VITA

 

VITA

Etimologicamente il termine deriva dal lat.​​ vis​​ (forza, vigore, potenza, energia). Nell’accezione comune, allora, la v. può essere descritta come forza attiva propria degli esseri animali e vegetali. La v. umana poi non è soltanto un organismo biologico ma anche una biografia esistenziale di una​​ ​​ persona.

1.​​ La v. come valore.​​ In senso analogico il sinonimo del «vivere» è quello dell’esistere​​ e al dover nascere alla v. va sempre correlato il «poter vivere o esistere». Va subito precisato però che c’è un duplice modo di concepire e vivere l’esistenza. Questa duplicità è sottesa dall’ambivalenza etimologica del termine stesso:​​ ex-esistere.​​ Infatti il significato della v. cambia a seconda della significatività che assume il prefisso​​ ex:​​ esso se applicato al termine «esistere» può essere interpretato come essere​​ fuori​​ o essere​​ verso.​​ Nel primo caso l’esistenza è oggettivata, emarginata. Essa si confonde con le cose. Esistere significa «essere-fuori», o «essere-altrove», o «essere-gettato» (ob-jectum), per cui l’esistenza in sé perde di senso, appare senza valore, senza possibilità e prospettive. Si pensi in proposito al dibattito suscitato dall’esistenzialismo in genere e da quello di Heidegger in particolare. Nel secondo caso l’esistenza è «verso-qualcosa» o «verso-qualcuno»: esistere, perciò, è «essere-per» o «essere-con», come il pensiero contemporaneo ha messo in luce. L’esistenza acquista così il senso, il valore e la finalità della​​ relazione, della​​ ​​ alterità. La relazione con l’altro diviene così la sua possibilità di autorealizzazione e la​​ ​​ libertà è assunta come compito e impegno. In questa ottica, allora, quando si parla dell’uomo-vivente si allude non solo alla qualità della v., ma alla​​ sacralità della v., perché l’uomo è persona ed è l’unico essere in cui la v. diventa capace di «riflessione» su di sé, di autodeterminazione; egli è l’unico vivente che ha la capacità di cogliere e scoprire il senso della sua esistenza e delle cose. La v. umana si presenta così come il valore massimo nel creato e trascende ogni altro bene temporale. Essa ha valore di fine e non di mezzo e si presenta come il punto assoluto di riferimento, a cui ogni altro valore mondano e storico deve riferirsi. Non esiste perciò un «diritto» contro la v. umana, dal momento che la stessa v. è il fondamento del diritto. Questa fondamentale forza assiologica e deontologica è radicata su un principio universale, assiomatico e operativo nello stesso tempo: l’uomo quando nasce deve essere valutato come un​​ dono​​ «per» e «con» e non come un​​ prodotto​​ da manipolare o commercializzare: la v. non si fabbrica, non si brevetta.

