (qui identificati con i filosofi) e gli avvocati o causidici che sembrano aver avuto una «educazione da schiavi». «Gli uomini liberi — spiega il Socrate del dialogo platonico — hanno sempre gran tempo a loro agio e i loro discorsi fanno agiatamente e in pace; e, come noi che mutiamo ora argomento per la terza volta, così anch’essi, se d’improvviso un argomento nuovo li attiri più di quello che hanno in mano; e di condurre il discorso più o meno in lungo non si preoccupano affatto, pur di toccare la verità. Gli altri, al contrario, non solo parlano sempre in grande affanno, incalzati come sono dall’acqua che scorre giù dalla clessidra, ma nemmeno hanno libertà di svolgere i loro argomenti come vogliono».
In modo forse più mistificato, Aristotele considera che solo in pochi la ragione agisce davvero come legge di vita; nei più predominano funzioni vegetali o animali o, al massimo, una razionalità strumentale che rende capaci di eseguire gli ordini dei padroni. Il riferimento del filosofo non è solo per gli schiavi, ma anche per i mercanti, i contadini, gli artigiani i bànausoi (che da «lavoranti alla fucina» finì per indicare tutti i lavoratori manuali e assumere il significato di «rozzo» e di «ignobile») ammettendo una netta divisione delle classi, specchio della rigida divisione fra lavoro intellettuale e lavoro manuale.
«Si devono ritenere ignobili — dice Aristotele (Politica, Vili, 1337b) — tutte le opere, i mestieri, gli insegnamenti che rendono inadatti alle azioni della virtù il corpo o l’intelligenza degli uomini. Perciò tutti i mestieri che per loro natura deteriorano la condizione del corpo li chiamiamo ignobili, come pure i lavori a mercede, perché tolgono alla mente l’ozio e la rendono gretta. Riguardo alle scienze liberali, poi, interessarsi di qualcuna entro certi limiti non è indegno di un uomo libero, ma l’occuparsene troppo comporta i danni ricordati». «Altro è l’azione — scrive nell’Etica Nicomachea (IV, 1140" ) — e altro è il lavoro, fosse pure quello del più grande artista; di quest’ultimo vi è un fine diverso da perseguire: il prodotto, mentre dell’azione non vi può essere; il fine infatti è la stessa bontà dell’azione... la perfezione nel lavoro è arte (téchne), nell’azione è virtù (areté)». Per Aristotele non è il tempo libero la fine del lavoro, ma è il lavoro la fine del tempo libero e «la natura stessa cerca non solo di poter operare come si deve ma prima ancora di stare in ozio nobilmente, ed è comunque sempre preferibile l’ozio all’azione, anzi l’ozio è il fine dell’azione» (Polìtica, Vili, 1337”).
Pur ricordando sempre che questa nobile e creativa concezione del tempo libero dei pochi era possibile proprio grazie alla schiavitù dei più e allo sfruttamento del disprezzato lavoro manuale, possiamo riconoscere come intuizione profonda e valida anche oggi quella di Aristotele relativa alla inalienabilità del tempo dell’uomo. Il filosofo greco, anzi, supera per un momento quella che sembrava essere una naturale divisione tra liberi e schiavi, ipotizzando che «se ogni strumento riuscisse a compiere la sua funzione o dietro un comando o prevedendolo in anticipo ... se le spole tessessero da sé e i plettri toccassero la cetra da soli, allora i capi non avrebbero più bisogno di subordinati né i padroni di schiavi» (Politica, 1,1253b).
1.3. La persistente concezione elitaria nell’età romana e nella società medievale e moderna.
La concezione aristocratico-contemplativa fondata sul primato del tempo libero e sul privilegio di pochi passerà non solo dalla Grecia a Roma, ma durerà a lungo anche in epoca cristiana. Per la tradizione culturale romana si ricordi almeno la contrapposizione otium e negotium, come nel greco scholé e ascholi'a, con l’accezione positiva del primo termine otium, che indica il meglio che si può avere nella vita. Si ricordi anche l’otium cum dignitate di Cicerone (Pro Sestio, 45,98), dove vi è un collegamento fra otium e disponibilità alla dignitas, cioè all’impegno politico che, in parte, differenzia da quella aristotelica la posizione di Cicerone. Quest’ultimo ribadisce il disprezzo per il lavoro manovale «nel quale nulla può esservi di degno per un uomo libero» e per i lavoratori (opifices), i quali tutti «in sordida arte versantur» (De officiis, 1,42,150) e riafferma la superiore bellezza delle azioni di un civis excellens rispetto alle opere, anche di valore artistico, di un opifex che si tende invece a privilegiare, mossi dalla passione, non dalla ragione (De finibus, 11,34,115). Sulla scia poi dell’antico Pitagora, paragona la vita umana alle olimpiadi, dove alcuni gareggiano per la gloria, altri per il guadagno e altri si limitano a far da spettatori, e definisce questi ultimi, «qui nec plausum nec lucrum quaererent sed visendi causa venirent studioseque perspicerent quid ageretur et quomodo ... genus vel maxime ingenuum», poiché la contemplazione e la conoscenza sono preferibili a qualsiasi attività pratica (Tusculanae disputationes, V,3,9), come ribadirà Tommaso (S. Th., II-II, q. 182) confermando con citazioni bibliche le otto ragioni addotte da Aristotele.
Questa concezione resta dominante infatti nel medioevo cristiano, nonostante l’esperienza monastica occidentale che possiamo sintetizzare con l’Ora et labora benedettino e nonostante la rivendicazione dell’uguaglianza degli uomini e della dignità del lavoro manuale, contenuta nella tradizione cristiana dei primi secoli, che ha determinato, fra l’altro, il prevalere dell’accezione negativa del termine otium fino a farlo divenire il «padre dei vizi» o il «nemico dell’anima» di cui parla la Regola (cap. 48) di san Benedetto.
La società medievale prima, nella cui cavalleria rivive emblematicamente l’idea del lavoro indegno dell’uomo, e quella moderna poi, fino alla rivoluzione industriale inglese e alla rivoluzione francese, furono rigidamente divise in classi e gerarchizzate, sia pure con caratteristiche diverse, sia rispetto all’antichità che all’epoca attuale. Si trattava infatti di una gerarchizzazione legata più a funzioni sacrali di tipo politico o religioso che a diverse funzioni sociali in senso lato, come era nell’antichità, o a funzioni derivanti dalla divisione tecnica e sociale del lavoro come è oggi. Non mancano perciò nell’età medievale e moderna caratteristiche contraddittorie che esprimono aspetti di vita comunitaria intensamente vissuta con l’attenuazione, invece che con l’accentuazione, delle divisioni sociali e delle divisioni generazionali, maggiore vicinanza tra vecchi e giovani, nobili e popolani.
Allora ben poco diviso era il tempo libero dal tempo di studio e di lavoro, e la collettività partecipava in massa ritualmente, ma come protagonista, a numerose feste, giochi, rappresentazioni drammatiche, analogamente a quanto poteva avvenire nell’epoca arcaica greca, ma non avvenne più nell’epoca ellenistico-romana e non avviene più oggi, a causa della divisione del lavoro e dei ruoli (i professionisti recitano o giocano, mentre la massa assiste, più o meno rumorosamente, a ciò che per essa è divenuto solo uno spettacolo). Il cambiamento poi, avvenuto verso la fine del 1700, non è stato preparato solo dalla rivoluzione economica, scientifica e tecnologica dei secoli precedenti, ma anche dalla rivoluzione culturale e spirituale iniziata a partire dalla Riforma protestante, che stimolò, fra l’altro, a portare l’ascesi cristiana e la vita metodica fuori dai chiostri, dentro la vita mondana, specialmente dentro il lavoro e la professione, visti come occasione privilegiata di effusione della grazia divina. (Si ricordi il concetto di Bewàhrung, di cui parla Weber M., L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze 1977, 138-163, come «esperimento soggettivo a conferma del proprio stato di grazia» legato al proprio impegno di lavoro).
