STORICITÀ
Sabino Palumbieri
1. Introduzione
2. Lo specifico della storicità
2.1. Storicità, storiografia, storiologia
2.2. Elementi compresenti
3.1. Tempo cronologico e tempo esistenziale
3.2. Tentativi di ermeneutica
3.3. Tempo esistenziale
3.4. Lineamenti dell’analisi agostiniana
3.5. Riflessione bergsoniana e husserliana
3.6. Tra Heidegger e Bultmann
3.7. Tempo come vigilanza
4. Storicità e libertà
4.1. Eredità e rielaborazione
4.2. Storicità come libertà
4.3. Storicità come con-laborazione
4.4. Coscienza storica
5. Il problema dell’antistoricità
5.1. Antistoricismo e storicismo
5.2. Antistoricismo elea ti co
5.3. Determinismo storico
5.4. Ermeneutica illuministica
5.5. Storicismo assoluto e relativo
6. Storicità, eticità e speranza
6.1. Equilibrio delle tre «estasi» heideggeriane
6.2. Rispetto dei tempi soggettivi
6.5. Storicità e lotta
6.6. Storicità e speranza
1. Introduzione
La storicità, sul piano della riflessione antropologica e non nell’orizzonte storiografico — ove si intende certificazione e documentazione fondata di notizie — non è che il modo d’essere dell’uomo, in quanto essere immerso nel tempo ed emergente sul tempo. Egli, figlio e insieme padre del suo tempo, plasmato e plasmatore della sua epoca, consapevole di appartenere al mondo e aperto alla trasformazione di esso tramite la sua decisionalità nel presente, in proiezione di futuro, è strutturato a storicità.
Tale dimensione si radica nella natura dell’uomo, che è relativa, e quindi non gode della pienezza e della assolutezza. Ha bisogno, anzi essa è un bisogno di espandersi nel divenire, per poter passare dallo stadio imperfetto a quelli sempre più perfetti. La natura umana differisce da quella del bruto, in cui il passaggio da un punto all’altro è determinato dal codice istintuale della specie e i movimenti non fuoriescono da quel perimetro. L’uomo, invece, ha come suo essere il poter-essere, cioè il divenire non come automatico cambiamento, ma come superamento delle deficienze e passaggio al più-d’essere continuo. Il poter-essere, che costituisce l’essere dell’uomo, è orientato all’acquisto dei valori o dover-essere presente nella coscienza. Questa è l’eticità dello spirito, come processo ideale. Ora, nello sforzo per la sua attuazione progressiva lungo il tempo è collocato il senso della storicità come forma esistenziale, cioè costitutiva dell’esistenza profonda dell’uomo. H. Gadamer afferma che l’apparizione di una presa di coscienza storica è, verisimilmente, la più importante tra le rivoluzioni da noi subite, dopo l’avvento dell’epoca moderna. La coscienza storica, che caratterizza l’uomo contemporaneo, è un privilegio, forse persino un fardello, quale non è stato imposto a nessuna delle generazioni precedenti (H. Gadamer, Il problema della coscienza storica).
2. Lo specifico della storicità
2.1. Storicità, storiografia, storiologia
Tra storia come divenire dell’uomo e storicità come dimensione dell’uomo si dà una costante interazione. «La storia — afferma A. Walz nelle sue Riflessioni sulla storia — si fonda nella storicità dell’uomo; come, d’altra parte, dalla storicità dell’uomo si illumina la storia».
La storia reale, come humanum fieri già cristallizzato nell’evento, costituisce il complesso di realtà, che vanno sotto il nome di res gestae. La storiografia, potremmo dire, è la registrazione di tale sequenza di fatti articolati: historia rerum gesta rum. La storiologia è la riflessione sul significato radicale e teleologico della storia globale: sensus de historia.
La storicità dunque non è più presa nel senso di caratteristica di un documento o monumento autentico, di un fatto di cui si parla, in quanto sia fondatamente avvenuto. Il termine qui viene preso nell’accezione antropologica di dimensione costitutiva dell’uomo, grazie al quale egli è nella storia e può costruire la sua storia.
2.2. Elementi compresenti
Analizzando gli elementi proposti, la dimensione della storicità comporta:
— Tessere-nel-mondo: l’incarnazione, la corporeità, l’assoggettamento alla legge della successione dell’essere e dell’angustia dello spazio;
— l’essere-aperto-al-mondo: il potere, cioè, di non essere assorbito nel mondo come oggetto tra oggetti, nella posizione di pura «giacenza», ma come vera presenza trasformante e rinnovante, anzi, di vera com-presenza, capace di con-laborare nel pluralismo espressivo della ricchezza umana interagente e convergente. L’orizzonte della storia è la comunità umana. È vero che c’è una storia anche a livello di singoli. Tuttavia resta fermo che questa è inintelligibile senza il riferimento al grande alveo comune e alle sue aderenze vitali. Insomma ogni segmento, per quanto libero, è da inserire nel ciclopico mosaico del tutto. Il frammento dice rapporto essenziale alla globalità.
3. Temporalità e tempo
3.1. Tempo cronologico e tempo esistenziale
La temporalità come dimensione dell’essere umano illumina la categoria del tempo, che non è univoca come usualmente si considera, identificandola tout court col tempo cronologico, ma invece è anche, e soprattutto, tempo esistenziale.
Il tempo cronologico è la successione misurabile e misurata dei frammenti oggettivi basati sul movimento degli astri in genere, del sole in specie, e conseguentemente delle stagioni, e convenzionati a opera di strumenti quali le clessidre, le meridiane e gli orologi. Esso è un fatto quantitativo, comune al santo e al delinquente, al genio e all’idiota. Dà l’idea del fuggevole, del precipitare ineluttabile, del vorace (Crono che mangia le sue creature), della spinta e controspinta («dies die t rudi tur» oraziano: un giorno è cacciato dall’altro giorno).
3.2. Tentativi di ermeneutica
Per tentare di bloccare questo flusso distruttore, si danno nell’antichità due interpretazioni del tempo: quello di Parmenide e di Zenone, per i quali il tempo è considerato come una illusione, perché l’essere è, e se è resta immutabile. Dunque la sensazione dello scorrimento è un inganno dei sensi. C’è poi quella sintetizzata dallo stoicismo, della teoria del tempo come ciclicità di movimento, che non disperde quello che è già capitato, ma lo reimmette nel circuito del mondo e, così, si attua il riscatto della realtà dalla caducità cronologica.
