VOCAZIONE

VOCAZIONE

Severino De Pieri

 

1. La vocazione: realtà complessa e problematica

1.1. li quadro teologico di riferimento

1.1.1. Evoluzione del concetto di vocazione negli ultimi secoli

1.1.2. La vocazione: chiamata a realizzare nella vita il piano di Dio

1.1.3. Vocazione e «vocazioni»: tutti hanno una vocazione

1.2. L’orizzonte antropologico delia vocazione: responsabilità e servizio

1.2.1. Vocazione come autotrascendenza e «responsabilità»

1.2.2. Vocazione come servizio a Dio e ai fratelli

1.2.3. Recenti apporti delle scienze umane sul tema della vocazione

2. Dinamismi costitutivi della vocazione

2.1. Vocazione come percezione e risposta ad un impulso-appello interiore

2.2. Vocazione come progetto di vita propulsivo e creatore

2.3. Vocazione come dinamismo affettivo-oblativo, di amore e servizio

3. Il discernimento della vocazione nell’attuale contesto ecclesiale e sociale

3.1. Alcuni obiettivi previ alla scoperta della propria identità vocazionale

3.2 Criteri di idoneità e discernimento vocazionale

3.2.1. Il discernimento vacazionale da parte del soggetto, primo e principale protagonista

3.2.2. Il discernimento da parte della comunità e della Chiesa per le vocazioni specifiche

4. Il processo di maturazione

4.1. L ’adesione libera e responsabile alla chiamata divina

4.2. La progressiva purificazione dei moventi vocazionali

4.3. La decisione vocazionale vera e propria

4.4. Per una pedagogia di accompagnamento

5. Conclusione

 

La vocazione è un tema attuale, complesso, coinvolgente. È una categoria centrale e terminale, di «orientamento», nella pastorale giovanile (e non solo in essa). Ci pare che la problematica della vocazione deve anzitutto essere collocata entro un adeguato quadro di riferimento (orizzonte teologico e antropologico); in secondo luogo essa ha bisogno di essere interpretata e definita secondo un approccio pluridisciplinare; infine richiede di essere tradotta in indicazioni operative, relazionate sia con i contesti socio-culturali in cui si pone, sia con le istanze di cambiamento che oggi sono in atto nella pedagogia e nella pastorale al riguardo.

 

1. La vocazione: realtà complessa e problematica

Il problema della vocazione si pone indubbiamente come complesso. Per essere completamente inteso, deve essere considerato da un duplice punto di vista: in origine da parte di Dio che si dona e donandosi «chiama», e nel soggetto, uomo e donna, che sono donati e «interpellati». La vocazione è perciò un dono che avviene in un dialogo: presuppone l’iniziativa di Dio e sollecita una risposta dall’uomo.

Si comprende subito che, così posto, il concetto di vocazione si presenta come:

—​​ dialogico relazionale,​​ in quanto viene giocato — per così dire — sulla duplice sponda di Dio e dell’uomo;

—​​ dinamico-evolutivo,​​ connesso cioè col divenire esistenziale e culturale dell’uomo sulla terra, in particolare dei giovani che si pongono di fronte al senso-progetto di vita;

—​​ storico-culturale,​​ in quanto rapportato ai contesti di sviluppo umano lungo il corso della storia e in sintonia con i quadri di riferimento che ogni epoca assume come orizzonte di vita e di azione.

1.1. Il quadro teologico di riferimento

Pare necessario, a livello preliminare, cercare di comprendere i presupposti dottrinali, principalmente ecclesiologici, che stanno alla base dei problemi-chiave chiamati in causa nel tema della vocazione, quali, ad es., il senso dell’opzione personale, il concetto di chiamata, il rapporto tra autorealizzazione e dono di sé, la pedagogia del risveglio e della formazione vocazionale, ecc. Soprattutto c’è da chiedersi: vocazione e vocazioni, perché? per chi? come?

 

1.1.1. Evoluzione del concetto di vocazione negli ultimi secoli

Ecco alcuni aspetti dell’evoluzione che ha subito il concetto teologico di vocazione in rapporto a successivi modi di intendere il rapporto Chiesa-mondo.

1. Il sistema monista

Fino al secolo scorso, lo spazio della Chiesa coincide con quello del mondo; a una società gerarchizzata corrisponde una Chiesa piramidale; il «clero» costituisce una casta con poteri e privilegi; la vocazione, che è «sacra», coincide con quella al sacerdozio e alla vita religiosa; la pedagogia vocazionale consiste nel «reclutamento» di coloro che «hanno vocazione», i quali vengono formati in ambienti chiusi, fortemente strutturati.

2. Il sistema dualista

Si instaura (all’inizio di questo secolo e per l’area occidentale) una netta separazione Chiesa-mondo; il mondo è una minaccia per la fede e per la missione della Chiesa; il ruolo del sacerdote è difensivo; la pastorale delle vocazioni continua a privilegiare quelle sacerdotali e religiose; è l’epoca dei grandi seminari, con l’attenzione rivolta alla prima fascia dell’età evolutiva (dopo i 20-25 anni si parla di «vocazioni tardive»); la vocazione è ancora un «germe» da conservare, sviluppare e proteggere (Grieger, 1981).

3. Il sistema pluralista

La Chiesa, un tempo «coestensiva» con l’umanità, poi opposta e conflittuale nei suoi confronti, diviene ora «sacramento universale di salvezza» in mezzo agli uomini​​ (LG​​ 48), perciò missionaria; in tale contesto cambia l’ottica vocazionale: non più un «avere» la vocazione, ma «cercare» la volontà di Dio, in un «dialogo» con lui e con l’umanità; il mondo da minaccia diviene luogo della proposta, terreno di radicamento, verifica, realizzazione; l’ansia evangelizzatrice e missionaria sposta 1 ’ asse dalle «vocazioni sacre» a tutte le vocazioni; a partire dal Vaticano II l’ottica vocazionale si è allargata: oggi si parla di «vocazione» e di «vocazioni»; la riflessione teologica è orientata a individuare il disegno di Dio sull’uomo, e il ruolo che ciascuna persona, sia come individuo che come membro della collettività umana ed ecclesiale, è chiamata a svolgere nel quadro della storia della salvezza; i documenti postconciliari sviluppano ulteriormente la dottrina sulla «vocazione» (umana e cristiana) e sulle diverse «vocazioni» della Chiesa; la stessa riflessione teologica tende a presentare la vita cristiana come «vocazione divina» e a vedere nella stessa il fondamento delle vocazioni specifiche (Conti, 1979).

 

1.1.2. La vocazione: chiamata a realizzare nella vita il piano di Dio

In questa prospettiva, vocazione divina e progetto umano rappresentano due aspetti di una identica realtà, che consiste in un’immagine di avvenire proposto da Dio e nello stesso tempo sognato e perseguito dall’uomo. Secondo la visione portata da Cristo, il progetto dell’uomo è chiamato a inserirsi nella «vocazione cristiana»: è l’invito rivolto all’uomo di rispondere alla volontà di Dio che lo chiama a realizzare sé stesso nell’incontro con i fratelli, in atteggiamento di apertura, solidarietà e servizio. Vocazione è dunque una relazione dialogica a più dimensioni.

Dal punto di vista teologico, il discorso sulla vocazione viene dunque articolato in maniera variamente diversificata: vocazione alla vita; vocazione cristiana, cioè a realizzare la vita in Cristo e nella Chiesa a livello personale e comunitario; e le «vocazioni specifiche». La teologia aiuta a comprendere l’azione di Dio nella vocazione personale di ciascuno. In particolare essa facilita la riscoperta dei modi di agire di Dio che rispetta il cammino personale di maturazione di ciascuno, inserito nel contesto dell’umanità che si evolve nella storia.

Dio interviene raramente in maniera diretta ed esplicita nell’elaborazione dei progetti di vita. Per farci comprendere il suo disegno su di noi si serve ordinariamente di alcune «mediazioni», i «doni» interiori (capacità, inclinazioni, progetti) e le «provocazioni» che pervengono dalla realtà, che tutta intera interpella e «chiama».

 

1.1.3. Vocazione e «vocazioni»: tutti hanno una vocazione

Il concetto di «stato vocazionale» è più ampio della nozione di vocazione per lungo tempo riservata solo alle vocazioni religiose e sacerdotali. Esso è definito da una certa qualità e da una certa intensità nell’esperienza umana e religiosa di un progetto di vita che si sta attuando.

Non è dunque appannaggio esclusivo dei candidati al sacerdozio e alla vita religiosa; esso interessa tutti: adolescenti, giovani, adulti. Ciò suppone una convinzione, una volontà, un desiderio di raggiungere i valori che superano il tempo, pur conferendo ad esso il suo significato; e acquista l’autorità di una «chiamata» all’interno di una relazione di fede con Dio (Grieger, 1979).

Ecco come si articola questa «pluriformità vocazionale».

1.​​ La chiamata alla vita​​ 

È la prima vocazione che procede da Dio Creatore. «Nel disegno di Dio, ogni uomo è chiamato a uno sviluppo, perché ogni vita è vocazione. Fin dalla nascita, è dato a tutti in germe un insieme di attitudini e di qualità da far fruttificare: il loro pieno svolgimento, frutto a un tempo dell’educazione ricevuta dall’ambiente e dello sforzo personale, permetterà a ciascuno di orientarsi verso il destino propostogli dal suo Creatore»​​ (PP​​ 15). In un tempo di angoscia e di morte come l’attuale è urgente riaffermare questo appello alla vita, rivolto a ogni essere umano, che porta in sé un dono particolare, pieno di responsabilità per un compito da svolgere. Sono le vocazioni alla vita, all’amore, al lavoro, all’impegno. In ciò si coglie anche il senso delle vocazioni «fallite»: al limite umano, al dolore, alla mancata realizzazione (condizionamenti socio-culturali, situazioni di dolore, handicap, devianza, violenza, ecc.). L’orizzonte vocazionale è chiamato a dare senso e significato anche a queste situazioni-limite.

2.​​ La vocazione cristiana

L’appello di Dio Creatore, rivolto a ogni uomo, si concretizza storicamente nella chiamata alla salvezza universale in Cristo verso cui tutta la storia converge come termine e modello. L’elezione-vocazione dell’uomo in Cristo è personale e da sempre inscritta in un progetto che il Padre ha per lui. Questa chiamata a realizzare la propria vita in comunione con il Padre per mezzo di Cristo nello Spirito è la suprema realizzazione individuale e comunitaria dell’uomo. Di essa costituisce mediazione ordinaria il battesimo che inserisce nel Popolo di Dio attraverso la messa in comune o lo scambio della varietà dei carismi e dei servizi. Tale appello dinamico avviene in un contesto di dialogo continuo con Dio, attraverso Cristo e la Chiesa, mediante i dinamismi costitutivi della fede-speranza-carità. Questa universale vocazione richiede per sé stessa condizioni di crescita, ritmi di maturazione, discernimento personale e comunitario, orientamento pastorale e purificazione attraverso la continua conversione.

3.​​ Le «vocazioni specifiche» nella Chiesa​​ 

La vocazione fondamentale si specifica in una multiforme varietà di chiamate particolari più o meno segnate dalla «radicalità» della risposta al dono di Dio e in rapporto alla «finalità» o destinazione cui il dono-appello conferisce concretezza.

Tra tutte le vocazioni si evidenziano, in relazione alla loro specificità e finalità tipicamente ecclesiale, quelle «sacre», in particolare al sacerdozio e alla vita religiosa. La distinzione, più che a caratteri di eccellenza, risponde a esigenze di servizio ecclesiale qualificato:

— il sacerdozio, come «ministero consacrato» a servizio del Popolo di Dio in alcuni compiti specifici;

— la vocazione religiosa, come «sequela Christi» attuata nella pratica dei consigli evangelici, secondo un’indole propria e una specifica funzione di ogni istituto religioso;

— la vocazione alla «secolarità» consacrata, attuata da laici e vissuta negli Istituti Secolari riconosciuti dalla Chiesa;

— la vocazione «missionaria», in tutte le modalità secondo cui può essere realizzata.

Accanto a queste vocazioni, si inizia a dare rilievo ai «ministeri» (istituiti e «di fatto») che allargano ai laici l’orizzonte vocazionale (catechisti, animatori, volontariato, ecc.).

1.2. L’orizzonte antropologico​​ della vocazione: responsabilità e servizio

Sotto il profilo antropologico la vocazione è un modo e uno stile con cui condurre la propria vita alla luce di motivazioni di valore. Non basta trasformare il mestiere in professione; la vita stessa deve divenire vocazione perché, abbia un senso. La vocazione costituisce infatti il valore e la felicità di ogni uomo e di ogni donna. Non si tratta soltanto, in altri termini, di riscontrare l’attitudine tecnica a certi mestieri o l’idoneità a una professione, ma essenzialmente di orientarsi secondo il senso e la direzione segnati dalla propria vocazione; si tratta di proiettare l’essere intero verso una ricerca di valori che superano l’angusto orizzonte del materiale, del provvisorio, del finito. Nulla è più misterioso di questa chiamata personale. Essa si pone come una risposta alTintenzione profonda dell’essere: risposta che può essere di scelta o di rifiuto. Si tratta di condurre una vita che, pur essendo legata all’esperienza terrena, ha altrove la sua sorgente e la sua destinazione.

 

1.2.1. Vocazione come autotrascendenza e «responsabilità»

Vocazione dice molto di più che progetto: è chiamata a uscire dagli schemi di un’esistenza chiusa nel cerchio delle certezze umane, è prospettiva aperta verso un’esistenza impegnata, è proposta a collaborare con Dio nella storia della salvezza.

La vocazione, più che autorealizzazione, è autotrascendenza: non solo pura e semplice attuazione delle doti e delle inclinazioni personali, ma essenzialmente realizzazione di un ideale che trascende gli orizzonti terreni. «Essere uomo vuol dire fondamentalmente essere orientato verso qualcosa che ci trascende, verso qualcosa che sta al di là o al di sopra di noi stessi, qualcosa o qualcuno, un significato da realizzare, o un altro essere umano da incontrare e da amare. Di conseguenza, l’uomo è sé stesso nella misura in cui si supera e si dimentica» (Frankl, 1974).

 

1.2.2. Vocazione come servizio a Dio e ai fratelli

In una prospettiva antropologica integrale, autotrascendenza per il credente vuol dire risposta personale e libera a una chiamata. L’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, è stato da lui eternamente scelto, chiamato, destinato alla vita nuova di Cristo (« ogni» uomo, «questo» uomo). La chiamata da parte di Dio lo pone al di là dei rapporti puramente sociali in cui la nostra civiltà tecnico-scientifica intende confinarlo. L’uomo deve emigrare dalla sfera del soggettivismo e inserirsi consapevolmente nell’ufficio regale di Cristo. Questo orientamento è fondamentale per tutta resistenza, specie nei rapporti con il prossimo, perché è ricordo continuo di Cristo, che non è venuto per essere servito ma per servire​​ (Mt​​ 20,28). Occorre dunque interpretare la propria vocazione come «disponibilità a servire», sull’esempio di Cristo, e a guardare ai valori umani connessi con tale «ufficio regale». È un cammino non facile, perché «regnare» si raggiunge soltanto «servendo». Ciò spinge l’uomo a conseguire una notevole maturità umana e spirituale, perché per poter efficacemente servire gli altri bisogna saper dominare sé stessi. Questa vocazione di ogni uomo a porre la propria vita a servizio di Dio e dei fratelli si concretizza in determinati orientamenti di vita, come il matrimonio, la professione, il sacerdozio, la vita consacrata, ecc. Il «servizio regale» non è una «professione», ma un atteggiamento interiore che può animare ogni professione e ogni stato di vita​​ (RH​​ 21).

 

1.2.3. Recenti appórti delle scienze umane sul tema della vocazione

Sono anzitutto da recensire le antropologie senza «appello» o «vocazione», centrate sul primato dell’autonomia dell’io (egocentrismo, narcisismo), e della sua libertà illimitata, oppure volte unicamente a far conseguire l’autorealizzazione, misconoscendo l’apertura dell’uomo alla trascendenza (Gevaert, 1981).

Queste concezioni, largamente diffuse nella cultura occidentale, condizionano sul nascere ogni progetto di vita fondato sui valori, aperto all’«invocazione» e segnato dalla responsabilità.

Alcune antropologie non materialistiche e non riduttive fanno spazio all’uomo come essere spirituale, chiamato da Dio, per cui nella dimensione religiosa, riconosciuta come fondante 1’esistenza umana, si radica la vocazione come realtà che dà senso al divenire integrale della persona aperta all’«invocazione» e capace di risposta all’«appello» che proviene dal Trascendente. All’interno di queste antropologie che fanno spazio alla vocazione ricordiamo, in particolare, il contributo di una parte della psicologia contemporanea.

In forza delle più recenti acquisizioni di alcune correnti della psicologia, si sta verificando nell’ultimo ventennio un passaggio da una fase psicodiagnostica, volta a cogliere indicazioni positive e controindicazioni relative alla personalità (attitudini, interessi, equilibrio psichico, ecc.), a una fase psicodinamica e sociale, in cui gli psicologi si interrogano in maniera più approfondita sulle motivazioni e sulle condizioni che permettono di affrontare meglio le dimensioni di una vocazione in seno a una Chiesa e a una società in movimento (Godin, 1975).

Appaiono perciò in stretta correlazione sia le posizioni che la teologia postconciliare sta assumendo nei confronti della vocazione intesa in senso più ampio e articolato, sia le acquisizioni di una certa parte, almeno, delle correnti psicologiche e sociologiche attuali circa la vocazione. I maggiori contributi recati dalle scienze antropologiche attuali alla riflessione sulla vocazione riguardano tre aree di ricerca: l’analisi delle motivazioni vocazionali, lo studio delle cause delle «crisi» vocazionali del recente periodo postconciliare e le ricerche psicosociologiche sui valori vocazionali delle giovani generazioni.

Appare sempre più chiara la natura dialogica e relazionale della vocazione, non solo dell’uomo con Dio, ma dell’uomo con sé stesso, con gli altri, con la Chiesa, la società, il mondo e la cultura in cui è inserito. In questa prospettiva, la vocazione non è più concepita come realtà statica, un «dato» da conservare, ma come un evento dinamico, un dialogo tra Dio e l’uomo, un dono da portare a compimento, in un contesto storico-culturale che richiede continua crescita e adattamento, sotto la guida dello Spirito di Cristo che rinnova incessantemente l’esperienza e la storia umana.

 

2.​​ Dinamismi costitutivi della vocazione

Dopo aver illustrato il carattere essenzialmente dialogico, relazionale e dinamico della vocazione, occorre approfondire l’analisi dei dinamismi che costituiscono e qualificano la vocazione considerata in sé stessa, quale «destinazione singolare verso la partecipazione di un valore di elezione» (Grieger,​​ 1981).

Oltre che sul versante dell’iniziativa di Dio, ci soffermiamo anche sulla risonanza che l’evento «vocazione» produce nella persona del soggetto, uomo o donna, che vengono coinvolti e interpellati per offrire più o meno pienamente la propria personale adesione e corrispondenza.

 

2.1. Vocazione come percezione e risposta a un impulso-appello interiore

Nella persona del chiamato la vocazione — sia pure variamente articolata e diversificata — viene sentita il più delle volte come «un impulso interiore» (un richiamo misterioso) a orientare e spendere la propria vita secondo il disegno di Dio. Secondo la fede questo appello interiore proviene da Dio, ed è quindi soprannaturale nella sua essenza, avendo egli dotato di doni speciali la persona da lui chiamata. Nel «vissuto» psicologico umano, tale «appello» viene di solito percepito come una intuizione di natura fondamentalmente emotiva e affettiva, che coinvolge e orienta la persona a donarsi secondo i contenuti, le modalità e lo stile di un’opzione radicale in vista di Dio e dei fratelli. Un’«emozione privilegiata» segnerebbe dunque l’origine di ogni vocazione (Marchand, 1967). Tale impulso-appello costituisce una motivazione esistenziale profonda, dinamica e creatrice, suscettibile di sviluppo e maturazione. È un’esperienza tipicamente personale, non tuttavia intimistica, ma oggettiva e rapportata alla realtà dell’uomo che è chiamato a porsi in un rapporto significativo (orientamento di senso «esistenziale») verso Dio, gli altri, la realtà e il mondo.

«Il dono di Dio chiede prima di tutto di essere accolto nella fede. Credere significa affidarsi all’autocomunicazione di Dio con una​​ resa incondizionata​​ di tutto il proprio essere, intelligenza, volontà, cuore, in un​​ ri-conoscimento​​ che si fa​​ ri-conoscenza​​ e confessione di lode. Credere significa stare davanti a Dio nell’atteggiamento di Samuele, disponibile all’ascolto: “Parla, Signore, che il tuo servo ti ascolta”​​ (1 Sam​​ 3,10), o in quello pieno di dignitosa ubbidienza di Maria: “Si faccia in me secondo la tua parola”​​ (Lc​​ 1,38)» (Gatti, 1981).