Mezzo per vivere in modo gradito a Dio non è tanto l’ascesi monastica quanto l’adempimento dei doveri del proprio stato compiuti sotto il segno di un’etica dell’iniziativa individuale e della coesione familiare. Questo avrebbe, in particolare, portato a quella che Weber ha chiamato «costrizione ascetica al risparmio», perfettamente interiorizzata, a una trasformazione, per dirla con linguaggio marxiano, di tutta la legge e i profeti nell’unico imperativo di accumulare e di cercare il massimo profitto, da un lato, in vista non del suo godimento, ma del suo reinvestimento e di lavorare, dall’altro, non per pressioni esterne, ma anche qui per una costrizione interiore che finiva per obbligare più di un qualsiasi padrone.
1.4. Rivoluzione industriale e origine dell’attuale concezione del tempo libero
Con la rivoluzione industriale cambia anche il concetto di tempo, iniziandosi il passaggio dal ritmo agricolo stagionale, contrassegnato da precise cerimonie religiose (le «tempora», le «rogazioni», ecc.) al ritmo sempre più frenetico della macchina e del commercio industriale, dal «tempo-ripetizione», al «tempo-produttività». «Il tempo è denaro!». Prima di Paperon de’ Paperoni lo diceva Beniamino Franklin e altri rappresentanti del nascente capitalismo, come documenta ancora l’opera citata di Weber (99113). Da allora «gli orologi delle piazze cominciarono a suonare i quarti d’ora» e «l’avere tanti giorni festivi cominciò a sembrare una sfortuna» (Fromm, Fuga dalla libertà, 58) e si diffuse quello che Nietzsche chiamò il vero vizio del mondo moderno, la frenesia del lavoro, il pensare con l’orologio alla mano, vivere come se si temesse continuamente di perdere un affare (cf Nietzsche F., La gaia scienza, Casini, Roma 1955, 289).
È con l’avvento dell’organizzazione industriale del lavoro che vengono accantonate progressivamente le feste e al loro posto si è venuto insediando il tempo libero, essendosi realizzate le due condizioni che hanno reso ciò possibile: le attività sociali non sono più regolate interamente dagli obblighi comunitari; il tempo di lavoro è nettamente separato e separabile dal tempo libero (Dumazédier, Sociologia del tempo libero, 37). Nella prima fase del processo di industrializzazione, già colta in alcune sue linee fondamentali nell’opera di Adam Smith, vi è tutto lo sforzo di delineare e far sorgere la nuova divisione tecnica del lavoro, cui corrisponde una divisione sociale che ben riecheggia l’antica. Smith giunge a parlare di razze diverse di uomini quando, ad esempio, sostiene che vi è un livello di salario sotto cui non conviene andare ed è quello che deve permettere non solo la sopravvivenza del lavoratore, ma anche quella della sua famiglia, altrimenti «la stirpe di questi lavoratori non potrebbe durare oltre la prima generazione» (La ricchezza delle nazioni, 1,8). Smith anzi riconosce che da una tale divisione del lavoro derivano grossi svantaggi per i lavoratori, perché «chi passa tutta la sua vita a eseguire poche semplici operazioni, i cui effetti sono sempre gli stessi o quasi, non ha occasione di esercitare l’intelletto o la sua inventiva nell’escogitare espedienti per superare difficoltà che non si presentano quasi mai; perciò egli perde naturalmente l’attitudine di questo esercizio e generalmente diventa tanto stupido e ignorante quanto può diventarlo una creatura umana» (V, 1, parte II, art. 2).
Di tempo libero allora ce n’era ben poco, dati i massacranti orari di lavoro cui venivano sottoposti i lavoratori, in prevalenza donne e bambini, come è proprio di ogni fase iniziale dell’industrializzazione. È caratteristica di questa fase la tendenza a emarginare quelli che Marx chiama i «lavoratori maschi adulti», «indisciplinati», «con abitudini irregolari di lavoro» — quelle legate alla vita libera dei campi o delle botteghe artigiane, con una rigidità minore nei ruoli, nei ritmi di lavoro — e a sostituirli con donne da millenni abituate a ruoli esecutivi, ripetitivi e subordinati, e da fanciulli, «dallo sguardo pronto e dalle dita sciolte» (cf Marx K., Miseria della filosofia, Ed. Riuniti, Roma 1950, 119-121).
Per gli adulti di allora il tempo libero era molto spesso tempo vuoto, tempo disoccupato, impiegato sovente a «gavazzare nelle bettole», come diceva la retorica piccolo-borghese della scuola per pochi di quel tempo, ignorando fra l’altro, o sapendo fin troppo bene cosa significassero le bettole per le nascenti organizzazioni del movimento operaio di vari paesi. Per gli altri uomini poi, per le donne e i bambini inseriti nel lavoro, di tempo libero proprio non ne restava, dato che la classe dominante lo riservava per sé, «trasformando in tempo di lavoro tutto il tempo che le masse avevano a disposizione per vivere» (Marx K., Il Capitale, 1,2, cap. 15, Avanzini e Torraca, Roma 1965, 224).
1.5. La critica marxiana in direzione «utopica» e «riformistica»
Contro queste inumane condizioni di lavoro si appunta la critica marxiana, sia come rivendicazione di un effettivo tempo libero anche per i lavoratori, attraverso la riduzione della giornata lavorativa, sia come tensione utopica verso un lavoro libero per tutti, «verso una attività libera e produttiva cosciente che è il carattere specifico dell’uomo così coma la vita produttiva è il carattere della specie» (Manoscritti economico-filosofici, Einaudi, Torino 1949, 77-78).
Un tale lavoro libero potrà realizzarsi nella società comunista, dove «ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva, ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, mentre la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di far questo oggi, domani quello, la mattina andare a caccia, il pomeriggio a pescare, la sera allevare il bestiame, dopo il pranzo criticare, così come mi viene voglia, senza diventare né cacciatore, né pescatore, né critico» (L’ideologia tedesca, Ed. Riuniti, Roma 1958, 24), quasi si potesse prolungare una privilegiata condizione giovanile nella quale «tutto piace e varietà e quantità bastano ad appagare», come scrisse Goethe (Lehrjahre, 1,7-8), in passi che Marx doveva ben conoscere.
«Il regno della libertà — aggiunge però Marx — inizia solo dove termina il lavoro comandato dalla necessità e dalla finalità estrinseca; per questo si trova al di fuori della sfera della produzione materiale propriamente detta... Al di fuori di essa inizia lo sviluppo delle facoltà umane, che è fine a sé stesso, la reale sfera della libertà, che può sorgere tuttavia solo fondandosi su quella sfera della necessità. Condizione preliminare allora è la riduzione della giornata lavorativa» (Il Capitale, III, 48, 396-397).