II cristianesimo presenta il tempo come visitato da Dio e fecondato dal suo Spirito. Il tempo si fa storia, e la storia diventa processo di salvezza. Il krónos — tempo misurato dagli uomini — si trasforma in kairós —tempo visitato da Dio. La ciclicità è spezzata. Si inaugura la storia. Questa non è il flusso impersonale della concezione stoica né è il campo della illusorietà della corrente della concezione parmenidea e zenoniana, ma è il progresso: gressus post gressum del cammino dell’uomo singolo all’interno di una comunità, verso il traguardo che è il Regno o partecipazione alla comunione con Dio. Tale itinerario non è determinato da copione, ma condeciso dal gioco misterioso della libertà di Dio, che chiama alla collaborazione quella vera dell’uomo. Dio non è il primo della serie del sistema cosmico e storico, ma è il fondamento di tutti gli esseri, che dà agli esseri originali, che sono gli uomini, la possibilità di essere e operare come lui nella libertà, nella creatività, nella solidarietà, nella universalità. Sono queste le condizioni trascendentali della storia, cioè del tempo diventato storia. In questo quadro il tempo viene riportato al soggetto divino e umano, al livello singolare e comunitario.
3.3. Tempo esistenziale
Il riportare il tempo al soggetto è un’operazione talmente orientata in profondità che il tempo autentico diventa il tempo del soggetto, e cioè il tempo interiore. Oggi lo chiameremmo tempo esistenziale, intendendo per esistenziale tutto ciò che si riferisce alle strutture costitutive dell’esistenza profonda. Nell’orizzonte teologico-biblico, esso è l’esperienza che lo spirito umano fa dell’anamnesi della salvezza, iniziata nella creazione, maturata nell’evento-Cristo e in corso di coinvolgimento del singolo, in apertura della sua pienezza escatologica. Così il passato è ciò che Dio ha operato e l’uomo ha accettato. Il presente è la tensione dello spirito, come l’amore che collabora a ricentrarsi nel suo punto gravitazionale, che per il cor inquietum è Dio. Il futuro è il compimento di questa tensione di amore. Passato, presente e futuro non sono realtà esterne al soggetto, ma costituiscono i ritmi della sua vita interiore più profondi.
3.4. Lineamenti dell’analisi agostiniana
II più acuto sistematizzatore di questi dati intuizionali dell’ispirazione cristiana è Agostino, il quale si limitava, con umiltà e correttezza, a descrivere, ma si rifiutava di definire il tempo: «Se non me lo chiedi, io so che cos’è. Se invece me lo chiedi, io non lo so più» (Conf.XI, 14, 17). Egli parla del tempo interiore che, proprio perché appartiene alla fascia del mistero, sfugge a ogni definizione, mentre l’esperienza della sua intuizione viene percepita chiaramente dallo spirito. Il tempo interiore è ritmo dello spirito come «divenire» intuito non formulizzabile. Già Plotino, nel Libro III delle Enneadi, aveva chiamato il tempo: «Vita dell’anima, che consiste nel movimento per il quale essa passa da uno stato all’altro della sua vita». Agostino identifica tale specie di tempo con la «vita dell’anima» in regime o dispiegamento. E la concezione del tempo come «extensio» o «distensio animae». Così ne parla nel Libro XI delle Confessioni: «Non ci sono propriamente parlando tre tempi: il passato, il presente, il futuro. Ma ci sono tre presenti: il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro» (XI, 20, 26). E questi tre presenti sono modi di essere della vita dell’anima. Continua il Nostro: «In che modo si diminuisce e consuma il futuro, che ancora non c’è? E in che modo cresce il passato che più non è, se non perché nell’anima ci sono tutte e tre le cose, presente, passato e futuro? L’anima infatti attende, fa attenzione e ricorda, sicché ciò che essa attende, attraverso ciò cui fa attenzione, passa in ciò che ricorda. Nessuno nega che il passato non è più, ma c’è ancora nell’anima la memoria del passato. Nessuno nega che il futuro non c’è ancora, ma c’è già nell’anima l’attesa del futuro. Nessuno nega che il presente manchi di durata, perché subito cade nel passato, ma dura tuttavia l’attenzione, attraverso la quale ciò che sarà passa, si allontana verso il passato» (XI, 28, 37).
3.5. Riflessione bergsoniana e husserliana
Bergson insiste, nella filosofia contemporanea, sul tempo interiore come vita dell’anima, di contro alla tesi del «tempo scientifico» o «tempo spazializzato», che è raffigurabile geometrizzabile come una linea. La linea è il fatto.
Il tempo, invece, è il sempre da farsi. La linea è lo scontato. Il tempo, invece, è novità ad ogni istante, proprio perché rapportato allo spirito, che è essere dinamico. Il tempo vero, dunque, è il tempo come durata nella coscienza, come una corrente nella quale ogni istante trapassa nell’altro, a guisa dei colori dell’iride; ed è, altresì, nuovo, rispetto all’altro, in continuo processo. Ogni istante, poi, resta e non si annulla, ma si aggiunge come una palla di neve che si va ingrossando a mano a mano che si muove verso l’ulteriore. La durata bergsoniana «è il progresso continuo del passato, che rode l’avvenire... È il fondo stesso del nostro essere, è la sostanza stessa delle cose con cui noi siamo in comunicazione». Va distinto il tempo reale, che è quello vissuto, dal tempo fittizio, che convenzionalmente è pensato. La scienza coglie solo il tempo fittizio. La coscienza coglie il tempo reale. Questo non potrà mai risolversi in quantità pura. Il tempo fittizio si configura come misura convenzionale. È spazio creato dal pensiero, per utilità delle sue categorie, e non vita reale sperimentata.
Husserl, su questa onda del tempo interiore, propone l’interpretazione del tempo fenomenologico. Esso è il flusso dell’esperienza (Erlebnis) vissuta all’interno della coscienza. Le esperienze particolari possono anche finire, ma il flusso dell’esperienza è un continuum vivens, ed è durata costante e piena. Dice Husserl nelle sue Ideen/I: «Ogni effettiva esperienza vissuta si inserisce in un infinito continuo di durate, in un continuo pieno. Il che significa che appartiene ad una infinita corrente di esperienze vissute. Ogni singola esperienza vissuta, come può cominciare, così può finire e chiudere la sua durata, come fa, ad esempio, l’esperienza di una gioia. Ma la corrente delle esperienze non può né cominciare né finire».
