VICO Giambattista

 

VICO Giambattista

n. a Napoli il 23 giugno 1668 - m. ivi il 23 gennaio 1744, filosofo italiano.

1.​​ Vita. V. ricevette dal padre, un modesto libraio, la prima educazione; proseguì, poi, gli studi presso i​​ ​​ Gesuiti, coltivando con particolare interesse la storia e la filosofia e leggendo con passione le opere di​​ ​​ Platone, Aristotele, Agostino, Cartesio, Grozio e Malebranche. Per alcuni anni fu precettore dei figli del marchese Rocca nel castello di Valtolla, dove poté utilizzare la ricca biblioteca. Nel 1699 vinse il concorso per la cattedra di eloquenza presso l’Università di Napoli e inutilmente, in seguito, aspirò alla cattedra di giurisprudenza, che sarebbe stata più consona ai suoi studi e che avrebbe migliorato la sua condizione economica. Condusse una vita oscura, fra le ristrettezze finanziarie e l’ambiente familiare poco adatto allo studio. Nel 1725 pubblicò l’opera fondamentale:​​ Principi d’una scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni, che continuò a rivedere fino alla morte.

2.​​ Il pensiero. «Con G. V. si entra veramente anche nel campo dell’educazione e della pedagogia in un ordine nuovo di idee per l’attenzione prestata al problema della storia, della storicità; una riflessione che non riguarda soltanto la filosofia della storia, ma che entra nel merito delle modalità, dei tempi, della dinamica dei processi formativi del bambino, della persona, dei gruppi sociali, della cultura, dell’umanità. Il confronto avviene in modo diretto, esplicito con il razionalismo, con l’illuminismo, con le scienze naturali e sperimentali, con l’insieme della rivoluzione scientifica da Bacone a Galilei a Cartesio […]. E se per i razionalisti, gli illuministi la ragione, la razionalità, l’intelligenza erano gli strumenti e i garanti del progresso, V. era molto più disincantato, individuava i limiti della ragione, della razionalità e insisteva sul ruolo civilizzante della fantasia, dell’immaginazione, della creatività, considerate da Cartesio le pazze di casa» (Fornaca, 1996, 120-121). Mentre​​ ​​ Cartesio aveva identificato il vero con il certo (verum est certum), l’intuizione fondamentale del V. in campo filosofico è espressa nella formula:​​ verum est factum, per cui riduceva enormemente l’orizzonte entro cui la ragione può avanzare pretese veritative. Sulla base di questo criterio V. opera la sua classificazione delle scienze, dividendole in​​ teologia, in cui la verità è rivelata e non fatta da noi, ma è cosa certa grazie alla rivelazione;​​ matematica, la quale realizza l’unità del vero e del fatto, perché si tratta di una costruzione della nostra mente; infine​​ fisica, in cui il vero si scinde nuovamente dal fatto, perché l’uomo non è creatore della natura. Un altro campo di ricerca in cui si può dare l’unità del vero col fatto è la storia, la quale, però, ha a che fare con fatti particolari e non universali e pertanto diviene problematica la dimostrazione della sua scientificità. Stabilire la scientificità della storia, secondo il principio​​ verum est factum, è quanto ha cercato di fare V. nella sua​​ Scienza nuova. Egli credette di conseguire questo obiettivo applicando alla storia la teoria platonica di un mondo ideale. Platone se ne era servito per elaborare una scienza della fisica, cioè del mondo materiale. V. la adopera per elaborare una scienza del mondo umano: il mondo delle vicende umane diviene pertanto l’attuazione di un piano ideale eterno. Gli elementi fondamentali della ricostruzione vichiana della storia sono: Dio con la sua provvidenza e l’uomo con la sua intraprendenza; l’unità storica, che è il «corso»; e la legge storica del «ricorso». Ogni corso storico è costituito da tre età o epoche: degli dei, degli eroi e degli uomini o, più semplicemente, dal percorso che conduce dall’infanzia, attraverso l’adolescenza, all’età adulta. Ogni epoca va interpretata secondo la mentalità che le è propria. La legge universale che regola la storia è quella della ritmica ripetizione delle tre epoche, una ripetizione, tuttavia, che non sopprime la libertà, non è ostacolo al progresso della civiltà, ma che è voluta da Dio, il quale accompagna costantemente con la sua provvidenza ogni vicenda umana.