2.​​ La cultura della v.​​ Che significa avere una cultura della v.? La risposta a questo interrogativo è costituita da tre dimensioni tra loro concentriche, il cui centro è la persona umana. La prima dimensione è costituita dalla​​ inscindibile unicità della persona.​​ L’​​ ​​ uomo è un tutto unico e non può essere interpretato a compartimenti stagno. Infatti questo tipo di concezione dell’uomo, a comparti separati, ha generato dualismi impropri e bipolarità tra loro erroneamente contrapposte: istinto-volontà, materiale-spirituale, corpo-anima ecc. Ora, tale verticalizzazione rigida delle facoltà umane è rimessa fortemente in questione: infatti, anche se distinguibili, non vanno separate; tutte sono all’insegna del richiamo reciproco e vanno viste tra loro interdipendenti e interagenti nel contesto unitario della persona umana. L’uomo è un’unità inscindibile e la sua essenza è costituita dal​​ soma​​ (il corpo, la corporeità), dalla​​ psiche​​ (le emozioni, i sentimenti), dalla​​ nous​​ (la mente, la razionalità) e dal​​ sema​​ (i valori, i sistemi di significato). Tutti questi fattori, distinti sì ma non separabili perché tra loro interagenti, costituiscono l’essenza della persona, della v. umana. Nell’esercizio del corpo, per es., è tutta la persona che si visibilizza. La seconda dimensione che caratterizza la cultura della v. si ispira al rispetto assoluto della v. durante tutto l’arco cronologico dell’esistenza, dal concepimento alla morte naturale, sottraendola all’arbitrio di qualsiasi persona e di qualsiasi autorità. Ora la questione della v., della sua promozione e difesa, non è prerogativa dei soli cristiani – anche se dalla fede evangelica questo fatto riceve luce e forza straordinarie –; essa appartiene ad ogni coscienza umana che aspiri alla verità e che sia attenta e pensosa per le sorti dell’umanità. In questa ottica va anche la «Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo» (1948). È stato giustamente detto che il diritto alla v. è la nuova «questione sociale», perciò la promozione e la difesa della v. vanno attuate in tutto l’arco dell’esistenza umana: la​​ v.​​ iniziata​​ (il problema dell’aborto, la violenza sui minori); la​​ v.​​ verificata​​ (il primato della salute, l’umanizzazione della medicina); la​​ v.​​ manipolata​​ (l’adulterazione genetica, le tecniche della fecondazione); la​​ v.​​ marginale​​ (le nuove povertà, la condizione dell’anziano); la​​ v.​​ terminale​​ (il problema dell’eutanasia, l’umanizzazione del morire e della​​ ​​ morte). La soluzione di tutte queste vicende umane attiene ad un’autentica cultura della v. e va affrontata nel segno di un inequivocabile principio: la v. di ogni uomo è sacra! (bioetica). La terza dimensione sorge da un problema di scottante attualità: la nuova coscienza ecologica che ripropone un​​ rinnovato rapporto tra l’uomo e la natura.​​ Nel creato l’uomo non è il fine dell’evoluzione biologica, ma la v. è il fine. Perciò il rispetto della natura dev’essere basato sulla centralità della v. e questo principio deve farci passare da un immotivato​​ vitalismo antropocentrico, secondo cui l’uomo veniva definito senza limiti (jus utendi atque abutendi!), il senso di tutte le cose, ad una ragionata​​ visione biocentrica​​ che reinserisce l’uomo nella contestualità della biosfera assegnandogli il compito di controllare i processi. In parole più concrete: ciò che deve stare al centro del rapporto operativo uomo-natura non è tanto l’uomo come soggetto di conoscenza e di dominio, ma è la v., nel cui contesto la vicenda umana è il punto-vertice (​​ ambiente,​​ ​​ educazione ambientale). Ai credenti in particolare, per non concorrere all’ecocidio è richiesto di mediare l’amore per il prossimo attraverso l’amore per tutte le creature. Si tratta di un nuovo atteggiamento etico, personalista e cosmocentrico nello stesso tempo: la premura per la garanzia delle condizioni della v. in tutto il creato è il primo amore che dobbiamo avere verso il prossimo.