La fede, come dimensione teologale della vocazione, diviene la prima motivazione fondante l’adesione dell’uomo all’iniziativa di Dio, dinamismo interiore capace di trasformare tutta la vita.

 

2.2. Vocazione come progetto di vita propulsivo e creatore

La vocazione oggi viene sempre più letta secondo la categoria psicologica del «progetto di vita», che trova il suo corrispettivo teologale nella virtù della speranza. È un dinamismo interiore che ha il potere di anticipare, dirigere e sostenere, per dono e per conquista, lo sviluppo della persona in vocazione, proiettata verso il suo futuro, chiamata a confrontarsi con le provocazioni della realtà, a fare sintesi fra sé e il nuovo, a cercare un adattamento dinamico e creativo nella via che conduce l’uomo e la storia verso una superiore realizzazione.

Il progetto di sé, l’aspetto cioè del dono di Dio che rende l’uomo più consapevole del suo protagonismo vocazionale, si pone come nucleo propulsore e centro integratore per la crescita di tutta la personalità. Esso rappresenta la direzione di sviluppo per il «chiamato», indica la misura delle aspirazioni, costituisce un principio di autonomia e libertà interiore e insieme imprime la forza sufficiente per realizzare un impegno percepito come vincolante per tutta 1’esistenza. Il «progetto di vita» si radica nelle motivazioni profonde del comportamento, a livello psico-esistenziale, e pur presente in maniera primordiale nella prima età, si rivela pienamente durante il periodo adolescenziale, quando le strutture dell’autonomia dell’io e della relazione interpersonale hanno raggiunto una discreta maturazione. In quanto motivazione, è per molti aspetti permeato di inconscio, ma non raggiunge la sua maturità senza interessare le zone superiori della coscienza, investendo il potere critico e decisionale.

È pertanto un dinamismo completo e pluriarticolato e, in quanto essenzialmente rivolto al futuro, coesteso a tutto l’arco dell’esistenza (De Pieri, 1976, 1980).

Il dinamismo teologale della virtù della speranza si fonde pertanto con il potere umano dell’«autoprogettazione»: sul piano pratico, storico-culturale ed esistenziale ciò avviene — in felice sintesi — per il concorso dei doni dello Spirito, in primo luogo la profezia, e il discernimento umano dei «segni dei tempi e dei luoghi».

Per ogni educatore cristiano sono le nuove frontiere dove si può aprire, nonostante tutto, un cammino di speranza per i giovani d’oggi, chiamati ad essere un fermento di rinnovamento per la Chiesa di domani e i protagonisti di una nuova fondazione di valori per l’umanità del futuro. Sull’onda della speranza, il progettare umano appartiene alla natura creata dell’uomo che Dio non rinnega ma assume in un più vasto disegno di salvezza.

Il progetto di Dio si rivela alla progettualità umana attraverso la totalità della realtà di cui essa deve tener conto. E tener conto della realtà e di tutta la realtà costituisce il carattere più propriamente razionale (e quindi positivamente laico) della progettazione storica, anche se, in questo caso, è insieme il suo dischiudersi a quel progetto trascendente cui è sostanzialmente orientata.

Se la realtà impone spesso al singolo così come all’umanità di morire ai propri progetti parziali e fallibili, è solo perché possa vivere a un progetto di amore che, se può apparire incomprensibile alla corta razionalità umana e incommensurabile con i suoi calcoli miopi, non toglie all’uomo la responsabilità del progettare ma, assoggettandolo alla legge della croce, lo apre agli esiti positivi prefigurati nella risurrezione di Cristo (Gatti, 1981).

 

2.3. Vocazione come dinamismo affettivo-oblativo, di amore e servizio

La vocazione, in quanto essenzialmente connessa con le dimensioni più profonde della personalità, ossia quelle che fanno riferimento soprattutto alla sfera emotivo-affettiva e tendenziali del nostro essere, pone in attitudine di amore e servizio, anzitutto verso Dio, sentito come Persona vivente da amare in modo attivo e prioritario, e conseguentemente verso l’umanità, ugualmente da amare e servire. La vocazione diviene in tal modo una «via che conduce all’amore», in quanto permette a ogni uomo e a ogni donna di sviluppare nel concreto della propria esistenza la capacità di amare, come vertice e coronamento della chiamata fondamentale all’essere. L’impulso interiore, percepito nella fede, che sta all’origine di ogni vocazione come dono della bontà di Dio e che diviene in ogni essere umano forza propulsiva nel progetto personale di vita, raggiunge — sotto la spinta affettiva e tendenziale del dinamismo teologale della carità — un’attitudine aperta all’oblatività e al servizio.

In quanto tale la vocazione — quando evolve e matura — si caratterizza come un insieme di atteggiamenti «allocentrici», attivatori di relazioni interpersonali basate sull’accoglienza, sulla fiducia, sulla stima reciproca, sull’ottimismo e la gioia e trova la sua attuazione concreta nell’attitudine alla disponibilità e al servizio, attraverso la collaborazione, la corresponsabilità e la partecipazione. La vocazione diviene in tal modo fondamento, movente e veicolo per una esistenza interamente spesa in pienezza per Dio, per sé e per i fratelli. In questa prospettiva c’è un rischio da evitare: il pericolo cioè di ridurre la vocazione — anche sotto la spinta della carità — a una funzione di servizio in risposta a certi bisogni. La carità conduce anche a questo, ma supera tale obiettivo e si pone come gratuità e dono di amore, all’interno dell’amore di Dio e dentro la Chiesa, tutta intera «sacramento di salvezza», dove anzitutto questa dimensione spirituale viene evidenziata, sia pure attraverso la ricchezza e la complementarità dei doni e dei ministeri. In questo contesto anche la vocazione sacerdotale e religiosa cessano di essere speciali per divenire specifiche, diversificate ma complementari nell’unico grande dono di grazia che caratterizza il disegno salvifico universale di Dio (De Pieri, 1982).

 

3.​​ Il discernimento​​ della vocazione nell’attuale​​ contesto ecclesiale e sociale

La vocazione come dono, appello e progetto, ha bisogno — nel suo faticoso emergere e divenire sia individuale che comunitario — di essere non solo scoperta, ma soprattutto correttamente interpretata e aiutata a evolvere e crescere in pienezza e autenticità. Oggi soprattutto, nel clima di pluralismo culturale in cui siamo inseriti e di fronte al pesante condizionamento di alcune antropologie, nelle quali si esclude in forma più o meno evidente il rapporto dell’uomo con Dio, diventa arduo parlare non solo di discernimento e sviluppo vocazionale ma anche, in molti casi, della stessa dimensione religiosa della vita. Infatti, in ampie fasce dei giovani d’oggi lo stesso bisogno religioso, oltre che alienato, risulta sovente rimosso da molteplici ostacoli, pregiudizi e condizionamenti che impediscono, assieme alla dimensione religiosa della vita, anche la stessa progettualità umana. Il discorso teologico e antropologico sulla vocazione deve pertanto saldarsi con la dimensione storico-culturale che segna nel nostro tempo non solo la crisi ma anche lo stesso risveglio delle vocazioni. Già la Costituzione Conciliare «Gaudium et spes» aveva più volte messo in rapporto di interdipendenza vocazione e cultura. È in questa prospettiva che occorre procedere nella rifondazione dell’identità vocazionale di ogni persona, stabilendo — soprattutto nei confronti dei giovani d’oggi — gli obiettivi prioritari da conseguire antecedentemente alla scoperta della propria vocazione e dei compiti di maturazione che essa richiede.

 

3.1. Alcuni obiettivi previ alia scoperta della propria identità vocazionale

Nell’attuale contesto storico-culturale sembra necessario operare sul «pre-vocazionale», conseguendo i seguenti importanti obiettivi:

— Aiutare adolescenti, giovani e adulti​​ a prendere coscienza del progetto​​ quale fattore dinamico del loro sviluppo umano globale.

— Far​​ maturare la dimensione religiosa​​ insita in ogni progetto umano. Occorre esplicitare questa istanza partendo dalle esigenze dello sviluppo umano e aiutare ognuno a saper leggere il proprio progetto di esistenza sullo sfondo della volontà di Dio. Solo così il progetto diventa «vocazione».

— Garantire ai giovani un supporto culturale e razionale del progetto: questa​​ fondazione scientifica​​ è essenziale per l’autonomia critica e per la costruzione dei valori: è compito delle istituzioni formative fornire queste motivazioni.

— Condurre gli adolescenti e i giovani alla​​ maturità di scelta e decisione.​​ Senza di ciò resterebbero in balia di progetti altrui o nell’indecisione cronica. Il progetto di vita si realizza infatti nelle scelte concrete.

— Aiutare adolescenti e giovani ad​​ accettare e superare le frustrazioni​​ come normali elementi di maturazione. Oggi soprattutto, nel contesto della società permissiva, essi sono esposti alla fragilità emotiva, alla consumazione di esperienze emotive, all’indecisione. Nessun progetto giunge a compimento senza questo duro esercizio di fronte alla realtà.

— Maturarli​​ all’impegno socio-politico​​ mediante la partecipazione. Ogni progetto individuale ha una componente sociale. Bisogna talora far emergere la necessità di lottare contro molteplici condizionamenti per rendere possibile un ideale di vita. In altri termini, la realizzazione del progetto di sé si salda con il​​ processo di liberazione individuale e collettiva.​​ Per il credente poi l’impegno sociale oggi è il nome nuovo della carità: egli deve saper fare una sintesi vitale tra autoprogettazione, sviluppo e presenza nella realtà sociale e culturale in cui è inserito.

 

3.2. Criteri di idoneità e discernimento vocazionale

Ponendosi ora dal punto di vista della vocazione nel soggetto giovane o adulto, che si interroga e desidera conoscere ciò che Dio si attende da lui, cerchiamo di individuare anzitutto i criteri di discernimento e poi le linee di maturazione per far emergere e condurre fino alla maturità la chiamata del Signore.

Ciò presuppone e richiede, accanto alla grazia, anche apporti delle scienze umane, in primo luogo la psicologia e la pedagogia che devono favorire il risveglio, il riconoscimento e lo sviluppo del «germe» vocazionale. Si parla a questo proposito di un duplice discernimento: da parte del soggetto a livello della sua coscienza, e da parte della Chiesa che, per certi ministeri e vocazioni specifiche, suppone l’esame delle motivazioni, delle attitudini e, più profondamente, il riconoscimento della mozione interiore dello Spirito all’interno di ogni anima.

 

3.2.1. Il discernimento vocazionale da parte del soggetto, primo e principale protagonista

Per scoprire la volontà di Dio e rispondere pienamente con libertà alla sua chiamata è necessario percorrere un itinerario di discernimento che comprende diverse tappe.

— La prima risposta, e la più fondamentale, che si deve dare è questa: la volontà di Dio è la vita. Il primo «sì» che noi possiamo dire a Dio è​​ dire sì alla vita.​​ Dire che Dio ci vuole a sua immagine è dire che ci vuole creatori e liberi, capaci di invenzione nell’amore. Ciò che Dio attende da ciascuno di noi è anzitutto che si sia pienamente, il più originalmente possibile, uomo o donna, creatore di vita e di amore a sua immagine. Affermare questo è dire equivalentemente che il primo luogo di discernimento della volontà di Dio è il nostro essere profondo, col suo desiderio e le sue virtualità. La psicologia conferma questo punto di vista: c’è il rischio di costruire una vocazione su un «super-io» sociale o religioso che in certi contesti può rivelarsi solido, ma che non è l’« Io» profondo.

— È opportuno in secondo luogo assumere informazioni e chiedere anche consiglio a persone competenti e di fiducia: occorre infatti grande​​ capacità di ascolto e di riflessione​​ per non commettere errori nelle decisioni che riguardano la direzione fondamentale dell’esistenza. L’analisi della propria esperienza presente e passata, compresi gli errori e gli insuccessi, fatta alla luce di criteri obiettivi di valutazione, consente di rettificare l’indirizzo intrapreso, traendo motivazione ed energie per sforzi ulteriori di ripresa e di progresso.

— Bisogna infine essere in ascolto, oltre che del proprio io, anche delle invocazioni e delle​​ provocazioni che ci provengono dalla realtà​​ circostante che ci interpella, specialmente attraverso le situazioni di sofferenza e di bisogno. Gli appelli lanciati da chi è oppresso, emarginato, sofferente, disperato, rappresentano sovente una sorgente da cui scaturiscono vocazioni che hanno il timbro del sublime e dell’eroico. In questa prospettiva, da una attenta lettura dei «segni dei tempi», provengono segnali e stimoli per scoprire la volontà di Dio su di sé. Ecco al riguardo varie situazioni.

Certe volte progetto personale e piano di Dio sembrano coincidere: in questo caso basta la rettitudine di intenzione, ispirando la propria vita su quella che appare abbastanza linearmente come volontà di Dio.

In certi casi sorge un vero e proprio conflitto tra le aspirazioni e gli impulsi personali e ciò che viene con chiarezza percepito come disegno di Dio su di sé.

In altri casi Dio stesso si permette di «attraversare» in maniera brusca e inattesa il corso dell’esistenza, imprimendovi una direzione del tutto diversa. Ciò accade sovente in caso di malattie, disgrazie, calamità naturali, crisi sociali, situazioni di bisogno, e in tutti i casi in cui Dio richiede, attraverso una «conversione», un cambio di vita.

 

3.2.2. Il discernimento da parte della comunità e della Chiesa per le vocazioni specifiche

Accanto al discernimento da parte del soggetto, l’esperienza della Chiesa richiede, per le​​ vocazioni specifiche,​​ un discernimento «oggettivo» a cura di coloro che ne hanno di volta in volta la responsabilità. Il discernimento oggettivo verte sostanzialmente su tre aspetti:

— il riconoscimento del movimento interiore dello Spirito nell’intimo di una chiamata personale (in tal caso legittimando il discernimento già compiuto dal soggetto chiamato per questa o quella vocazione);

— la valutazione della «retta intenzione» attraverso l’esame delle motivazioni, onde evitare illusioni o distorsioni pericolose;

— l’accertamento delle attitudini richieste per svolgere un determinato ministero o affrontare un particolare stato di vita (sacerdotale, religiosa, laicità consacrata, ecc.)

 

3.2.2.1. Il discernimento delle motivazioni

In riferimento alla specificità e destinazione di alcune particolari vocazioni, quelle cioè al sacerdozio e alla vita religiosa, si impongono alcuni criteri di idoneità e di maturazione, che vanno inquadrati in una più ampia prospettiva di «discernimento». Nell’intento di cogliere gli indizi positivi per un tale tipo di chiamata particolare e anche nello sforzo di individuare elementi negativi (o «controindicazioni») si è da sempre attuato nella Chiesa uno sforzo di chiarificazione e orientamento, che ha fatto sintesi, da un lato, delle indicazioni provenienti da criteri di idoneità ecclesiale e, dall’altro, degli apporti recati anche dalla saggezza e dalla scienza umana per gli aspetti di reciproco dominio e competenza.

Si può anzi dire che il dialogo tra teologia e scienze umane ha trovato un fecondo campo di applicazione e confronto soprattutto nei riguardi del «discernimento dei criteri di idoneità» delle vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa. In particolare l’apporto più consistente recato dalle scienze umane si è rivelato utile nell’analisi delle motivazioni vocazionali e nell’indicazione di accurate metodologie di sviluppo, maturazione e adattamento vocazionale.

Retta intenzione e motivazione autentica sono requisiti essenziali: essi richiedono che il soggetto chiamato disponga di un sufficiente grado di libertà e di equilibrio psicologico. Per tale ragione, oltre all’animatore vocazionale, all’educatore e al responsabile religioso, anche lo psicologo viene talora chiamato a dare il proprio contributo per descrivere i dinamismi della personalità, pronosticare una linea di sviluppo in caso si tratti di immaturità o dubbio equilibrio e indicare eventualmente opportuni interventi psicoterapeutici. In pratica, riferendosi ai criteri di accettazione dei candidati al sacerdozio e alla vita religiosa, i responsabili devono attenersi alle norme del Magistero ecclesiale che suggeriscono di non accogliere i soggetti che presentano determinati disturbi psichici o che sono animati da motivazioni chiaramente inautentiche.

La prima e più importante garanzia di motivazione autentica proviene dalla valutazione di una personalità profondamente sana, dotata di un certo grado di equilibrio psichico, esente perciò da gravi incongruenze o conflittualità nei dinamismi costitutivi dello psichismo, imperniata essenzialmente su tratti positivi di autonomia e autofiducia, con orientamento chiaramente «allocentrico», cioè oblativo e religioso.

In altri termini, non deve risultare dissonanza insuperabile tra aspetti inconsci e aspetti coscienti dei moventi vocazionali, che vanno perciò colti più nel vissuto e nel comportamento del soggetto che nelle sue affermazioni verbali. L’esame condotto sulla motivazione perviene alla constatazione o meno della «consistenza» vocazionale, che si ha quando la persona è motivata da bisogni che si trovano in armonia con i valori oggettivi e con gli atteggiamenti vocazionali (Rulla, 1978).

La persona chiamata che ha raggiunto un buon livello di consistenza vocazionale dispone abitualmente di serenità interiore (esclusione cioè di ansia «nevrotica», mentre è normale l’ansia «esistenziale»), sicurezza psicologica sufficiente (esclusione di stati cronici di indecisione e di incertezza) e capacità di instaurare rapporti interpersonali soddisfacenti per sé e fruttuosi per gli altri (esclusione di «difese» strutturate o di «proiezioni» aggressive sempre in agguato).

 

3.2.2.2. Il discernimento delle disposizioni e delle «attitudini»

Una vocazione ecclesiale specifica richiede un supporto attitudinale che deve essere valutato in base a determinati criteri. La riflessione dottrinale, le conclusioni delle scienze umane e l’esperienza secolare della Chiesa hanno in proposito individuato, oltre al discernimento delle motivazioni, una duplice serie di criteri così ripartiti:

—​​ criteri negativi o «controindicazioni»​​ di indole giuridica o prudenziale;

—​​ criteri positivi,​​ nel senso che la loro presenza è esplicitamente richiesta per l’affidabilità del discernimento vocazionale.

In genere, le​​ controindicazioni​​ più comuni e più gravi si riferiscono:

— alla base familiare delle disposizioni e delle attitudini (tare familiari o gravi turbe del clima affettivo di base);

— alla carenza di equilibrio psichico (gravi disturbi nella struttura e nella dinamica della personalità);

— alla carenza di attitudine alla «vita comunitaria», intesa come incapacità costituzionale dell’individuo a vivere come membro di una comunità e a integrarsi con gli altri in quanto diversi da sé;

— all’incapacità seriamente dimostrata di integrarsi attivamente in situazioni nuove e di affrontare una realtà in continua evoluzione e divenire.

Per quanto concerne invece i criteri di​​ idoneità positiva,​​ con i rispettivi indici per il discernimento, occorre riferirsi, oltre alle indicazioni del Magistero ecclesiale, anche alle esigenze di ogni vocazione specifica.

A titolo di opportuna precisazione è da ricordare che le «disposizioni» che si devono riscontrare e coltivare sin dall’inizio non sono ancora le «attitudini» sviluppate, da richiedere alla vocazione dell’adulto formato. Inoltre i casi o​​ le situazioni di immaturità,​​ specialmente se in età ancora giovane, non sono da ritenere alla stregua delle controindicazioni: costituiscono infatti segnali prudenziali per aumentare l’opera di discernimento e di formazione. Per l’idoneità vocazionale tali casi devono però evolvere in senso chiaramente positivo e consolidato.

 

4.​​ Il processo di maturazione

Perché l’adesione umana all’iniziativa divina avvenga in libertà e autenticità occorre che il cammino vocazionale percorra una serie di tappe che caratterizzano il cosiddetto processo di maturazione vocazionale. Intendiamo riferirci soprattutto all’adesione libera e responsabile, alla purificazione progressiva dei moventi vocazionali e alla dinamica della decisione.

Nel divenire vocazionale la decisione rappresenta infatti il punto di arrivo di un faticoso processo di maturazione che può essere scandito attraverso le quattro tappe seguenti:

— l’origine della vocazione, segnata dall’emozione privilegiata di cui abbiamo parlato;

— il sostegno durante il periodo di orientamento, mediante il confronto con un modello;

— l’avvio verso la disponibilità attraverso un sincero atteggiamento di ricerca, che traduce concretamente l’adesione alla chiamata;

—​​ la decisione vera e propria, mediante una opzione e un coinvolgimento nel ruolo vocazionale liberamente scelto (Marchand, 1967).