3.6. Tra Heidegger e Bultmann
Heidegger, ponendosi sulla linea agostiniana e bergsoniana, focalizza il tempo interiore, più che come una corrente di coscienza, quale struttura del soggetto come possibilità. Si distinguono due momenti: tempo esistenziale, o tempo come storicità. L’esistenza autentica prende le distanze da quella «banale». È esistenza banale quella che visualizza il tempo banale o successione indefinita di istanti. È invece esistenza autentica quella che concepisce il tempo esistenziale come pro-gettazione del soggetto, il dispiegarsi dell’esserci (Dasein) come possibilità. E lo svolgimento delle possibilità dell’uomo, secondo opzioni libere. Questa capacità del soggetto a progettare e a spieghettare le sue potenzialità non è altro che la storia vivente o storicità, come dimensione del soggetto (Geschichte).
Heidegger precisa la differenza tra storia fattuale che riguarda il passato — serie di avvenimenti, oggetti di ricerca storiografica (Historie) — e progettualità storica o storicità ('Geschichte), che è l’attitudine del soggetto a valorizzare la Historie, come insieme di possibilità autentiche del passato votate in sé stesse alla morte e, invece, riscattate dal soggetto che le elabora, le compone nel suo progetto del presente, in ordine alla opzione circa il futuro. C’è una tendenza illuministica alla non valorizzazione del passato, data l’enfatizzazione dell’opzionalità del presente, e alla riduzione della storia alla pura funzione per la storicità. L’opzionalità, intesa come equilibrio, immette nell’esperienza diretta del tempo autentico. Esso è presente, coesteso al passato e al futuro. Al passato, perché la coscienza si fa presente al passato senza farsi assorbire da esso; al futuro, perché la coscienza lo rende presente nel progetto.
Il tempo banale, invece, è quello considerato nella ex-staticità dei suoi tre momenti staccati di passato, presente e futuro. E il tempo autentico o originario è compenetrazione nella coscienza presente del passato e del futuro, ma in prospettiva dell’ulteriore. L’essere della coscienza anticipa nel presente le sue possibilità fino all’ultima di esse, la morte. Storicità è, anzitutto, restituzione dell’essere dell’uomo alla sua struttura interiore di temporalità senza la dispersione superficiale tipica del tempo banale. È concentrazione sulle possibilità positive dell’uomo, fino a quella suprema, che attende da lui dignità di atteggiamento e di comportamento. Storicità, in Heidegger, è dunque essenziale apertura al futuro, che è l’ad-venire (Zukunft). «Avvenire — avverte Heidegger nella sua fondamentale opera dal titolo significativo Sein und Zeit (Essere e tempo) — non significa un’ora, che non è ancora divenuto attuale e che lo diverrà, ma l’infuturamento per cui l’esser-ci perviene a sé stesso, in base al suo proprio poter-essere». L’esistenza si salva con la sua progettualità costitutiva. Cioè a dire, l’uomo trova il suo senso con la sua apertura strutturale al futuro. Il futuro è la condizione essenziale dell’uomo. (Ricordiamo a questo proposito l’anticipazione del detto tertullianeo: «Homo est quifuturus est»). La posizione heideggeriana sulla storicità comprende, dunque, due aspetti: quello della decisione e l’altro, complementare, dell’uomo come futuro.
Questi due aspetti vengono approfonditi e portati alle estreme conseguenze, rispettivamente da Rudolf Bultmann e Ernst Bloch, sia pure in ambiti tanto diversi. Col primo, il processo della riduzione della Historie alla Geschichte è consumato. Enfatizza l’aspetto della decisionalità, che assorbe ogni altro. I fatti del passato, fondati o meno, la cultura, lo stesso rapporto intersoggettivo sono marginali e, comunque, funzionali alla opzionalità come attitudine del soggetto a decidersi per un ideale. Questo comporta che si parli di storicità senza storia, di opzionalità senza comunità, di decisionalità individuale e solitaria. Come osserva G. Greshake nella sua «Historie» e «Geschichte». Significato e senso di «Historie» e «Geschichte» nella teologia di Rudolf Bultmann, la storicità resta la capacità del soggetto singolo (qui Bultmann è più kierkegaardiano che heideggeriano) di progettare il futuro, prendendo-posizione-nel-presente. Questo è rimpianto esistenziale filosofico di Bultmann, da cui prende le mosse per ridurre la storicità della fede alla presa di posizione del soggetto, che si affida alla Parola rivelata a prescindere dalla fondatezza storica degli eventi di salvezza, ridotti da lui a miti.
L’uomo come futuro dell’ispirazione heideggeriana diventa, in Ernst Bloch, che si arricchisce dello slancio comunitario e prassico di Marx, l’uomo proteso verso il tutto-ente, al contrario dell’uomo heideggeriano, che è bensì proiettato, ma in definitiva verso la morte come possibilità estrema. L’uomo blochiano è l’uomo-speranza. È la comunità umana, il cui costitutivo essenziale presente nella coscienza è il principio-speranza che, come è noto, dà il titolo all’opera fondamentale dell’autore, propellente della costruzione del mondo nuovo. L’essenza dell’uomo è non I’essere-già, ma il non-essere-ancora, che va costruendo ogni giorno, pietra dopo pietra, la patria d’identità, in funzione dell’attingimento del punto focale che è l’autenticità, cioè il ritorno completo a sé stessi (Heimat). L’uomo totale resta nascosto nei momenti che compongono il tessuto della storia, ma si va a mano a mano rivelando, in un processo incessante, che costituisce la dialetticità della storia.
3.7. Tempo come vigilanza
Il secondo momento heideggeriano è consacrato all’approfondimento del «tempo ontologico» o tempo come vigilanza. La storia, per Heidegger, è caratterizzata dalla dialettica non di tipo socio-storico-marxiano — lotta di classi — bensì da quella del velamento-svelamento dell’essere. È questa la dialettica epocale, che cioè costituisce e fissa periodi precisi della storia. Lo svelamento dell’essere si inaugura con la comparsa del fenomeno uomo. Nei periodi successivi si registra il celarsi dell’essere. Il suo faticoso svelamento segna l’epoca dell’autenticità della storia e si attua a queste condizioni: anzitutto il rifiuto dello storicismo, della sacralizzazione dell’accadimento e, poi, l’accettazione faticosa di passare attraverso lo stadio della «coscienza infelice», cioè del disagio della coscienza nella ricerca dell’essere, data l’impermeabilità acquisita alla disponibilità ad esso. Un’altra fondamentale condizione è data dall’ascolto e dalla discepolanza rispetto all’Essere, nel momento della «domanda ontologica»: perché l’essere anziché il nulla? Tutto questo è preliminare al rinvenimento della «verità dell’uomo» nella vigilanza trepida, come quella del pastore dell’essere, e nella rinuncia alla dominanza frenetica del padrone dell’essere, quale è la tendenza costante dell’uomo moderno.