3.​​ La pedagogia vichiana. V., precettore in casa Rocca, non dedicò alla riflessione pedagogica alcuno scritto particolare, ma la sua posizione filosofica appare fortemente caratterizzata in senso educativo, sia per i richiami antropologici che essa implica sia per il corso di studi e la riforma culturale che essa più o meno apertamente sostiene. Inoltre, abbastanza costanti sono i riferimenti a problemi pedagogici contenuti nelle varie opere del filosofo napoletano e in particolare nell’Autobiografia, nella dissertazione​​ Sul metodo degli studi del nostro tempo​​ e nella​​ Scienza nuova. Il pensiero di V. acquista un preciso significato pedagogico considerandolo almeno in questi aspetti: nella sua opposizione al razionalismo cartesiano; nella rivalutazione del senso e della fantasia; nella valorizzazione dell’azione, connessa al​​ verum ipsum factum; nella centralità della storia; nel valore dell’insegnamento umanistico-letterario. Tra le celebri «Orazioni inaugurali» del suo corso accademico si colloca l’orazione​​ De nostri temporis studiorum ratione​​ (Il metodo degli studi del nostro tempo, 1709). In questa dissertazione V. critica l’applicazione della metodologia cartesiana nel metodo degli studi. Il suo pensiero ha un preciso intento pedagogico: mettere in evidenza il limite di una educazione guidata unicamente dal rigore della astratta ragione. Contro la metodologia cartesiana, V., con intento psico-pedagogico, si preoccupa di riportare il metodo degli studi alla natura, cioè alle caratteristiche della fanciullezza e della giovinezza: il senso comune, la fantasia (la ragione nella vecchiaia), la memoria, per cui non bisogna infiacchire gli ingegni rivolti alla poesia, all’oratoria, alla pittura o alla giurisprudenza. Con la​​ Scienza nuova, di fronte alla riduzione cartesiana della realtà a pensiero o coscienza, al​​ cogito ergo sum, V. rivendica il mondo dell’uomo e della sua storia. L’implicazione pedagogica più importante delle tre età di cui parla V., è quella connessa con l’idea che lo sviluppo individuale ripeta lo sviluppo storico, per cui ogni fanciullo, crescendo, passa attraverso le tre età «ideali ed eterne», degli dei, degli eroi e degli uomini. Infatti, la prima fase di crescita dell’umanità, la fase del senso, corrisponde all’età della prima infanzia, quando il bambino è, appunto,​​ in-fante, cioè incapace di esprimersi con un linguaggio parlato: l’apprendimento, infatti, deve essere indirizzato verso la lingua. Il parallelismo emerge ancora di più nella seconda fase, dove la​​ fantasia, «tanto più robusta quanto più debole il raziocinio», accomuna il fanciullo all’uomo primitivo, che interpretava il mondo attraverso immagini poetiche. In questa età sono raccomandabili per V. letture di poeti e di oratori che soddisfano il bisogno di conoscenza «fantastica» e, per introdurre l’uso della ragione, anche la geometria, che sviluppa la «ragione intuitiva» e la capacità di «smaterializzare la mente». La terza fase di sviluppo dell’individuo coincide con «l’età degli uomini», nella quale la ragione prevale sulla fantasia senza però soffocarla, dando nuovi strumenti per capire la realtà e per regolare la propria condotta. Gli studi di questa età, quelli superiori, dovrebbero indirizzarsi alle «discipline di natura razionale», ossia alle diverse forme di filosofia che è la forma ideale per coordinare la molteplicità dello scibile e per conoscere se stessi. Gli studi filosofici per V. comprendevano anche la «Scienza Morale, formatrice dell’uomo» e la «Scienza Civile, formatrice del cittadino».

4.​​ Valutazione. Storicamente V. si colloca nel periodo della crisi dei fondamenti della nuova scienza fisico-matematica e della messa in discussione della validità dei processi conoscitivi, mostrando con vigore, attraverso tutta la sua opera, che non si esce dalle difficoltà se non con una nuova riflessione sull’uomo e sulle sue opere, così come viene proposta nella​​ Scienza nuova​​ e in ciò risiede anche la sua importanza dal punto di vista pedagogico. Di contro, poi, all’astrattismo razionale di Cartesio, è merito del V. l’aver ricordato che l’infanzia è caratterizzata dalla fantasia e dal fare e l’aver riproposto l’importanza della storia e della poesia nei percorsi didattici.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ Opere filosofiche, Firenze, La Nuova Italia, 1971;​​ Il metodo degli studi del nostro tempo, a cura di Biagio Loré, Scandicci (FI), La Nuova Italia 1993. b)​​ Studi: Flores​​ d’arcais G., «G.B.V.», in​​ Nuove questioni di pedagogia, vol. II, Brescia, La Scuola, 1977, 77-108; Jacobelli A. M.,​​ G.B.V.: per una «scienza della storia», Roma, Armando, 1985; Garin E.,​​ Dal Rinascimento all’Illuminismo.​​ Studi e ricerche, Firenze, Le Lettere, 1993, 73-106 e 197-217; Verene M. B.,​​ V.: a bibliography of works in English from 1884 to 1994, Bowling Green (Ohio), Ph.​​ Documentation Center, 1994; Scuderi G.,​​ Storicismo e pedagogia,​​ V.,​​ Cuoco,​​ Croce,​​ Gramsci, Roma, Armando, 1995; Fornaca R.,​​ Storia della pedagogia, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1996; Badaloni N.,​​ Introduzione a G.B.V., Bari, Laterza, 2005; Bordogna A.,​​ Gli idoli del foro. Retorica e mito nel pensiero di G.V., Roma, Aracne, 2007.