 

4.1. L’adesione libera e responsabile alla chiamata divina

Analizzando il modo con cui l’uomo accoglie l’invito divino e vi risponde, emergono due aspetti: uno caratterizzato dal dinamismo presente nel dialogo tra Dio e l’uomo; l’altro evidenziato dalla graduale trasformazione che avviene nell’uomo che si lascia conquistare da Dio (Giordani,​​ 1979).

Il primo dinamismo comporta l’intuizione del proprio progetto di vita, che si va gradualmente elaborando con la propria identità. Il secondo consiste nell’atteggiamento di conversione e di trasformazione che il dono di Dio richiede da parte della persona così chiamata. L’uomo, aderendo a Dio, non perde la propria identità, rimane anzi sé stesso, si realizza pienamente e allo stesso tempo acquista un nuovo principio interiore di identificazione proposto da Dio in Cristo e nello Spirito, capace di trasformare il suo sistema di valori, le sue tendenze affettive e relazionali e anche la sua sfera pulsionale. L’adesione vocazionale comporta cioè una innovazione e un arricchimento trasformante l’intera personalità.

Ecco perché la chiamata di Dio, essendo ricevuta in un essere umano, richiede il rispetto di questi dinamismi che conferiscono dignità alla risposta dell’uomo, in quanto avviene secondo una personale e libera accoglienza e disponibilità.

Come è noto, il periodo della «ricerca» nel cammino vocazionale si è oggi notevolmente dilatato. L’impegno dei singoli deve essere perciò coadiuvato da supporti ambientali e comunitari adeguati, con una intensificazione dell’aiuto personalizzato, offerto da guide spirituali, educative e psicologiche preparate.

 

4.2. La progressiva purificazione dei moventi vocazionali

La particolare connotazione emotivo-affettiva della vocazione richiede frequentemente la polarizzazione su un modello che viene amato, imitato e seguito (processo di identificazione).

Questo aspetto, nella storia di molte vocazioni, appare evidente e significativo: chi è attratto da una vocazione generalmente esperimenta in maniera viva questa identificazione col modello.

Il più delle volte esso è rappresentato da persone reali e concrete, che incarnano le istanze dell’ideale perseguito nella vocazione, ma in non pochi casi esso è costituito anche dalle stesse istituzioni religiose e soprattutto dallo «spirito» e dal «carisma» dei Fondatori.

Tuttavia non è chi non veda l’ambivalenza, sotto l’aspetto psicologico, di questa tappa nel processo vocazionale: se infatti essa dall’«identificazione» sul modello non evolve verso l’«identità» autonoma e adulta attraverso l’interiorizzazione dei valori vocazionali, rischia di cristallizzare la persona in uno stadio precario di eteronomia e dipendenza infantile.

Nella pedagogia vocazionale questo rischio è conosciuto, ma non sempre nel processo di maturazione l’individuo o l’istituzione riescono a cautelarsi in maniera soddisfacente. Ciò conduce ad arresti e fissazioni di sviluppo ed è causa non infrequente delle crisi di abbandono o della infelicità vocazionale in tutti gli stati di vita.

Oltre alla interiorizzazione del modello è necessario procedere nella purificazione dei moventi vocazionali.

Come è noto, la compresenza di motivazioni soprannaturali e naturali (consce e inconsce) rende inevitabilmente complesso e ambivalente l’intero cammino vocazionale. Una volta accertato, infatti, che i dinamismi motivazionali su cui si fonda la vocazione sono autentici, rimane aperto il compito di una progressiva «purificazione» dei motivi, la cui autenticità si intravede attraverso il comportamento e gli atteggiamenti costanti della persona ed emerge soprattutto nelle situazioni difficili (come l’incomprensione, la solitudine, il dubbio, la delusione, la malattia, la fedeltà nel quotidiano, ecc.).

 

4.3. La decisione vocazionale vera e propria

La decisione vocazionale non costituisce un atto isolato o per così dire volontaristico. Essa si inquadra invece in un processo dinamico di maturazione della personalità che a un certo punto è in grado di compiere una opzione libera, fondata su motivi di valore. Ordinariamente la decisione avviene in forza della percezione che il proprio progetto di vita si inquadra nel disegno che Dio ha su di noi. Si instaura così una «catena motivazionale» che attraverso inclinazioni, interessi, motivazioni e atteggiamenti, impulsi e dinamismi spirituali, conduce alla scelta definitiva. Potremmo chiederci quali condizioni sono oggi maggiormente atte a radicare i valori nella personalità e farli divenire motivazioni capaci di sostenere l’opzione vocazionale dei giovani nel contesto attuale. Per questo ci sembra necessario:

—​​ un incontro esperienziale​​ della persona​​ con i valori​​ (alleanza con Dio sommamente amato, carità, solidarietà, risposta alle situazioni di bisogno che provocano e interpellano, ecc.);

—​​ la testimonianza di educatori significativi,​​ in grado di incarnare in concreto il modello vocazionale (entusiasti, autenticamente motivati, sintesi viventi della proposta vocazionale);

—​​ l’esperienza di vita in gruppi formativi,​​ aperti alla preghiera, all’ascolto e alla testimonianza;

—​​ la presenza di comunità credibili​​ direttamente impegnate nella missione (dinamicamente orientate e protese a realizzare un progetto apostolico vocazionale sintonizzato con i «segni dei luoghi e dei tempi»). Nel concreto, ogni autentica opzione vocazionale avviene in un clima impegnato di vita, dove la persona viene abituata ad affrontare la realtà, aiutata a superare le necessarie frustrazioni, e a porsi a servizio dei bisogni-valori autentici con atteggiamento di fiducia, bontà e apertura d’animo (Gianola, 1981). Per questo è importante che il processo di decisione venga favorito da momenti forti di preghiera, orientamento e discernimento, sempre congiunti però e armonizzati con una esperienza autentica e riflessa del tipo di vita che si intende abbracciare. L’animatore e il formatore vocazionale devono essere oggi sempre più qualificati a comprendere e sostenere il cammino vocazionale dei giovani del nostro tempo, così diversi e mutevoli e, sia pure a loro modo, così capaci di donazione e di profezia nei confronti dell’appello vocazionale.

 

4.4. Per una pedagogia di accompagnamento

Per questo oggi nella pedagogia dell’accompagnamento vocazionale si impongono alcune istanze.

1. Anzitutto l’attenzione ad​​ articolare gli interventi secondo un ’ottica di sviluppo vocazionale.​​ Esso prevede le seguenti fasi:

—​​ l’orientamento​​ di tutti e ciascuno a scoprire il progetto di Dio su di sé (questa fase è connessa con​​ l’annuncio​​ vocazionale attraverso la comunità, i suoi «segni» e le sue mediazioni);

— la​​ proposta,​​ che può essere esplicita o implicita e diversificata secondo le varie età (ad esempio, nella preadolescenza pare opportuno maturare alcuni importanti pre-requisiti vocazionali; nell’adolescenza far vivere intensamente l’intuizione del progetto di vita e far risuonare la bellezza dell’appello vocazionale; nella giovinezza e nella vita adulta impegnare attorno a valori vocazionali concretamente vissuti nell’integrazione fede-vita);

—​​ l’accompagnamento,​​ sia personale che comunitario una volta che si sia chiarita o si stia chiarendo l’ipotesi vocazionale (a questo riguardo sono oggi necessarie sia persone che strutture a ciò adeguatamente preparate e destinate).

2. In secondo luogo,​​ l’attenzione alla creazione di itinerari vocazionali,​​ diversificati secondo le età e le fasi dello sviluppo vocazionale. Gli itinerari, oltre agli obbiettivi da conseguire e ai mezzi da valorizzare, prevedono anche la mediazione delle persone destinate all’animazione vocazionale e delle strutture necessarie per l’accompagnamento (CEI,​​ Piano pastorale per le vocazioni,​​ 1985).

 

5.​​ Conclusione

Un salutare cambio di prospettiva si è attuato nel nostro tempo circa il modo di concepire la vocazione, riportandola all’interno della persona e della condizione esistenziale di ogni uomo e di ogni donna. In particolare, oggi viene accentuato l’aspetto dialogico-relazionale e perciò dinamico di ogni vocazione.

Il peso attribuito alla vocazione comune nulla toglie alle vocazioni specifiche, anzi dona loro un carattere di maggiore credibilità e rilevanza.

Questo «salto di qualità» nei riguardi della vocazione può imprimere un dinamismo di maggiore consapevolezza e responsabilità ad ogni persona che è misteriosamente «donata-chiamata» da Dio, e nello stesso tempo qualificare in maniera più adeguata tutti gli educatori e i pastori delhanimazione, dell’orientamento e del discernimento vocazionale. Nell’attuale momento storico occorre forse, in forma prioritaria, rivedere i rapporti tra cultura-vocazione e vocazioni-Chiesa, per favorire un risveglio che sia maggiormente in sintonia con i «segni dei tempi», letti anche nei valori-bisogni delle nuove generazioni, e con la volontà dello Spirito che non cessa mai di amare l’umanità rinnovando in essa l’effusione dei suoi «doni».

 

Bibliografia

Conferenza Episcopale Italiana,​​ Vocazioni nella Chiesa in Italia. Piano Pastorale per le vocazioni,​​ Collana Documenti CE1, Roma 1985; De Pieri S.,​​ Progetto di sé e partecipazione, Ed. Paoline, Roma 1976;​​ Orientamento, professione e vocazione, Queriniana, Brescia 1979;​​ Cammino dei giovani in orientamento e la comunità, in «Consacrazione e servizio» (1980) 4, pp. 59-71; Favale A. (a cura di),​​ Vocazione comune e vocazioni specifiche, LAS, Roma 1981; Frankl V.,​​ Alla ricerca di un significato della vita, Mursia, Milano 1974; Gatti G.,​​ La vocazione cristiana, in A. Favale (a cura di),​​ Vocazione comune e vocazioni specifiche, LAS, Roma 1981, pp. 241-242; Gevaert J.,​​ La vocazione umana, in Favale A. (a cura di), o.c., p. 209ss; Gianola P.,​​ I giovani tra valori difficili e vocazioni consacrate, in «Orientamenti Pedagogici», 3, 1981, pp. 375-399; Giordani B.,​​ Risposta dell’uomo alla chiamata di Dio, Ed. Rogate, Roma 1979; Grieger P.,​​ I giovani oggi e il «progetto di vita», Ancora, Milano 1979; Marchand F.,​​ Étapes de la vocation chez l’enfant et l’adolescent, in «La Vie Spirituelle, Supplément», 80 (1976), pp. 60-68; Masseroni E.,​​ Vocazione e vocazioni, Piemme, Casale Monferrato 1985; Pigna A.,​​ La vocazione. Teologia e discernimento, Teresianum, Roma 1976; Rulla L. M.,​​ Psicologia del profondo e vocazione: le persone, Marietti, Torino 1976;​​ Psicologia del profondo e vocazione: le istituzioni, Marietti, Torino 1976;​​ Antropologia della vocazione cristiana,​​ vol. I Basi interdisciplinari,​​ vol. II Conferme esistenziali, Piemme, Casale Monferrato 1985; Rulla L. M. - F. Imoda - J. Ridick,​​ Struttura psicologica e vocazione: motivazioni di entrata e di abbandono, Marietti, Torino 1977; Sovernigo G.,​​ Psicologia della vocazione, Istituto S. Giustina, Padova 1975;​​ Progetto di vita e scelta cristiana, LDC, Leumann 1975;​​ Ecco, manda me, LDC, Leumann 1985.

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VOCAZIONE

Il concetto di v. (vocation) è una nozione fondamentale che è stata sempre presente nella coscienza dell’uomo, in modo particolare nella rivelazione trasmessaci dalla​​ ​​ Bibbia. In questi ultimi anni è stato particolarmente approfondito sia nel campo specifico dell’orientamento, per l’aumentato bisogno di informazioni, consigli ed educazione in merito alla scelta di un lavoro nell’ampia gamma delle offerte, sia in quello religioso, grazie, in particolare, al Concilio Vaticano II e ad una vigorosa presa di coscienza della crisi numerica dei candidati alla vita presbiterale e consacrata. Rimane tuttavia notevole il lavoro di ricerca e di studio richiesto dal fenomeno della v. di «speciale consacrazione». Anche se si nota una maggior attenzione ai valori della​​ ​​ persona, tuttavia, non si è ancora sufficientemente chiarito l’apporto interdisciplinare tra teologia e​​ ​​ scienze dell’educazione e non si è prestata sufficiente attenzione agli aspetti attitudinali, pedagogici e metodologici della scelta e accompagnamento vocazionali.

1.​​ Significato di v. Nell’uso corrente per v. s’intende l’inclinazione che una persona manifesta verso uno stato di vita, una professione o una carriera. Questa accezione, comune e popolare, tuttavia è in qualche modo elementare e vaga; non rispecchia infatti abbastanza quello che è in realtà la v. al livello umano e cristiano. Per v.,​​ a livello umano, s’intende il servizio incondizionato a​​ ​​ valori riconosciuti come tali e sentiti come appellanti per la persona. La v. è la via all’identità propria di una persona che impegna in forma libera e responsabile la propria vita per promuovere la storia dell’uomo. Essa è sempre una risposta originale ad un appello percepito come forte e impellente. Non si tratta unicamente di un’inclinazione o di un’attrattiva naturale ma di un’iniziativa personale, libera e intenzionale della persona che organizza e unifica la propria vita in funzione di un valore. Le inclinazioni naturali non sono la spinta specifica di una v., perché potrebbero addirittura essere un elemento disturbante. La v. è, invece, una realtà profondamente «personale», inserita in una struttura di inclinazioni ed abilità, ma che si trova a funzionare solo nel campo dello spirito, della libertà e della responsabilità. La v., in questo senso, è la misura esistenziale e storica di una persona concreta, perché è solo lo spirito, la dimensione spirituale, che costruisce la storia. Si può, quindi, dire che la v., a livello umano, è il nome dell’identità personale più profondamente ricercata. La v. è pure il fine della persona e, quindi, interessa la​​ ​​ pedagogia. Ciò significa che la persona è strutturata dalla sua v. Essa nasce come un progetto che deve essere realizzato, con l’aiuto dell’​​ ​​ educazione, dalle decisioni centralizzate e unificate della​​ ​​ libertà. Per v.,​​ a livello cristiano, s’intende la chiamata di Dio all’uomo per operare a favore della storia della salvezza. Questa v. non esclude quella a livello umano: la presuppone per arricchirla, ad un piano superiore, di una nuova dimensione. Perciò essa non va considerata solo in modo teocentrico, né solo in modo antropocentrico, ma secondo le due visuali. L’approccio teologico definisce piuttosto il contenuto della v., quello antropologico la modalità della risposta. A questo livello la v. presenta, secondo la Bibbia, le seguenti caratteristiche: è iniziativa d’elezione di Dio, in vista della salvezza del mondo (Ger 1,5; Gal 1,15); è un atto d’amore creativo, personale ed unico, in cui Dio chiama l’uomo «per nome» (Is 43,1) secondo il progetto pensato per lui; implica fondamentalmente un atto di​​ ​​ fede, ossia la capacità nella persona di trascendersi fino al punto di scoprire l’iniziativa di Dio e di ascoltarne la chiamata; richiede un’amicizia religiosa con Dio e fiduciosa in Lui che accetta di collaborare al piano di Dio entro la comunità ecclesiale (aspetto interpersonale-comunitario) con atteggiamento audace, vissuto nell’umiltà, senza altre intenzioni, desideri od aspettative se non quella di consegnare la propria vita a Dio. Nella fede cristiana troviamo questa profonda originalità: la v. è l’impegno interpersonale di Dio e dell’uomo al servizio dell’uomo e della salvezza del mondo.

2.​​ Dimensione pedagogica e teologica della v. cristiana.​​ Nella persona umana, la capacità di scoprire l’iniziativa di Dio e di seguire la sua chiamata è un’attività spirituale mossa dalla fede. La fede è un atteggiamento personale che percepisce e accetta nella storia l’attività salvifica di Dio: è dono di Dio e accettazione dell’uomo; è invito di Dio e decisione libera e docile dell’uomo; è responsabilità e iniziativa di Dio e corresponsabilità o co-iniziativa dell’uomo che si trascende, fino al punto di aprirsi a Dio, intenderne i segni, conoscerlo ed amarlo. La v. è inoltre strettamente collegata con le attività della coscienza e della libertà e in armonia con le doti naturali e le inclinazioni dell’uomo, sebbene si collochi ad un livello superiore. Essa implica sempre una decisione personale libera, promossa dalla fede. La tradizione biblica mette in risalto in Abramo specialmente la sua fede (Rm 4,14-22). La v. nasce come progetto preciso che richiede per essere realizzato un cammino di accompagnamento e di discernimento attraverso cui progressivamente sono unificate le decisioni della libertà per una disponibilità incondizionata e illimitata a Dio e a quelli che nella fede sono chiamati «fratelli» e «sorelle». Questa disponibilità alla «chiamata» di Dio è la condizione della vera fecondità di grazia della v., in qualsiasi «stato» ecclesiale si presenti e in qualsiasi forma si manifesti. In ogni caso si tratta sempre del dono di sé a Dio per i fratelli e per il mondo, sia che la v. si verifichi nella contemplazione di un convento oppure nell’azione apostolica di un prete o di un religioso, o come fermento nel mondo in un istituto secolare o nella vita laicale. Qualunque possa essere il modo della chiamata, è necessario che il soggetto armonizzi tutte le doti della natura e le qualità personali in una co-iniziativa, che s’impegna liberamente in modo totale. In questo senso la libertà nella v. congloba, in sintesi organica, tutta la personalità. Così la v. non è una buona volontà disincarnata, o una decisione isolata, che tocca semplicemente un settore della vita, quella religiosa, ma l’espressione «personale» di tutta l’identità vocazionale concreta del soggetto. Un compito notevole è la decisione vocazionale. Essa impone un delicato lavoro pedagogico di​​ ​​ discernimento vocazionale perché la decisione sia espressione d’un coinvolgimento totale di tutta la persona. È maturazione intelligente delle doti e inclinazioni naturali, in particolare dell’area affettivo-sessuale, delle competenze e delle abilità acquisite e della loro integrazione nel progetto vocazionale. È anche comprensione delle inevitabili contrapposizioni e tensioni giovanili nel cammino vocazionale. Per questo la decisione personale è sempre un atto di audacia che implica un impegno realizzato in un iter di accompagnamento spirituale. Nella v., soprattutto cristiana, tutto si basa sulla docilità alla chiamata, piuttosto che sulle qualità personali dell’uomo. Anzi, la scoperta della propria povertà, come nel caso dell’anzianità di Abramo o della sterilità di Sara, irrobustisce l’impegno del sentirsi chiamati a collaborare con Dio. La v. infatti implica sempre la fiducia nella fedeltà e nel potere di Dio che chiama.

3.​​ L’iniziativa di Dio e la persona.​​ La v. cristiana, appunto perché interpersonale, ha due aspetti chiaramente differenziati: l’iniziativa di Dio e l’accettazione dell’uomo. Si tratta di due aspetti di un’unica realtà vincolati con le attività della coscienza e della libertà. L’iniziativa di Dio si colloca anzitutto nel campo delle caratteristiche e delle doti naturali. Non è la manifestazione illogica di una volontà arcana che s’impone come un imperativo bizzarro, nonostante la personalità e i desideri concreti dell’uomo chiamato. La v. di Abramo, ad es., nonostante la sua anzianità e la sterilità di Sara, è nella linea delle proprie inclinazioni naturali: avere dei figli, possedere terre e dar inizio a una discendenza poderosa. Questi desideri saranno realizzati dalla v. in una maniera inaspettata e portati ben oltre le possibilità naturali. Nella chiamata alla v., Dio si rivolge all’uomo, all’interno di uno scambio dialogico, per invitarlo a partecipare al suo piano d’amore. L’accettazione dell’uomo implica sempre una decisione personale libera, suscitata e sospinta dalla fede. La v., perché personale, segue le linee fondamentali dello sviluppo della personalità umana e cristiana. Essa è in continuo sviluppo verso la progressiva scoperta e comprensione del proprio mistero. I vari educatori dovranno far attenzione alle esigenze di questa continua tensione. È sempre difficile equilibrare la considerazione della v. tra visione della grazia e visione pedagogica. Se si sottolinea eccessivamente la dimensione della grazia si annulla la responsabilità dell’uomo. Se si considera unicamente la dimensione antropologica, si corre il rischio di minimizzare l’apporto della grazia. Per questo a tutt’oggi si sono date tre impostazioni di pensiero e di metodologia attorno al discorso v.: la scuola spiritualista che privilegia l’azione unica di Dio a scapito della realtà della persona; la scuola psicologista, che concentra l’attenzione vocazionale solo sui dinamismi naturali della persona; la scuola antropologico-cristiana che vede il discorso vocazionale in uno splendido equilibrio di natura e grazia nella chiamata e nella risposta.

