SANTI

SANTI

Riccardo Tonelli

 

1. Perché i santi?

1.1. I santi in alcuni modelli teologici

1.2. I santi nella prospettiva dell’Incarnazione

2. Ogni parola su Dio è sempre parola umana

2.1. La diversità come ricchezza espressiva

2.2. La diversità come limite culturale

3. Cose vecchie e cose nuove dal proprio tesoro

4. La parola del concilio

 

1.​​ Perché i santi?

Nella sua lunga storia, la comunità ecclesiale ha sempre riservato un’attenzione speciale ai suoi santi. Ha circondato di devota venerazione la dimora in cui essi attendono il ritorno definitivo alla pienezza di vita; ha trasformato in luogo di preghiera e di culto le tombe di coloro che hanno testimoniato nel sangue la fede e la speranza; ha edificato solenni monumenti celebrativi dove i suoi figli più grandi hanno consumato la liturgia della loro vita.

I santi sono diventati così, un po’ alla volta, la festa della Chiesa. Sul ritmo del loro ricordo essa ha tracciato il suo calendario.

In un tempo come il nostro, sospettoso e saccente, molti se ne chiedono il perché. A tante cose del passato abbiamo saputo rinunciare, per affermare meglio il nostro bisogno di futuro.

 

1.1. I santi in alcuni modelli teologici

Sono molte e differenti le ragioni che esprimono la figura e la funzione dei santi nell’esperienza cristiana. Se sfogliamo con un po’ di senso critico le agiografie, ci accorgiamo presto di un dato: il modo con cui viene raccontata la vita dei santi e, di conseguenza, l’accentuazione di dimensioni speciali della loro figura e funzione sono strettamente collegati con il modo in cui viene compreso e vissuto il mistero santo di Dio. Quando di Dio si mette in risalto soprattutto la sua alterità irragiungibile e la sua numinosità, i santi sono presentati come «intermediari»: coloro che assicurano un collegamento tra la povertà dell’uomo e la grandezza di Dio.

La qualità della loro vita assicura una accondiscendenza speciale da parte di Dio, fino a coprire, nelle diverse situazioni, con la loro presenza mediativa, l’abisso che ci separa da lui. Anche la loro potenza taumaturgica è vista da questa prospettiva. Proprio perché la loro voce può raggiungere il trono di Dio e viene accolta positivamente, essi sono capaci dì piegare la mano di Dio verso le dure esperienze della nostra quotidiana esistenza. Se invece prevale una visione etica dell’esistenza cristiana, i santi rappresentano soprattutto i modelli più riusciti delle virtù del cristiano. Di solito poi la qualità di queste virtù è molto legata alle prospettive culturali dominanti. Le vite dei grandi santi vengono riscritte ad ogni svolta culturale o vengono utilizzate come elemento di controllo o di resistenza rispetto a questi mutamenti. Per altri santi si realizza una continua operazione di recupero o di messa tra parentesi, in rapporto alla loro funzionalità etica.

Nei tempi in cui è molto accentuato lo scollamento tra la riflessione teologica e la vita vissuta, la pietà popolare affida ai santi il compito, urgente, di restituire a Dio un volto più concreto e accessibile. Essi diventano così quasi delle divinità potenti, di cui però si può parlare e con cui si può trattare. Quando nell’esperienza cristiana predomina una visione teologica che contrappone in modo duro l’ambito del profano a quello del sacro, i santi rappresentano coloro che hanno avuto il coraggio della decisione coerente fino alla radicalità. Essi hanno fatto il salto decisivo e hanno abbandonato progressivamente tutto per accedere alla libertà di Dio. E così il calendario dei santi si riempie di monaci e di monache e la spiritualità che essi propongono diventa un pressante invito alla «fuga dal mondo». Certo, non mancano altre figure, dalla vita meno radicale. La loro presenza però è spesso giustificata dal fatto che essi hanno realizzato spiritualmente quello che non hanno potuto assicurare fisicamente.

 

1.2. I santi nella prospettiva delPincarnazione

Bastano questi pochi accenni per convincerci che si può parlare dei santi in modi davvero diversi. Uno stile non esclude l’altro, certamente. Quello che si privilegia dice però, in termini abbastanza stretti, il modello teologico globale a cui ci si ispira di fatto.