Anche in questo passo famoso Marx, pur riecheggiando motivi propri del pensiero di Aristotele, definisce sì il tempo libero in rapporto al tempo di lavoro, ma sempre nella tensione verso il superamento dell’antitesi fra lavoro e tempo libero. Il lavoro non è solo merce da contrattare con i padroni, ma anche «attività vitale propria del lavoratore, espressione personale della sua vita», che egli è costretto a sacrificare nel sistema capitalista, come nota in Lavoro salariato e capitale (Ed. Riuniti, Roma 1949, 34), e che può invece realizzare come obiettivo fondamentale, insieme con il superamento della divisione del lavoro e con lo sviluppo onnidimensionale degli individui, in una fase più avanzata della società comunista, come scrive nella Critica del programma di Gotha (in Marx K., Engels F., Il Partito e l’Internazionale, Ed. Riuniti, Roma 1948, 232).
Ritorna insomma in Marx il «mito» tipico della tradizione culturale tedesca (Schiller, Goethe, Burckhardt) del Ganzmensch (l’uomo totale), contrapposto al Teilmensch (l’homme fractionnaire dei francesi), inevitabilmente contrassegnato dall’unilateralità (Einseitigkeit), con la chiara consapevolezza però delle ragioni storiche che avevano portato alla divisione del lavoro e della conseguente necessità di lottare anche per obiettivi limitati come quelli suggeriti nella conclusione della II parte del Manifesto.
Era questa anche la lezione del Guglielmo di Goethe (o dell’Emilio di Rousseau, Ed. La Scuola, Brescia 1965, 243-263) che alla fine si rassegna a un’attività determinata (cf Wilhelm Meisters Wanderjahre del 1829, col significativo sottotitolo Die Entsagenden, «I rinuncianti»), a cui si era ribellato, in nome della «formazione generale» (Allgemeine o harmonische Bildung) nei Lehrjahre del 1795-1796, poiché — come scrive alla fine del II libro dei Wanderjahre (cf La provincia pedagogica, a cura di Negri A., Armando, Roma 1974,28) — quello che conta per essere «uomini utili» (brauchbaren Menscheri) è che «si comprenda con sicurezza assoluta qualcosa e lo si sappia compiere opportunamente».
1.6. Neocapitalismo e sviluppo del tempo della «conoscenza» e del «consumo»
L’ulteriore progresso dell’evoluzione tecnologica, anche in direzione di una economia del tempo di lavoro domestico, e le lotte del movimento operaio, a cui si sono poi aggiunte quelle del movimento femminile, non senza nuovi contrasti e nuove tensioni (talora con le stesse organizzazioni operaie), portano a modificare ulteriormente, specie a partire dai primi decenni del 1900, il rapporto fra tempo libero e tempo di lavoro, anche domestico: è la fase che si può schematicamente chiamare neo-capitalistica o di capitalismo avanzato, comprendendovi però dentro, per molti aspetti, anche i paesi del «socialismo reale». Ora in questa fase, accanto a una divisione del lavoro per certi versi ulteriormente accentuata per la centralizzazione dei processi di progettazione, informazione e controllo, esiste la tendenza ad elevare il livello culturale e professionale dei lavoratori, chiamati a far funzionare macchine sempre più complesse e a introiettarne in qualche misura il capitale tecnologico. Di qui — oltre che dalla continua diminuzione della domanda di lavoro — il fenomeno della «esplosione della scolarità», non privo di aspetti positivi, come la diffusione della cultura umanistica e scientifica, che si affianca alla cultura popolare e dei mass-media, con la «possibilità» di esserne il filtro critico e il superamento del pregiudizio che lo studio debba essere privilegio di pochi.
In particolare si nota che è aumentato sì progressivamente il tempo libero, ma che questo fenomeno è anche il frutto di una logica interna all’attuale fase del processo di industrializzazione, che tende a inglobare i lavoratori nel proprio mercato, fornendo loro non più solo un tempo di riposo e di ricupero per la produzione della forza lavoro, ma anche maggiori elementi di conoscenza, da spendere generalmente al di fuori dell’ambiente di lavoro, e maggior tempo da dedicare ai consumi. La tendenza è quella di togliere spazi di decisione e di reale partecipazione nel tempo di lavoro trasferendo il naturale desiderio di scegliere e di vivere liberamente nel tempo libero e facendo di quest’ultimo il punto di riferimento privilegiato per l’espressione della personalità «che si va sempre più sviluppando — come nota un classico della sociologia degli anni cinquanta — in funzione del tempo libero e durante il tempo libero» (cf Riesman D. e altri, La folla solitaria, 300). In realtà in questo tempo si finisce per essere «scelti» dalla pubblicità (dei padroni e-o dello stato) e dai modelli di vita, amplificati dai mass-media e presentati come ideali, rispetto ad altri lasciati nel silenzio e per fare le scelte più conformistiche e consumistiche, sperimentando come velleitaria o illusoria la «differenza» (nel senso di spazio offerto alla libertà o alla creatività) del tempo libero rispetto alla ineludibile «indifferenza» del tempo di lavoro (cf Campanini G., Verso una società dell’indifferenza?, «Aggiornamenti Sociali» 1985, 9-10, 601-616).
1.7. Il tempo libero come momento di separazione e di omologazione
L’ambiguità del concetto e della realtà del tempo libero si è venuta così accentuando, essendo aumentato, per dirla con Fromm (Fuga dalla libertà, 40), lo sfasamento «tra libertà da...» e «libertà di...». È aumentata cioè la libertà dai condizionamenti esterni ma non è aumentata la libertà espressiva, la libertà di esprimersi per qualche cosa che vale. Nel sistema oggi dominante nei paesi capitalistici o del «socialismo reale» due sembrano gli obiettivi perseguiti: accentuare la separazione fra tempo di lavoro e tempo libero, fare del tempo libero un tempo di omologazione, di standardizzazione.
Col primo obiettivo si mira ad allargare la separazione fra il «momento etico» del lavoro e dello studio, accettato anche come luogo di contrattazione e quindi di conflitto sociale e ideologico, e il «momento estetico» del tempo libero concepito privatisticamente ed edonisticamente, ridotto all’evasione, al dilettantismo superficiale, e quindi a una maggiore subordinazione, più o meno avvertita, all’ideologia dominante. Staccando gli individui dai problemi del proprio tempo di studio e di lavoro, si mascherano le differenze sociali e si pongono le basi per il raggiungimento del secondo obiettivo: l’omologazione. Il conformismo di massa mira a far passare la cultura (linguaggi, comportamenti, valori) che, pure con qualche tentativo di correzione, domina nelle istituzioni (famiglia, scuola, mondo del lavoro, ecc.) secondo la funzione-medium indicata da Frabboni per l’attuale tempo libero accanto alla funzione-premio per l’assolvimento dei doveri istituzionali e alla funzione-scarico, con cui si delega ad alcuni «eroi» (cantanti, attori, atleti, politici...) la realizzazione di istanze esistenziali (bellezza, celebrità, successo...) per trasferire e-o sopire così i propri insuccessi o fallimenti, le proprie frustrazioni o ribellioni (cf Il tempo libero giovanile tra partecipazione ed emarginazione, 42-43,47).