F. Casella

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VICO Giambattista

VIGLIETTI Mario

 

VIGLIETTI Mario

n. a Torino nel 1921 - m. ivi nel 2007. Salesiano, sacerdote, fondatore del COSPES - Centro di Orientamento Scolastico, Professionale e Sociale.​​ 

1.​​ Principi ispiratori.​​ Al 1948, a Torino risale – voluto da V. – il primo Congresso Nazionale di Orientamento Professionale, già inteso come modalità educativa permanente, cammino di​​ ​​ accompagnamento, inizio del processo di rinnovamento che avrebbe portato la scuola a preparare il giovane alla responsabilità delle sue future scelte. V. per curiosità nativa e per studio ebbe una cura particolare per la formazione tecnico-professionale: perciò mise a punto batterie di test appositi, di cui dava referti minuziosi e valorizzati dai colloqui di restituzione. L’​​ ​​ orientamento e la​​ ​​ valutazione dell’alunno o delle sue abilità attitudinali, erano per lui l’«interpretazione» del rendimento attraverso la conoscenza diretta del singolo e delle sue condizioni di vita e di motivazione all’impegno scolastico e di scelta (immediata o futura), per meglio promuoverne lo sviluppo e la maturazione umana, culturale e professionale. L’orientamento per V. è il nome dell’educazione aperta alla cultura dell’innovazione e del cambiamento, alla qualità della formazione, alla significatività dell’apprendimento e pertanto dell’offerta formativa. Sua meta è il processo teso alla fase psico-dinamica centrata sulla persona nell’ottica evolutiva del cambiamento, titolare di quello che «si sente e vuole fare» (tendenze, bisogni, inclinazioni, interessi, valori e motivazioni) e sensibile ai cambiamenti del mondo del lavoro.​​ 

2.​​ A.D.V.P.​​ Ideato nel 1970 da D. Pelletier, G. Noiseux e C. Bujold, dell’Università LAVAL, di Québec (Canada), il metodo della​​ Activation et Développement Vocationel Professionnel​​ interessò subito V. che lo vide parte integrante della formazione in ogni curricolo scolastico. Domina la concezione dell’orientamento centrato sull’acquisizione delle competenze del soggetto ad orientarsi, man mano che impara a conoscersi, ad identificare i propri bisogni fondamentali e a definire scopi e valori che mobilitano tutto il suo essere. Il metodo si ispira alla​​ teoria dello sviluppo evolutivo della scelta professionale​​ di D. E. Super – secondo cui il soggetto organizza il suo​​ progetto personale​​ di vita e di lavoro in relazione all’immagine che va maturando di se stesso nei vari stadi del suo sviluppo –, e tende a far sperimentare all’allievo e a fargli vivere,​​ operativamente,​​ le esigenze di acquisire le​​ abilità,​​ gli​​ atteggiamenti​​ e gli​​ strumenti​​ necessari a valorizzare e a percorrere vantaggiosamente, ciascuna tappa (o stadi) del processo evolutivo di scelta in cui è personalmente coinvolto.

3.​​ COSPES.​​ Nato da un’intuizione di V., risorsa di cui assicurare la continuità e l’efficacia secondo i diversi contesti locali e le richieste formative in continua evoluzione, è un’Associazione Nazionale con sede a Roma. Formato da docenti universitari, psicologi, psicoterapeuti, psicopedagogisti, operatori di orientamento, il COSPES promuove studi e ricerche nell’ambito dell’orientamento e dell’età evolutiva. Esso svolge attività di orientamento e di consulenza in ambito educativo e socioculturale, a servizio di gruppi giovanili, insegnanti, educatori, famiglie, animatori, istituzioni.

Bibliografia

a)​​ Fonti: principali opere di V.:​​ Psicologia e psicotecnica, Roma, Paoline, 1969;​​ Inventario d’interessi professionali MV 70 forma verbale e forma non verbale,​​ Firenze, O. S., 1985;​​ Orientamento: una modalità educativa permanente, Torino, SEI,1989;​​ Educazione alla scelta. Una guida operativo-pratica, Ibid., 1995. b)​​ Studi:​​ Super​​ d. e.,​​ Théorie du développement professionnel: individus, situations et processus,​​ in «Binop» (1969) n. 4, 221-240; Pelletier​​ d. & C. Bujold,​​ Pour une approche éducative en orientation. La collection Education des Choix: Guide de l’animateur, Issy-les-Moulineaux, E.A.P., 1988.​​ 

P. Grillo

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VIGLIETTI Mario

VIGNA mons. Luigi

 