Insomma la storicità, in questa seconda fase heideggeriana, consiste nella capacità che ha ogni uomo singolo, con tutti gli altri singoli, di restare attenti all’essere e auscultarlo nei suoi ritmi originali, nei suoi appelli e segni, come la parola autentica, nell’impegno permanente di superare la tentazione opposta, che è quella di dare ascolto all’avere, al puro fare, pregiudizio sull’essere, alla chiacchiera, alla mistificazione del linguaggio, allo spirito dell’efficientismo. Lo svelamento di questo essere da parte degli uomini di un’epoca determina l’autenticità storica di questa stessa epoca.
4. Storicità e libertà
4.1. Eredità e rielaborazione
Il riportare alla coscienza la storia significa rinverdire il processo iniziato col pensiero cristiano, che indicò nel soggetto umano il protagonista della storia riscattata dalla fatalità e dalla casualità, dalla insignificatività e dalla carenza di finalità, tipiche — come abbiamo già notato — delle visioni precristiane circa la vicenda umana.
Di qui, già all’interno della prima riflessione nel quadro dell’approfondimento primo del cristianesimo, scaturiva quella categoria di tempo interiore, come dimensione di un uomo concepito nella sua concretezza e completezza di esistenza. Si inaugurava quell’agostinismo perenne, che costituisce la linea calda della filosofia e teologia della storia che arriva fino a Giambattista Vico e che trapassa nel pensiero contemporaneo categoriale antropologico della storicità. Essa è, nella concezione esistenziale dell’uomo come «essere-nel-mondo-aperto-al-mondo», capace di leggere il passato per costruire il futuro, cioè come soggetto di progettualità. Ed è questa storicità come struttura, che fonda in radice la possibilità trascendentale della trasformazione della vicenda umana in storia autentica. In altri termini, è la storicità che fonda la storia.
Si ritrovano in questa visione motivi accennati in precedenza e che ora intendiamo prelevare e articolare.
4.2. Storicità come libertà
La storicità è il punto di coagulo del discorso antropologico. Implica, infatti, Tessere dell’uomo nella sua mondanità, nella sua soggettualità corporea, intelligente, autocosciente, responsabile, aperta, cioè, anche nel suo aspetto di intersoggettualità multiforme al livello di capacità di comunione, di comunicazione, di con-costruzione (sono i piani dell’amore, del linguaggio, del lavoro dell’uomo).
Storicità, infatti, è capacità di costruire il novum, valorizzando i «materiali» del passato per attingere il più-umano non ancora dispiegato, cioè, sul piano dell’avere, il più funzionale alla vita (tecnologia e scienza), sul piano dell’essere, il più essenziale alla vita (potenziata libertà, solidarietà, equità, comunionalità).
Ma il fulcro della storicità è nell’attitudine decisionale dell’uomo. La storia è tale, perché l’uomo è strutturato a storicità, cioè in radice perché l’uomo è attitudine radicale alla decisione (homines sunt voluntates del messaggio agostiniano).
La storia è tale perché l’uomo può decidere di farla, cioè di trasformare i puri accadimenti in veri eventi. Dagli uni agli altri corre appunto lo spazio della libertà. Nota J. Pieper nel suo lucido saggio Speranza e storia: «Non tutto ciò che avviene è storia: ci sono avvenimenti non storici. La caduta del fulmine, una frana, il fluire dell’acqua, le maree: dappertutto “accade” qualche cosa, eppure non si tratta di avvenimenti storici in senso stretto. Nascere, crescere, invecchiare, morire: questo insieme di fatti fisiologici non è già, esattamente parlando, la nostra storia. Ciò che noi stessi facciamo di tutto ciò, questo è ciò che importa. L’intreccio, dunque, di ciò che fatalmente ci tocca in sorte con la risposta personale data da noi stessi, solo questo è vera storia umana. Un avvenimento diventa, dunque, storico, per il fatto che in esso entra in gioco ciò che è specificamente umano: la libertà, la responsabilità, la decisione, e quindi anche la possibilità dell’errore e della colpa volontaria».
La storia è una trama di eventi che sono chiamati a far corpo con l’Evento, il kairós onnipresente, che ha sottratto dall’insignificanza gli accadimenti e ha caratterizzato la storia come storia di salvezza.
4.3. Storicità come con-laborazione
Tutto questo comporta mediazione del mondo e mediazione intersoggettiva. Non c’è presente senza essere com-presenza di tanti io-tu nel mondo. Non c’è presente del singolo uomo, che non sia carico del passato di due genitori in un contesto di interazione di fattori, a livello fisico-psichico-ambientale-culturale. Il mio presente ha indefinite componenti di migliaia di generazioni di uomini, che con le loro libertà intrecciate hanno plasmato il tessuto dell’accadimento trasformandolo nel reticolato storico dell’evento. Io sono erede di tutto un passato a livello genetico, organico, cogitativo, tecnologico, istituzionale, assiologico. La libertà dell’uomo non è dipendente, ma neppure indipendente. In realtà è interdipendente. Io sono figlio di tutta la storia, in questo momento in cui decido di trasformare il pre-dato in progetto e pro-gramma.
La comunicazione fra gli uomini non si svolge solo su un piano di sincronìa o di compresenza di momenti cronologici in contemporanea, ma anche su quello della diacronia, ove la linea attraversa la vicenda umana, mentre si dispiega in tempi successivi. Le generazioni si parlano. Anche gli uomini che non sono più nel tempo-spazio continuano a trasmettere messaggi a quelli di oggi. Come quelli di oggi faranno alle generazioni future. E questo avviene attraverso i documenti e i monumenti (gesta registrate e tramandate). La tradizione storiografica — il tradere da una generazione all’altra i contenuti di quella che possiamo chiamare storia oggettiva — è il mezzo di comunicazione tra le generazioni. E la sua validità riconosciuta, perché senza di essa noi saremmo di una povertà d’essere paralizzante, fa giustizia di ogni tentativo di illuminismo che il mondo cominci a girare in senso positivo con noi. L’uomo, poi, che viene in contatto con il passato, si scopre capace di coglierne i fatti e la loro concatenazione, approfondendone il senso direzionale. Questa capacità di intuslegere il passato ai livelli profondi fa pure parte di quel modo di essere dell’uomo che si chiama storicità.