Le stesse attività che pure manifestano l’intenzione almeno di non rassegnarsi a ruoli passivi di spettatori e consumatori o di non farsi «catturare dal tempo libero organizzato» (cf Livolsi M., Identità e progetto, La Nuova Italia, Firenze 1987, 135) finiscono spesso per essere segnate in vari modi dal conformismo. Si è proposto da parte di alcuni settori sindacali di diminuire ulteriormente il tempo di lavoro, senza diminuire il salario così da dare ai lavoratori più tempo libero e da «racimolare» nuovi posti di lavoro. Probabilmente, a prescindere da considerazioni sul costo del lavoro e sulla competitività dei nostri prodotti, i lavoratori non saprebbero che fare del tempo libero in più e finirebbero per incrementare il fenomeno del secondo o del terzo lavoro, rendendo ancora una volta vero il motto apparentemente paradossale «Less work, less leisure»: «Meno lavoro, meno tempo libero». Il fatto è che per un tempo libero veramente alternativo occorrerebbero non gli stessi soldi, ma molti di più e, soprattutto, una diversa cultura (il che richiede di nuovo altre risorse e tempi lunghi) e, a monte, una diversa organizzazione del lavoro e del rapporto fra questo e il tempo libero.
2. Giovani e tempo libero
2.1. La moderna concezione e realtà dell’età giovanile
A differenza dei Paesi del Terzo Mondo, dove rappresentano la maggioranza della popolazione, nei nostri paesi sviluppati le fasce giovanili rappresentano una minoranza che si restringe sempre più, non senza rilevanti conseguenze sull’identità generazionale e sui rapporti col mondo degli adulti.
Ma per giovinezza cosa si intende? Possiamo ancora intenderla con lo Zibaldone leopardiano (30 giugno 1828) come quell’età «ineguagliabile» quasi «divina» che va «dai sedici ai diciotto anni»? Senza volerci mettere in complesse discussioni sulle classificazioni degli stadi di età, diverse a seconda delle diverse discipline, possiamo limitarci ad assumere il termine «giovanile» con un’accezione molto elastica, confortati dal fatto che questa accezione, oltre ad essere stata accolta da varie discipline, è ormai di dominio comune.
Sempre più comune sta infatti diventando una realtà «giovanile», che tende a coprire l’arco dell’adolescenza, da un lato, e quello della prima età adulta, dall’altro (la Legge 285-1977, ad esempio, sull’occupazione giovanile riguarda la fascia 15-29 anni), anche se è diffusa l’abitudine di continuare a chiamare e considerare giovani anche uomini di 30 o più anni e se non mancano studiosi che tendono a vedere anche gli adolescenti con meno di quindici anni come «adulti marginali», per l’influsso di strutture socioeconomiche fondate sul profitto e sul potere di minoranze privilegiate (cf Lutte G., Psicologia degli adolescenti e dei giovani, Il Mulino, Bologna 1987, 54-56).
Pur essendo adolescenza e giovinezza concetti antichi, essi non coprivano lo stesso arco di tempo (L’adulescentia poteva andare anche oltre i trent’anni e la Juventus toccare i cinquanta!) e, soprattutto, non indicavano la stessa realtà. E solo negli ultimi secoli — a partire, forse, dall’Emilio di Rousseau (1762) e dallo Sturm und Drang de I dolori del giovane Werter di Goethe (1774) — che è nato il mito della giovinezza, che vi è stata cioè la mitizzazione di un’età caratterizzata dalla «esperienza dell’inesperienza», dalla tendenza non tanto a operare concretamente nel mondo, quanto a ridurlo al «mondo nella testa», dalla sensazione che la felicità si raggiunge piuttosto attraverso il compiaciuto e prolungato presentimento di tutto quello che si potrebbe fare anziché attraverso il lavoro compiuto (cf Schelsky H., Gli equivoci di una speranza, Armando, Roma 1984, 92-116).
Contestualmente a questa nuova concezione nasceva la moderna istituzione scolastica, caratterizzata da una tipica concentrazione spazio-temporale e da una peculiare attività di trasmissione di contenuti, considerati di valore universale, attraverso specifiche forme di «rappresentazione simbolica» o di «simulazione» della realtà, come appare emblematicamente dalle fonti storiche e da quelle letterarie, a partire almeno dalla provincia pedagogica goethiana. Questa concezione e questa istituzione, proprie all’inizio di ristrette minoranze della nuova borghesia intellettuale più che dalla vecchia aristocrazia, si sono progressivamente diffuse in tutti i ceti e coinvolgono oggi di fatto, nelle società postindustriali, la maggioranza dei giovani.
2.2. Il forte aumento di tempo libero per i giovani
Il problema del tempo libero interessa in modo particolare i giovani, sempre più esclusi dal mondo del lavoro e indirizzati in massa verso la scuola, sia pure una scuola nettamente differenziata, come in Italia, fra livello dell’obbligo e livello successivo e con una suddivisione oggettivamente classista degli ordinamenti in questo secondo livello o, nel caso di una scuola unica fino alle soglie dell’università, come negli USA, con una differenziazione dei curricoli e-o delle scuole pubbliche da quelle elitarie private. A partire comunque dagli anni ’30 negli USA e dagli ultimi anni ’50 in Italia la scuola ha finito per riempirsi di studenti non solo e non tanto per ragioni culturali di apprezzamento di essa come fattore di mobilità sociale, ma anche e soprattutto per ragioni strutturali di carattere socio-economico che hanno portato a una costante diminuzione della forza attiva palese. Dopo l’era primaria della società contadina dove quasi tutti lavoravano, compresi vecchi e bambini, e dopo l’era secondaria della società industriale e l’era terziaria dei servizi, si sta entrando anche nel nostro paese in una nuova era, quella quaternaria, dove i più non lavorano, specie fra i giovani, costretti a restare a lungo «in attesa di una prima occupazione».
Se è vero che la complessità della società attuale rende più difficile l’adattamento al mondo adulto, è anche vero che il lungo tempo di preparazione è tecnicamente in eccesso rispetto alle esigenze effettive del lavoro che la stragrande maggioranza è chiamata a compiere. La scuola «parcheggio della disoccupazione giovanile» (e della sottoccupazione adulta) è una realtà oggettiva, che deve però essere analizzata in modo articolato, a seconda del sesso, della classe sociale e della zona geografica di appartenenza. Infatti, sebbene alcuni indicatori, più di carattere culturale che socio-economico, portino a identificare la fascia generazionale quasi con una nuova classe sociale, permangono discriminazioni tra effettive opportunità lavorative offerte a giovani maschi e quelle offerte alle femmine, tra diplomati e laureati e giovani privi di tali titoli, e anche fra diplomati e laureati di diversa estrazione sociale, dovendo spesso quelli di estrazione sociale modesta accontentarsi di posizioni lavorative meno prestigiose e lasciare generalmente le posizioni migliori ai figli di coloro che già le occupano.