4.​​ La v. e le v.​​ L’originalità della v. non consiste solo nel fatto che Dio prende l’iniziativa nella storia dell’uomo, ma anche nel fatto che Dio interviene definitivamente, non in un individuo, ma in una comunità di persone, ossia nella Chiesa. La v. cristiana, nel suo senso fondamentale e comune, è comunitaria ed ha quindi una valenza globale. Dio chiama l’uomo attraverso la Chiesa, e l’uomo risponde a Cristo attraverso la Chiesa. Così la Chiesa è la v. cristiana del mondo, il nucleo e la logica dinamica di ogni v. Nella Chiesa ci sono parecchie v. Come dice s. Paolo, ad ognuno è stato dato un «carisma» (dono) particolare, secondo la libertà di Dio e la capacità di ognuno: non per sé, ma per l’utilità comune, per realizzare la Chiesa «corpo mistico», «edificio spirituale», «popolo sacerdotale, profetico e regale» e per operare nella verità e giustizia, per la salvezza del mondo e la piena comunione con Dio. Educare alla v. significa promuovere alla vita comunitaria aperta al mondo e a Dio.

5. In questi ultimi anni si è iniziato a riflettere sulle linee portanti per una storia della pastorale e pedagogia vocazionale nella Chiesa. Si considera punto iniziale della Pastorale Vocazionale l’enciclica di Pio XI:​​ Ad cattolici sacerdotii​​ del 1935, che, si può dire, ha dato l’apporto fondamentale a tutta la pastorale e pedagogia vocazionale successiva con l’impulso straordinario del Vaticano II.

Bibliografia

Masseroni E.,​​ V. e vocazioni, Casale Monferrato (AL), Piemme, 1985; Cencini A.,​​ Vocazioni. Dalla nostalgia alla profezia. L’animazione vocazionale alla prova del rinnovamento, Bologna, Dehoniane, 1989; Magni V.,​​ Pastorale delle v. Storia,​​ dottrina,​​ esperienze,​​ prospettive, Roma, Rogate, 1993; Cencini A.,​​ Vita consacrata. Itinerario formativo lungo la via di Emmaus, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 1994; Citrini T., «V.», in​​ Dizionario di pastorale vocazionale, Roma, Rogate, 2002; Llanos M. O.,​​ Servire le v. nella Chiesa, Roma, LAS, 2005.

V. Gambino

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VOCAZIONE

VOLONTÀ

 

VOLONTÀ

Tendenza dell’uomo a ricercare il proprio e l’altrui bene. In senso più specifico, qualità della​​ ​​ persona umana che si manifesta particolarmente nella capacità di perseverare negli impegni presi anche di fronte a difficoltà, imprevisti, frustrazioni.

1.​​ Interesse per gli studi sulla v.​​ La v. era considerata dalla filosofia e dalla psicologia una delle facoltà principali dell’uomo, insieme a intelligenza e sentimento. In ambito psicologico dopo un intenso studio all’inizio del secolo, soprattutto a opera della psicologia della Scuola di Würzburg (N. Ach) e di Berlino (​​ Lewin), si è progressivamente perso interesse per i processi volitivi. Anche in campo pedagogico si è assistito a una diminuita presenza di quella che veniva denominata «educazione della v.». Negli ultimi anni, tuttavia, si è avuta una certa ripresa d’interesse per lo studio dei processi volitivi soprattutto per merito della scuola tedesca avviata da H. Heckhausen. Altre correnti psicologiche hanno mostrato un rinnovato interesse per la v. intesa come facoltà umana, anche se il tutto è stato riletto in maniera più profonda e integrata.

2.​​ Natura della v.​​ Si possono delineare almeno tre teorie fondamentali concernenti la volizione: la teoria che la considera come facoltà o «capacità di volere» (​​ Locke); la teoria che la vede nel suo manifestarsi come un atto decisionale che coinvolge emozione e cognizione; la teoria che la esamina nel contesto di un complesso processo che integra un momento predecisionale in cui si elabora l’intenzione di agire e uno post-decisionale in cui si controlla l’esecuzione dell’azione conseguente alla decisione presa. Nel seguito ci soffermeremo soprattutto su quest’ultima posizione, derivandone alcune indicazioni di ordine educativo.

3.​​ La volizione come competenza strategica. La v. d’agire in un certo modo deriva dall’interazione tra desideri, motivi e valori che caratterizzano una persona e la percezione che questa ha di una situazione concreta, che la interpella perché considerata inadeguata o carente da qualche punto di vista. Di qui nasce l’intenzione di agire per trasformare tale situazione in una considerata migliore. È la fase definita da H. Heckhausen (1992) come predecisionale o motivazionale. A questa segue la fase postdecisionale o volitiva. In essa si deve impostare l’azione decisa, condurla a compimento, valutarne i risultati ottenuti. Per far questo, secondo J. Kuhl (1984), occorre sviluppare una capacità di gestione e controllo di vari processi di natura cognitiva, motivazionale, emozionale e pratica che concorrono a rendere possibile un corso dell’azione valido ed efficace. In particolare risultano importanti strategie di attenzione selettiva e di elaborazione delle informazioni coerenti con l’obiettivo da raggiungere; di controllo delle emozioni negative e di valorizzazione delle emozioni positive che possono insorgere nel corso dell’azione; di rievocazione e difesa da motivazioni concorrenti delle ragioni che hanno portato alla decisione assunta; di gestione funzionale dell’ambiente e del tempo. Tutto ciò è stato collegato (Corno & Kanfer, 1993) al tratto della personalità che può essere descritto come «coscienziosità». Dalle ricerche emerge che i soggetti che manifestano tratti della personalità associati a un forte senso dell’impegno assunto nel perseguire uno scopo e del conseguente obbligo soggettivamente vissuto e ad una energica capacità di perseveranza negli impegni riescono meglio non solo nello studio, ma soprattutto nella loro attività professionale.

4.​​ L’educazione della v.​​ Dal punto di vista assunto appare abbastanza evidente la necessità di promuovere attraverso un’azione educativa appropriata le competenze strategiche necessarie a saper controllare il proprio agire, una volta preso un impegno preciso. D’altra parte risulta anche chiara la forza motivante e di sostegno dell’azione, nonostante le difficoltà, gli insuccessi parziali e le frustrazioni possibili, dell’intensità del desiderio di realizzare una situazione nella quale​​ ​​ valori e motivi profondamente vissuti trovino una loro concretizzazione più forte e pregnante. Ne deriva l’importanza non solo di una valida ed efficace educazione ai valori, ma anche dello sviluppo della capacità di leggere e interpretare le situazioni reali alla loro luce per prospettarne di più valide e significative.

Bibliografia

Kuhl J., «Motivational aspects of achievement motivation and learned helplessness: toward a comprehensive theory of action control», in B. A. Maher - W. B. Maher (Edd.),​​ Progress in experimental personality research, vol. 13, New York, Academic Press, 1984, 99-171;​​ L’educazione della v., Brescia, La Scuola, 1986; Ricoeur P.,​​ Filosofia della v., Genova, Marietti, 1990; Heckhausen H.,​​ Motivation and action, Berlin, Springer, 1992; Pellerey M.,​​ Volli,​​ sempre volli,​​ fortissimamente volli, in «Orientamenti Pedagogici» 40 (1993) 1005-1017; Corno L. - R. Kanfer,​​ The role of volition in learning and performance, in «Review of Research in Education» 17 (1993) 301-341; Pellerey M.,​​ Educare, Roma, LAS, 1999; Id.,​​ Dirigere il proprio apprendimento, Brescia, La Scuola, 2006.

M. Pellerey

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VOLONTÀ

VOLONTARIATO

VOLONTARIATO

Giancarlo Denicolò

 

1. Volontariato oggi

1.1. Una definizione operativa

1.2. Diffusione e tipologia

2. Volontariato e società

2.1. La crisi del Welfare State

2.2. I nodi del volontariato oggi

3. Il volontariato giovanile

3.1. Le radici culturali del volontariato giovanile

3.2. Quale volontariato giovanile?

4. Itinerario educativo al volontariato per un gruppo di adolescenti

4.1. Un punto di partenza e l’obiettivo

4.2. L’itinerario

4.2.1. Dalla ricerca di calore al lasciarsi coinvolgere nel gruppo

4.2.2. Dal lasciarsi coinvolgere nel gruppo alla fedeltà al caldo del gruppo

4.2.3. Dalla fedeltà al gruppo alla solidarietà gratuita con la sofferenza

4.2.4. Dall’incontro con la sofferenza alla scelta di un campo di intervento

4.2.5. Dalla scelta di un campo di intervento ai primi passi nel volontariato

4.2.6. Dal volontariato educativo al volontariato adulto

 

Da tempo ormai il volontariato ha acquistato grande rilevanza sociale e culturale. La sua identità e funzione, il suo significato, la novità che esso racchiude come «terzo spazio» che prefigura un ambito nuovo oltre la vecchia dicotomia pubblico-privato, sono state ampiamente analizzati, definiti, legittimati. A livello istituzionale gli si riconosce il diritto a rappresentare, accanto ad altre istituzioni, una corretta modalità di analisi delle domande emergenti dal territorio e dai soggetti sociali e di risposta alle stesse; a livello sociale e culturale un’originale coniugazione di solidarietà, partecipazione, offerta di qualità della vita; a livello individuale un ricco modo di impiego del «tempo libero» e di espressione dell’identità personale.

La consistente risposta giovanile attraverso il volontariato a forme diversificate di solidarietà ne lascia intravedere la capacità di saldare nella soggettività giovanile stessa identità personale e valori sociali, la funzione socializzante e aggregativa, un modo concreto di rendere visibile, operante e verificabile la dimensione di fede nella vita del credente. Senza sottacere problemi e ambiguità soprattutto nella «versione giovanile» del volontariato, si tende oggi a vedere con chiarezza l’importanza di forme di volontariato educativo, capace cioè di coniugare in forme nuove le esigenze tipiche del volontariato (adulto e vissuto da «adulti») e le esigenze giovanili legate alla loro cultura e modo di essere (precario, di attesa) nella società.

Il volontariato diventa così un «tema generatore», in quanto modo di vivere, di socializzare, di «progettare», di inventare il futuro, capace di costruire sul frammento e di «tirare» nuovi temi (sia legati alla soggettività che alla dimensione della solidarietà e — perché no? — della trascendenza) in un allargamento continuo e approfondente.

Ed è soprattutto da questo punto di vista — del volontariato educativo giovanile — che analizziamo questo fenomeno, pur riconoscendo che non può essere ridotto a questo, e che i problemi di esso, oggi, si collocano essenzialmente a livello di rapporto con le istituzioni e di legittimazione sempre meno formale di quello spazio (il terzo spazio) tra pubblico e privato che esso si è saputo conquistare.

 

1. Volontariato oggi

1.1. Una definizione operativa

Una migliore comprensione del ruolo, forma e contenuti del volontariato ha ormai permesso di evidenziare alcuni tratti dell’identikit di questo «spazio-impegno» di solidarietà sociale, sia che si svolga come azione singola che in gruppi o associazioni. Attraverso la sottolineatura di alcune caratteristiche essenziali che permettono differenziazioni da altre forme di impegno sociale, la definizione più completa e chiara può risultare la seguente.

«Volontario è il cittadino che liberamente, non in esecuzione di specifici obblighi morali o doveri giuridici, ispira la sua vita — nel pubblico e nel privato — a fini di solidarietà. Pertanto, adempiuti i suoi doveri civili e di stato, si pone a disinteressata disposizione della comunità, promovendo una risposta creativa ai bisogni emergenti dal territorio con attenzione prioritaria per i poveri, gli emarginati, i senza potere. Egli impegna energie, capacità, tempo ed eventuali mezzi di cui dispone, in iniziative di condivisione realizzate preferibilmente attraverso l’azione di gruppo. Iniziative aperte a una leale collaborazione con le pubbliche istituzioni e le forze sociali; condotte con adeguata preparazione specifica; attuate con continuità di interventi, destinati sia a servizi immediati che alla indispensabile rimozione delle cause di ingiustizia e di ogni oppressione della persona» (L. Tavazza).

Vengono in questa definizione sottolineati alcuni aspetti che formano come l’ossatura di una corretta concezione del volontariato, almeno come si è evoluto negli ultimi anni:

— la sua dimensione politica di lotta per la rimozione delle cause di povertà, emarginazione;

— la sua funzione liberatoria non riparatoria, per una piena valorizzazione della dignità della persona umana nei suoi diritti fondamentali;

— l’abbandono di ogni forma di concorrenzialità con lo stato e le sue strutture democratiche (assumendo così di volta in volta funzioni e ruoli di integrazione, di umanizzazione, di stimolo e denuncia, di verifica...);

— la sua concezione etica di stile globale di vita, non di impegno marginale;

— la qualificazione dell’intervento data dalla vera capacità di condivisione;

— la volontà di misurarsi nelle situazioni concrete;

— la gratuità e la scelta di campo del «più povero»;

— l’opportunità di collegarsi con tutte le forze sociali impegnate nelle medesime finalità;

— la scelta preferenziale dell’impegno di gruppo che garantisce continuità e confronto;

— il grande variare dei campi di intervento.

1.2. Diffusione e tipologia

La ricerca più recente e completa (almeno per quanto riguarda il contesto italiano) è quella di Colozzi-Rossi (1983), sui gruppi locali di volontariato: ne vengono rilevati alcuni aspetti quantitativi e qualitativi che è utile qui ricordare (anche se non si tratta di una ricerca condotta sull’universo o su un campione perfettamente stratificato).

Dai dati relativi agli oltre 7000 gruppi locali inchiestati, risulta anzitutto che il fenomeno del volontariato ha una capillare diffusione su tutto il territorio nazionale (1 volontario ogni 89 persone residenti), ma tale distribuzione non è uniforme: l’intensità maggiore è al Nord-Est e al Centro (1 a 67) rispetto al Nord-Ovest (1 a 105), Sud (1 a 109) e Isole (1 a 136). Nel Sud e nelle Isole però i dati mostrano una tendenza alla crescita numerica dei volontari e del tempo offerto, nonché l’espansione delle attività e dei servizi; mentre al Nord si assiste a un calo della capacità aggregativa soprattutto giovanile: per cui si può ipotizzare a breve scadenza un mutamento radicale della geografia del volontariato in Italia. Questo dato potrebbe — per quanto riguarda i gruppi giovanili — porre il problema del rapporto (del nodo): disoccupazione-volontariato, del volontariato dunque come spazio di attività per riempire il vuoto di lavoro, come surrogato di un tempo forzatamente libero.

Fra le tante tipologie possibili per illustrare-classificare i dati offerti, particolarmente interessante può risultare quella che — sulla base della «forma istituzionale» — distingue tra gruppi informali veri e propri, semiformalizzati (associazioni di fatto, cooperative) e formalizzati (associazioni legalmente riconosciute, fondazioni e confraternite).

Le principali caratteristiche di tali gruppi vengono qui descritte distinguendo per i singoli raggruppamenti tre aree tematiche: dinamica interna, rapporti con l’esterno, attività.

1. Gruppi informali.​​ Sono il 19% del totale, e quasi il 70% di dichiarata ispirazione religiosa.

Caratterizzati da piccole-medie dimensioni (non oltre i 50 soggetti), prendono decisioni in modo diretto, assembleare, che coinvolgono tutti i membri. Non infrequente è la presenza di un leader a cui il gruppo fa riferimento. La funzione del gruppo è anche socializzante e formativa, in quanto prevede non tanto l’acquisizione di competenze settoriali, quanto di attività formative vere e proprie, tenendo conto della componente pressoché totalmente giovanile della maggior parte di tali gruppi. La preferenza «giovanile» (anche se non totalmente giovanile) per questi tipi di gruppi si può spiegare o come gusto generalizzato per forme di vita libere e flessibili, fortemente interattive e partecipate, o come tappa di passaggio quasi obbligata verso l’azione volontaria più strutturata e formalizzata successiva.

Per quanto riguarda il rapporto con l’esterno, il gruppo «informale» si caratterizza per una certa chiusura, difficoltà di coordinamento con gli altri gruppi e di rapporto con l’ente pubblico.

Quanto alle attività, tali gruppi tendono ad operare in un solo settore (monovalenza): il più diffuso è quello socio-assistenziale, seguito dall’animazione culturale e difesa ambientale; in forme di servizi che vanno dall’assistenza domiciliare e sociale, a quella residenziale in case di cura, ospedali, istituti: interventi che non richiedono alti livelli di professionalità tecnica, quanto disponibilità e apertura all’altro.

Circa il tempo offerto, accanto a forme di tempo pieno si rileva prevalentemente la percentuale di circa 5 ore di servizio settimanali.​​ 

2.​​ Gruppi semiformalizzati.​​ Fenomeno peculiare degli anni ’80, essi comprendono essenzialmente le associazioni di fatto e le cooperative, che hanno costituito una nuova forma di intervento di volontariato stabilizzando forme più o meno saltuarie. La loro ispirazione prevalente è religiosa nelle associazioni di fatto, laico-umanitaria a-confessionale nelle cooperative.

Quanto alla dinamica interna, la maggior parte di essi è di dimensioni abbastanza ridotte (20 aderenti di massima), con forme di struttura decisionale complessa che evidenziano la presenza di modelli di partecipazione democratica alle decisioni di gruppo. Grande è l’interesse per la formazione dei volontari, sia gestita dal gruppo che da tecnici-esperti. Un’ipotesi interpretativa della prevalente diffusione negli anni ’80 di tali gruppi (negli anni cioè successivi al boom dei gruppi informali) lascia intravedere la prevalente funzione di «sbocco istituzionale» assunta per molti giovani dei gruppi informali, consentendo un intervento più organico e strutturato nel servizio volontario, pur conservando alcune forme di informalità.

La presenza di adulti è prevalente nelle associazioni di fatto, mentre nelle cooperative la quota adulti-giovani è pressoché pari. L’impegno nelle cooperative per molti giovani si è trasformato in una forma di servizio in parte gratuito e in parte retribuito, venendo così a creare una figura interessante e pur ambigua di giovane volontario, che nel campo della cooperazione riesce a sottrarsi all’esperienza della disoccupazione.

Il coordinamento effettuato con altre esperienze volontarie e il collegamento con il movimento federativo indicano il maggior grado di apertura all’esterno e di collaborazione, almeno da parte delle associazioni, mentre invece appare carente il rapporto con l’ente locale, che diventa caratteristica precipua delle cooperative (mediante la forma della convenzione) assieme al carattere più localistico e micro-sociale.

Quanto alle attività promosse, il campo di intervento delle associazioni di fatto è pressoché globale, soprattutto mediante servizi di carattere assistenziale, culturale, di difesa ambientale; per le cooperative prevale invece la caratterizzazione socio-assistenziale e culturale, con netta prevalenza per l’area della tossicodipendenza (con utenza quindi in gran parte giovanile).

3.​​ Gruppi formalizzati.​​ Sono quei gruppi che hanno acquisito una forma istituzionale «forte» in associazioni legalmente riconosciute, confraternite, fondazioni, all’interno delle quali l’azione volontaria assume una caratterizzazione insieme flessibile e stabile. L’ispirazione dichiarata è in genere laico-umanitaria a-confessionale. Quanto alla dinamica interna, le dimensioni dei gruppi sono grandi e complesse, con gruppo di dirigenza e strumenti di rappresentatività tipici di organismi con considerevole tradizione storica, e vari gradi interni di istituzionalizzazione. Il buon livello di interazione e scambio di informazioni è garantito da riunioni periodiche. Pur venendo storicamente anche da lontano, è tipico degli anni ’80 una accentuazione giuridica per la garanzia e tutela del proprio servizio, specialmente là dove esso è svolto come supplenza totale del pubblico. La strutturazione complessa, l’utilizzo di lavoratori dipendenti come supporto di garanzia, l’impegno in settori particolari come la protezione civile, fanno sì che l’attività volontaria sia condotta quasi esclusivamente da adulti.

Quanto ai rapporti con l’esterno, l’adesione a federazioni (da regionali a internazionali) è largamente diffusa, così come il coordinamento con gruppi operanti nella stessa zona o settore di attività. Notevoli sono anche i rapporti continuati e formalizzati con l’ente pubblico (intese, contratti, convenzioni); tuttavia la forma principale di sovvenzione è una combinazione di finanziamento esterno e autofinanziamento da parte dei soci stessi.