L’uomo è figlio della intersoggettività, sia diacronicamente che sincronicamente considerata, mentre realizza la sua storicità come opzionalità che costruisce il futuro. D’altronde, la intersoggettività diacronica è data dal fatto che, mentre opero, in realtà co-opero. Nella Laborem exercens troviamo la suggestiva immagine del lavoro come «banco di lavoro». Ogni operazione è co-operazione. Ognuno ha bisogno degli altri per operare, per vivere, sia pur solo per alimentarsi. Lo scienziato ha bisogno del fornaio. Il fornaio ha bisogno del contadino. E gli uni e gli altri hanno bisogno di tutti gli altri. Ancora più balza evidente ciò, se ci si sposta ai livelli degli ideali e delle virate di bordo della storia. L’autarchia è la non-vita. Oggi specialmente si scopre sempre meglio che nessuno è autosufficiente. Ogni azione è dipendente da quella di miliardi di esseri umani. Ogni atto di libertà — ogni scelta — interagisce con tutte le altre scelte e ne è condizionata, ne è integrata. Ogni vita è partecipazione al convivere.
È ovvio che nel gioco della interrelazione di opzioni, taluni orientamenti marcano di più la risultante che non altri. Il genio, il santo, l’uomo che ha potere e i movimenti di popolo — ove la massa, cioè, ha acquisito coscienza dei suoi ruoli — sono le punte più determinanti di taluni risultati storici che costituiscono l’eredità che resta e si trasmette nel fluire di tanta parte caduca.
4.4. Coscienza storica
Le mie decisioni di oggi, che sono integrate con quelle degli altri conviviali del mio presente storico, non si limitano alle angustie del tempo oggettivo. Non sono vincolate al puntiforme dell’ora-qui. Sono, invece, con le altre decisioni, condizionanti l’avvenire. C’è pure una diacronicità proiettata in avanti e non solo una rivolta all’indietro. I nostri at ti di oggi formano quel tessuto culturale da cui non potranno prescindere i posteri. Gli effetti delle decisioni e del reticolato fra le decisioni della nostra generazione non muoiono con noi.
Insomma, la coscienza che decide si trova in un contesto che abbraccia Fieri e il domani. Si trova ad essere coscienza storica: realtà strettamente interrelazionale, come tessuto di elementi interagenti. Pur rimanendo lo spazio più o meno ampio delle libertà singole e delle opzioni individuali, data la struttura fortemente comunitaria dell’essere e della vita dell’uomo, è legittimo parlare di coscienza storica come della risultante di indefinite eredità del passato, nonché di elaborazioni di orientamenti del presente e di progettazioni del futuro. Coscienza storica, in questo senso, è anzitutto attitudine critica, discretiva e selettiva e, poi, elaborativa. Ma queste operazioni non possono essere attuate se non in riferimento a parametri di valori, che non si risolvono nel giudizio, bensì sono illuminanti e normanti il giudizio.
5. Il problema dell’antistoricità
5.1. Antistoricismo e storicismo
Ai poli opposti della storicità dell’uomo si oppongono due concezioni della storia antitetiche, ma convergenti ad attenuare la dimensione storica umana, delineata come coscienza storica interrelata, libera, trasformante gli stimoli in messaggi, i ricordi in speranza da costruire. E sono l’antistoricismo e lo storicismo.
L’antistoricismo può comprendere quello di tipo eleatico, l’altro di tipo deterministico e, infine, quello di marca illuministica.
5.2. Antistoricismo eleatico
È sostenuto dalla scuola di Parmenide, che pone l’immobilità dell’essere come quella del granito. Ricordiamo il Frammento IV, VI e VII: «L’essere è e non è possibile che non sia. Il non essere non è ed è necessario che non sia. Se l’essere è immobile, ogni moto è pura apparenza». Ogni tensione è pura finzione. La storia, come movimento tensionale verso il futuro, risulta sradicata nella sua stessa possibilità. È negata dall’immobilismo dell’assoluto essere, che in radice elide ogni atteggiamento di autonomia e di emergenza. Il macigno tollera sporgenze, ma sempre da macigno. Non ha, non può avere emergenze. È la considerazione dell’immobilità dell’essere, che spegne il divenire e, quindi, colpisce al cuore la storia, che è essenzialmente «divenire umano».
5.3. Determinismo storico
È la posizione dei negatori sistematici della libertà. E si trova pure a livello non sistematico nell’opinione comune, per un processo acritico di identificazione di fattori in realtà diversi.
Si confonde libertà situata e condizionata con la non-libertà. Posti in movimento certi meccanismi socio-economico-politici, scatterebbero secondo questa posizione, inevitabilmente e deterministicamente, certe conseguenze storiche, quali le lotte di classe, le guerre, le rivoluzioni.
Intanto si può osservare che i vertici del potere ad arbitrio assurdo (abbiamo visto esponenti sintomatici dei totalitarismi del nostro tempo) hanno operato delle scelte, sia pure a spese degli altri. Inoltre, la comunità come tale ha la possibilità via via più reale, nella misura in cui si approfondisce l’esperienza democratica, di acquisire capacità associative, partecipative e, quindi, di controllo, che spezzano il cerchio con l’alternativa. È vero che la libertà della comunità storica è fortemente condizionata e, oggi, anche manipolata. Tuttavia, a mano a mano che la coscienza della comunità storica va liberandosi e autenticandosi, si profila il potere reale di autodetermìnarsi e non di farsi determinare da meccanismi anonimi e fatali. La situazione massificante di oggi non può seppellire la speranza in alternative possibili alla Gandhi o alla Martin Luther King.
Un’altra confusione si opera tra l’irreversibilità del fatto e la fatalità del da-farsi. È vero che un fatto, dal momento che è avvenuto, non può non essere avvenuto. La sapienza popolare dice: cosa fatta capo ha. Ma questa possibilità al cambiamento della realtà operata non implica che essa poteva anche non essere posta. Poteva non essere necessaria davanti a chi l’avrebbe messa in opera. L’agente poteva anche non deciderla, non attuarla. Una volta però che l’ha fatta liberamente passare all’atto, le ha dato l’esistenza che è irreversibile. Il fatalismo proietta, con un’operazione dell’inconscio, la necessità del post-factum con quella dell’ante-factum. Va tenuto conto, a questo punto, anche di una certa posizione diffusa tra i credenti, che potremmo chiamare provvidenzialismo quietistico, a causa di un modulo di provvidenza divina di tipo paternalistico onniassorbente e non sinergico. Con la preoccupazione di sottrarre ciò che compete all’assoluta signoria di un Dio che sa, che vuole, che opera, si conclude che un fatto, in quanto solo capitato, è un bene, è necessario per il compimento del disegno di Dio. Quando non si arriva a dire — come P. Freire testimonia amaramente e denuncia — che anche l’oppressione dell’uomo, anzi la sua schiavizzazione, nella coscienza di certe masse tenute sotto anestetico, sono «volontà di Dio», sono «realtà provvidenziali».