La conseguenza è quella di un grande incremento, specie per i giovani, del tempo libero, che rischia però di ridursi per molti a «tempo vuoto», come è tipico dei giovani del Terzo Mondo o, comunque, degli emarginati. Parallelamente alla caduta dei meccanismi costrittivi nell’ambito familiare, scolastico, sociale in genere, i giovani si sono trovati di fronte al problema dell’impiego di un tempo che veniva progressivamente liberandosi non solo dopo il titolo di studio (disoccupazione o semidisoccupazione intellettuale), ma già durante il tempo di scuola, sempre più lasciato alla discrezione degli studenti (crescente assenteismo, in genere concordato, almeno con la famiglia, diffusione di forme più o meno istituzionali di autogestione, ecc.). Nonostante che oggi più di ieri sia possibile per un numero più ampio di persone un lavoro libero, «un lavoro — per dirla con Mills W. (Colletti bianchi, Einaudi, Torino 1966) — sempre più apprezzato secondo i criteri del tempo libero», è chiaro che tale obiettivo non può tradursi subito e pienamente in realtà per tutti, mentre cominciano a divenire massa i figli di lavoratori subordinati che hanno fatto la scuola secondaria superiore o universitaria e tendono a rifiutare la condizione di lavoro e di vita dei loro genitori, generalmente incoraggiati da questi ultimi, che continuano a farsi carico del loro mantenimento. Esiste cioè una reale contraddizione fra una diffusa aspirazione — rafforzata anche da una dominante cultura del «narcisismo» o della «liberazione dei desideri» — a fare di tutto il proprio tempo di vita un tempo di autorealizzazione e la domanda di lavoro, che continua ad essere espressa con ben pochi spazi di libertà, con una netta separazione fra tempo di lavoro e tempo libero e una profonda disarmonia tra sviluppo produttivo e sviluppo della scolarizzazione e della cultura giovanile. Di fronte ai giovani che rifiutano un certo tipo di lavoro, il sistema non si è modificato, ma ha tendenzialmente emarginato i giovani, chiamando ad assumere i ruoli da loro rifiutati altri lavoratori, provenienti in genere dal Terzo Mondo, così come era avvenuto nella Germania federale con gli Italiani, gli Spagnoli o i Turchi o negli USA con i neri.
2.3. La società adulta e il tempo libero giovanile
Da quando si cominciò a porre il problema del tempo libero giovanile, a partire dal secolo scorso, non mancarono iniziative promosse da adulti per giovani, dapprima solo nell’ambito aristocratico e borghese, dato che per gli altri ceti il problema si poneva in termini del tutto marginali. Fra i primi a interessarsi del problema anche per i ceti popolari furono i cattolici (il primo «oratorio» di don Bosco è del 1841), impegnati generalmente in istituzioni come i collegi, gli oratori, i ricreatori, con l’organizzazione di attività ricreative, teatrali, musicali, sportive (nel 1906 la Gioventù Cattolica fondò la FASCI, Federazione Associazioni Sportive Cattoliche Italiane). Si trattava di attività con esplicita intenzionalità educativo-religiosa, in alternativa alle borghesi «società ginnastiche» o anche ai primi circoli ricreativi e sportivi aziendali, mentre in area socialista non si tentò neppure di proseguire e sviluppare le iniziative promosse dalle società di mutuo soccorso di ispirazione mazziniana e ancora nel congresso di Firenze dei giovani socialisti (1909) si negò «il diritto di cittadinanza a sezioni sportive non avendo bisogno le nostre idealità di nessuna réclame» (cf Orlandi G., in Il tempo libero giovanile tra partecipazione, 53-56).
Si può dire che nel nostro secolo da parte delle istituzioni pubbliche si sia seguita una duplice politica, con fini di fatto convergenti: quella del lassismo, che abbandona spazi, contenuti e modalità di impiego del tempo libero alla speculazione dei privati, con scarso o inesistente coinvolgimento pubblico; quella della irreggimentazione della gente in un uso del tempo libero in gran parte estraneo alla realizzazione delle singole personalità e imposta dallo stato.
Pur essendo queste due politiche in qualche misura complementari, si può dire che la prima sia caratteristica dei paesi occidentali, a cominciare dagli USA degli anni ’30, e la seconda sia riscontrabile nei paesi del cosiddetto socialismo reale e sia stata da noi una macroscopica realtà al tempo del fascismo, delle sue associazioni giovanili e no (l’Opera Nazionale Dopolavoro e l’Opera Nazionale Balilla del 1926, poi, dal 1937, la Gioventù Italiana del Littorio), che peraltro divennero un effettivo punto di riferimento, anche nel Mezzogiorno, dove gli unici circoli esistenti erano in genere di nobili o borghesi. Ciò segnò la fine o l’integrazione o, comunque, l’emarginazione di tutte le altre iniziative, comprese quelle cattoliche, come mostrarono le vicende degli Scouts (1927-28) e della stessa Azione Cattolica (specie nel 1931, con «l’epilogo poco dignitoso e rassicurante», secondo l’allora assistente centrale della FUCI mons. Montini, del nuovo accordo di settembre che riservava all’Azione Cattolica solo «trattenimenti d’indole ricreativa ed educativa con finalità religiose»).
Nel secondo dopoguerra vi sarà — accanto alla sopravvivenza di istituzioni governative come l’ENAL, il CONI o la Gl — la ripresa dell’associazionismo laico e cattolico, legato ai partiti, con i circoli «Libertas» della DC, i circoli UISP legati a PCI e PSI e, dal 1957, FARCI, caratterizzata, fra l’altro, da una progressiva rivendicazione di autonomia del tempo libero non solo dalla «industria culturale», ma dagli stessi partiti o l’associazionismo legato alla Azione Cattolica (CSI, CTG, FARI, ecc.), con significative evoluzioni dopo il Concilio, nel senso di maggiore autonomia e di concezioni meno strumentali delle attività ricreative o sportive.
Ma sarà alla fine degli anni ’50 e all’inizio degli anni ’60 (gli anni del «miracolo economico») che anche nel nostro paese si affermerà un tempo libero tipico da società industriali di massa con il progressivo emergere di quelli che Frabboni chiama i nuovi «padroni» o sponsor del tempo libero, generalmente privati che offrono i loro servizi a pagamento, differenziati e «differenzianti» sul piano sociale, con un’ambigua funzione di supplenza rispetto ad un intervento pubblico inesistente o carente o, comunque, in ritardo rispetto alle richieste dei cittadini. Mentre i vecchi padroni (famiglia, scuola, mondo del lavoro) decidevano sul «quando-dove-con chi» impiegare il tempo libero, lasciando nelle mani del soggetto la determinazione del «cosa», i nuovi padroni pretendono di invadere anche i contenuti, aumentando passività e conformismo. «L’immagine perversa» che ne emerge è quella di «un soggetto (i ragazzi in particolare) impacchettato nei tempi pomeridiani e depositato su una catena di montaggio del loisir, dove tutto è già prefissato: la successione delle ore (il quando) e delle sedi (il dove), la formazione dei gruppi (il con chi), la sequenza delle attività da svolgere nelle singole sedute (il cosa)» (Frabboni F., in II tempo libero tra partecipazione, 44-45), con i genitori — si potrebbe aggiungere — che si limitano a fare da accompagnatori (taxisti) dei figli nelle varie agenzie.
3. Per un diverso modo di intendere e vivere il rapporto fra il tempo di studio e di lavoro e il tempo libero
3.1. Per una concezione più libera e costruttiva del tempo libero
Non si può negare a questo punto la validità teorica profonda delle posizioni di coloro che, specialmente tra i giovani, tendono oggi non tanto a un aumento di tempo libero quanto a un lavoro libero, «liberato cioè — come dice Cox H. (La città secolare, Vallecchi, Firenze 1968, 191) — dalla schiavitù del mercato, libero di divenire qualcosa di molto vicino a ciò che oggi chiamiamo tempo libero, cioè il fare qualcosa perché lo si desidera». Questa tendenza richiama, in modo più o meno consapevole, l’antica utopia aristotelica, sia pure dimenticando, per un momento, che essa era fondata sul supersfruttamento delle masse da parte dei pochi, o la più recente utopia marxiana, tesa al superamento dell’antitesi tempo di lavoro-tempo libero.