3.​​ L’educazione alla v.​​ S. Ireneo ha detto che «la gloria di Dio è l’uomo pienamente vivente!». Ma perché la v. sia vissuta nella sua pienezza occorre che essa abbia un​​ ​​ senso. Ora, per capire che cosa significa avere o produrre «senso» nella v. lo si interpreta dagli «effetti» che il senso stesso provoca: esso, infatti, produce attese, speranze, aspirazioni; rende capaci di amore solidale; stimola impegno e capacità costruttiva; suscita fedeltà e senso del rischio; sostiene la tenacia e la perseveranza attraverso giorni e stagioni dell’esistenza umana. Quando manca un «senso» tutta la v. diventa insensata, tutte le cose perdono i loro contorni precisi, si arriva al non-senso dei rapporti umani e gli avvenimenti perdono ogni qualità, la libertà si paralizza e si traduce in pigra indifferenza, i progetti hanno la durata di un’ubriacante evasione, la v. si dissocia e si disperde in momenti sconclusionati e senza senso, si vive per delega, e più che vivere alla giornata, si «muore alla giornata». Perché la v. abbia senso occorre, allora, credere in «qualcosa» o in «qualcuno». Perciò il senso della v. nasce innanzitutto da una​​ fede​​ – non necessariamente intesa come fede religiosa –, da una fede cioè vista come atto mediante cui l’uomo si affida a «valori» e a «speranze», dei quali non è ancora in grado di mostrare il grado di realizzabilità o di attitudine a saziare la v., ma che sono in grado però di costituire «quel» qualcosa o «quel» qualcuno per cui la v. ha significato, è «sensata»; e in questa direzione ci si impegna.

Bibliografia

Frankl V.,​​ Alla ricerca di un significato della v., Milano, Mursia, 1990; Pearson C.,​​ L’eroe dentro di noi, Roma, Astrolabio, 1990; Fizzotti E. (Ed.),​​ «Chi ha un perché nella v.…», Roma, LAS, 1992; Gevaert J.,​​ Il problema dell’uomo, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1992; Fromm E.,​​ L’amore per la v., Milano, Mondadori, 1993; Mancini R.,​​ Il dono del senso,​​ Assisi, Cittadella, 1999; Sanna I. (Ed.),​​ La sfida del post-umano, Roma, Studium, 2005.

C. Bucciarelli

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VITA

VITA – MORTE

VITA-MORTE

Luis A. Gallo

 

1. Un quadro globale di riferimento

2. La vita alla luce della fede in Cristo

3. Una pastorale giovanile «dalla parte della vita»

 

1. Un quadro globale di riferimento

La pastorale giovanile, in quanto azione di salvezza nell’ambito dei giovani, si colloca all’interno di un quadro globale di riferimento che le conferisce il suo senso ultimo. Esso viene dato da un’esperienza umana radicale e universale, che comporta due aspetti complementari.

Il primo è quello del desiderio di vivere, e di vivere in pienezza, attivamente presente in ogni essere umano, e quindi anche nei giovani. Anzi, in questi in maniera di solito ancora più intensamente sentita.

Tale desiderio è, indubbiamente, il più radicale tra quelli che esperisce l’uomo. Infatti, se lo si considera con attenzione, si scopre facilmente che qualunque altro desiderio umano, individuale o collettivo, è espressione — indovinata o sbagliata — del desiderio di vivere, e di vivere in pienezza. In pienezza di qualità e di durata. Un desiderio quindi di Vita, con la maiuscola. Ad appagarlo vanno indirizzati, in ultima istanza, tutti gli sforzi umani, ad ogni livello. Questo desiderio è anche il movente ultimo di ogni dinamismo umano.

Ma accanto a questo primo aspetto ce n’è un secondo, di portata non meno universale né meno radicale: esiste la Morte. Morte intesa come tutto ciò che in qualunque modo ostacola o contraddice la realizzazione del desiderio di vivere in pienezza. Morte, quindi, anche con la maiuscola.

Questo secondo aspetto trova la sua massima e più palpabile espressione nella morte corporale o biologica, nella quale l’uomo fa — in altri logicamente — l’esperienza del venir meno di ogni possibilità di soddisfare il più radicale dei suoi desideri. Ma, oltre a questa espressione-limite, ci sono altre innumerevoli forme di Morte: la fame, la malattia fisiologica o psichica, l’insicurezza psicologica o anche economica, l’angoscia, la solitudine forzata, l’incapacità di avere rapporti interpersonali, l’emarginazione imposta, la schiavitù sociologica o psicologica, la perdita del senso della vita, lo sfruttamento subito singolarmente o collettivamente, ecc. In breve, ogni forma di menomazione umana. Questa duplice esperienza umana universale è, per dirla con una formula molto pregnante, l’esperienza della dialettica Vita-Morte, del coesistere cioè delle due facce dell’esperienza in una continua contrapposizione ed eliminazione vicendevole.