Le attività sono ad ampio raggio e i servizi offerti molto diversificati: nel campo sanitario, in quello della protezione civile, che esigono alto livello di competenza e professionalità. Un’azione che si svolge prevalentemente all’interno di grandi unità geografiche.

 

2.​​ Volontariato e società

A partire dagli anni ’70 il volontariato esplode come fenomeno sociale, in cui la presenza di gruppi e soggetti sociali impegnati in una miriade di iniziative e di offerte di servizio nei settori più disparati viene riconosciuta, accettata, valorizzata. L’approfondimento culturale successivo e il dibattito sull’identità del volontariato stesso accompagnano tale presa di consapevolezza e sono sollecitati dall’esigenza di crescita, di differenziazione, di chiarezza.

 

2.1. La crisi del Welfare State

L’esperienza sociale che in parte ha sollecitato, in parte ha «guidato» l’esplosione del volontariato è la crisi della società degli anni ’70, in quella forma particolare tipica dei Paesi occidentali che è denominata «Welfare State» o stato del benessere. Il volontariato diventa fenomeno sociale rilevante di solidarietà e partecipazione quando percepisce di poter essere risposta al «sovraccarico di domanda sociale» a cui le strutture del pubblico non sono in grado di rispondere.

Per Welfare State si intende un sistematico intervento pubblico, anche decentrato (sia nei settori della sanità, della previdenza e dell’assistenza, sia nei settori dell’istruzione, dell’edilizia popolare e di quant’altro essenziale alla vita), rivolto a tutti in previste condizioni di bisogno, e finanziato attraverso l’imposizione personale diretta e progressiva e attraverso contributi dei lavoratori interessati e delle imprese.

Lo caratterizzano essenzialmente (rispetto per esempio allo stato assistenziale e sociale) l’universalismo delle prestazioni e la sistematicità e interdipendenza delle stesse.

Tale attuazione dei sistemi pubblici di sicurezza sociale e di servizi per il benessere è certamente un grande progresso civile e umano, perché dà corpo alla «sostanza sociale» del diritto di cittadinanza (pensioni, cure sanitarie, solidarietà collettive verso i poveri...). Non per nulla il consenso sul mantenimento di questi diritti sociali è pressoché universale, nell’Europa comunitaria, anche se vengono rilevati — in certe forme di eccessiva espansione della spesa pubblica di welfare per ragioni di consenso elettorale ai partiti e di accordi neo-corporativi dello stato con le forze sociali — ostacoli per la ripresa economica e carenza di controlli sull’efficacia ed effettiva difesa dei diritti degli ultimi.

Le prime imputazioni di crisi del Welfare State non sono — come si è tentato di far credere — prima di tutto la crisi economica internazionale post-73-74 e la connessa crisi finanziaria degli Stati nazionali più espansivi in fatto di intervento pubblico. Sono piuttosto — a metà degli anni ’60 — dubbi e contestazioni circa l’efficacia universalistica delle prestazioni, specie nei confronti della povertà, miseria ed emarginazione.

Viene scoperta in questi anni da osservatori e operatori sociali — proprio nelle nazioni a più ricco sviluppo economico — la persistenza della povertà e della miseria. Al crescere della spesa pubblica di Welfare State non hanno corrisposto progressi proporzionati nella lotta alla miseria, alla emarginazione sociale, alla povertà, quanto piuttosto maggiori benefici e potere a vantaggio delle persone di ceto medio, più asimmetrie tra operatori e cittadini, meno qualità umana della cura, più industrializzazione della medicina. Si aggiunga — dal punto di vista della personalizzazione, cioè della qualità del servizio — che essa è spesso soffocata dall’elefantiasi burocratica, dalla freddezza dell’anonimato, dalla passività e massificazione indotte dalla maggior parte dei servizi pubblici.

Un’altra critica che ha cominciato a farsi strada già dalla seconda metà degli anni ’60 è che rimpianto centralistico e specialistico dello stato del benessere risulta sempre meno atto a combattere in positivo le nuove forme di povertà da handicap psichici, da solitudine involontaria — specie in anziani —, da perdita di senso della vita o da tossicodipendenza: nuovi bisogni che nel corso degli anni ’70 si sono diffusi a fasce sempre più ampie di popolazione, bisogni che non è facile immediatamente cogliere, interpretare, darvi risposta. Sono le cosiddette «nuove povertà» di una società post-industriale che si aggiungono alle vecchie, sempre persistenti e talvolta anche aggravantisi. Per riconoscerle viene oggi utilizzato il costrutto di doppia natura — assoluta e relativa — dell’emarginazione sociale, povertà, handicap. Oggi, si afferma, si ha a che fare con misure sempre meno assolute di miseria e povertà, e sempre più legate a un contesto, a una «posizione», indipendentemente dal soddisfacimento dei bisogni essenziali alla vita biologica.

Un terzo elemento di critica viene sottolineato dall’accettazione di una nuova «filosofia del sociale», che in una formula si può riassumere come passaggio «dal Welfare State alla Welfare Society», cioè come passaggio dal politico al civile, al sociale, come rifiuto di uno stato onnicomprensivo e garantista, che tutto assorbe, pianifica, dirige. È un nuovo modello di cultura dello stato che rifiuta la pretesa di conferire solo al pubblico statale la prerogativa di unico agente di mutamento sociale. Vengono rimessi al centro i soggetti sociali (individui, gruppi, associazioni) con la loro soggettività e capacità di responsabilizzazione, azione, dono. Accanto a questa «filosofia» si può collocare anche quella ricerca collettiva di un nuovo modo di essere, di nuovi significati e della nuova qualità della vita, dentro cui è possibile sperimentare solidarietà, portatrice di senso personale, oltreché collettivo.

Questo è stato il terreno, l’humus dentro il quale hanno trovato spazio e legittimità nuove forme di presenza e di intervento, tra cui il volontariato.

Il volontariato si viene dunque a porre come uno degli spazi più innovativi e fecondi all’interno del quale la società riscopre il terreno della solidarietà, della partecipazione, della responsabilità, della riscoperta della qualità della vita, del ricupero dei valori della persona. In una parola, di un nuovo senso tra gli spazi del privato sociale.

 

2.2. I nodi del volontariato oggi

Tutto ciò è tanto più vero quanto maggiormente vengono individuati e risolti i nodi all’interno dei quali si muove oggi il volontariato (e che tra l’altro risultano i grandi temi del dibattito attuale, come rileva ad esempio la Conferenza Nazionale di Assisi del marzo 1988).

Tralasciamo quelli più direttamente legati al rapporto con le istituzioni, al collegamento con le altre organizzazioni di volontariato, all’individuazione dei campi in cui l’opera volontaria diventa veramente innovatrice e profetica, alla formazione interna dei membri (non soltanto «professionale»). Evidenziamo piuttosto​​ il​​ nodo costante: l’identità del volontariato, che ormai un’abbondante letteratura indica nel rapporto tra pubblico e privato, tra la sfera istituzionale e la sfera del «mondi vitali», così come si è venuto delineando e sviluppando alTinterno della società odierna.

Tale rapporto può essere configurato in maniera del tutto distorta: o nel senso della liquidazione del pubblico in una somma puramente materiale di tutti i privati, o nell’assorbimento totale del privato nel pubblico, o infine nella rigida separazione tra pubblico e privato: sono le tre posizioni «classiche» del liberalismo, del marxismo e del neofunzionalismo.

In Italia — così notano gli studiosi — ci si sta avviando verso quest’ultima forma di rapporto. La crisi dello stato del benessere va dunque interpretata come assenza di comunicazione tra sistema pubblico-istituzionale e area del privato, la sfera cioè dei mondi vitali. In questa situazione vien dunque a mancare quella forma di controllo che dovrebbe venire dal basso, là dove la domanda sociale si formula e dove le risposte e i servizi dovrebbero ricadere.

In assenza di un sufficiente sistema di comunicazione tra le due sfere, il Welfare State è necessariamente indotto a interpretare unilateralmente il proprio rapporto con la sfera dei mondi vitali. Ciò avviene generalmente attraverso i due meccanismi della pubblicizzazione del privato e della privatizzazione del pubblico: in forza del primo meccanismo si tende da parte dello stato all’appropriazione delle domande e dei bisogni, con un atteggiamento di onnipervasivo garantismo, che a lungo andare provoca lo svuotamento della giusta autonomia dei mondi vitali, la deresponsabilizzazione, l’insofferenza e da ultimo la mercificazione totale degli stessi bisogni e delle risposte che si danno loro; in forza del secondo meccanismo si avvia un processo irreversibile di burocratizzazione e lottizzazione dei servizi pubblici che genera necessariamente l’incapacità a far fronte alle domande reali del sistema.

La soluzione di questi problemi sembra allora definirsi come «ripristino di una migliore relazione tra pubblico e privato, che abbia caratteri di una transazione aperta e dinamica, permanente e articolata, tale cioè da presupporre e valorizzare l’irriducibilità e l’originalità e del pubblico e del privato» (G. Milanesi). Attraverso questa restituita capacità di comunicazione tra le due sfere dovrebbe essere possibile il processo di ridefinizione del concetto stesso di benessere, da realizzarsi non solo dall’alto ma anche dal basso, non solo sulla base di indicatori obiettivi ma anche sulla base di istanze soggettive, in modo che il pubblico sia sempre meno autoritario e corporativistico, e il privato sempre più vivace, efficace, disposta al confronto, capace di gestire non solo le proprie domande ma anche di produrre servizi autogestiti a esplicita valenza sociale.

Qui allora si percepisce la funzione del volontariato, il luogo dove si gioca la sua validità e legittimità, in una parola la sua identità: come realtà di confine, anzi cerniera tra pubblico e privato, espressione della capacità del privato di partecipare all’autoregolazione del sistema «aspettative-risposte» e soprattutto espressione di un privato-sociale da affiancare al pubblico in funzione integratrice e non sostitutiva. Il volontariato allora si pone come la terza dimensione emergente tra pubblico e privato, proprio perché sembra in grado di gestire il privato sociale, cioè quella serie di iniziative che hanno come oggetto non solo l’attivazione della coscienza dei propri diritti, ma anche la disposizione a partecipare direttamente all’uso e alla gestione dei servizi che sono destinati al benessere collettivo.

 

3.​​ Il volontariato giovanile

Il volontariato vero e proprio è compito dell’adulto. Quello giovanile è da molti considerato un volontariato «anomalo», perché l’adolescente e il giovane non sono in grado di garantire un servizio che richiede competenza, capacità di scelte mature e impegnative, continuità, resistenza al dolore, tempi lunghi: essi sono invece ancora concentrati nella lotta per definire la loro identità in una società complessa. Preferiamo parlare, nei loro riguardi, di «volontariato educativo», cioè di un’esperienza concreta che, mentre è di aiuto gratuito alla lotta contro la povertà e l’emarginazione, è anzitutto luogo di maturazione dell’identità umana e cristiana dei giovani.

Bisogna tuttavia riconoscere che — pur con queste precisazioni che riprenderemo in seguito — i giovani occupano all’interno delle diverse forme di volontariato un posto rilevante, sia sotto il profilo quantitativo (prevalentemente nelle forme dei gruppi «informali» e «semiformalizzati», secondo la tipologia proposta), sia in rapporto alla qualità delle motivazioni che ne caratterizzano le scelte e l’impegno.

 

3.1. Le radici culturali del volontariato giovanile

La crescita di interesse verso il volontariato evidenziata in molte ricerche sui giovani può essere collegata, almeno per una minoranza di essi, con il fatto che in molti casi esso si mostra come una esperienza capace di collegarsi ad alcune istanze culturali presenti nel mondo giovanile.

La cultura dei giovani si caratterizza oggi per un imprevedibile cocktail di tratti provenienti dalla cultura adulta e di tratti provenienti da una pluralità di subculture, i cui ingredienti di fondo, comuni a più scelte e esperienze, possono essere ricondotti ai seguenti.

Un primo ingrediente è la dilatazione della soggettività, cioè un’attenzione privilegiata per i problemi che riguardano l’esperienza di ciascun individuo. Si tratta certamente di una forte reazione ai vari tentativi di espropriazione della persona negli anni ’70 (gli anni della «liberazione politica») e di una reazione alla marginalità che i giovani oggi sperimentano. Reazione che certamente si inserisce nel quadro di istanze culturali più generali presenti nel nostro paese, a connotazione garantistica e consumistica, carente di speranza e di progettualità, ma che esprime anche — al positivo — un forte senso della concretezza e quotidianità, un distanziamento critico dalle ideologie totalizzanti, la capacità all’uso di strumenti più complessi di analisi della realtà, la possibilità di scegliere tra una pluralità di proposte. Nell’insieme si configura dunque come una istanza indilazionabile di restituire senso alla vita individuale e di rifondarne la qualità essenziale. Diverse sono le strade che può imboccare questa attenzione privilegiata alla soggettività da parte dei giovani, dal mero individualismo consumista alla rinnovata esigenza di personalismo. Ed è appunto in quest’ultima direzione che possono saldarsi — per una minoranza di giovani — soggettività personalistica e volontariato: nella riscoperta dei grandi temi del significato individuale e collettivo dell’esistenza, della priorità delle grandi questioni concernenti la qualità della vita per l’umanità intera. È qui che matura una disponibilità a gestire la domanda non in termini individualistici, rivendicativi, ma comunitari, promozionali. Il volontariato può costituire allora per questi giovani il luogo in cui saldare bisogni espressi dalla loro soggettività con un contenuto capace di esprimere una valenza sociale.

Una seconda componente del cocktail culturale dei giovani va ricercata nella riscoperta problematica delle istituzioni e della politica. Dopo aver a lungo parlato della disaffezione dei giovani per il politico, oggi le posizioni si sono fatte più sfumate: il rifiuto radicale dell’impegno politico riguarda infatti solo le forme totalizzanti, dogmatiche e utopiche. C’è un modo dimesso ma concreto di far politica, come attenzione ai problemi emergenti dal quotidiano, intervento nel territorio limitato ma concreto e operativo, disponibilità a interazioni nella trama del vissuto sociale, propensione a lavorare in piccole aggregazioni non burocratizzate. Anche il rifiuto delle istituzioni è, per certi versi, superato nella misura in cui servono alla formazione della propria identità e a fornire risposte alle proprie contraddizioni.

Il volontariato, rispetto a questo secondo «ingrediente», si offre come «mediazione» tra personale e politico, tra ricerca di identità e disponibilità a una nuova transazione col sistema sociale, e dunque come luogo in cui esigenze personali e attenzione al pubblico si saldano e si integrano.

Un terzo ingrediente è l’atteggiamento di differenziazione delle scelte: e cioè la moltiplicazione illimitata di appartenenze, interessi e iniziative, senza attribuire a nessuna di esse un carattere di totalizzazione e di definitività, tendendo caso mai a relativizzare ogni esperienza e impegno. Non è difficile vedere la ragione ultima di tutto ciò nelle caratteristiche di estrema differenziazione dello stesso sistema sociale italiano e nelle difficoltà obiettive della condizione giovanile nella nostra società. Tale atteggiamento e pratica di differenziazione non solo viene utilizzata come meccanismo di adattamento alla frustrazione sociale, ma è anche causa immediata della scarsa progettualità presente nei giovani oggi: si progetta poco e si cerca di vivere alla giornata, le grandi decisioni e opzioni fondamentali vengono rimandate, scarsa è la propensione a assumersi responsabilità nella partecipazione.

È certamente alto il rischio della dissociazione. E ciò rende maggiormente significativo il fatto che esistano, nonostante ciò, giovani che si impegnano e scelgono: una minoranza, difficilmente quantificabile, ha trovato una soluzione al rischio della disgregazione personale affidandosi al rischio del coinvolgimento. Nella scelta di impegno di volontariato si vuole affermare che è possibile opporsi alla disgregazione, vivendo o convivendo sì con la crisi e con la frammentazione dell’esperienza, ma cercando anche di trovare un senso all’esistenza per sé e per gli altri.

 

3.2. Quale volontariato giovanile?

A fronte dell’affinità quasi «elettiva» tra alcuni tratti del mondo culturale giovanile e il volontariato, permangono tuttavia esigenze di un volontariato maturo che poco si confanno ad alcune modalità tipiche dell’esperienza giovanile, ed evidenziano le obiettive contraddizioni di un volontariato (come quello giovanile) perlopiù esercitato in condizione di precariato occupazionale, di marginalità sociale, di incertezza psicologica.

Per cui, ancorché una certa minoranza di giovani ha operato questa scelta di impegno e di gratuità, la maggioranza non appare ancora matura per decidersi per il volontariato. Sottolineiamo soltanto due esigenze che sembrano decisive.

Anzitutto il volontariato si presenta come «impegno post-occupazionale», da praticare nel tempo libero da attività produttive e dalla vita familiare: esso quindi non vuole essere il sostituto alienante del lavoro che non c’è e nemmeno l’equivalente del lavoro nero o il sostegno dell’economia sommersa o l’anticamera del mercato del lavoro. E neppure una fuga dalla routine della responsabilità del proprio ruolo sociale. Si sa però che spesso il volontariato giovanile si tramuta nella fiera delle vane promesse e delle illusioni occupazionali, oppure si carica di tutte le tensioni provenienti da altri settori della vita privata, cui dovrebbe servire da polivalente valvola di sfogo. Per molti giovani — che non credono più al lavoro produttivo come luogo ideale e normale per assicurarsi un’identità personale — il volontariato rischia di servire da «realizzazione alternativa» con tutte le ambiguità e rischi che ne seguono, cioè come alternativa gratificante, luogo del lavoro che piace, del lavoro libero, del lavoro socialmente utile, e non invece occasione di arricchimento personale e di effettivo servizio alla comunità, al di là dell’attività produttiva e dei doveri di ruolo. Se si è fuori dal mondo del lavoro (e dunque o ancora «dipendenti» o non sufficientemente «sicuri», e dunque senza un minimo aggangio con la logica prevalente del pubblico), il volontariato difficilmente può da solo farsi carico dei problemi di sicurezza, autostima, identità soprattutto dei giovani.

La seconda «difficoltà» riguarda l’esigenza di continuità di intervento, come superamento delle iniziative sporadiche, carenti di vera programmazione e verifica, e che finiscono per illudere e deludere. Tutto questo non si confà molto alla limitatezza del tempo dei giovani, ma soprattutto alla loro tipica riluttanza a assumersi impegni di lunga durata e alla tendenza a non legare la propria identità e autorealizzazione a una sola esperienza, sia pur significativa.

È difficile sottrarsi dunque all’impressione che — pur riconoscendo la quantità notevole e la qualità di presenza dei giovani nel volontariato — questo può essere vissuto pienamente solo oltre l’età della naturale indecisione giovanile, o che esso è un’esperienza da riservare solo a una minoranza di giovani già maturi per scelte impegnative.

Accettato questo, riconosciamo pure che l’esperienza di volontariato in età giovanile non può che far maturare la coscienza e le motivazioni per un impegno-intervento continuativo. Il volontariato giovanile non può infatti esaurirsi in funzione di servizi e di animazione del sociale e del politico; deve anche svolgere, e necessariamente, una funzione educativa. Non solo di educazione umanistica e etica, ma più propriamente socio-politica. Un impegno nel volontariato può offrire a tutti i giovani uno stimolo a uscire dall’indifferenza e dalla rassegnazione, e soprattutto offre ai giovani più poveri di ragioni per vivere, un senso nuovo all’esistenza nel servizio alla comunità e ai più poveri, nel segno della condivisione, della partecipazione, della passione per le cose grandi. È in questo contesto e con questo significato «educativo» che il volontariato giovanile trova la sua legittimazione e insostituibilità, diventando il luogo della verifica dell’identità e dei valori attorno a cui essa si organizza: sapendo che dalla costruzione della propria identità l’impegno ritorna a una nuova partecipazione sociale e politica.

 

4.​​ Itinerario educativo​​ al volontariato​​ per un gruppo di adolescenti

Abbiamo considerato il volontariato giovanile come un volontariato «anomalo» in funzione prevalentemente educativa: un’esperienza concreta che, mentre è di aiuto gratuito alla lotta contro la povertà e l’emarginazione, è anzitutto luogo di maturazione dell’identità umana e cristiana dei giovani. Perché ciò avvenga, alcune attenzioni educative sono prioritarie: un lavoro serio di animazione culturale dei giovani e il sostegno di gruppi o associazioni-movimenti che garantiscano l’affidabilità delle iniziative e l’accompagnamento del giovane, l’individuazione di uno «spazio» in cui fare tale esperienza e un cammino educativo. Lo spazio adeguato è probabilmente la disponibilità giovanile alla solidarietà interpersonale, e l’incontro tra questa solidarietà e la sofferenza umana che richiede una risposta del tutto gratuita.