Il concetto di provvidenza biblica, invece, è la presenza di Dio nella storia, che chiama ogni giorno l’uomo come partner libero alla costruzione del mondo nuovo e che, poi, nella sua sapienza, opera sul piano della eterogenesi dei fini — come rivela Giambattista Vico — per il bene definitivo e conclusivo. Sa ricavare il bene anche dall’intreccio negativo, sottoprodotto delle libere volontà che entrano in gioco.
5.4. Ermeneutica illuministica
L’illuminismo ha inaugurato un altro tipo di antistoricismo non più di marca ontologica e metafisica, ma di ordine intellettualistico e mitico.
Il razionalismo, che enfatizza unilateralmente la ragione astratta, con le sue classificazioni e categorie che sfoceranno in quelle dialettiche dell’idealismo, guarda il passato come un degrado più o meno colmabile con una rivoluzione poggiata su idee anch’esse astratte, quali quelle dell’Enciclopedia. II degrado del passato fu sottolineato particolarmente da J. J. Rousseau, il quale vedeva il processo storico non come progresso, ma come regresso. L’uomo è emblematizzato nella mitica statua di Glauco, sfigurata dal mare, dai venti e dai tempi e bramoso di riprendere il primitivo volto deturpato dalla comunità degli uomini. Per esprimerci con le categorie heideggeriane, l’illuminismo svalorizza la prima ex-stasis della temporalità che è il passato, e sottolinea l’importanza del momento storico che è il presente, in quanto è coscienza della centralità del ruolo della razionalità e, quindi, inizio di cose nuove, apertura provvida di un futuro certo.
5.5. Storicismo assoluto e relativo
Una sorta di antistoricità è data dalla ipertrofia della storia, posta come realtà intrascendente, autosufficiente, autarchica nella sua fondazione e soluzione. Essa viene posta come l’unico spazio dell’esistenza dell’uomo, l’unica sua possibilità di affermazione e di azione, fuori dal cui quadro ogni progetto umano è consegnato all’assurdo.
Si distingue uno storicismo assoluto, come quello di Hegel e di Croce, da quello relativo, ad esempio, di Spengler e Simmel. Il primo si chiama assoluto, perché identifica tout court il mondo umano e Dio, anzi la storia è lo stesso divenire dell’Assoluto che si coglie come tale, autocoscienza assoluta nell’ultimo suo stadio. E così si tende a canonizzare e a giustificare il reale, che in quanto reale è razionale e in quanto razionale è reale. Lo storicismo relativistico visualizza la storia come un flusso continuo che dissolve e compone valori e messaggi. Tutto viene fagocitato dal Moloch. Tutto risulta relativo: «Il bene o il male che facciamo o che riceviamo, il bello che ci allieta e il brutto da cui fuggiamo... per quanto possano di fatto reciprocamente contrastare, rientrano, come elementi della vita, come scene di un destino», afferma Simmel nel suo Autoproblema della filosofia. Va ricordato anche Dilthey, che assume la vita a principio di spiegazione e di risoluzione totale, con la sua «ragione storica».
Ma su questa strada non si sfugge al relativismo. La vita è un valore da illuminare e non può essere fonte primaria di illuminazione. Ricordiamo anche lo storicismo dialettico di Marx, complementare a quello assoluto indicato da Hegel e continuato dalla scuola tedesca così variegata, che pone a fondamento e risoluzione di tutta la realtà il Grund o principio totalizzante. Sia che questo principio consista nello spirito, come in Hegel, o nella materia, come in Marx, se è concepito come l’elemento esplicativo assoluto della radicalità e globalità dell’essere, che coincide senz’altro con la storia, allora non sfugge alla considerazione della storia come fonte di verità e matrice di valori. L’uomo risolto nella storia, mentre si sviluppa nel momento della evoluzione della materia o dello spirito, assume solo dalla storia il suo significato o primo o ultimo. Essa così diventa il valore fondativo di tutti i valori e, anzitutto, del valore-uomo.
Ma il giudizio della coscienza storica della generazione di Hiroshima, di Dachau, di Chernobyl non si rassegna ad accettare il postulato storicistico dell’ottimismo hegeliano e marxiano, figli diretti del razionalismo illuministico. C’è troppo irrazionale nella storia, non solo come possibile, ma come reale e determinante, per poterlo liquidare come un necessario cascame dello sviluppo del principio totale della realtà. Max Horkheimer, testimone vigile dei nostri anni di travaglio nella sua opera-testamento La nostalgia del totalmente altro, pur da posizioni di ancora ufficiale ateismo, nota che la storia, questa incompiuta, postula di essere compiuta. Altrimenti l’assassino e la vittima si pongono sullo stesso piano; come la notte e il sole, il male e il bene. La storia, che assurge nello storicismo al ruolo di onnisignificante e onnigiudicante, è invece quella che resta marcata dagli assurdi che gridano di essere bilanciati e restano pur sempre assurdi.
6. Storicità, eticità e speranza
Gli atteggiamenti che derivano dalla storicità sono imperativi etici, oggi più che mai urgenti, allorché la minaccia non è più tanto contro questa o quella forma di storia, ma contro la stessa possibilità della storia.
6.1. Equilibrio delle tre «estasi» heideggeriane
Il passato, il presente e il futuro, come dimensioni dello spirito, vanno situati in un punto di equilibrio dinamico, sempre creativamente da ricollocare. Vanno evitate, pertanto, le tentazioni ricorrenti negli anni di travaglio e di trapasso e che si trovano polarizzate nei diversi schieramenti: l’atteggiamento del passatismo, del presentismo, del futurismo.