Essa costituisce la realtà concreta ultima del mondo dell’uomo; al di là di essa non se ne può trovare un’altra. Perciò, tale dialettica viene a costituire come un trascendentale universale e concreto, che si rende attivamente presente in ognuno dei suoi «inferiori», senza però esaurirsi in nessuno di essi. Eccone alcuni: sazietà-fame, salute-malattia, sicurezza-insicurezza, angoscia-serenità, solitudine-comunione, emarginazione-partecipazione, schiavitù-libertà, ecc.

In seno a questa dialettica, una e molteplice, l’uomo, spinto dalla sua brama di Vita, è sempre alla ricerca conscia o inconscia, come lo rilevano già i più antichi miti dell’umanità, di una Vita-senza-Morte.

Tale ricerca si manifesta in forma non soltanto positiva, ma anche negativa, come paura della Morte. Quest’ultima, che in realtà non è altro che l’altra faccia del desiderio della Vita, costituisce lo sfondo più radicale di ogni paura umana. Anche in forza di essa vengono messi in movimento i diversi dinamismi dell’uomo, individuali e collettivi.

 

2.​​ La vita-in-pienezza​​ alla luce della fede in cristo

Soprattutto in un mondo come il nostro, in cui il pluralismo di visioni della realtà e di proposte di Vita-in-pienezza è così accentuato, si rende indispensabile un chiarimento sul modo stesso di concepire tale pienezza.

C’è, infatti, chi propone agli uomini d’oggi, quale appagamento del loro desiderio di vivere, l’affermazione propria a scapito degli altri, chi il semplice dispiegamento delle proprie energie corporali, intellettuali, estetiche, ecc., chi il possesso sempre crescente di beni materiali, chi ancora altri ideali. E ciò precisamente perché di tale pienezza di Vita non si ha esperienza, dal momento che resistenza viene vissuta sempre all’interno della dialettica Vita-Morte.

La fede cristiana si lascia ispirare, com’è ovvio, nel precisare la concezione della Vita, da ciò che su di essa asserisce la rivelazione su cui poggia. In realtà, l’intera rivelazione divina è un messaggio di Vita per gli uomini; ancora di più, una proposta in ordine alla pienezza di Vita per l’uomo, singolo e collettivo. Già le pagine dell’AT​​ si possono leggere in questa prospettiva. Esse, infatti, parlando del destino dell’uomo da parte di Dio, fanno capire che tale destino è appunto la Vita-in-pienezza. Un testo veramente emblematico a questo riguardo è quello delle prime pagine del libro della Genesi (1-3), in cui si narra la creazione del mondo e dell’uomo. In esso, pur con forme letterarie diverse e utilizzando materiali mitologici dell’epoca, la Bibbia svela la vocazione ultima dell’uomo: il Dio creatore e salvatore lo vuole partecipe nella sua pienezza di Vita, e a questo scopo lo chiama ad un rapporto di figliolanza con Sé, di fratellanza con gli altri uomini, e di signoria verso il creato. E anche quando l’uomo, per la non adeguata realizzazione di tali rapporti cade nei molteplici lacci della Morte, la volontà di Vita di Dio per lui rimane intatta e diventa promessa di vittoria futura​​ (Gn​​ 3,15). E il protovangelo, l’annunzio primo del trionfo pieno e definitivo della Vita sulla Morte. Ma è soprattutto nel​​ NT​​ dove tale rivelazione raggiunge il suo apice. Essa trova la sua massima espressione nella Pasqua del primo Uomo «realizzato» (GS22; cf​​ Col​​ 1,18), Gesù Cristo; Pasqua che è fondamentalmente vittoria piena e definitiva della Vita sulla Morte. Lui, emblema e promessa per tutti è, a partire da allora, «il Vivente»; un Vivente in pienezza nel quale la Morte, per un momento vincitrice, è completamente sconfitta per sempre​​ (Ap​​ 1,17) e non ha più niente a che fare​​ (Rm​​ 6,20). Come canta equivalentemente l’antica Sequenza pasquale, la dialettica Vita-Morte si è risolta definitivamente in lui dalla parte della Vita.