Sulla base di questa ipotesi evidenziamo, ripercorrendo un cammino tracciato dalla rivista «Note di pastorale giovanile» a cui rimandiamo, un itinerario educativo di gruppo per un volontariato nello stile dell’animazione. Lo pensiamo — come proposta esemplificativa — per un gruppo di adolescenti che vive nell’area dei gruppi ecclesiali.

 

4.1. Un punto di partenza e l’obiettivo

Come ricordavamo, si assiste oggi a un forte distacco tra mondi vitali e sistema sociale. Di fatto, per molti adolescenti, il sistema sociale è un luogo dove non si riconoscono, in cui i messaggi-informazioni sui problemi della società e del mondo non riescono a coinvolgere o rischiano di rendere angosciati o indifferenti per la impossibilità pratica di risolverli. Se dunque una forma di partecipazione al sociale può svilupparsi, per gli adolescenti non sarà perché prendono consapevolezza della complessità e urgenza dei problemi sociali, e neppure attraverso visioni ideologiche della realtà (l’ideologia dell’impegno collettivo per cambiare il mondo o quella del progresso, tecnologia, rivoluzione).

È soltanto attraverso un lungo cammino educativo che può aprirsi uno spazio per l’adolescente di oggi in cui riconoscersi e darsi un’identità che faccia spazio al volontariato e alla partecipazione sociale e politica.

Il punto di partenza sembra dunque essere un segnale debole ma continuo, manifestato dagli adolescenti, nella direzione della solidarietà, intesa come capacità di immedesimazione nell’altro e nella sua sofferenza, pagando gratuitamente il prezzo necessario per darvi una risposta. L’ambito vitale proprio — e dunque il luogo educativo — è il gruppo dei coetanei, dove appunto in modo intenso sperimentare e offrire solidarietà alla persona concreta, nel momento della sua sofferenza. In questa risposta solidale l’adolescente apprende che la gratuità del proprio gesto salva l’altro e insieme fa crescere la propria dignità. Nella solidarietà gratuita l’adolescente apprende poi lentamente la dura ascesi della fedeltà all’altro, del calore da offrire con continuità perché l’altro possa vivere, del servizio non occasionale ma fedele, della competenza come modo di realizzare il bene dell’altro.

 

4.2. L’itinerario

Individuato il punto di partenza e un luogo educativo, è possibile indicare anche un obiettivo generale nella direzione del volontariato e della solidarietà sociale. Esso si può così esprimere: abilitare gli adolescenti a riconoscere e lasciarsi compenetrare dalla solidarietà nei «mondi vitali», in particolare nel gruppo dei pari, in modo da consolidare legami personali che tengono nel momento in cui da qualsiasi parte s’avanza la sofferenza, e così apprendere a coinvolgersi nel darvi risposta gratuita, dentro la quale prendere atto della più grande lotta tra vita e morte che si svolge attorno a loro e parteciparvi usando le proprie forze a servizio dell’uomo. Per raggiungere questo obiettivo è necessario un lungo itinerario di gruppo, che indichiamo qui con alcune tappe da percorrere.

 

4.2.1. Dalla ricerca di calore al lasciarsi coinvolgere nel gruppo

Il primo momento dell’itinerario non sta nel richiamo degli adolescenti all’impegno e al servizio, né nel convincerli mediante analisi o teorizzazioni sui problemi della società e del mondo. Esso sta piuttosto nella sperimentazione concreta del gusto dello stare insieme, del legarsi agli altri, dell’accoglienza dell’altro nella diversità, della consapevolezza che lo «stare-con» è il modo più originale di definire lo stesso senso della vita. Solo quando l’adolescente ha sperimentato intensamente un clima di accoglienza disinteressata e calda, si apre agli altri ed è capace di «fusione» con altri soggetti e modi di vivere e pensare, soprattutto negli ambiti caldi del gruppo dei pari e nella relazione del gruppo con l’animatore. Questo sembra l’inizio percorribile della strada per arrivare al volontariato gratuito: e comporta un faticoso cammino che se da una parte abilita a non creare difese dagli altri e dalla loro «invasione», dall’altra chiede di preservare spazi di intimità, silenzio e dialogo interiore dove far risuonare i tanti messaggi che sono gli altri con la loro presenza.

Tocca all’educatore poi esorcizzare il rischio di non uscire dall’isolamento e dal narcisismo individualista.

 

4.2.2. Dal lasciarsi coinvolgere nel gruppo alla fedeltà al caldo del gruppo

11 coinvolgimento nel gruppo è fonte di esigenze e scelte per gli adolescenti, soprattutto quella di non tradire il gruppo e di pagare un prezzo personale perché il clima duri nel tempo e sia di aiuto alle persone nella loro singolarità e nei modi diversi in cui questo aiuto si può esprimere. Nasce così e si manifesta la solidarietà tra i membri del gruppo, caratterizzata dai rapporti di amicizia e dal tentativo di dare una risposta personale ai problemi degli altri. È una solidarietà che fa sperimentare non solo che è affascinante stare-con, ma anche faticoso, perché gli altri non sono sempre teneri e perché si sente l’esigenza di non usarli a proprio piacimento. Il progressivo consolidarsi di legami nel gruppo scatena nuove forze educative che portano i soggetti ad assumersi piccole responsabilità, a cedere parte del proprio tempo agli altri senza ricavarne nulla, a entrare in un circolo più profondo di comunicazione e condivisione, a sviluppare competenze e doti a servizio del gruppo, a partecipare a attività programmate attraverso momenti di analisi-decisione-realizzazione-verifica.

Si impara così a entrare nella logica del dare e ricevere; e l’attento educatore vigila perché la fedeltà al gruppo non diventi totalizzazione di questa esperienza, quasi non esistano più altri problemi e interessi che quelli del gruppo.

 

4.2.3. Dalla fedeltà al gruppo alla solidarietà gratuita con la sofferenza

La fedeltà al gruppo non basta: non tutti i gruppi di adolescenti diventano gruppi di volontariato. L’esperienza che permette il «salto» è rincontro con la sofferenza e la risposta gratuita alle sue provocazioni. L’incontro con essa (non importa se di uno del gruppo o di fuori, se esperienza singola o collettiva, se «spontanea» o provocata) fa uscire dalla logica del «dare-ricevere», dello scambio: la risposta che essa esige è, in qualche modo, senza ricompensa e richiede un’uscita da sé stessi per vedere le cose dal punto di vista della sofferenza dell’altro. È richiesto qui un nuovo atteggiamento, la gratuità, che si impone soprattutto in casi esemplari, quando esplode la sofferenza dell’altro che investe con tutta la sua forza.

Ma perché essa sia davvero una provocazione per l’adolescente e perché questi possa rispondervi in maniera gratuita, è necessario che si verifichino alcune condizioni: anzitutto che la sofferenza sia «immediata», vicina, provocante ma non che distrugga chi vi si avvicina (tenuta sotto controllo educativo); che richieda di rispondervi personalmente senza demandare agli altri qualsiasi tipo di risposta; e infine che attraverso la riflessione di gruppo essa diventi un’esperienza «esemplare», che susciti cioè domande «esistenziali» e che esiga l’analisi di possibili risposte.

Anche qui il rischio è che il gruppo di adolescenti sia così impermeabile da non farsi neppure colpire dalla sofferenza, o che questa sia così «forte» da spingere a una risposta emotiva immediata senza la necessaria «protezione».

 

4.2.4. Dall’incontro con la sofferenza alla scelta di un campo di intervento

Normalmente l’incontro con un’esperienza di sofferenza suscita immediatamente la decisione di darvi risposta come gruppo: in questo caso il gruppo ha già scelto il suo luogo di intervento e la sua specializzazione nell’ambito del volontariato. Spesso tuttavia ciò che provoca il gruppo è la risposta che qualcun altro sta dando: più che identificazione con la sofferenza vale, allora, l’identificazione in modelli di risposta alla sofferenza. Il gruppo però prima di darsi all’attività deve prendere una decisione collettiva e ponderata: può nascere in un confronto con chi già opera, a livello di motivazioni, comportamenti, stili di vita, decisioni concrete. Il gruppo individua così una sua possibile «area» di volontariato.

Diventano urgenti a questo punto alcuni compiti educativi: rendersi operativamente competenti (iniziare piccole esperienze stendendo un «progetto» di intervento che contempli analisi, obiettivi, piste di azione, criteri di verifica); ristrutturare il gruppo e le persone stesse secondo un nuovo e originale stile di vita che faccia leva su valori e atteggiamenti di amore per la vita, di dono, di sacrificio e impegno.

Rischi a cui porre attenzione sono in particolare l’emozionalismo attivista di chi si lascia prendere dalla frenesia del fare senza un minimo di progettualità, l’intellettualismo di chi si limita a rendersi competente sui libri e nelle discussioni, l’incapacità di confronto con altre esperienze analoghe (e voler ricominciare tutto da capo), il rinchiudersi nelle forme tradizionali di intervento senza fantasia e coraggio.

 

4.2.5. Dalla scelta dì un campo di intervento ai primi passi nel volontariato

È necessario ora un periodo di delicato apprendistato: un volontariato «educativo», non per questo però meno serio e impegnativo. Il gruppo ora sa cosa fare, ognuno ha il suo ruolo, ci sono tempi e modalità di intervento da sperimentare: siamo a un’azione di gruppo.

Alcuni compiti di questa fase sono riassumibili nel compito di elaborazione culturale dell’esperienza in atto, nella maturazione di una coscienza politica e nella collaborazione. Circa il primo, si tratta di collocare la propria esperienza dentro l’ambito culturale e sociale più vasto, per cogliere il distacco tra mondi vitali e sistema sociale, la crisi dello stato assistenziale, l’emergere di nuove sacche di povertà, la necessità di ripensare la vivibilità del vivere odierno...; e di elaborare la propria visione di uomo e società verso cui si vuole tendere. Circa il secondo, ci si deve render conto che molti problemi a cui il volontariato vuol dare risposta affondano le radici in una serie di fatti strutturali e di leggi economiche, e che la loro soluzione va affrontata a livello di istituzioni e di cambi strutturali. E che il volontariato, lungi dall’essere un rifugio nell’azione «cieca», può aiutare la politica a ritrovare motivazioni e stile, «un’anima». E infine, la collaborazione: risolvere problemi vuol dire imparare a collaborare con tutte le forze sociali e politiche, con associazioni già operanti sul territorio e cariche di tradizione e cultura.

Solo così l’esperienza che si sta facendo diventa arricchente, perché capace di compiere tutto il tragitto che dall’azione passa alla riflessione per riprogettare una nuova azione.

 

4.2.6. Dal volontariato educativo al volontariato adulto

Abbiamo considerato il volontariato di gruppo come momento formativo per adolescenti e giovani; ma c’è una fase successiva, quasi uno «sbocco» necessario in ogni gruppo che «muore» per dare vita a forme adulte di aggregazione, a modi nuovi di essere cittadini e cristiani adulti: ed è appunto il volontariato «adulto».

In questo passaggio vi sono alcuni compiti a cui prestare attenzione. Il primo riguarda il tipo di aggregazione da ricercare: generalmente si attua quasi una emigrazione verso i nuovi contesti di vita in cui ci si sta inserendo, determinati dal tempo a disposizione, dai nuovi amici, dal tipo di lavoro o ruolo sociale che si occupa, dal servizio che si intende svolgere. Un ulteriore compito riguarda la ridefinizione dei propri parametri di vita, perché lavoro e famiglia non diventino gli unici ambiti di interesse e di azione. Entra qui appunto l’idea di «volontariato» come tempo dedicato ad attività gratuite a servizio di altri, una volta terminati i principali impegni di lavoro e di cura della famiglia. Un terzo compito spinge alla fantasia nelle scelte di volontariato, che non deve essere necessariamente in continuità con le esperienze precedenti. A questo punto si può collocare anche una possibile decisione di passare a un impegno più specificamente politico (che ha altre sedi e altre modalità di intervento). Il volontariato non è il luogo della politica, ma certamente un luogo di apprendimento di essa, là dove anche la politica può ricevere motivazioni più ideali. In ogni caso, anche nella forma del volontariato educativo, esso può essere un luogo di riscoperta non solo di una nuova qualità della vita e dei rapporti interpersonali, ma anche un luogo di senso per i giovani d’oggi.

 

Bibliografia

Verso uno statuto del volontariato, Dehoniane, Bologna 1982;​​ Volontariato giovanile tra lotta contro la povertà e lotta per l’identità personale. Dossier in «Note di pastorale giovanile» 19 (1985) n. 4, pp. 336;​​ Volontariato giovanile tra Welfare State e nuova povertà. Dossier in «Note di pastorale giovanile» 19 (1985) n. 2, pp. 3-32;​​ Volontariato, società e pubblici poteri, Dehoniane, Bologna 1980;​​ Volontariato: valorizzazione e promozione di esperienze, AVE, Roma 1982.

 

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VOLONTARIATO

VOLONTARIATO

VOLONTARIATO

Giancarlo Denicolò

 

1. Volontariato oggi

1.1. Una definizione operativa

1.2. Diffusione e tipologia

2. Volontariato e società

2.1. La crisi del Welfare State

2.2. I nodi del volontariato oggi

3. Il volontariato giovanile

3.1. Le radici culturali del volontariato giovanile

3.2. Quale volontariato giovanile?

4. Itinerario educativo al volontariato per un gruppo di adolescenti

4.1. Un punto di partenza e l’obiettivo

4.2. L’itinerario

4.2.1. Dalla ricerca di calore al lasciarsi coinvolgere nel gruppo

4.2.2. Dal lasciarsi coinvolgere nel gruppo alla fedeltà al caldo del gruppo

4.2.3. Dalla fedeltà al gruppo alla solidarietà gratuita con la sofferenza

4.2.4. Dall’incontro con la sofferenza alla scelta di un campo di intervento

4.2.5. Dalla scelta di un campo di intervento ai primi passi nel volontariato

4.2.6. Dal volontariato educativo al volontariato adulto

 

Da tempo ormai il volontariato ha acquistato grande rilevanza sociale e culturale. La sua identità e funzione, il suo significato, la novità che esso racchiude come «terzo spazio» che prefigura un ambito nuovo oltre la vecchia dicotomia pubblico-privato, sono state ampiamente analizzati, definiti, legittimati. A livello istituzionale gli si riconosce il diritto a rappresentare, accanto ad altre istituzioni, una corretta modalità di analisi delle domande emergenti dal territorio e dai soggetti sociali e di risposta alle stesse; a livello sociale e culturale un’originale coniugazione di solidarietà, partecipazione, offerta di qualità della vita; a livello individuale un ricco modo di impiego del «tempo libero» e di espressione dell’identità personale.

La consistente risposta giovanile attraverso il volontariato a forme diversificate di solidarietà ne lascia intravedere la capacità di saldare nella soggettività giovanile stessa identità personale e valori sociali, la funzione socializzante e aggregativa, un modo concreto di rendere visibile, operante e verificabile la dimensione di fede nella vita del credente. Senza sottacere problemi e ambiguità soprattutto nella «versione giovanile» del volontariato, si tende oggi a vedere con chiarezza l’importanza di forme di volontariato educativo, capace cioè di coniugare in forme nuove le esigenze tipiche del volontariato (adulto e vissuto da «adulti») e le esigenze giovanili legate alla loro cultura e modo di essere (precario, di attesa) nella società.

Il volontariato diventa così un «tema generatore», in quanto modo di vivere, di socializzare, di «progettare», di inventare il futuro, capace di costruire sul frammento e di «tirare» nuovi temi (sia legati alla soggettività che alla dimensione della solidarietà e — perché no? — della trascendenza) in un allargamento continuo e approfondente.

Ed è soprattutto da questo punto di vista — del volontariato educativo giovanile — che analizziamo questo fenomeno, pur riconoscendo che non può essere ridotto a questo, e che i problemi di esso, oggi, si collocano essenzialmente a livello di rapporto con le istituzioni e di legittimazione sempre meno formale di quello spazio (il terzo spazio) tra pubblico e privato che esso si è saputo conquistare.

 

1. Volontariato oggi

1.1. Una definizione operativa

Una migliore comprensione del ruolo, forma e contenuti del volontariato ha ormai permesso di evidenziare alcuni tratti dell’identikit di questo «spazio-impegno» di solidarietà sociale, sia che si svolga come azione singola che in gruppi o associazioni. Attraverso la sottolineatura di alcune caratteristiche essenziali che permettono differenziazioni da altre forme di impegno sociale, la definizione più completa e chiara può risultare la seguente.

«Volontario è il cittadino che liberamente, non in esecuzione di specifici obblighi morali o doveri giuridici, ispira la sua vita — nel pubblico e nel privato — a fini di solidarietà. Pertanto, adempiuti i suoi doveri civili e di stato, si pone a disinteressata disposizione della comunità, promovendo una risposta creativa ai bisogni emergenti dal territorio con attenzione prioritaria per i poveri, gli emarginati, i senza potere. Egli impegna energie, capacità, tempo ed eventuali mezzi di cui dispone, in iniziative di condivisione realizzate preferibilmente attraverso l’azione di gruppo. Iniziative aperte a una leale collaborazione con le pubbliche istituzioni e le forze sociali; condotte con adeguata preparazione specifica; attuate con continuità di interventi, destinati sia a servizi immediati che alla indispensabile rimozione delle cause di ingiustizia e di ogni oppressione della persona» (L. Tavazza).

Vengono in questa definizione sottolineati alcuni aspetti che formano come l’ossatura di una corretta concezione del volontariato, almeno come si è evoluto negli ultimi anni:

— la sua dimensione politica di lotta per la rimozione delle cause di povertà, emarginazione;

— la sua funzione liberatoria non riparatoria, per una piena valorizzazione della dignità della persona umana nei suoi diritti fondamentali;

— l’abbandono di ogni forma di concorrenzialità con lo stato e le sue strutture democratiche (assumendo così di volta in volta funzioni e ruoli di integrazione, di umanizzazione, di stimolo e denuncia, di verifica...);

— la sua concezione etica di stile globale di vita, non di impegno marginale;

— la qualificazione dell’intervento data dalla vera capacità di condivisione;

— la volontà di misurarsi nelle situazioni concrete;

— la gratuità e la scelta di campo del «più povero»;

— l’opportunità di collegarsi con tutte le forze sociali impegnate nelle medesime finalità;

— la scelta preferenziale dell’impegno di gruppo che garantisce continuità e confronto;

— il grande variare dei campi di intervento.

1.2. Diffusione e tipologia

La ricerca più recente e completa (almeno per quanto riguarda il contesto italiano) è quella di Colozzi-Rossi (1983), sui gruppi locali di volontariato: ne vengono rilevati alcuni aspetti quantitativi e qualitativi che è utile qui ricordare (anche se non si tratta di una ricerca condotta sull’universo o su un campione perfettamente stratificato).

Dai dati relativi agli oltre 7000 gruppi locali inchiestati, risulta anzitutto che il fenomeno del volontariato ha una capillare diffusione su tutto il territorio nazionale (1 volontario ogni 89 persone residenti), ma tale distribuzione non è uniforme: l’intensità maggiore è al Nord-Est e al Centro (1 a 67) rispetto al Nord-Ovest (1 a 105), Sud (1 a 109) e Isole (1 a 136). Nel Sud e nelle Isole però i dati mostrano una tendenza alla crescita numerica dei volontari e del tempo offerto, nonché l’espansione delle attività e dei servizi; mentre al Nord si assiste a un calo della capacità aggregativa soprattutto giovanile: per cui si può ipotizzare a breve scadenza un mutamento radicale della geografia del volontariato in Italia. Questo dato potrebbe — per quanto riguarda i gruppi giovanili — porre il problema del rapporto (del nodo): disoccupazione-volontariato, del volontariato dunque come spazio di attività per riempire il vuoto di lavoro, come surrogato di un tempo forzatamente libero.

Fra le tante tipologie possibili per illustrare-classificare i dati offerti, particolarmente interessante può risultare quella che — sulla base della «forma istituzionale» — distingue tra gruppi informali veri e propri, semiformalizzati (associazioni di fatto, cooperative) e formalizzati (associazioni legalmente riconosciute, fondazioni e confraternite).

Le principali caratteristiche di tali gruppi vengono qui descritte distinguendo per i singoli raggruppamenti tre aree tematiche: dinamica interna, rapporti con l’esterno, attività.