VIGNA mons. Luigi

1.​​ Nacque il 21-9-1876 a Casalbuttano (Cremona) da Giovanni e da Maria Ferrami. Entrò nel seminario di Cremona tredicenne, nel 1889, per compiervi gli studi ginnasiali e filosofici. Passò quindi, dal 1895 al 1899, all’Università Catt. di Friburgo (Svizzera) per gli studi teologici, laureandosi anche in Lettere e Filosofia 1’11-3-1899 con un interessante studio su sant’Anselmo. A questo periodo risale l’amicizia con il pedagogista M. E. Dévaud. Ordinato sacerdote a 23 anni, sempre nel 1899, da mons. Geremia Bonomelli, rimase a Cremona per il 1899-1900 come segretario del vescovo e professore nel liceo del seminario. Dal 1900 al 1903 fece una interessante esperienza a Sorengo (Canton Ticino) come missionario degli operai emigrati italiani. Questa esperienza influirà molto sul suo apostolato futuro di “elevazione degli umili” e di educazione religiosa della gioventù. Fu però nei diciassette anni spesi come vice-parroco (1903) e parroco (dal 1905) a Trigolo (Cremona) che si svilupparono le sue migliori intuizioni, con la creazione di scuole serali, di un oratorio femminile e uno maschile (con attiva squadra ginnica), con la scuola di catechismo e la preparazione dei catechisti parrocchiali. Per loro scrisse il volume:​​ Un parroco di campagna ai suoi Catechisti. Lezioni popolari di pedagogia​​ (Torino, Libreria del S. Cuore, 1913, pp. XII-216, già apparso a puntate dal 1911 al 1913 sulla rivista “Il Catechista Cattolico”. Il libro ebbe 5 edizioni: 1913, 1915, 1919, 1924, 1937).

2.​​ Dal 1912-1913 collaborò con mons. Lorenzo → Pavanelli di Brescia alla redazione dei testi didattici:​​ Fede mia, vita mia​​ (scrivendo i volumetti e le Guide dal 4° al 6°) e al lancio delle “settimane cat.” e del metodo del “catechismo in forma di vera scuola”. Fu la sua vicinanza ai problemi della gente umile che lo portò a cooperare validamente, secondo gli insegnamenti della​​ Rerum novarum,​​ all’applicazione della giustizia sociale, diventando un sostenitore delle “Leghe Bianche” e di Luigi Miglioli. Egli fu infatti migliolista e murriano, pur rimanendo, nella sua azione, sul terreno strettamente pastorale. Contemporaneamente era professore di pastorale e catechetica al seminario di Cremona (e poi anche di francese, eloquenza e Azione Cattolica). Frutto delle sue lezioni fu il volume:​​ L’intuizione nell’istruzione religiosa. Metodo e sussidi intuitivi​​ (Torino, LICET, 1924, pp. XVI-316, anche questo apparso prima a puntate dal 1917 in poi su “Il Catechista Cattolico”). Dal 1920 è canonico della Cattedrale di Cremona e condirettore (con p. Agostino Gemelli e mons. F. Olgiati) della

“Rivista del Clero Italiano”. Dal 1928 è arcidiacono della Cattedrale di Cremona, dal 1929 prevosto della Chiesa di S. Agata in Cremona e dal 1932 vicario generale della diocesi. Morì a Cremona il 28-2-1940.

3.​​ Fu uno dei primi catecheti italiani dotato di specifica competenza pedagogica, come dimostrano gli studi fatti a Friburgo e l’assiduo aggiornamento comprovato dai duemila volumi pedagogico-cat. della sua biblioteca. Sviluppò con L. Pavanelli la teoria e la pratica dei testi didattici di catechismo e della loro funzione rispetto al testo di catechismo ufficiale. Introdusse in Italia, con conferenze e articoli, la conoscenza del movimento cat. di altri paesi d’Europa. Fu un pioniere della formazione dei → catechisti laici di cui curò assiduamente la formazione contenutistica e metodologico-didattica, aggiornandola continuamente secondo i progressi della pedagogia profana contemporanea: programmazione didattica, lezioni occasionali, metodi e sussidi intuitivi, metodi della scuola attiva. Scrisse numerosissimi articoli su riviste cat. e pastorali, come pure numerosi opuscoli sociali, pedagogici e cat., e anche testi di C. per l’→ Azione Cattolica.

Bibliografia

Oltre ai volumi già accennati, ricordiamo:​​ S.​​ Anselmo filosofo,​​ Milano, Cogliati, 1893;​​ Le scuole serali,​​ Brescia, La Scuola, 1909;​​ Il nuovo catechismo pubblicato per ordine di S.S. Pio X,​​ Monza, 1913;​​ Gradazione e intuizione nell’insegnamento elementare del catechismo,​​ Monza, 1914;​​ La vera scuola di catechismo,​​ Monza, 1916;​​ L’insegnamento della Religione nelle Scuole di Metodo e negli Asili infantili,​​ Brescia, La Scuola, 1926;​​ Don Ferrante Aporti, sacerdote e professore,​​ Cremona, 1928;​​ Ai maestri. Linee e indirizzi pratici di didattica catechistica per le scuole elementari,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1930;​​ Mons. Geremia Boncinelli,​​ Milano, Pro Familia, 1931;​​ Sussidi intuitivi per la spiegazione del catechismo agli adulti,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1937.