Di fatto, però, anche oggi, una minoranza privilegiata monopolizza il diritto di avere un lavoro non alienato, espressivo, libero da orari, regole, subordinazioni gerarchiche ecc., amministrando e clientelizzando gli altri uomini, costretti alla condizione di lavoratori subordinati, con un lavoro che non li esprime né li realizza, consistendo nella esecuzione passiva di quanto è ordinato, né è mezzo di effettiva socializzazione, dovendo ciascuno lavorare alla propria macchina (o computer), mentre il rumore, la distanza, la fretta stessa di scappare da una tale situazione impediscono ogni forma autentica di comunicazione. Il corrispettivo pressoché ineludibile di una tale forma alienante di lavoro è una forma altrettanto alienante di consumo del tempo libero, o, meglio, di un tempo vuoto, di fatto in continuo crescendo. Ciò non toglie che divenga sempre più generalizzata l’aspettativa di un lavoro libero, della possibilità aperta a tutti di fare del proprio tempo di vita un tempo di autorealizzazione e di soddisfazione creativa.
Del resto, se c’è una costante nella riflessione pedagogica su questo problema è l’affermazione dell’unicità del tempo umano che è appunto «unico o tendente ad unificarsi nella misura in cui l’uomo cerca di realizzare in esso la propria umanità» (Laporta R., Il tempo libero giovanile, 15), per cui gioco e lavoro, necessità e libertà non devono opporsi ma integrarsi e «durante l’età evolutiva il soggetto deve essere educato a trovare nella vita la loro complementarità, per essere pronto da adulto a vivere con libertà le necessità di lavoro e gli obblighi sociali e con disciplina le attività di riposo e di svago» (Viotto P., Pedagogia e politica del tempo libero, 171). Apprezzando gandhianamente sia la bellezza dell’ideale che illumina e orienta ogni azione, sia la «bellezza del compromesso», che permette di fare il primo passo concreto verso l’ideale, è necessario ricercare elementi per una concezione più valida e creativa di un tempo libero, sia pure sempre «separato» dal tempo di lavoro e con il rischio quindi di «dissociazioni schizofreniche» e di appiattimento delle programmazioni per un futuro come «semplice estrapolazione del presente» (Bertin G. M. in Butturini E., Per un impiego alternativo del tempo libero giovanile, 102-105). In questa prospettiva, più realistica che profetica, si pone anche l’insegnamento conciliare (GS 61) con l’invito a impiegare il tempo libero «per distendere lo spirito, per fortificare la salute dell’anima e del corpo, mediante attività e studi di libera scelta, mediante viaggi... esercizi e manifestazioni sportive, che giovano a mantenere l’equilibrio dello spirito anche nella comunità ed offrono un aiuto per stabilire fraterne relazioni fra gli uomini».
Secondo Dumazédier J. (Sociologia del tempo libero, 95-101) si possono assegnare tre scopi fondamentali al tempo libero: la distensione (délassement) come riposo dalla fatica fisica e-o psichica, il divertimento (divertissement) nel senso di liberarsi dalla noia, dalla routine quotidiana, e il développement o sviluppo della personalità.
Viotto (Pedagogia e politica, 81-82), sulla scia di Laloup e di altri, propone di aggiungere alle tre «d» di Dumazédier una quarta, il dépassement, il superamento del piano sociale e culturale in quello religioso, ma non per contrapposizione o sovrapposizione, poiché il tempo libero è un anticipo della gratuità, della libertà creatrice e della gioiosa comunione degli uomini fra di loro e con Dio. Occorre evitare anche il rischio rilevato da Laporta (Il tempo libero giovanile, 21-22) di escludere dal tempo libero ogni momento della vita familiare, professionale, sociale e politica, quasi che essa, oltre a obblighi e necessità, non offrisse anche numerose occasioni di «autorealizzazione», di «arricchimento della personalità», nonché di «divertimento» e di «riposo».
Di fatto Dumazédier si limita a riconoscere la radicale ambiguità del tempo libero che può favorire il progresso o il regresso di una nuova cultura, che può stimolare alla partecipazione o all’evasione, equilibrando la stessa vita di lavoro o distruggendo ogni interesse per i problemi posti dal lavoro fino a divenire «un possibile fattore di depoliticizzazione, un nuovo oppio dei popoli» (op. cit., 56. Cf per lo sviluppo dell’ipotesi «regressiva» il recente libro di Postman N., Divertirsi da morire). Per uscire da questa ambiguità egli propone di potenziare motivazioni e interessi per la cultura e l’educazione, promuovendo nuove forme di animazione socio-culturale che pongano come obiettivo primario la partecipazione dei cittadini alla gestione del proprio tempo di vita.
3.2. Educare i giovani all’uso del tempo, specie attraverso la scuola
Quello che Dumazédier propone in generale va applicato in modo particolare ai giovani a cominciare dalla famiglia e dalla scuola. La scuola specialmente non può continuare a preparare l’uomo per un terzo della sua giornata (quello dedicato al lavoro), col rischio di collaborare a ridurlo a questo terzo. Anche un rappresentante della pedagogia marxista, Suchodolski B. (Trattato di pedagogia generale, Armando, Roma 1964, 148-152) lamenta che si sia «concentrata l’attenzione sulla formazione professionale», non avvertendo l’importanza sociale di favorire il processo di «evoluzione delle tendenze ludiche in capacità creative», in modo da mantenerne «l’essenziale funzione e il contenuto per tutto l’arco della vita umana».
Dire che la scuola deve anche educare al tempo libero non significa fare della scuola l’unica «agenzia educativa» o negare l’opportunità di un «terzo ambiente educativo», dove abbia una funzione fondamentale il libero associazionismo giovanile. A ragione Viotto (Pedagogia e politica, 178-195) osserva che «la scuola educa al tempo libero ma non è un’istituzione di tempo libero» e che «l’autentico tempo libero dello studente deve essere libero anche dalla scuola». Si può anche ammettere che nella scuola prevalga inevitabilmente il tempo obbligato in misura tanto maggiore quanto più ci si rivolge a «personalità in via di strutturazione», per le quali «ogni istante di esperienza può essere essenziale per il futuro dell’individuo, ogni istante dovrebbe essere controllato» (Laporta, Il tempo libero giovanile, 45), tenendo, comunque, ben presente che non si educa al tempo libero parlando di tempo libero, ma facendo vivere esperienze positive di esso anche nelle ore di scuola.