La comunità ecclesiale italiana, in un momento importante di verifica del suo progetto catechistico e pastorale, nel clima del rinnovamento conciliare, ha scelto l’evento dell’Incarnazione come criterio fondamentale della sua testimonianza salvifica (cf​​ RdC​​ 77). L’Incarnazione viene così proposta non solo come una delle grandi dimensioni dell’esistenza di Gesù Cristo; dice anche quell’esperienza che ci permette di comprenderla tutta, da una prospettiva unitaria e globale. L’Incarnazione propone un modo preciso di riconoscere la figura e la funzione dei santi. Lo ricordo, richiamando temi già sviluppati in altro contesto (cf Incarnazione).

Confessiamo con trepidazione che la ragione della nostra fede e il fondamento della nostra speranza è Dio. Egli è un evento che non possiamo descrivere con le nostre parole sapienti né possiamo catturare nel sottile esercizio della nostra ricerca, anche se è, nello stesso tempo, la roccia su cui si costruisce tutta la nostra vita.

Il Dio ineffabile e invisibile si è fatto «volto» e «parola» in Gesù di Nazareth. Il silenzio è stato definitivamente infranto: il Dio lontano è diventato colui che ha posto la sua casa tra le nostre. La sua parola risuona, in parole umane, per la vita degli uomini. Questa esperienza sostiene la fede e la speranza del credente. Lo testimonia, con una vena polemica, il salmista: gli dei a cui si affidano i pagani hanno la bocca, ma non parlano, hanno gli occhi, ma non vedono; il Dio d’Israele non ha bocca, ma è parola, non ha occhi, ma vede il suo popolo con lo stesso sguardo d’amore con cui una madre segue suo figlio (cf​​ Salmo​​ 115).

Questo progetto insperato di dialogo e di incontro non riguarda solo Gesù di Nazareth. Lui è il volto e la parola definitiva di Dio. La sua parola continua però a risuonare, nelle pieghe della storia di tutti i giorni: nella vita di ogni uomo Dio si fa ancora volto e parola, per sollecitare, accogliere, salvare.

La parola di Dio e il suo volto si manifestano nel nostro volto e nella nostra parola con una intensità diversa. Abbiamo persino la possibilità di spegnere la sua parola e di travolgere il suo volto. Nelle nostre storie Dio si fa vicino nella misura in cui «assomigliamo» a Gesù di Nazareth: nella misura cioè in cui la nostra umanità si realizza in pienezza e verità, così come è l’umanità piena e definitiva di Gesù.

Se pensiamo alla nostra storia personale, è facile la crisi: ogni giorno tradiamo la nostra immagine. Così riduciamo al silenzio Dio e spegniamo per tanti nostri amici la sua presenza di vita.

I santi sono quei nostri compagni di viaggio che ci rendono Dio più vicino, perché nella loro umanità brillano più intensamente i segni dell’umanità piena di Gesù.

Nella loro vita il volto e la parola di Dio risuonano più alti, provocanti e convincenti. Grazie a loro ci sentiamo tutti un po’ di più immersi nell’amore di Dio, lo sentiamo un po’ di più Padre nostro. In loro siamo sollecitati in termini più suasivi a schierarci dalla parte della vita nel drammatico conflitto tra morte e vita; e scommettiamo più coraggiosamente sulla vittoria conclusiva della vita. Abbiamo perciò bisogno dei santi per sentirci ancora figli di Dio: per vedere l’invisibile e per comprendere l’ineffabile.

I santi continuano nel tempo la Rivelazione di Dio all’uomo. La loro funzione attraversa la sostanza stessa del processo salvifico.

 

2.​​ Ogni parola su Dio è sempre parola umana

Chi comprende la funzione dei santi in questo modello teologico, è difeso dal rischio grave di rendere assoluto quello che invece è segnato dal limite.

La​​ Dei verbum,​​ infatti, commentando il processo di Rivelazione, ha ricordato che ogni parola di Dio è sempre nel segno della povertà della parola umana: «Le parole di Dio, espresse con lingue umane, si son fatte simili al parlare dell’uomo»​​ (DV​​ 13).