Il primo è caratterizzato dalla fuga all’indietro. La nostalgia vince sulla profezia. L’occhio rivolto a quello che è già stato, da perpetuare, cioè da imbalsamare e tramandare, alla base di una concezione statica della temporalità. Sul piano pratico si diventa laudatores temporìs acti. La virtù suprema è l’ordine; l’impegno ossessivo è la conservazione. Si registra una vera fobia del nuovo o perché c’è insicurezza di sé nell’adattamento, che è sempre critico, o perché c’è timore di perdere i privilegi e i rifugi di comodo. Il conservatorismo resta il folle tentativo di uccidere l’inestirpabile dimensione dello spirito, che è la storicità come apertura e ricalco del costitutivo autotrascendimento dell’uomo. La conservazione, come filosofia della vita, è la negazione dell’essenza dell’uomo.
Il secondo atteggiamento è dato dal presentismo, che può essere tradotto sul piano psicologico come immediatismo e vitalismo, ove l’importante è quello che il singolo e il gruppo sta vivendo oggi, e sul piano culturale dal neo-illuminismo che, rinnegando il passato, consegna allo stadio dello sviluppo della razionalità del presente ogni speranza, quasi che il mondo cominciasse nel momento in cui si esalta il presente.
Il terzo atteggiamento consiste nel futurismo, o fuga in avanti, che può esprimersi come avventurismo politico o come escatologismo religioso. Il denominatore comune di entrambe le posizioni è la scelta di una «porzione di storia» e il rifiuto di una visione globale di essa. La storia come Erlebnis e come Geschichte è, invece, la celebrazione del presente, nel quale si condensa il passato, in ordine alla costruzione del futuro. Sul piano religioso e cristiano, questo presente è l’éschaton, cioè il mondo futuro, che però già si inarca nelle pieghe del presente, nel quale si costruisce e si evolve, incarnandosi momento per momento.
6.2. Rispetto dei tempi soggettivi
Poiché il tempo non è un oggetto, ma è anzitutto la qualità specifica del nostro vissuto interiore — essere è tempo — allora ogni soggetto, mistero originale, vive con i suoi ritmi
1 giorni, le ore, i destini. Uno stesso avvenimento è «celebrato», nello spirito di ciascuno di quelli che vi partecipano, in forma e in misura molto diversa. Per alcuni, anche un minuto di attesa può esser vissuto come un’eternità, per altri, una serie di anni può essere sperimentata interiormente come uno «sporgersi alla finestra della vita». Ogni soggetto fa corpo con i suoi vissuti, e le sue cadenze sono relative al suo «sentimento fondamentale». Le nostre società efficientistiche sono caratterizzate dalla rapidità, dal tempo veloce oggettivo, scandito dagli orologi elettronici. La discronia tra tempo interiore, che esige calma e lunghe pause di assimilazione, e tempo esterno, che ha ritmi sempre più frenetici, crea scompensi, frustrazioni, sensi di disadattamento.
La vera qualità della vita richiederebbe una armonizzazione delle esigenze. Una vera società a misura d’uomo dovrebbe tener presenti almeno le richieste fondamentali di certe esperienze forti dei soggetti, in momenti particolari quali la vita, la morte, l’amore, le scelte decisive. Bruciare i tempi interiori significa violare le cadenze delle coscienze e distoreere le linee di crescita, moltiplicando infantilizzazioni e regressioni, che si esprimono reattivamente o come fuga in avanti o come rifugio all’indietro o come consumo dei vantaggi del presente, con sullo sfondo l’oraziana filosofia del «carpe diem».
6.3. Fiducia nell’uomo
L’uomo è colto nel pensiero contemporaneo essenzialmente come autotrascendimento permanente. Egli è un oltre ogni altro oltre. È un essere finito, pellegrino dell’infinito. Il futuro è la sua patria, e la sua vita è in regime di esodo. E sposta continuamente le frontiere, leva ogni giorno le tende. Homo est qui futurus est. Tertulliano ha così anticipato con questa felice pennellata il pensiero contemporaneo, tributario — come abbiamo visto — della concezione antropologica ebraicocristiana. È questo che va tenuto presente nell’ambito dell’impegno educativo e nel rapporto di costruzione di comunità, poiché la storia, come divenire di libertà in regime di solidarietà, postula presenze educative e solidali. L’uomo con cui si collabora, l’uomo verso il quale ci si dirige non è solo quello che il presente registra. Egli abita sempre al di là. È redimibile. È perfettibile. E, grazie alla fede, è anche candidato all’eredità del Regno.
Si tratta di creare nella storia quelle giuste condizioni di temperatura per la crescita dell’altro, onde evitare che ci sia un ulteriore «Mozart ucciso».
Nell’ottica della fede, poi, l’uomo come singolo e come comunità è un Chrìstus florescens permanente, secondo la suggestiva immagine agostiniana. La comunità storica dei credenti è chiamata a suscitare temperature opportune per la crescita di questo Cristo in fiore, fino alla sua fruttificazione, fino a raggiungerne l’età matura. Viceversa, l’indifferenza e l’avversione possono raggelare, come fanno i venti freddi, questa fioritura e condannare Cristo a restare bloccato nel corpo della storia.
6.4. Coscienza dell’utopia
La storia è una serie di fatti. Ora questi si dispongono non sullo stesso piano, ma con scalarità qualitativamente differenziata. Il fatto è un accadimento, quando non lascia tracce ed è travolto dal fluire del tempo. È un avvenimento, quando segna il soggetto e, col soggetto, quelli che fanno parte della sua esperienza. Ora si può trasformare l’accadimento in avvenimento, solo se si aggancia la propria opera a quello che Kierkegaard chiamava l’evento fondamentale.
Nell’orizzonte della fede esso è dato dall’evento-Cristo, in cui Dio ha realizzato in pienezza il suo adventus. Questo processo discendente di Dio nella storia non si è chiuso con l’evento-Cristo nel momento in cui esso si è slargato alle dimensioni della Chiesa, che Barth chiamava «corpo terrestre del Signore risorto».
Dio continua a effettuare i suoi avventi, come prolungamento del grande fatto dell’incarnazione, della morte e della risurrezione dell’Unigenito. La comunità dei credenti celebra il momento del ricordo, come presenza e come anticipazione, nell’atto del memoriale. La liturgia del culto, dilatata in quella della vita, diventa «memoria sovversiva», compagnia fedele, profezia coraggiosa. La prima è la registrazione, presente nel codice genetico della Chiesa, della prassi messianica del suo fondatore. La seconda è l’impegno a vivere insieme con l’uomo che «è la prima strada della Chiesa» (RH 14). La terza comprende l’aspetto negativo della denuncia dell’inumano, e quello positivo dell’annuncio di un mondo alternativo, del «mondo nuovo» come modo nuovo di vivere il rapporto con Dio e con i suoi figli.