Ubaldo Gianetto

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VIGNA mons. Luigi

VINCENZO DE’ PAOLI

S. VINCENZO DE’ PAOLI

(1581-1660)

 

Luigi Mezzadri

 

1. Cenni biografici

2. Verso la conversione

3. Le fondazioni

4. La pastorale giovanile

5. Conclusione

 

1. Cenni biografici

Vincenzo de’ Paoli (o Depaul, o de Paul, 1581-1660) nacque a Pouy vicino a Dax, nelle Lande (sud-ovest della Francia) nell’aprile del 1581. Era il terzo di 6 figli di Jean Depaul e Bertrande de Moras (o Demoras). Studiò presso i francescani di Dax a cominciare dal 1594 o 1595, all’età di 15 anni; vi rimase fino alla sua partenza per Tolosa nel 1597, ove proseguì gli studi fino all’ordinazione sacerdotale (settembre 1600; dunque aveva 19 anni) e forse anche dopo.

Vincenzo è stato un uomo normale, un prete che si è incamminato nel presbiterato con motivazioni umane, per fare carriera. Non è provato fosse un prete cattivo. Era un prete che aveva cessato di puntare alla santità, o, più probabilmente, che mai vi aveva aspirato. Lo si ricava dalia lettera alla madre in cui confessa di desiderare due cose: sistemare sé e la famiglia: «... Mi affligge il dover rimanere ancora in questa città per riaver l’occasione di un mio avanzamento (che i disastri mi hanno tolto) perché non posso venir da voi ad usarvi quei servigi che vi devo. Ma spero tanto nella grazia di Dio, ch’egli benedirà la mia fatica e mi darà presto il modo di ritirarmi onoratamente e passare il resto dei miei giorni con voi».

Aveva bisogno di «convertirsi»: Vincenzo ha dovuto riscoprire il senso del suo essere sacerdote, non come occasione di promozione umana, di realizzazione personale, ma come incontro con il Cristo sacerdote, realizzando una vita sacerdotale credibile.

Questo avvenne attorno al 1610-1611. Vincenzo non ne ha mai parlato. Ma sono eloquenti i fatti. Abbandonò l’ambiente ambiguo e non molto dignitoso della vecchia madama reale, Margherita di Valois, la prima moglie di Enrico IV, la protagonista della famosa «notte di sangue», in quanto proprio in occasione delle sue nozze ci fu il massacro della notte di san Bartolomeo (24 agosto 1572).

Giunto a Parigi nel 1608, Vincenzo aveva trovato posto fra i suoi servi con l’incarico di elemosiniere. Il suo compito era di dare una moneta o un pezzo di pane alle centinaia di poveri che bussavano al palazzo dell’ex-regina. Faceva elemosine, non la carità. Riempiva le mani, non i cuori. Era stata una sistemazione, non una trasformazione, che invece avvenne dopo.

In quel tempo Vincenzo aveva come suo consigliere Pierre de Bérulle. Questi aveva appena riunito un gruppo di preti, tutte persone di spicco, dottori della Sorbona che s’impegnavano a vivere le ricchezze del sacerdozio. Intendevano formare come una comunità religiosa, ma senza essere religiosi. Il loro ideale era la comunità apostolica del Cristo con i suoi apostoli. Erano dell’Ordine di Gesù, il suo «Oratorio». A indurli ad aspirare alla santità non erano i voti religiosi, ma il loro essere preti. A santificare non è un atto umano, come i voti, ma un sacramento: l’ordine sacro.

 

2.​​ Verso la conversione

Vincenzo non fece il passo che forse qualcuno desiderava. In compenso visse alcune decisive esperienze interiori che lo purificarono e che costituirono la sua notte, per usare un linguaggio mistico. Come l’accusa di furto, la tentazione contro la fede, che gli fecero sperimentare la condizione dei poveri, indifesi e abbandonati, la condizione del Cristo sulla croce nel suo essere abbandonato dal Padre.

La grande teologia, di fronte alle prove di fede, è incapace di venire incontro al grido del misero tentato. La tentazione durò fra i 3 e i 4 anni. Allora Vincenzo fece la risoluzione di visitare i malati dell’ospedale della Charité, e tutto si dissolse. I poveri avevano vinto e lo avevano liberato.

Invece di entrare nell’Oratorio, volle essere parroco. Gli affidarono nel 1612 la parrocchia dei SS. Salvatore e Medardo di Clichy, di 600 anime, vicino a Parigi. Si gettò nella nuova esperienza con entusiasmo. La gente non era abituata a preti simili. Lo ricambiò. Nella sua esperienza pastorale insistette su tre punti: il canto «liturgico» (cioè il gregoriano e non quello popolare, come invece fece Grignion de Montfort); la catechesi; la scuola clericale, composta da 12 giovani, fra i quali uno di circa vent’anni, Antoine Portail, che sarà il suo primo compagno.

Dopo un anno, dietro consiglio di Bérulle, Vincenzo accettò di diventare cappellano di una famiglia dell’aristocrazia: i Gondi, una di quelle famiglie che contavano.

La carica per Vincenzo non era molto gratificante, ma importante. Si trattava di consigliare una delle prime famiglie del regno. Tutto ciò rispondeva a uno degli orientamenti della Controriforma che voleva penetrare negli ambienti di coloro che avevano le leve del potere.