1. Gruppi informali.​​ Sono il 19% del totale, e quasi il 70% di dichiarata ispirazione religiosa.

Caratterizzati da piccole-medie dimensioni (non oltre i 50 soggetti), prendono decisioni in modo diretto, assembleare, che coinvolgono tutti i membri. Non infrequente è la presenza di un leader a cui il gruppo fa riferimento. La funzione del gruppo è anche socializzante e formativa, in quanto prevede non tanto l’acquisizione di competenze settoriali, quanto di attività formative vere e proprie, tenendo conto della componente pressoché totalmente giovanile della maggior parte di tali gruppi. La preferenza «giovanile» (anche se non totalmente giovanile) per questi tipi di gruppi si può spiegare o come gusto generalizzato per forme di vita libere e flessibili, fortemente interattive e partecipate, o come tappa di passaggio quasi obbligata verso l’azione volontaria più strutturata e formalizzata successiva.

Per quanto riguarda il rapporto con l’esterno, il gruppo «informale» si caratterizza per una certa chiusura, difficoltà di coordinamento con gli altri gruppi e di rapporto con l’ente pubblico.

Quanto alle attività, tali gruppi tendono ad operare in un solo settore (monovalenza): il più diffuso è quello socio-assistenziale, seguito dall’animazione culturale e difesa ambientale; in forme di servizi che vanno dall’assistenza domiciliare e sociale, a quella residenziale in case di cura, ospedali, istituti: interventi che non richiedono alti livelli di professionalità tecnica, quanto disponibilità e apertura all’altro.

Circa il tempo offerto, accanto a forme di tempo pieno si rileva prevalentemente la percentuale di circa 5 ore di servizio settimanali.​​ 

2.​​ Gruppi semiformalizzati.​​ Fenomeno peculiare degli anni ’80, essi comprendono essenzialmente le associazioni di fatto e le cooperative, che hanno costituito una nuova forma di intervento di volontariato stabilizzando forme più o meno saltuarie. La loro ispirazione prevalente è religiosa nelle associazioni di fatto, laico-umanitaria a-confessionale nelle cooperative.

Quanto alla dinamica interna, la maggior parte di essi è di dimensioni abbastanza ridotte (20 aderenti di massima), con forme di struttura decisionale complessa che evidenziano la presenza di modelli di partecipazione democratica alle decisioni di gruppo. Grande è l’interesse per la formazione dei volontari, sia gestita dal gruppo che da tecnici-esperti. Un’ipotesi interpretativa della prevalente diffusione negli anni ’80 di tali gruppi (negli anni cioè successivi al boom dei gruppi informali) lascia intravedere la prevalente funzione di «sbocco istituzionale» assunta per molti giovani dei gruppi informali, consentendo un intervento più organico e strutturato nel servizio volontario, pur conservando alcune forme di informalità.

La presenza di adulti è prevalente nelle associazioni di fatto, mentre nelle cooperative la quota adulti-giovani è pressoché pari. L’impegno nelle cooperative per molti giovani si è trasformato in una forma di servizio in parte gratuito e in parte retribuito, venendo così a creare una figura interessante e pur ambigua di giovane volontario, che nel campo della cooperazione riesce a sottrarsi all’esperienza della disoccupazione.

Il coordinamento effettuato con altre esperienze volontarie e il collegamento con il movimento federativo indicano il maggior grado di apertura all’esterno e di collaborazione, almeno da parte delle associazioni, mentre invece appare carente il rapporto con l’ente locale, che diventa caratteristica precipua delle cooperative (mediante la forma della convenzione) assieme al carattere più localistico e micro-sociale.

Quanto alle attività promosse, il campo di intervento delle associazioni di fatto è pressoché globale, soprattutto mediante servizi di carattere assistenziale, culturale, di difesa ambientale; per le cooperative prevale invece la caratterizzazione socio-assistenziale e culturale, con netta prevalenza per l’area della tossicodipendenza (con utenza quindi in gran parte giovanile).

3.​​ Gruppi formalizzati.​​ Sono quei gruppi che hanno acquisito una forma istituzionale «forte» in associazioni legalmente riconosciute, confraternite, fondazioni, all’interno delle quali l’azione volontaria assume una caratterizzazione insieme flessibile e stabile. L’ispirazione dichiarata è in genere laico-umanitaria a-confessionale. Quanto alla dinamica interna, le dimensioni dei gruppi sono grandi e complesse, con gruppo di dirigenza e strumenti di rappresentatività tipici di organismi con considerevole tradizione storica, e vari gradi interni di istituzionalizzazione. Il buon livello di interazione e scambio di informazioni è garantito da riunioni periodiche. Pur venendo storicamente anche da lontano, è tipico degli anni ’80 una accentuazione giuridica per la garanzia e tutela del proprio servizio, specialmente là dove esso è svolto come supplenza totale del pubblico. La strutturazione complessa, l’utilizzo di lavoratori dipendenti come supporto di garanzia, l’impegno in settori particolari come la protezione civile, fanno sì che l’attività volontaria sia condotta quasi esclusivamente da adulti.

Quanto ai rapporti con l’esterno, l’adesione a federazioni (da regionali a internazionali) è largamente diffusa, così come il coordinamento con gruppi operanti nella stessa zona o settore di attività. Notevoli sono anche i rapporti continuati e formalizzati con l’ente pubblico (intese, contratti, convenzioni); tuttavia la forma principale di sovvenzione è una combinazione di finanziamento esterno e autofinanziamento da parte dei soci stessi.

Le attività sono ad ampio raggio e i servizi offerti molto diversificati: nel campo sanitario, in quello della protezione civile, che esigono alto livello di competenza e professionalità. Un’azione che si svolge prevalentemente all’interno di grandi unità geografiche.

 

2.​​ Volontariato e società

A partire dagli anni ’70 il volontariato esplode come fenomeno sociale, in cui la presenza di gruppi e soggetti sociali impegnati in una miriade di iniziative e di offerte di servizio nei settori più disparati viene riconosciuta, accettata, valorizzata. L’approfondimento culturale successivo e il dibattito sull’identità del volontariato stesso accompagnano tale presa di consapevolezza e sono sollecitati dall’esigenza di crescita, di differenziazione, di chiarezza.

 

2.1. La crisi del Welfare State

L’esperienza sociale che in parte ha sollecitato, in parte ha «guidato» l’esplosione del volontariato è la crisi della società degli anni ’70, in quella forma particolare tipica dei Paesi occidentali che è denominata «Welfare State» o stato del benessere. Il volontariato diventa fenomeno sociale rilevante di solidarietà e partecipazione quando percepisce di poter essere risposta al «sovraccarico di domanda sociale» a cui le strutture del pubblico non sono in grado di rispondere.

Per Welfare State si intende un sistematico intervento pubblico, anche decentrato (sia nei settori della sanità, della previdenza e dell’assistenza, sia nei settori dell’istruzione, dell’edilizia popolare e di quant’altro essenziale alla vita), rivolto a tutti in previste condizioni di bisogno, e finanziato attraverso l’imposizione personale diretta e progressiva e attraverso contributi dei lavoratori interessati e delle imprese.

Lo caratterizzano essenzialmente (rispetto per esempio allo stato assistenziale e sociale) l’universalismo delle prestazioni e la sistematicità e interdipendenza delle stesse.

Tale attuazione dei sistemi pubblici di sicurezza sociale e di servizi per il benessere è certamente un grande progresso civile e umano, perché dà corpo alla «sostanza sociale» del diritto di cittadinanza (pensioni, cure sanitarie, solidarietà collettive verso i poveri...). Non per nulla il consenso sul mantenimento di questi diritti sociali è pressoché universale, nell’Europa comunitaria, anche se vengono rilevati — in certe forme di eccessiva espansione della spesa pubblica di welfare per ragioni di consenso elettorale ai partiti e di accordi neo-corporativi dello stato con le forze sociali — ostacoli per la ripresa economica e carenza di controlli sull’efficacia ed effettiva difesa dei diritti degli ultimi.

Le prime imputazioni di crisi del Welfare State non sono — come si è tentato di far credere — prima di tutto la crisi economica internazionale post-73-74 e la connessa crisi finanziaria degli Stati nazionali più espansivi in fatto di intervento pubblico. Sono piuttosto — a metà degli anni ’60 — dubbi e contestazioni circa l’efficacia universalistica delle prestazioni, specie nei confronti della povertà, miseria ed emarginazione.

Viene scoperta in questi anni da osservatori e operatori sociali — proprio nelle nazioni a più ricco sviluppo economico — la persistenza della povertà e della miseria. Al crescere della spesa pubblica di Welfare State non hanno corrisposto progressi proporzionati nella lotta alla miseria, alla emarginazione sociale, alla povertà, quanto piuttosto maggiori benefici e potere a vantaggio delle persone di ceto medio, più asimmetrie tra operatori e cittadini, meno qualità umana della cura, più industrializzazione della medicina. Si aggiunga — dal punto di vista della personalizzazione, cioè della qualità del servizio — che essa è spesso soffocata dall’elefantiasi burocratica, dalla freddezza dell’anonimato, dalla passività e massificazione indotte dalla maggior parte dei servizi pubblici.

Un’altra critica che ha cominciato a farsi strada già dalla seconda metà degli anni ’60 è che rimpianto centralistico e specialistico dello stato del benessere risulta sempre meno atto a combattere in positivo le nuove forme di povertà da handicap psichici, da solitudine involontaria — specie in anziani —, da perdita di senso della vita o da tossicodipendenza: nuovi bisogni che nel corso degli anni ’70 si sono diffusi a fasce sempre più ampie di popolazione, bisogni che non è facile immediatamente cogliere, interpretare, darvi risposta. Sono le cosiddette «nuove povertà» di una società post-industriale che si aggiungono alle vecchie, sempre persistenti e talvolta anche aggravantisi. Per riconoscerle viene oggi utilizzato il costrutto di doppia natura — assoluta e relativa — dell’emarginazione sociale, povertà, handicap. Oggi, si afferma, si ha a che fare con misure sempre meno assolute di miseria e povertà, e sempre più legate a un contesto, a una «posizione», indipendentemente dal soddisfacimento dei bisogni essenziali alla vita biologica.

Un terzo elemento di critica viene sottolineato dall’accettazione di una nuova «filosofia del sociale», che in una formula si può riassumere come passaggio «dal Welfare State alla Welfare Society», cioè come passaggio dal politico al civile, al sociale, come rifiuto di uno stato onnicomprensivo e garantista, che tutto assorbe, pianifica, dirige. È un nuovo modello di cultura dello stato che rifiuta la pretesa di conferire solo al pubblico statale la prerogativa di unico agente di mutamento sociale. Vengono rimessi al centro i soggetti sociali (individui, gruppi, associazioni) con la loro soggettività e capacità di responsabilizzazione, azione, dono. Accanto a questa «filosofia» si può collocare anche quella ricerca collettiva di un nuovo modo di essere, di nuovi significati e della nuova qualità della vita, dentro cui è possibile sperimentare solidarietà, portatrice di senso personale, oltreché collettivo.

Questo è stato il terreno, l’humus dentro il quale hanno trovato spazio e legittimità nuove forme di presenza e di intervento, tra cui il volontariato.

Il volontariato si viene dunque a porre come uno degli spazi più innovativi e fecondi all’interno del quale la società riscopre il terreno della solidarietà, della partecipazione, della responsabilità, della riscoperta della qualità della vita, del ricupero dei valori della persona. In una parola, di un nuovo senso tra gli spazi del privato sociale.

 

2.2. I nodi del volontariato oggi

Tutto ciò è tanto più vero quanto maggiormente vengono individuati e risolti i nodi all’interno dei quali si muove oggi il volontariato (e che tra l’altro risultano i grandi temi del dibattito attuale, come rileva ad esempio la Conferenza Nazionale di Assisi del marzo 1988).

Tralasciamo quelli più direttamente legati al rapporto con le istituzioni, al collegamento con le altre organizzazioni di volontariato, all’individuazione dei campi in cui l’opera volontaria diventa veramente innovatrice e profetica, alla formazione interna dei membri (non soltanto «professionale»). Evidenziamo piuttosto​​ il​​ nodo costante: l’identità del volontariato, che ormai un’abbondante letteratura indica nel rapporto tra pubblico e privato, tra la sfera istituzionale e la sfera del «mondi vitali», così come si è venuto delineando e sviluppando alTinterno della società odierna.

Tale rapporto può essere configurato in maniera del tutto distorta: o nel senso della liquidazione del pubblico in una somma puramente materiale di tutti i privati, o nell’assorbimento totale del privato nel pubblico, o infine nella rigida separazione tra pubblico e privato: sono le tre posizioni «classiche» del liberalismo, del marxismo e del neofunzionalismo.

In Italia — così notano gli studiosi — ci si sta avviando verso quest’ultima forma di rapporto. La crisi dello stato del benessere va dunque interpretata come assenza di comunicazione tra sistema pubblico-istituzionale e area del privato, la sfera cioè dei mondi vitali. In questa situazione vien dunque a mancare quella forma di controllo che dovrebbe venire dal basso, là dove la domanda sociale si formula e dove le risposte e i servizi dovrebbero ricadere.

In assenza di un sufficiente sistema di comunicazione tra le due sfere, il Welfare State è necessariamente indotto a interpretare unilateralmente il proprio rapporto con la sfera dei mondi vitali. Ciò avviene generalmente attraverso i due meccanismi della pubblicizzazione del privato e della privatizzazione del pubblico: in forza del primo meccanismo si tende da parte dello stato all’appropriazione delle domande e dei bisogni, con un atteggiamento di onnipervasivo garantismo, che a lungo andare provoca lo svuotamento della giusta autonomia dei mondi vitali, la deresponsabilizzazione, l’insofferenza e da ultimo la mercificazione totale degli stessi bisogni e delle risposte che si danno loro; in forza del secondo meccanismo si avvia un processo irreversibile di burocratizzazione e lottizzazione dei servizi pubblici che genera necessariamente l’incapacità a far fronte alle domande reali del sistema.

La soluzione di questi problemi sembra allora definirsi come «ripristino di una migliore relazione tra pubblico e privato, che abbia caratteri di una transazione aperta e dinamica, permanente e articolata, tale cioè da presupporre e valorizzare l’irriducibilità e l’originalità e del pubblico e del privato» (G. Milanesi). Attraverso questa restituita capacità di comunicazione tra le due sfere dovrebbe essere possibile il processo di ridefinizione del concetto stesso di benessere, da realizzarsi non solo dall’alto ma anche dal basso, non solo sulla base di indicatori obiettivi ma anche sulla base di istanze soggettive, in modo che il pubblico sia sempre meno autoritario e corporativistico, e il privato sempre più vivace, efficace, disposta al confronto, capace di gestire non solo le proprie domande ma anche di produrre servizi autogestiti a esplicita valenza sociale.

Qui allora si percepisce la funzione del volontariato, il luogo dove si gioca la sua validità e legittimità, in una parola la sua identità: come realtà di confine, anzi cerniera tra pubblico e privato, espressione della capacità del privato di partecipare all’autoregolazione del sistema «aspettative-risposte» e soprattutto espressione di un privato-sociale da affiancare al pubblico in funzione integratrice e non sostitutiva. Il volontariato allora si pone come la terza dimensione emergente tra pubblico e privato, proprio perché sembra in grado di gestire il privato sociale, cioè quella serie di iniziative che hanno come oggetto non solo l’attivazione della coscienza dei propri diritti, ma anche la disposizione a partecipare direttamente all’uso e alla gestione dei servizi che sono destinati al benessere collettivo.

 

3.​​ Il volontariato giovanile

Il volontariato vero e proprio è compito dell’adulto. Quello giovanile è da molti considerato un volontariato «anomalo», perché l’adolescente e il giovane non sono in grado di garantire un servizio che richiede competenza, capacità di scelte mature e impegnative, continuità, resistenza al dolore, tempi lunghi: essi sono invece ancora concentrati nella lotta per definire la loro identità in una società complessa. Preferiamo parlare, nei loro riguardi, di «volontariato educativo», cioè di un’esperienza concreta che, mentre è di aiuto gratuito alla lotta contro la povertà e l’emarginazione, è anzitutto luogo di maturazione dell’identità umana e cristiana dei giovani.

Bisogna tuttavia riconoscere che — pur con queste precisazioni che riprenderemo in seguito — i giovani occupano all’interno delle diverse forme di volontariato un posto rilevante, sia sotto il profilo quantitativo (prevalentemente nelle forme dei gruppi «informali» e «semiformalizzati», secondo la tipologia proposta), sia in rapporto alla qualità delle motivazioni che ne caratterizzano le scelte e l’impegno.

 

3.1. Le radici culturali del volontariato giovanile

La crescita di interesse verso il volontariato evidenziata in molte ricerche sui giovani può essere collegata, almeno per una minoranza di essi, con il fatto che in molti casi esso si mostra come una esperienza capace di collegarsi ad alcune istanze culturali presenti nel mondo giovanile.

La cultura dei giovani si caratterizza oggi per un imprevedibile cocktail di tratti provenienti dalla cultura adulta e di tratti provenienti da una pluralità di subculture, i cui ingredienti di fondo, comuni a più scelte e esperienze, possono essere ricondotti ai seguenti.

Un primo ingrediente è la dilatazione della soggettività, cioè un’attenzione privilegiata per i problemi che riguardano l’esperienza di ciascun individuo. Si tratta certamente di una forte reazione ai vari tentativi di espropriazione della persona negli anni ’70 (gli anni della «liberazione politica») e di una reazione alla marginalità che i giovani oggi sperimentano. Reazione che certamente si inserisce nel quadro di istanze culturali più generali presenti nel nostro paese, a connotazione garantistica e consumistica, carente di speranza e di progettualità, ma che esprime anche — al positivo — un forte senso della concretezza e quotidianità, un distanziamento critico dalle ideologie totalizzanti, la capacità all’uso di strumenti più complessi di analisi della realtà, la possibilità di scegliere tra una pluralità di proposte. Nell’insieme si configura dunque come una istanza indilazionabile di restituire senso alla vita individuale e di rifondarne la qualità essenziale. Diverse sono le strade che può imboccare questa attenzione privilegiata alla soggettività da parte dei giovani, dal mero individualismo consumista alla rinnovata esigenza di personalismo. Ed è appunto in quest’ultima direzione che possono saldarsi — per una minoranza di giovani — soggettività personalistica e volontariato: nella riscoperta dei grandi temi del significato individuale e collettivo dell’esistenza, della priorità delle grandi questioni concernenti la qualità della vita per l’umanità intera. È qui che matura una disponibilità a gestire la domanda non in termini individualistici, rivendicativi, ma comunitari, promozionali. Il volontariato può costituire allora per questi giovani il luogo in cui saldare bisogni espressi dalla loro soggettività con un contenuto capace di esprimere una valenza sociale.

Una seconda componente del cocktail culturale dei giovani va ricercata nella riscoperta problematica delle istituzioni e della politica. Dopo aver a lungo parlato della disaffezione dei giovani per il politico, oggi le posizioni si sono fatte più sfumate: il rifiuto radicale dell’impegno politico riguarda infatti solo le forme totalizzanti, dogmatiche e utopiche. C’è un modo dimesso ma concreto di far politica, come attenzione ai problemi emergenti dal quotidiano, intervento nel territorio limitato ma concreto e operativo, disponibilità a interazioni nella trama del vissuto sociale, propensione a lavorare in piccole aggregazioni non burocratizzate. Anche il rifiuto delle istituzioni è, per certi versi, superato nella misura in cui servono alla formazione della propria identità e a fornire risposte alle proprie contraddizioni.

Il volontariato, rispetto a questo secondo «ingrediente», si offre come «mediazione» tra personale e politico, tra ricerca di identità e disponibilità a una nuova transazione col sistema sociale, e dunque come luogo in cui esigenze personali e attenzione al pubblico si saldano e si integrano.

Un terzo ingrediente è l’atteggiamento di differenziazione delle scelte: e cioè la moltiplicazione illimitata di appartenenze, interessi e iniziative, senza attribuire a nessuna di esse un carattere di totalizzazione e di definitività, tendendo caso mai a relativizzare ogni esperienza e impegno. Non è difficile vedere la ragione ultima di tutto ciò nelle caratteristiche di estrema differenziazione dello stesso sistema sociale italiano e nelle difficoltà obiettive della condizione giovanile nella nostra società. Tale atteggiamento e pratica di differenziazione non solo viene utilizzata come meccanismo di adattamento alla frustrazione sociale, ma è anche causa immediata della scarsa progettualità presente nei giovani oggi: si progetta poco e si cerca di vivere alla giornata, le grandi decisioni e opzioni fondamentali vengono rimandate, scarsa è la propensione a assumersi responsabilità nella partecipazione.

È certamente alto il rischio della dissociazione. E ciò rende maggiormente significativo il fatto che esistano, nonostante ciò, giovani che si impegnano e scelgono: una minoranza, difficilmente quantificabile, ha trovato una soluzione al rischio della disgregazione personale affidandosi al rischio del coinvolgimento. Nella scelta di impegno di volontariato si vuole affermare che è possibile opporsi alla disgregazione, vivendo o convivendo sì con la crisi e con la frammentazione dell’esperienza, ma cercando anche di trovare un senso all’esistenza per sé e per gli altri.