Educare al tempo libero vorrà allora dire anzitutto rispettare il tempo libero degli allievi, non sovraccaricarli di lavoro quasi si trattasse di «mere unità scolastiche», non rendere pesanti e noiose le lezioni, sapendo attivare quei «momenti di sosta, in cui tutta la classe si distende in serenità e allegria» (Bertin G. M., Educazione alla socialità, 172173), che altrimenti sarebbero provocati inevitabilmente dagli allievi, con minori possibilità di far fare anche di questi momenti esperienze gratificanti e formative. Così come gli adulti tendono a ritagliarsi spazi, più
0 meno legittimi, di libertà nell’ambito del lavoro, a maggior ragione i ragazzi hanno un bisogno fisiologico di momenti di distensione, di divertimento, di libera espressione della propria personalità, «ritagliati» nell’ambito degli obblighi scolastici, familiari e sociali, i cosiddetti «tempi liberi di origine psicologica», di cui parla Laporta (Il tempo libero dai sei agli undici anni, La Nuova Italia, Firenze 1968, 10-15). Educare al tempo libero vorrà in particolare dire aiutare i giovani a divenire capaci di organizzare il loro tempo di vita, facendo acquisire una «temporalità» adeguata per ogni azione, attraverso la convinzione — maturata in esperienze concrete — che vi è un tempo dello studio che non si identifica con quello della lezione o un tempo della conversazione e del dialogo diverso da quello dell’assemblea o del lavoro nei gruppi e nelle associazioni. Si tratterà di favorire l’autorealizzazione e la libera socializzazione dei giovani, troppo spesso carente in questi ultimi tempi per il non adeguato impegno di autenticità e di comunicazione degli educatori adulti e per la mancata trasformazione in momenti di socializzazione educativa delle varie occasioni di «gestione sociale» o, comunque, «partecipativa» prevista dalla recente legislazione, non solo in ambito scolastico.
Si tratta di riuscire a fare dei vari «spezzoni» di vita momenti ugualmente espressivi di un unico tempo dell’uomo e per l’uomo, di vivere, in particolare, il tempo libero come occasione sì di recupero, ma anche e, prima ancora, di espressione di nuove e diverse energie o di quella che Bertin ama chiamare la «vitalità personale», valorizzata e raffinata in sé stessa e «in direzione di disponibilità sociale» (Educazione alla socialità, 167). «Divertirsi» non dovrà voler dire «evadere», dimenticare le contraddizioni e i conflitti, distrarsi insomma dalla vita e dai suoi problemi più seri, ma imparare anche a sorridere di essi, a sdrammatizzarli, a coglierne la parzialità, per aprirsi a nuove possibilità, per tendere ad essere davvero, in misura crescente, «liberi a tempo pieno».
3.3. Favorire usi alternativi del tempo libero giovanile attraverso una «strategia delle interconnessioni»
Perché infine famiglia e scuola riescano a educare i loro figli-allievi a un uso alternativo del tempo libero, occorre coinvolgere tutte le realtà operanti sul territorio del settore pubblico e privato e del «privato sociale», quelle almeno disponibili a lasciarsi coinvolgere in un «progetto educativo», che individui luoghi e momenti di positiva interrelazione fra tempo di lavoro e di scuola e tempo libero, anzitutto per superarne l’attuale reciproca impenetrabilità. Proprio perché non possono realizzarsi in uno studio e in un lavoro liberi, i giovani tendono a ritagliarsi angoli di libertà e di parziale realizzazione di tali valori in momenti e spazi «separati», non estesi a tutto l’arco della vita o della giornata, dove di fatto sono spesso costretti a risolvere simbolicamente la loro «voglia» di libertà e di autonomia nell’effimero di scelte consumistiche (cf Marroy Ch., Ruquoy D., Les jeunes et la consommatìon, 359-360). Si tratta di superare l’ottica delle «chiese diverse», con la disponibilità a confrontarsi sui problemi, attraverso una «strategia delle interconnessioni» e la riattivazione della responsabilità delle società adulte di essere per ragazzi e giovani «comunità educanti», piuttosto che istituzioni preoccupate di rivendicare posizioni ideologiche o spazi di potere. Più che «buttare» nuovi servizi addosso alle persone, occorre aprire circuiti nei quali si possano esprimere e-o maturare conoscenze, abilità, capacità di scelta, senza immediate preoccupazioni di burocratiche valutazioni, stimolando, magari, nuove possibilità di studio e di lavoro e nuove forme di integrazione fra tutti i ragazzi e i giovani.
Se c’è una pedagogia da privilegiare è quella della relazione o della comunicazione educativa, che contrasti con la tendenza di molti adulti a «lasciar fare» più che a «lasciar essere», a non coinvolgersi nel processo di identificazione e di crescita dei giovani, i quali hanno bisogno di punti di riferimento educativo, con cui confrontarsi e magari anche scontrarsi. È necessario saper coniugare l’esigenza di protagonismo di ragazzi e giovani con il coinvolgimento di adulti non permissivi né autoritari, capaci di intendere il tempo libero proprio e dei giovani non come tempo di evasione o di omologazione, ma neppure solo come tempo di impegno oblativo, con tutte le ambiguità che deriverebbero dal «sacrificio» della propria gioia di vivere o dell’espressione autentica della propria personalità. Si ricordi l’umana saggezza del precetto evangelico: «Ama il prossimo tuo come te stesso» o dell’indicazione kantiana di non trattare l’umanità, in sé stessi e negli altri, mai solo come mezzo, poiché l’eccesso di oblatività potrebbe nascondere la mancata soluzione di problemi personali e indurre, talora, a forme di chiusura e di intolleranza. Mi pare che alcune delle iniziative promosse attualmente da enti locali, gruppi e associazioni tendano a muoversi su questa linea, sia pure con la difficoltà a «federare insieme» risorse e opportunità del settore pubblico e dell’associazionismo laico e cattolico, nella prospettiva di un «sistema formativo integrato», capace di fare interagire la socializzazione formalizzata della scuola o del mondo del lavoro con quella opzionale e autonoma delle altre agenzie educative e dei contesti informali, non istituzionalizzati (cf Montanari F., Frabboni F., Politiche giovanili, 8-9). Forse nel «privato-sociale» vi sono maggiori opportunità di offrire proposte più strutturate, con una storia alle spalle e un progetto proiettato nel futuro, simili alle stanze del palazzo di Saint-Exupéry, nelle quali «tutti i passi avevano un senso» e dove esisteva un cuore della casa «in mondo che ci si potesse avvicinare e allontanare... uscire e rientrare» e si potesse così evitare il rischio di non essere in nessun posto, mentre «essere liberi non significa non essere» (cf de Saint-Exupéry A., Cittadella, Borla, Roma 1978, 27-29). D’altra parte, il servizio pubblico dovrebbe poter garantire maggiore continuità e professionalità, una distribuzione più capillare e una effettiva accessibilità a tutti, per il rispetto e la promozione dei valori nati dalla piattaforma di «convergenze e reciproci riconoscimenti» della nostra Costituzione, da cui dovrebbe essere contraddistinto. All’ente pubblico dovrebbe perciò ancora spettare la titolarità della ricerca e raccolta dei bisogni, della proposta e verifica degli interventi, del coordinamento delle risorse e delle iniziative, non limitandosi al gioco delle deleghe e delle «convenzioni», da un lato, e rispettando, dall’altro, i principi di una cooperazione democratica fra pubblico e privato.
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TEMPO LIBERO
Il termine viene messo in contrapposizione al t. «necessario» (comprensivo delle varie attività fisiologiche quali mangiare, dormire...), «obbligato» (il lavoro e la scuola, per chi ne ha l’obbligo), «impegnato» (nei confronti dei differenti compiti / ruoli che la vita porta ad assumere). J. Dumazedier (1985) considera il t.l. un insieme di occupazioni a cui l’individuo si dedica dopo aver disimpegnato gli obblighi professionali, familiari e sociali, e che riguardano attività alle quali ci si dispone volentieri, come il riposo, il divertimento, la formazione, lo sviluppo delle proprie abilità e conoscenze.