È questa l’«utopia del Regno», che per il credente non è mera fantasia, ma è soltanto il non ancora collocato in un luogo — tópos — e che può trasformarsi in topìa, cioè in una collocazione storica, sempre alla ricerca di spazio.
6.5. Storicità e lotta
Proprio perché l’anima della storicità inside nella libertà, e questa è capacità di autodecidersi per l’uomo in solidarietà, e il Sitz im Leben dell’uomo di ogni epoca — particolarmente di quello frantumato e disintegrato di oggi — è sotto il segno dell’animazione dell’inumano, consegue che la lotta diventa il volto impegnato della storicità.
Sul piano assiologico, la preistoria è quel tratto della vicenda umana che è caratterizzata dalla formula «l’uomo sull’uomo». La storia, invece, è segnata dalla formula reale «l’uomo con l’uomo», «l’uomo per l’uomo». In questo quadro, storia e preistoria non sono periodi successivi, sono invece qualità intrecciate in permanenza all’interno del fieri humanum. Siamo nella storia o nella preistoria? La domanda ha questo significato: qual è il dosaggio della preistoria — delle violenze, delle oppressioni, delle manipolazioni — qual è quello della storia — del rispetto, della liberazione, della promozione integrale? Domanda difficile da soddisfare. Una società necrofila è quella dove il thànatos prevale sull’eros. La nostra, dichiarata appunto necrofila, presenta preoccupanti segni di preistoria.
Passando dal piano assiologico a quello reale, la storia si configura come sforzo di potenziare il dosaggio dell’umano nella vicenda degli uomini e diminuire quello dell’infraumano o dell’inumano. La lotta per il passaggio continuo dalla preistoria alla storia, assiologicamente intesa, è consegnata soltanto all’impegno di quella che si chiama controstoria, come controcorrente di atteggiamenti e di orientamenti, dettati da egoismi dei singoli e corporativismi dei gruppi, che schiacciano i piccoli e gli umili. Elsa Morante ha come sottotitolo del suo rinomato romanzo La storia: «Uno scandalo che dura da diecimila anni». Vi riporta una folla di sconfitti e di umiliati, di schiacciati e di esclusi dalla ufficialità storica, che però restano protagonisti, perché destinatari della rivelazione del Dio-fattosi-storia. L’autrice riporta le parole evangeliche: «Hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli... perché così piacque a te». La capacità di cogliere il senso autentico della storia, da parte di questi inermi respinti, è l’inizio di quella giustizia che compensa lo scandalo che è la storia.
6.6. Storicità e speranza
La controstoria per i credenti va operata in virtù del codice contro-corrente, che è dato dalle beatitudini. Qui la povertà, la mitezza, la sofferenza, la non violenza, la purezza di cuore, la capacità di spendersi per la giustizia e di testimoniare l’appartenenza al Maestro fino ad accettare la persecuzione, sono gli imperativi etici di salvezza. Costituiscono la carta dell’umanesimo nuovo.
La preistoria è fatta di violenze, che realizzano la formula caratterizzante l’uomo sull’uomo. Eppure continuiamo a chiamarla storia. «Scrivere la storia della violenza è scrivere la storia tout court», nota Jean Godei. «Dai bassorilievi egiziani o assiri, rappresentanti sovrani vittoriosi, circondati da prigionieri torturati, al Goya... a Guernica di Picasso, la violenza è di tutte le epoche, è il tessuto della storia umana». L’assunzione delle beatitudini come codice stradale è garanzia di percorrimento del senso inverso di questo sistematico schiacciamento dell’uomo. «La storia è in sostanza poco più che una registrazione dei delitti, delle follie e sventure dell’umanità», avverte Edward Gibbon. Questa visione pessimistica è la notte degli incubi di James Joyce, è la fonte dell’angoscia di ieri, acutizzata dalle nuove minacce di oggi. La controstoria delle beatitudini garantisce per il fedele discepolo il superamento dell’angoscia e del non senso, dell’oscurità e del soffocamento, perché apre gli ampi spazi del Regno, nella certezza che questa realtà è già presente nelle maglie della vicenda umana. Dire beatitudine è dire riuscita dell’uomo. È dire possibilità di vita, di gioia, di pace. Dire beatitudine è affermare che l’uomo è possibile e, quindi, la storia non è un sogno punteggiato da incubi di morte. Le beatitudini, come controstoria, affermano la possibilità della storia. E quindi, la significatività della storicità come dimensione.
Decidersi per le beatitudini è esplicitare la storicità-dimensione in storicità-progettazione. È viverla con la partecipazione della memoria, la responsabilità della compagnia, il coraggio della profezia. Questa storicità, nel momento in cui si incarna e si inarca nel tessuto tortuoso della vita reale e nella misura in cui vi incide, si fa presenza e militanza, diviene speranza che lotta per conseguire l’espansione del seme pasquale che è «forza di Dio» (Rm 1,16) ed è per sé dirompente, a condizione che sia accolto.
«La speranza è la decisione militante di vivere nella certezza che non abbiamo esplorato tutti i possibili, se non tentiamo l’impossibile» (Roger Garaudy). L’impossibile può essere tentato e superato, perché nella storia è presente l’evento fondante, che culmina nella risurrezione, da Kierkegaard giustamente chiamata «la possibilità dell’impossibile», di contro alla morte che è «l’impossibilità di ogni possibile». E la storia non è che la lotta contro la morte, anche se solo pienamente efficace nell’anelito.
La storicità incarnata si fa breccia verso il non-ancora, l’al di là di ogni previsione, che è la pasqua nella sua pienezza. La storicità è la capacità di combinare passato, presente e futuro, come memoriale dell’evento e proiezione verso il suo compimento.
La storicità, così, diventa la sede dell’energetico-propulsivo della speranza (la vis a tergo di Teilhard de Chardin), che non è solo una virtù, ma è una dimensione dell’uomo e, nell’orizzonte della fede, di un uomo che sa che nelle maglie della storia è stata inseminata la metastoria, che è il Regno, che è già qui, ma non è di qui. La storicità qui acquista le dimensioni di uno spirito giovane, al di là dei dati anagrafici. Coltivarla è rielaborare e progettare, non rassegnarsi e rilanciarsi. Proprio secondo l’esigenza costitutiva di ogni giovane vita. Storicità, come segno di giovinezza, è abitare nel futuro e vivere l’insperato. Cominciando a costruirlo ogni giorno sulla stessa scommessa di Abramo.
Bibliografia
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