 

3.2. Quale volontariato giovanile?

A fronte dell’affinità quasi «elettiva» tra alcuni tratti del mondo culturale giovanile e il volontariato, permangono tuttavia esigenze di un volontariato maturo che poco si confanno ad alcune modalità tipiche dell’esperienza giovanile, ed evidenziano le obiettive contraddizioni di un volontariato (come quello giovanile) perlopiù esercitato in condizione di precariato occupazionale, di marginalità sociale, di incertezza psicologica.

Per cui, ancorché una certa minoranza di giovani ha operato questa scelta di impegno e di gratuità, la maggioranza non appare ancora matura per decidersi per il volontariato. Sottolineiamo soltanto due esigenze che sembrano decisive.

Anzitutto il volontariato si presenta come «impegno post-occupazionale», da praticare nel tempo libero da attività produttive e dalla vita familiare: esso quindi non vuole essere il sostituto alienante del lavoro che non c’è e nemmeno l’equivalente del lavoro nero o il sostegno dell’economia sommersa o l’anticamera del mercato del lavoro. E neppure una fuga dalla routine della responsabilità del proprio ruolo sociale. Si sa però che spesso il volontariato giovanile si tramuta nella fiera delle vane promesse e delle illusioni occupazionali, oppure si carica di tutte le tensioni provenienti da altri settori della vita privata, cui dovrebbe servire da polivalente valvola di sfogo. Per molti giovani — che non credono più al lavoro produttivo come luogo ideale e normale per assicurarsi un’identità personale — il volontariato rischia di servire da «realizzazione alternativa» con tutte le ambiguità e rischi che ne seguono, cioè come alternativa gratificante, luogo del lavoro che piace, del lavoro libero, del lavoro socialmente utile, e non invece occasione di arricchimento personale e di effettivo servizio alla comunità, al di là dell’attività produttiva e dei doveri di ruolo. Se si è fuori dal mondo del lavoro (e dunque o ancora «dipendenti» o non sufficientemente «sicuri», e dunque senza un minimo aggangio con la logica prevalente del pubblico), il volontariato difficilmente può da solo farsi carico dei problemi di sicurezza, autostima, identità soprattutto dei giovani.

La seconda «difficoltà» riguarda l’esigenza di continuità di intervento, come superamento delle iniziative sporadiche, carenti di vera programmazione e verifica, e che finiscono per illudere e deludere. Tutto questo non si confà molto alla limitatezza del tempo dei giovani, ma soprattutto alla loro tipica riluttanza a assumersi impegni di lunga durata e alla tendenza a non legare la propria identità e autorealizzazione a una sola esperienza, sia pur significativa.

È difficile sottrarsi dunque all’impressione che — pur riconoscendo la quantità notevole e la qualità di presenza dei giovani nel volontariato — questo può essere vissuto pienamente solo oltre l’età della naturale indecisione giovanile, o che esso è un’esperienza da riservare solo a una minoranza di giovani già maturi per scelte impegnative.

Accettato questo, riconosciamo pure che l’esperienza di volontariato in età giovanile non può che far maturare la coscienza e le motivazioni per un impegno-intervento continuativo. Il volontariato giovanile non può infatti esaurirsi in funzione di servizi e di animazione del sociale e del politico; deve anche svolgere, e necessariamente, una funzione educativa. Non solo di educazione umanistica e etica, ma più propriamente socio-politica. Un impegno nel volontariato può offrire a tutti i giovani uno stimolo a uscire dall’indifferenza e dalla rassegnazione, e soprattutto offre ai giovani più poveri di ragioni per vivere, un senso nuovo all’esistenza nel servizio alla comunità e ai più poveri, nel segno della condivisione, della partecipazione, della passione per le cose grandi. È in questo contesto e con questo significato «educativo» che il volontariato giovanile trova la sua legittimazione e insostituibilità, diventando il luogo della verifica dell’identità e dei valori attorno a cui essa si organizza: sapendo che dalla costruzione della propria identità l’impegno ritorna a una nuova partecipazione sociale e politica.

 

4.​​ Itinerario educativo​​ al volontariato​​ per un gruppo di adolescenti

Abbiamo considerato il volontariato giovanile come un volontariato «anomalo» in funzione prevalentemente educativa: un’esperienza concreta che, mentre è di aiuto gratuito alla lotta contro la povertà e l’emarginazione, è anzitutto luogo di maturazione dell’identità umana e cristiana dei giovani. Perché ciò avvenga, alcune attenzioni educative sono prioritarie: un lavoro serio di animazione culturale dei giovani e il sostegno di gruppi o associazioni-movimenti che garantiscano l’affidabilità delle iniziative e l’accompagnamento del giovane, l’individuazione di uno «spazio» in cui fare tale esperienza e un cammino educativo. Lo spazio adeguato è probabilmente la disponibilità giovanile alla solidarietà interpersonale, e l’incontro tra questa solidarietà e la sofferenza umana che richiede una risposta del tutto gratuita.

Sulla base di questa ipotesi evidenziamo, ripercorrendo un cammino tracciato dalla rivista «Note di pastorale giovanile» a cui rimandiamo, un itinerario educativo di gruppo per un volontariato nello stile dell’animazione. Lo pensiamo — come proposta esemplificativa — per un gruppo di adolescenti che vive nell’area dei gruppi ecclesiali.

 

4.1. Un punto di partenza e l’obiettivo

Come ricordavamo, si assiste oggi a un forte distacco tra mondi vitali e sistema sociale. Di fatto, per molti adolescenti, il sistema sociale è un luogo dove non si riconoscono, in cui i messaggi-informazioni sui problemi della società e del mondo non riescono a coinvolgere o rischiano di rendere angosciati o indifferenti per la impossibilità pratica di risolverli. Se dunque una forma di partecipazione al sociale può svilupparsi, per gli adolescenti non sarà perché prendono consapevolezza della complessità e urgenza dei problemi sociali, e neppure attraverso visioni ideologiche della realtà (l’ideologia dell’impegno collettivo per cambiare il mondo o quella del progresso, tecnologia, rivoluzione).

È soltanto attraverso un lungo cammino educativo che può aprirsi uno spazio per l’adolescente di oggi in cui riconoscersi e darsi un’identità che faccia spazio al volontariato e alla partecipazione sociale e politica.

Il punto di partenza sembra dunque essere un segnale debole ma continuo, manifestato dagli adolescenti, nella direzione della solidarietà, intesa come capacità di immedesimazione nell’altro e nella sua sofferenza, pagando gratuitamente il prezzo necessario per darvi una risposta. L’ambito vitale proprio — e dunque il luogo educativo — è il gruppo dei coetanei, dove appunto in modo intenso sperimentare e offrire solidarietà alla persona concreta, nel momento della sua sofferenza. In questa risposta solidale l’adolescente apprende che la gratuità del proprio gesto salva l’altro e insieme fa crescere la propria dignità. Nella solidarietà gratuita l’adolescente apprende poi lentamente la dura ascesi della fedeltà all’altro, del calore da offrire con continuità perché l’altro possa vivere, del servizio non occasionale ma fedele, della competenza come modo di realizzare il bene dell’altro.

 

4.2. L’itinerario

Individuato il punto di partenza e un luogo educativo, è possibile indicare anche un obiettivo generale nella direzione del volontariato e della solidarietà sociale. Esso si può così esprimere: abilitare gli adolescenti a riconoscere e lasciarsi compenetrare dalla solidarietà nei «mondi vitali», in particolare nel gruppo dei pari, in modo da consolidare legami personali che tengono nel momento in cui da qualsiasi parte s’avanza la sofferenza, e così apprendere a coinvolgersi nel darvi risposta gratuita, dentro la quale prendere atto della più grande lotta tra vita e morte che si svolge attorno a loro e parteciparvi usando le proprie forze a servizio dell’uomo. Per raggiungere questo obiettivo è necessario un lungo itinerario di gruppo, che indichiamo qui con alcune tappe da percorrere.

 

4.2.1. Dalla ricerca di calore al lasciarsi coinvolgere nel gruppo

Il primo momento dell’itinerario non sta nel richiamo degli adolescenti all’impegno e al servizio, né nel convincerli mediante analisi o teorizzazioni sui problemi della società e del mondo. Esso sta piuttosto nella sperimentazione concreta del gusto dello stare insieme, del legarsi agli altri, dell’accoglienza dell’altro nella diversità, della consapevolezza che lo «stare-con» è il modo più originale di definire lo stesso senso della vita. Solo quando l’adolescente ha sperimentato intensamente un clima di accoglienza disinteressata e calda, si apre agli altri ed è capace di «fusione» con altri soggetti e modi di vivere e pensare, soprattutto negli ambiti caldi del gruppo dei pari e nella relazione del gruppo con l’animatore. Questo sembra l’inizio percorribile della strada per arrivare al volontariato gratuito: e comporta un faticoso cammino che se da una parte abilita a non creare difese dagli altri e dalla loro «invasione», dall’altra chiede di preservare spazi di intimità, silenzio e dialogo interiore dove far risuonare i tanti messaggi che sono gli altri con la loro presenza.

Tocca all’educatore poi esorcizzare il rischio di non uscire dall’isolamento e dal narcisismo individualista.

 

4.2.2. Dal lasciarsi coinvolgere nel gruppo alla fedeltà al caldo del gruppo

11 coinvolgimento nel gruppo è fonte di esigenze e scelte per gli adolescenti, soprattutto quella di non tradire il gruppo e di pagare un prezzo personale perché il clima duri nel tempo e sia di aiuto alle persone nella loro singolarità e nei modi diversi in cui questo aiuto si può esprimere. Nasce così e si manifesta la solidarietà tra i membri del gruppo, caratterizzata dai rapporti di amicizia e dal tentativo di dare una risposta personale ai problemi degli altri. È una solidarietà che fa sperimentare non solo che è affascinante stare-con, ma anche faticoso, perché gli altri non sono sempre teneri e perché si sente l’esigenza di non usarli a proprio piacimento. Il progressivo consolidarsi di legami nel gruppo scatena nuove forze educative che portano i soggetti ad assumersi piccole responsabilità, a cedere parte del proprio tempo agli altri senza ricavarne nulla, a entrare in un circolo più profondo di comunicazione e condivisione, a sviluppare competenze e doti a servizio del gruppo, a partecipare a attività programmate attraverso momenti di analisi-decisione-realizzazione-verifica.

Si impara così a entrare nella logica del dare e ricevere; e l’attento educatore vigila perché la fedeltà al gruppo non diventi totalizzazione di questa esperienza, quasi non esistano più altri problemi e interessi che quelli del gruppo.

 

4.2.3. Dalla fedeltà al gruppo alla solidarietà gratuita con la sofferenza

La fedeltà al gruppo non basta: non tutti i gruppi di adolescenti diventano gruppi di volontariato. L’esperienza che permette il «salto» è rincontro con la sofferenza e la risposta gratuita alle sue provocazioni. L’incontro con essa (non importa se di uno del gruppo o di fuori, se esperienza singola o collettiva, se «spontanea» o provocata) fa uscire dalla logica del «dare-ricevere», dello scambio: la risposta che essa esige è, in qualche modo, senza ricompensa e richiede un’uscita da sé stessi per vedere le cose dal punto di vista della sofferenza dell’altro. È richiesto qui un nuovo atteggiamento, la gratuità, che si impone soprattutto in casi esemplari, quando esplode la sofferenza dell’altro che investe con tutta la sua forza.

Ma perché essa sia davvero una provocazione per l’adolescente e perché questi possa rispondervi in maniera gratuita, è necessario che si verifichino alcune condizioni: anzitutto che la sofferenza sia «immediata», vicina, provocante ma non che distrugga chi vi si avvicina (tenuta sotto controllo educativo); che richieda di rispondervi personalmente senza demandare agli altri qualsiasi tipo di risposta; e infine che attraverso la riflessione di gruppo essa diventi un’esperienza «esemplare», che susciti cioè domande «esistenziali» e che esiga l’analisi di possibili risposte.

Anche qui il rischio è che il gruppo di adolescenti sia così impermeabile da non farsi neppure colpire dalla sofferenza, o che questa sia così «forte» da spingere a una risposta emotiva immediata senza la necessaria «protezione».

 

4.2.4. Dall’incontro con la sofferenza alla scelta di un campo di intervento

Normalmente l’incontro con un’esperienza di sofferenza suscita immediatamente la decisione di darvi risposta come gruppo: in questo caso il gruppo ha già scelto il suo luogo di intervento e la sua specializzazione nell’ambito del volontariato. Spesso tuttavia ciò che provoca il gruppo è la risposta che qualcun altro sta dando: più che identificazione con la sofferenza vale, allora, l’identificazione in modelli di risposta alla sofferenza. Il gruppo però prima di darsi all’attività deve prendere una decisione collettiva e ponderata: può nascere in un confronto con chi già opera, a livello di motivazioni, comportamenti, stili di vita, decisioni concrete. Il gruppo individua così una sua possibile «area» di volontariato.

Diventano urgenti a questo punto alcuni compiti educativi: rendersi operativamente competenti (iniziare piccole esperienze stendendo un «progetto» di intervento che contempli analisi, obiettivi, piste di azione, criteri di verifica); ristrutturare il gruppo e le persone stesse secondo un nuovo e originale stile di vita che faccia leva su valori e atteggiamenti di amore per la vita, di dono, di sacrificio e impegno.

Rischi a cui porre attenzione sono in particolare l’emozionalismo attivista di chi si lascia prendere dalla frenesia del fare senza un minimo di progettualità, l’intellettualismo di chi si limita a rendersi competente sui libri e nelle discussioni, l’incapacità di confronto con altre esperienze analoghe (e voler ricominciare tutto da capo), il rinchiudersi nelle forme tradizionali di intervento senza fantasia e coraggio.

 

4.2.5. Dalla scelta dì un campo di intervento ai primi passi nel volontariato

È necessario ora un periodo di delicato apprendistato: un volontariato «educativo», non per questo però meno serio e impegnativo. Il gruppo ora sa cosa fare, ognuno ha il suo ruolo, ci sono tempi e modalità di intervento da sperimentare: siamo a un’azione di gruppo.

Alcuni compiti di questa fase sono riassumibili nel compito di elaborazione culturale dell’esperienza in atto, nella maturazione di una coscienza politica e nella collaborazione. Circa il primo, si tratta di collocare la propria esperienza dentro l’ambito culturale e sociale più vasto, per cogliere il distacco tra mondi vitali e sistema sociale, la crisi dello stato assistenziale, l’emergere di nuove sacche di povertà, la necessità di ripensare la vivibilità del vivere odierno...; e di elaborare la propria visione di uomo e società verso cui si vuole tendere. Circa il secondo, ci si deve render conto che molti problemi a cui il volontariato vuol dare risposta affondano le radici in una serie di fatti strutturali e di leggi economiche, e che la loro soluzione va affrontata a livello di istituzioni e di cambi strutturali. E che il volontariato, lungi dall’essere un rifugio nell’azione «cieca», può aiutare la politica a ritrovare motivazioni e stile, «un’anima». E infine, la collaborazione: risolvere problemi vuol dire imparare a collaborare con tutte le forze sociali e politiche, con associazioni già operanti sul territorio e cariche di tradizione e cultura.

Solo così l’esperienza che si sta facendo diventa arricchente, perché capace di compiere tutto il tragitto che dall’azione passa alla riflessione per riprogettare una nuova azione.

 

4.2.6. Dal volontariato educativo al volontariato adulto

Abbiamo considerato il volontariato di gruppo come momento formativo per adolescenti e giovani; ma c’è una fase successiva, quasi uno «sbocco» necessario in ogni gruppo che «muore» per dare vita a forme adulte di aggregazione, a modi nuovi di essere cittadini e cristiani adulti: ed è appunto il volontariato «adulto».

In questo passaggio vi sono alcuni compiti a cui prestare attenzione. Il primo riguarda il tipo di aggregazione da ricercare: generalmente si attua quasi una emigrazione verso i nuovi contesti di vita in cui ci si sta inserendo, determinati dal tempo a disposizione, dai nuovi amici, dal tipo di lavoro o ruolo sociale che si occupa, dal servizio che si intende svolgere. Un ulteriore compito riguarda la ridefinizione dei propri parametri di vita, perché lavoro e famiglia non diventino gli unici ambiti di interesse e di azione. Entra qui appunto l’idea di «volontariato» come tempo dedicato ad attività gratuite a servizio di altri, una volta terminati i principali impegni di lavoro e di cura della famiglia. Un terzo compito spinge alla fantasia nelle scelte di volontariato, che non deve essere necessariamente in continuità con le esperienze precedenti. A questo punto si può collocare anche una possibile decisione di passare a un impegno più specificamente politico (che ha altre sedi e altre modalità di intervento). Il volontariato non è il luogo della politica, ma certamente un luogo di apprendimento di essa, là dove anche la politica può ricevere motivazioni più ideali. In ogni caso, anche nella forma del volontariato educativo, esso può essere un luogo di riscoperta non solo di una nuova qualità della vita e dei rapporti interpersonali, ma anche un luogo di senso per i giovani d’oggi.

 

Bibliografia

Verso uno statuto del volontariato, Dehoniane, Bologna 1982;​​ Volontariato giovanile tra lotta contro la povertà e lotta per l’identità personale. Dossier in «Note di pastorale giovanile» 19 (1985) n. 4, pp. 336;​​ Volontariato giovanile tra Welfare State e nuova povertà. Dossier in «Note di pastorale giovanile» 19 (1985) n. 2, pp. 3-32;​​ Volontariato, società e pubblici poteri, Dehoniane, Bologna 1980;​​ Volontariato: valorizzazione e promozione di esperienze, AVE, Roma 1982.

 

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VOLONTARIATO

VOTI / VOTAZIONE

 

VOTI / VOTAZIONE

I v. esprimono la​​ ​​ valutazione su un prodotto o sul livello globale di​​ ​​ competenza, per mezzo d’un simbolo numerico, d’una lettera o d’una qualifica.

1. Questo modo di esprimere le valutazioni scolastiche si è generalizzato soprattutto nel sec. XIX, ma ha origini molto più antiche. I tipi di​​ ​​ scale e di simboli usati nei diversi paesi sono variati nel tempo e variano attualmente. In Italia i v. sono stati aboliti nella scuola primaria e secondaria di I grado e sostituiti con «motivati giudizi» dalla L. 517 del 4.8.1977. Nella scuola secondaria superiore, all’università e in certi concorsi l’uso dei v. permane. Ogni esaminatore dispone d’una scala in decimi per la scuola secondaria durante l’anno scolastico e in centesimi per l’esame di stato, mentre per gli esami universitari i docenti possono disporre di una gamma in trentesimi per gli esami e in centodecimi per attribuire la valutazione finale. Si tratta di valori convenzionali anche per le soglie di sufficienza.

2. La​​ ​​ docimologia ha sottoposto a severa critica i v. e le v., negandone l’attendibilità per più d’una ragione. Anche il concetto di sufficienza non è stabile e non è sempre chiaro; altrettanto si può dire degli altri gradini e della pretesa di dar per scontato che si tratti di numeri cardinali. I v. sono il simbolo d’una valutazione che si riferisce ad aspetti molto vari della stessa prestazione e / o a più prestazioni (si pensi al v. dato a una composizione scritta, a un saggio, al termine d’un trimestre, d’un anno o d’un ciclo scolastico); sono però simboli molto generici, poveri d’informazione specie ai fini della diagnosi (ricupero e sviluppo) e della coerente programmazione. Le soluzioni cercate nella standardizzazione o tipificazione dei v., finalizzate a dare ad essi un significato statistico univoco, non consentono di superare il loro limite intrinseco di forma espressiva globale e poco trasparente.

Bibliografia

McIntosh D. M. - D. A. Walker - D. Mackay,​​ The scaling of teacher’s marks and estimates, Edinburgh, Oliver & Boyd, 1949; Calonghi L.,​​ Sussidi per la v. scolastica, Zürich, PAS-Verlag, 1961;​​ Hotyat F.,​​ Les examens, Paris, Bourrelier, 1962; Pieron H.,​​ Examens et docimologie, Paris, PUF, 1963; Noizet G. - J. P. Caverni,​​ Psychologie de l’évaluation scolaire, Ibid.,​​ 1978; Matthewman M. F. G.,​​ Examination results: processing analysis and presentation,​​ London, Routledge Falmer, 2000; Benvenuto G.,​​ Mettere i v. a scuola,​​ Roma, Carocci, 2003.

C. Coggi

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