Più che sui figli, l’insegnamento di Vincenzo incise sui genitori. Filippo Emanuele, il generale delle galere, rinunciò a un duello; la madre, Francesca Margherita de Silly, una donna molto fine, sensibile, religiosa, venne guidata con mano ferma e rispettosa dal santo.

Fu durante la permanenza in casa Gondi che si ebbe la svolta fondamentale della vita del santo.

Nel gennaio 1617 Vincenzo e i Gondi erano in Piccardia, vicino ad Amiens, nel feudo di Folleville. Un tale, ritenuto una persona per bene, in punto di morte, chiese di confessarsi. Aprì il suo cuore nella confessione generale che gli era stata consigliata da Vincenzo. Fu una rivelazione della miseria spirituale dei poveri. Le anime si perdevano perché i sacerdoti, alla ricerca di una onesta sistemazione, non li curavano.

Vincenzo capì che non erano i preti che mancavano, ma la carità pastorale. Preferivano badare a sé stessi, curare la propria sistemazione. Entrare nel clero non significava intraprendere fatiche e disagi, ma entrare nel «primo ordine del regno».

Il 25 gennaio 1617 fece una predica nella chiesa di Folleville, in cui esortò alla confessione generale. Questo discorso fu sempre considerato da lui come il primo discorso della missione.

 

3.​​ Le fondazioni

Si allontanò da palazzo Gondi per cercare di realizzare le sue aspirazioni nel ministero tradizionale di un buon parroco a Chàtillon-les-Dombes, vicino a Lione. Era il 20 agosto. Parlò alla sua gente della situazione di una famiglia in cui tutti erano malati e non avevano nulla con cui sostenersi. Fece una predica molto convincente. La popolazione s’impegnò coralmente. Vincenzo capì che non bastava l’emozione di un momento. Non organizzare è come abbandonare. Venuto a contatto con l’altra faccia della miseria, la povertà materiale, ebbe la percezione che non bastasse più la solidarietà contadina, che non era venuta mai meno, e nemmeno il ricorso all’elemosina. Pensò che fosse dovere della Chiesa l’assunzione di un impegno di lotta contro la miseria, organizzando gruppi di laici impegnati ad assistere i poveri malati. Nascevano le «Compagnie della Carità». Erano gruppi a base parrocchiale (dunque un nuovo modo d’intendere la Chiesa come luogo di carità); a base laicale (dunque un nuovo modo d’intendere il laicato: nel battesimo c’è la vocazione al servizio); a base volontaria (dunque un nuovo modo d’intendere i rapporti fra le iniziative pubbliche e quelle private: queste devono precedere, esplorare gli ambiti inediti, e colmare i bisogni radicali dell’uomo: bisogno di compagnia, di condivisione).

Dall’esperienza di Folleville ricavò l’idea di fondare un gruppo di lavoro per predicare le missioni; da quella di Chàtillon la necessità di fondare gruppi di servizio per i poveri. Nacquero così le Carità (1617) e, qualche anno dopo dallo sviluppo delle missioni, nacque la Congregazione della Missione (1625). Essa assunse un duplice compito: evangelizzare le campagne e formare i preti con i ritiri, i seminari e gli incontri formativi. Dalle Carità (1633) si svilupparono le Figlie della Carità, suore di vita attiva, senza clausura, con voti annuali privati, esenti dagli ordinari ma anche con una regola che rimase a lungo senza alcuna approvazione da parte della

S. Sede. Il nodo principale da sciogliere era quello della clausura. San Francesco di Sales, pur con un progetto diverso da quello vincenziano, in quanto la Visitazione era per lui essenzialmente una comunità contemplativa, con un quadro di vita meno rigoroso e duro di quello tradizionale, aveva dovuto piegarsi alle esigenze canonistiche del dopo-Trento. Vincenzo voleva che le «ragazze di campagna» da lui raccolte con l’aiuto di Luisa de Marillac fossero in grado di praticare il servizio dei poveri «signori e padroni». Il servizio era al primo posto, tanto che si ipotizzava la possibilità di anteporre il soccorso ai poveri alle stesse pratiche di pietà, in quanto era un «lasciare Dio per Iddio».

« Per quel che riguarda al temporale, nel servizio dei poveri infermi e nel governo dell’ospedale, le suore saranno in tutto soggette all’autorità e dipendenza dei signori amministratori, i quali perciò ordineranno quello che loro piacerà, ed esse obbediranno loro interamente, in modo che saran tenute d’interrompere l’ordine dei loro spirituali esercizi, e di anticiparli o differirli, quando la necessità o il servizio dei poveri lo richiederanno, ed anche di ometterli, se non li possono riprendere». I poveri dovevano essere serviti direttamente dalle suore. La suora incaricata di ricevere i malati doveva considerarsi loro serva ed essi suoi «signori e padroni; ed in questo spirito laverà loro le gambe con acqua calda, li monderà degli insetti e taglierà loro anche i capelli se è necessario, lei cambierà di camicia e darà loro dei berrettini o delle cuffie bianche, poi li metterà a letto avendo prima riscaldato le lenzuola che deve dar loro e farà dar loro un brodo e un bicchiere per bere».