Questa Pasqua di Cristo, quale raggiungimento della pienezza della Vita in Dio, è stata tuttavia preparata dalla vicenda storica di Gesù di Nazaret. In essa con le sue parole, ma soprattutto con la sue azioni, egli svela il senso ultimo dell’esistenza umana come esistenza-per-la-Vita nonostante la dura realtà della Morte.

Le sue azioni, infatti, realizzate in ordine al compimento di quella causa da lui vissuta appassionatamente, che in termini propri del suo ambiente esprime come «regno di Dio»​​ (Me​​ 1,14-15), sono tutte orientate a produrre Vita: a restituire la Vita a chi ne è stato spogliato o dalla natura o dagli uomini (guarigioni corporali o psichiche, esorcismi, ecc.), o a farla crescere dove già c’è. Egli dimostra così di capire che ogni uomo, apertamente o velatamente, si porta dentro la domanda rivoltagli da quell’uomo delle molte ricchezze: «Cosa devo fare per avere la vita eterna (= piena?)»​​ (Me​​ 10-17). Ma dimostra anche di sapere che Dio, il Dio Vivente, non può regnare dove regna la Morte, e che per far avvenire il regno di questo Dio tra gli uomini bisogna debellare il regno della Morte in tutte le sue manifestazioni.

È per queste ragioni che interviene attivamente, anzitutto, per scacciare la Morte dai corpi degli uomini. I vangeli sono pieni di testimonianze al riguardo. La Vita per lui inizia da questo livello elementare ma radicalmente condizionante di tutta 1’esistenza. Ma interviene, inoltre, anche per scacciare la Morte che si annida nei falsi rapporti degli uomini con Dio, denunciando e combattendo atteggiamenti e istituzioni religiosi generatori di paura, di schiavitù e di sfruttamento; nei falsi rapporti degli uomini tra di loro, svelando atteggiamenti personali e gruppali di ingiustizia, oppressione ed emarginazione; nei falsi rapporti degli uomini con le realtà extraumane, mettendo a nudo atteggiamenti e strutture di accaparramento egoistico e di avarizia. Tutti falsi rapporti che costituiscono altrettante fonti di Morte tra gli uomini e i gruppi umani.

Con le sue parole, poi, Gesù svela il senso profondo del suo agire e lo fa diventare proposta per gli altri, quale invito a percorrere una vita vivificante.

Ci sono nei vangeli delle frasi, forse da lui mai letteralmente pronunciate ma elaborate da chi ne aveva ereditato lo Spirito, che esprimono molto bene il suo pensiero. Fra queste va citata quella del discorso giovanneo del Buon Pastore, nella quale egli dichiara il significato globale del suo agire: «Io sono venuto perché [le pecore, ossia gli uomini] abbiano la Vita, e l’abbiano in abbondanza»​​ (Gv​​ 10,10). E quell’altra in cui illumina il senso che, all’interno della sua vicenda, acquistano la sua croce e la sua morte: «Se il chiccho di frumento cade per terra e muore, produce molto frutto»​​ (Gv​​ 12,24).