Questa costatazione che, nella prospettiva dell’Incarnazione, vale per le parole che nella Chiesa si pronunciano ogni giorno per continuare il dono di salvezza, riguarda anche la figura e la funzione dei santi. Essi sono volto e parola di Dio nella fragilità della parola umana, che dà espressione al mistero santo. Molte e importanti sono le conseguenze che ne scaturiscono. Ne ricordo due.

 

2.1. La diversità come ricchezza espressiva

Nessuna parola umana può dire da sola tutta la verità. Solo nella convergenza di molte e differenti parole possiamo avvicinarci, con un approccio timido e provvisorio, a quella verità che resta collocata sempre più avanti dei nostri passi più avanzati.

Per questo, il pluralismo dei modelli e delle espressioni linguistiche è il riconoscimento, gioioso e sofferto, della struttura stessa della verità.

Quando vogliamo dare volto e parola al mistero santo di Dio, restiamo sempre prigionieri del nostro limite: è il nostro modo di possedere e di esprimere la verità.

Solo Gesù è la parola unica e definitiva. Ogni altro uomo è invece un frammento espressivo di quella verità a cui ci avviciniamo soltanto nella pluralità delle manifestazioni.

I santi, quelli che la Chiesa riconosce ufficialmente e i tanti che restono sprofondati nell’abbraccio di Dio, sono «diversi» perché il mistero santo Dio non può essere avvicinato se non nella convergenza di molte e differenti espressioni vitali.

 

2.2. La diversità come limite culturale

Questa diversità nasce da fattori di carattere culturale. È importante riconoscerlo per le risonanze pratiche che il dato comporta. L’ineffabile Parola di Dio si fa parola per l’uomo diventando parola d’uomo, come dichiara il passo già citato della​​ DV.

Parola d’uomo significa parola detta nello stile di ogni parola umana: prendendo dimora all’interno di una cultura, fra le tante in cui abita l’esistenza e il linguaggio dell’uomo. Lo stesso evento risuona in espressioni diverse, perché chi le pronuncia assume dal contesto un determinato intreccio di valori, orientamenti, stili di vita, modelli di comportamento, che riconosce come significativi per sé.

La diversità, preziosa per riconoscere la distanza incolmabile tra la parola pronunciata e l’evento che si vuole esprimere, dice nello stesso tempo il limite e la relatività delle espressioni. Le differenti parole (quelle dette e quelle vissute) indicano il peso condizionante della cultura umana, anche nel momento in cui ci carichiamo del compito affascinante di dare voce all’ineffabile e di dare volto all’invisibile.

Del resto poi basta uno sguardo anche veloce all’elenco ufficiale dei santi per costatare come sia davvero intenso il rapporto tra i modelli culturali assunti dalla Chiesa in un determinato momento storico e la figura dei santi: la loro qualità, i criteri soggettivi di selezione, il risalto dato a particolari atteggiamenti della loro vita.

 

3.​​ Cose vecchie e cose nuove dal proprio tesoro

Nella prospettiva che abbiamo tracciato poco sopra, riconosciamo l’importanza irrinunciabile di parlare di Dio, del suo amore e del progetto di salvezza con la parola, concreta e vicina, di Gesù di Nazareth, di Maria, dei santi. Essi rappresentano la mediazione necessaria per fare un discorso cristiano su Dio: sono infatti, a titoli diversi, suo volto e parola, il luogo privilegiato in cui si fa proposta di salvezza per noi.

Dalla prospettiva dell’Incarnazione ritroviamo però anche l’esigenza di un approccio critico e selettivo. Essi (ancora una volta a livelli diversi) sono il volto e la parola di Dio pronunciata in parole umane: un modo sempre caduco e relativo, perché abitato dalla cultura, teologica e antropologica, che dominava la scena della loro storia.

Chi li fa risuonare oggi in termini solo ripetitivi, più o meno li tradisce. Rende stranamente sovraculturale quello che essi invece hanno vissuto come esperienza dentro una precisa cultura. Sottrae dalla storia coloro che sono invece la presenza di Dio nella storia quotidiana.