Agli inizi erano previste comunità molto piccole, per una presenza articolata sul territorio. Così in ogni villaggio oltre alla superiora si prevedeva la presenza di una suora per la scuola del villaggio, ma solo per insegnare alle ragazze povere e non ai maschi, e un’altra per i malati a domicilio o nell’ospedale locale. Il primo ospedale consistente fu quello di Angers; ma sia il fondatore che il suo immediato successore furono cauti nell’impegnarsi nei grandi ospedali, che proprio nella seconda metà del ’600 assumevano un ruolo sempre più accurato. Le esigenze dei grandi ospedali assorbirono molto personale, per cui l’assistenza a domicilio venne sempre più sacrificata alla presenza nelle corsie. La suora comunque ebbe un ruolo essenziale negli ospedali nei secoli XVII e XVIII. Con questi strumenti, e utilizzando le aderenze a corte e presso l’aristocrazia, iniziò un’azione vastissima. S’impegnò nell’assistenza dei galeotti, negli ospedali, nell’assistenza dei trovatelli. Invitato dalle sue dame a prendere la direzione dell’Ospedale generale, si defilò preferendo piuttosto impegnarsi in una istituzione ospedaliera, l’Ospizio del Nome di Gesù, che raccoglieva 20 uomini e 20 donne che venivano volontariamente.

Un problema particolare fu rappresentato dalla guerra e dalle rivolte. Soprattutto con l’ingresso della Francia nella guerra dei Trent’anni e con la Fronda, le condizioni di sopravvivenza dei poveri si fecero disperate: la popolazione fu decimata dalla carestia e dalle epidemie, sempre connesse con il fenomeno della fame e della guerra; interi villaggi furono dati alle fiamme o al saccheggio indiscriminato, ci furono casi di antropofagia e necrofagia. Il governo, dissanguato dallo sforzo di finanziare la guerra, non riuscì ad assicurare nessun aiuto alle provincie devastate (Lorena, Piccardia, Champagne, Ile-de-France). Vincenzo cercò di indurre prima Richelieu e poi Mazzarino alla pace; organizzò una rete d’aiuti: fece aprire una fitta trama di ospedali al nord e una serie di centri di aiuto immediato.

 

4.​​ La pastorale giovanile

Per quanto concerne la pastorale giovanile, dobbiamo esplicitare il discorso del santo. Non parla ai giovani propriamente. In un’epoca di cristianità, il suo appello è per tutti.

I giovani nel seicento non avevano un ruolo particolare. E pertanto non esisteva una pastorale adatta ad essi. Come del resto non esisteva una pastorale per l’infanzia. 1 piccoli erano degli adulti in miniatura.

Eppure nel suo insegnamento c’è un enorme potenziale per la pastorale giovanile. Anzitutto è da rilevare che la sua spiritualità non è teorica, ma nasce dall’esperienza, dalla duplice esperienza di Cristo e dei poveri. Le sue fonti ispiratrici sono pertanto il vangelo e la vita. Il Cristo che ama e che nutre la sua preghiera non è il Gesù Bambino, così vivo nella spiritualità berulliana, e nemmeno il Crocifisso, ma il Cristo evangelizzatore dei poveri. Il testo programmatico della sua vita è Luca 4,18-19: « Lo Spirito del Signore è sopra di me; / per questo mi ha consacrato con l’unzione, / e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, / per proclamare ai prigionieri la liberazione / e ai ciechi la vista; / per rimettere in libertà gli oppressi / e predicare un anno di grazia del Signore».

II tratto saliente della sua spiritualità è nella percezione dell’inscindibile unità fra evangelizzazione e carità. La sua attività e il suo pensiero non avranno altro scopo che «evangelizzare in parole e in opere». La coerenza interna del suo pensiero e della sua azione deriva proprio dall’unione di carità e vangelo. Dato che il povero popolo era sferzato da fame e ignoranza, ecco le missioni. Era convinto che fosse necessario trasmettere ai contadini ciò che è necessario alla salvezza. Organizzò la missione attorno al «piccolo metodo» per assicurare una predicazione adatta alle possibilità degli ascoltatori, grazie al catechismo: «Tutti sono d’accordo nel ritenere che il frutto della missione dipende dal catechismo» (SK 1,429). L’insegnamento semplice, la pedagogia catechistica, che rende differenti le missioni dei lazzaristi da quelle predicate da altre comunità, come i gesuiti, i cappuccini o in voga in altre nazioni, era finalizzata a realizzare la sua missione di evangelizzatore dei poveri, come il Cristo nella sinagoga di Nazaret.

E a partire da questa esigenza di evangelizzazione che il santo ordinò un organico progetto di servizio. Dato che i poveri avevano bisogno di essere aiutati da un clero efficiente e presente nelle campagne, pensò ai seminari. Creò le «Charités», gruppi di laici per il servizio. Da esse derivarono le Figlie della Carità.

Riflettendo su questo dato si vede come primordiale fu per il santo il bisogno di creare istituzioni stabili per la diakonia, tipiche del mondo cattolico della Controriforma, in cui si ebbe questo fenomeno: ogni appello generò una risposta operativa, che nel tempo si cristallizzò e divenne comunità religiosa.