Tutto questo insieme di cose permette di cogliere che Gesù, come ogni altro essere umano, era radicalmente mosso dal desiderio di vivere e di vivere in pienezza, e che trovò l’appagamento di questo suo desiderio nell’impegno appassionato per la realizzazione di questo stesso desiderio negli altri. Vivificando gli altri, si è anche autovivificato. La Pasqua portò a pienezza questo processo. Oltre ad aver percorso personalmente questa strada che lo portò alla pienezza della Vita, Gesù di Nazaret la propose con entusiasmo agli altri: egli proclamò in mille modi a tutti coloro che vollero ascoltarlo, che il suo era il vero cammino della Vita (Gv 14,6). Chi vuole avere la Vita in pienezza, quindi, deve camminare sulla stessa strada.

Non vanno dimenticati, in questo contesto, due dati evangelici di importanza decisiva. Gesù sostiene, in primo luogo, più con i fatti che con le parole, che solo chi si lascia sollecitare emozionalmente ed effettivamente dal bisogno di Vita degli altri può trovare la propria Vita​​ (Gv​​ 12,24). Chi dunque si chiude egoisticamente nella ricerca esclusiva della propria realizzazione personale, non la può trovare; anzi, una ricerca del genere porta alla Morte propria e altrui. L’egoismo è, per Gesù, l’antitesi della Vita. Un’eco di questo modo di pensare la si ritrova nella prima lettera di Giovanni che dice: «Chi non ama [il fratello] rimane nella morte»​​ (1 Gv​​ 3,14).

In secondo luogo, Gesù sostiene che, in questo lasciarsi sollecitare dal bisogno di Vita degli altri, occorre rispettare, come fece lui, una gerarchia di urgenza, nella quale occupano il primo posto coloro che sono più intensamente «moribondi»​​ (Lc​​ 10,30-37: parabola del Buon Samaritano). Le opzioni da lui fatte per i più poveri, emarginati ed esclusi, per gli ultimi e per quelli che non contano, sono una chiara dimostrazione di questo orientamento.

 

3.​​ Una pastorale giovanile dalla parte della vita

Fare pastorale giovanile è, come si è ricordato, fare opera di salvezza nell’ambito giovanile. Se la salvezza è il trionfo della Vita sulla Morte, s’intende allora come una vera pastorale giovanile non possa non mettersi, all’interno della reale e concreta dialettica Vita-Morte, dalla parte della Vita. Essa deve essere tutta intenta a fare che il desiderio radicale di vivere in pienezza che si annida nel cuore dei giovani, non solo non venga ostacolato o soffocato, ma trovi invece il suo giusto sbocco e la sua realizzazione. Sarà indispensabile, quindi, che aiuti i giovani a mettersi essi stessi dalla parte della Vita, a cominciare dalla loro propria vita.

Suo primo impegno sarà, quindi, quello di aiutarli a dire il loro sì alla propria vita, a vedere il lato positivo del loro desiderio di pienezza, a considerarlo come un grande dono e una vocazione. Nessun progetto di pastorale giovanile che si ispiri seriamente a Gesù Cristo può andare controcorrente a questo desiderio radicale. Detto in un altro modo: qualunque progetto pastorale che porti alla negazione di tale desiderio, va giudicato come radicalmente antievangelico.

Il sì alla propria vita ha però oggi un risvolto molto concreto tra i giovani italiani: l’accoglienza di un determinato senso della vita stessa. Il generico sì è in concreto condizionato dalla scoperta e dall’accoglienza di detto senso. Una Pastorale giovanile autenticamente evangelica dovrà proporre, per coerenza, a questi giovani, quale senso radicale della Vita quello stesso che Gesù visse e propose. Essa dovrà tener presenti i dati evangelici sopra ricordati, per aiutare i giovani a orientare alla loro luce la realizzazione del loro desiderio.

Il primo di questi dati richiede che venga fatta ai giovani una proposta di Vita non-narcisista. Stando al Vangelo di Gesù, infatti, fintanto i giovani saranno direttamente e prioritariamente alla ricerca della loro propria pienezza di Vita, individuale o di gruppo, non la raggiungeranno mai: «Chi cerca la propria vita, la perde» (Gv 12,24). Ciò non significa che essi devano essere invitati a rinunciare al loro desiderio di vivere — il Vangelo, va ribadito una volta ancora, non è un invito alla «mortificazione», ma alla «vivificazione» —; significa invece che devono essere invitati e aiutati a dire il loro sì a tale desiderio cercando efficacemente, nella misura delle loro possibilità e condizioni, la Vita-in-pienezza di tutti, e non solo di sé stessi.