Non li celebriamo solo per ricordarli. Li ricordiamo per lasciarci affascinare dalle cose meravigliose che Dio ha compiuto per noi e farci provocare dai suoi progetti su noi. Per questo, celebriamo il ricordo dei santi «riattualizzandoli». Riattualizzarli significa realizzare un’operazione a carattere ermeneutico, capace di far dialogare cultura ed evento. L’approccio ermeneutico è la via stretta che la comunità ecclesiale è chiamata a percorrere con coraggio. Lo fa con gioia e con trepidazione. Avverte di essere provocata proprio sul terreno della sua missione. Nella parola, eloquente e significativa, dei suoi figli più grandi, essa annuncia l’evangelo del Dio di Gesù, perché tutti abbiano la vita, «una vita vera e completa» (Gv 10,10). Introdurre una coscienza ermeneutica anche nella agiografia, significa ritrovare, nell’esistenza concreta dei santi, quella dimensione speciale dell’evento di Dio che essi hanno espresso nella loro vita (la diversità come ricchezza), liberarla dal rivestimento espressivo che essi hanno assunto dal tempo in cui sono vissuti (diversità come limite culturale) e ridire tutto questo secondo modelli culturali capaci di risultare ancora significativi oggi, per fare risuonare come salvifico l’evento del mistero di Dio che ciascuno di essi è. L’operazione è rassicurata da una esigenza irrinunciabile. Il soggetto è la comunità ecclesiale, animata verso l’unità e sostenuta nella verità dal ministero di quei fratelli maggiori che lo Spirito di Gesù ha posto come «maestri» e «guide».

Molti santi possono essere riproposti senza eccessivi interventi di riattualizzazione. Essi hanno saputo esprimere così intensamente il mistero di Dio nella loro vita che i segni della cultura del tempo li hanno appena sfiorati. In questi casi fortunati, è soprattutto urgente ritrovare la freschezza della loro vita, superando eventualmente il racconto che di essa è stata tramandato.

Può darsi invece che qualche santo non resista al vaglio di questo intervento critico. Ci si accorge, alla prova dei fatti, che il rivestimento culturale prevale troppo sull’evento che tenta di esprimere. Una comunità, fedele allo Spirito che è novità e futuro, non se ne rammarica eccessivamente e nemmeno giudica in modo saccente il proprio passato. A chi cerca senso per la vita e salvezza, la comunità ecclesiale ha sempre un pane da spezzare e da condividere. Come il saggio della parabola evangelica, essa sa trovare dal suo tesoro cose vecchie e cose nuove. Ne possiede in abbondanza: le parole umane in cui si fa vicina la parola di Dio sono tante e tanto ricche.

 

4.​​ La parola del concilio

Così ci sentiamo fedeli al Concilio. Ha suggerito riflessioni molto stimolanti sulla figura e la funzione dei santi nell’esperienza cristiana.

Reagendo ai primi sintomi dell’onda iconoclasta di questi nostri giorni, il Concilio ha dichiarato così la fede ecclesiale sulla funzione pastorale dei santi: «Nella vita di quelli che, sebbene partecipi della nostra natura umana, sono tuttavia più perfettamente trasformati nell’immagine di Cristo, Dio manifesta vividamente agli uomini la sua presenza e il suo volto. In loro è Egli stesso che ci parla, e ci mostra il contrassegno del suo Regno, verso il quale, avendo intorno a noi un tal nugolo di testimoni e una tale affermazione della verità del Vangelo, siamo potentemente attirati»​​ (LG​​ 50).

 

Bibliografia

Bo V.,​​ Santi (devozione), in Dizionario di pastorale della comunità cristiana, Cittadella editrice, Assisi 1980, 520-522; Brovelli F.,​​ Culto dei santi, in Dizionario teologico interdisciplinare, Marietti, Torino 1977, 662-666; Guerra A.,​​ Santidad, in Conceptos fondamentale de pastoral, Ediciones Cristiandad, Madrid 1983, 916-925; Molinari P.,​​ Santo, in Nuovo dizionario di spiritualità, Edizioni Paoline, Roma 1979, 1369-1386;​​ Santità di ieri e santità di oggi, Ave, Roma 1968.

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