1. La parabola del concetto di t.l. Benché assai vicino al concetto latino di otium (t. per la riflessione, la meditazione, il gioco, la crescita e la cura del proprio essere, da contrapporre al t. speso nel fare negotium), il t.l. se ne distingue per non rientrare negli schemi di un t. organizzato. Nell’ambito della ricerca sociale il t.l. viene quindi interpretato come un momento di mediazione fra l’individuale ed il sociale; momento considerato a sua volta decisivo per il conseguimento di una superiore qualità della vita. Prima ancora che presso i romani, il concetto di t.l. dagli impegni primari si è affermato nella scholé dei greci. Tanto → Aristotele (nell’Etica nicomachea) che → Platone (nelle Leggi) individuano infatti il modo migliore di spendere una quota-t. della propria vita nell’attività contemplativa, nello studio, nella sfera dell’etica e nell’arte del filosofare. E tuttavia a partire dall’epoca greco-romana fino ai giorni nostri si è perso in pratica ogni traccia del concetto di t.l. Il suo recupero avviene nel sec. scorso ed è databile attorno agli anni ’60, quelli del «boom» economico, quando le società capitalistiche hanno riscoperto la peculiare dimensione dell’investimento del t. in funzione di sé e in forma alternativa alle differenti modalità di consumo. Ma non tutte le società e / o non tutte le classi sociali sono oggi in grado di usufruire dei vantaggi derivanti dall’uso del t.l. Limitatamente ai Paesi a sistema capitalistico avanzato, il t.l. si è affermato poco alla volta come una vera e propria «conquista» di massa, a fronte dell’alienazione indotta da un’ideologia che esalta la produttività fine a se stessa e reprime i valori umani. Con il diffondersi di forme sempre più sofisticate di industrializzazione, il lavoro umano viene sostituito dalla macchina e tende a non essere più l’unica fonte di realizzazione; di conseguenza l’asse degli interessi si sposta verso altri sistemi di significato. Oggi in particolare il consumo del t.l. fa sempre più riferimento e / o viene preferibilmente coniugato con i termini di vacanza e di turismo, e la ricostruzione storica del fenomeno fatta da Löfgren (2006), permette di evidenziare come entrambi abbiano influenzato / cambiato nel tempo il nostro modo di concepirlo e di organizzarlo. Il t.l. infatti è diventato poco alla volta la valvola di scarico delle tensioni accumulate da un lavoro parcellizzato e sempre più alienante, al punto da essere interpretato come un’attività svincolata da un certo tipo di produttività che appartiene al mondo capitalista. Tutto ciò induce ad evidenziare anche i suoi limiti: il concetto di un t. considerato «libero», infatti, non si è ancora diffuso nei paesi più poveri e / o in via di sviluppo, per i quali anzi la questione non si pone affatto o quasi. È questo uno dei motivi per cui oggi il t.l. continua ad essere interpretato come il prodotto di un sistema economico che scandisce il t. fra attività retribuite (il lavoro) e / o segnate da vincoli comunemente riconosciuti (la scuola, lo studio, le attività domestiche...) e quello «libero» da compiti / impegni prestabiliti. Tutto ciò presuppone una società governata da ritmi temporali alternati sulla base dell’assunzione di precisi impegni, orari, esigenze, prestazioni; una organizzazione che fa attribuire al t. una doppia «facciata»: di t. occupato e libero, di t. pieno e vuoto, di t. obbligato e da spendere a piacere.
2. «Libero» da che cosa? Parte di quelle ragioni che impediscono ai Paesi più poveri e / o alle classi sociali meno abbienti di porsi la questione del t.l., oggi si confermano più che mai valide anche per i Paesi ad economia capitalistica avanzata, a causa della crisi stessa che sta attraversando il loro sistema sociale. Il progressivo abbassamento della soglia delle 40 ore settimanali, i processi sempre più frequenti di espulsione dai tradizionali impegni e / o luoghi di produzione (che vanno sotto il nome di disoccupazione, cassaintegrazione, prepensionamento...), l’ingigantirsi dei processi informatici, il consumo dei prodotti audiovisivi, il parallelo accrescersi del consumo dei prodotti culturali / ricreativi / turistici di massa, hanno scatenato un’euforia edonistica che a lungo andare ha provocato processi di saturazione, al punto che il consumo di massa del t.l. ripropone problemi di alienazione molto simili negli effetti a quelli che si verificano sui luoghi stessi della produzione: in altre parole, il t. che viene tolto all’occupazione e agli impegni retribuiti rischia di divenire un «vuoto-a-perdere» e, quindi, non più «libero» ma da spendere in forma altrettanto alienante come nel lavoro. Sembrerebbe delinearsi in tal modo una ellissi storica del t.l. che, da attività produttiva di fonti alternative di realizzazione, regredisce fino a diventare esso stesso causa di quel «disagio interiore» contro il quale era nato come antidoto, perdendo così la sua funzione liberatrice. È questo il motivo per cui oggi si cerca di escogitare sempre nuove «evasioni» e modelli alternativi nel consumo del t.l., che siano in grado di allontanare la monotonia e l’anomia del quotidiano.
3. Verso un t.l. «liberato»? In considerazione della crescente distinzione tra t.l. e occupato, le ricerche più recenti tendono a superare tale dicotomia per introdurre un concetto di t. che si integri con il processo di → autorealizzazione e a cui concorrano fattori intervenienti di variegata estrazione, in funzione interattiva e non più semplicemente compensativa. È così che lo svago, il divertimento, ma anche la ricerca culturale, la contemplazione e / o «l’occupazione della mente» rappresentano una promessa di realizzazione individuale e collettiva insieme, un’apertura ad un diverso modo di esistere, per una migliore qualità della vita. Se considerato nell’ottica dell’autorealizzazione, infatti, tra t. occupato e «liberato» scorre una sotterranea continuità che rende indefinibili i due confini. In base a questo concetto il t. inteso nel senso di «libero» non può più essere definito in contrapposizione ad altre quote di t. soggette ad una coercizione esterna, ma è un tutt’uno con i vari t. del quotidiano, dal momento che essi vengono vissuti ed interpretati dall’individuo come parte integrante per la realizzazione globale del proprio sistema di significato esistenziale. Così facendo ci si riavvicina nuovamente a quello che per gli antichi era il concetto di otium? Se così fosse si potrebbe asserire di assistere appunto ad una ellissi storica del concetto di «t.» dove per «libero» si intende non solo e non tanto la ricerca del riposo e / o dell’«effimero», ma piuttosto un «t. liberatorio», ossia uno «spazio-di-libertà» finalizzato alla riappropriazione di sé, all’autorealizzazione ed alla integrazione sociale, per una diversa interpretazione della qualità della vita. In altri termini si tratta quindi di uno spazio di t. da investire nella ricerca e nella costruzione di un’identità individuale e collettiva. In definitiva, un t.l. da rivisitare e / o «da-liberare» e forse in parte ancora da «re-inventare» nella sua funzione catartica e liberatoria.
Bibliografia
Dumazedier J., Sociologia del t.l., Milano, Angeli, 1985; Baratta G. - P. Raineri, Prospettive delle attività del turismo e del t.l., Roma, Edizioni Lavoro, 2001; Martino V., Non solo media: scenari, fonti e percorsi di ricerca sul t.l., Milano, Angeli, 2005; Canciani D. - P. Sartori, Tutto il t. che va via. Come il t.l. aiuta a crescere, Roma, Armando, 2005; Löfgren O., Storia delle vacanze, Milano, Mondadori, 2006.
V. Pieroni