Il secondo dato evangelico richiede che la Pastorale giovanile s’imposti «a partire dagli ultimi». Che si organizzi cioè all’insegna di coloro che della Vita sono più spogli e-o spogliati, a cominciare dai suoi livelli più elementari. E ciò non solo nell’ambito interpersonale o in quello assistenziale, ma anche nell’ambito sociale. L’opzione preferenziale per i poveri, fatta dalla Chiesa universale nel Sinodo dei Vescovi del 1985 e ribadita su scala addirittura planetaria da Giovanni Paolo II nell’Enciclica​​ Sollicitudo rei socialis​​ (n. 47), deve segnare necessariamente una Pastorale giovanile che voglia essere in linea con il Vangelo e con la Chiesa d’oggi. Le implicanze concrete di quest’opzione sono forse ancora in gran parte da scoprire. .

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VITA – MORTE

VITTORINO DA FELTRE

 

VITTORINO DA FELTRE

n. a Feltre nel 1373 / 78 - m. a Mantova nel 1446, umanista e educatore italiano.

1. Inizia gli studi in ritardo a causa della situazione disagiata della famiglia, dovendo lavorare per mantenersi. È scolaro di Giovanni da Conversino, con il quale impara grammatica, dialettica, retorica e poesia. A Padova segue lezioni di filosofia, scienze fisiche e astronomia. Tra i suoi maestri più noti: Vergerio, Barzizza,​​ ​​ Guarino Guarini. Verso il 1419, V. fonda un convitto (contubernium) nella sua casa di Padova per studenti poveri dotati di ingegno. Dopo un breve periodo come professore di retorica allo Studio di Padova, accetta nel 1423 l’invito del marchese Gonzaga di recarsi a Mantova come precettore dei figli. Nella villa «Ca’ zoiosa», ribattezzata «Ca’ giocosa», organizza una scuola-convitto che dirige fino alla morte.

2. Non ci sono pervenuti scritti di V. tranne alcune lettere e un piccolo trattato​​ De ortographia. Le testimonianze degli scolari mettono in risalto i tratti della sua personalità di educatore: equilibrato e ricco di umanità, di aspetto grave ma non severo, di ingegno attivo e penetrante, efficace nel parlare e abile nel fare, di spiccata vocazione per l’insegnamento, uomo profondamente religioso. Nel programma della «Ca’ giocosa», accanto agli autori classici, erano studiate le discipline del «quadrivium» (aritmetica, geometria, musica, astronomia) e si dedicava attenzione alla danza, al gioco, al nuoto, al contatto con la natura, alle pratiche religiose. L’obiettivo di V. era di formare «giovani che potessero servire Dio nella Chiesa e nello Stato», qualsiasi impegno fossero chiamati a svolgere. Nella sua scuola l’idea umanistica tendeva «alla perfetta fusione tra la tradizione classica e l’esperienza cristiana» (Bertin, 1961, 316). È ritenuto l’educatore più rappresentativo dell’​​ ​​ Umanesimo italiano.

Bibliografia

Gambaro​​ A.,​​ V. da F.,​​ Torino, Stab. Tip. Vogliotti, 1946;​​ Bertin G. M.,​​ La pedagogia umanistica europea nei secoli XV e XVI,​​ Milano, Marzorati, 1961; Prellezo J. M. - R. Lanfranchi,​​ Educazione e pedagogia nei solchi della storia, vol. 2, Torino, SEI, 2004, 22-28.

J. M. Prellezo

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VITTORINO DA FELTRE
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