È poi partendo da queste istituzioni che san Vincenzo de’ Paoli realizzò una complessa serie di interventi in favore della povertà.

La sua pastorale per i malati fu di coinvolgimento. Per i malati negli ospedali indusse in un primo tempo la Dame di Carità a visitarli e a prendersi cura di loro. Per ovviare alla frammentarietà dell’impegno delle dame, fondò le Figlie della Carità, che dovevano essere essenzialmente inserite nel mondo, vestire come la gente umile, ed essere uno strumento duttile per il servizio. Non si limitò agli ospedali, ma volle occuparsi dei malati che rimanevano in casa. La loro assistenza è stata giudicata «il fulcro del metodo vincenziano di servire i poveri».

Per quanto concerne gli anziani poveri, è da rilevare il rifiuto di entrare nella logica della grande reclusione. I missionari di Saint-Lazare erano stati nominati cappellani per attendere alla salvezza dei poveri (art. 23), con la carica di superiori, ma sotto l’autorità della direzione dell’ospedale (art. 25). San Vincenzo non volle accettare la nomina, peraltro richiesta dalle dame. Con la fondazione dell’ospedale del Nome di Gesù aveva dato una risposta eloquente, creando un’istituzione che non aveva nulla della prigione.

Un altro degli obiettivi della sua azione fu l’assistenza dei galeotti, cioè delle persone condannate al remo (non esistevano prigioni come luogo di detenzione). Il regolamento dato da san Vincenzo metteva a fuoco bene i due ambiti del servizio verso di loro: assistenza spirituale (celebrazioni, preghiera, catechesi, cura dei convertiti) e corporale dei malati. Oltre a preoccuparsi dei malati, i cappellani dovevano vigilare se essi venivano visitati dai medici e «se si dà loro da bere, della carne e del pane».

Con il 1640 le Figlie della Carità vennero impegnate a Parigi ove si formava la «catena» per Marsiglia. In un’epoca di evidente subordinazione della donna, non ebbe difficoltà a immettere delle ragazze nelle prigioni. Esse scrissero pagine memorabili.

Per le province devastate il santo organizzò una triplice campagna: di informazione, di mobilitazione e di organizzazione. Ancora una volta trovò molte forze disponibili sia a Parigi, con elemosine e aiuti, sia in provincia. Organizzò poi una fitta rete di ospedali, di carità e mandò missionari e suore.

In sostanza la sua pastorale rispecchia la triplice missione di Cristo: la missione creatrice, salvatrice, glorificatrice. Valorizzò il lavoro, l’impegno umano; incitò a un impegno che fosse di liberazione e di sevizio per i più poveri, orientato però all’esercizio della volontà di Dio.

 

5.​​ Conclusione

Che cosa è rimasto di tutto il suo insegnamento oggi? La sua missione è continuata oggi da oltre 4.000 sacerdoti e 35.000 Figlie della Carità. Ad esse però dovrebbero essere aggiunte le numerosissime comunità che sono nate da antiche Figlie della Carità (come le Suore della Carità di santa Giovanna Antida Thouret) o che si sono ispirate alle regole di san Vincenzo (canossiane, suore di Maria Bambina, del Cottolengo...). Tali norme hanno plasmato più o meno quasi tutte le comunità femminili di servizio.

Il movimento laicale vincenziano è imponente. In primo luogo ci sono le antiche Dame, che hanno trasformato il nome e la tipologia del servizio assumendo la qualifica di Volontariato Vincenziano. Oggi sono diffuse in 47 paesi e sono circa mezzo milione. Uno dei discepoli più geniali del santo è stato Federico Ozanam, fondatore nel 1833 delle Conferenze di san Vincenzo. Con un gruppo di giovani amici universitari aveva organizzato delle «conferenze di storia». Per rispondere all’obiezione di alcuni sansimoniani che rimproveravano ai cristiani lo scarso impegno sociale, volle impegnarsi con i suoi amici nei quartieri più poveri di Parigi. Dalla memoria storica, nacque un impegno per il presente, che dura tutt’oggi. I suoi continuatori oggi sono diffusi in 109 paesi e sono oltre 650.000.

 

Bibliografia

Le biografie più recenti: Dodin A.,​​ Saint Vincent de Paul et la charité, Paris 1960; Riquet M.,​​ Saint Vincent de Paul ou le réalisme de la charité, Paris 1960; Mezzadri L.,​​ Fra giansenisti e antigiansenisti. Vincent Depaul e la Congregazione della Missione (1624-1737), Firenze 1977; Ibanez I.-M.,​​ Vicente de Patti y lospobres de su riempo,​​ Salamanca 1977; Six J.-F. - H. Nms Lose, Vincenzo de’Paoli, Roma 1981; Mezzadri L. - L. Nuovo,​​ S. Vincenzo de’ Paoli. Pagine scelte, Roma 1981; Roman J. M.,​​ S. Vincenzo de’ Paoli, Biografia, Milano 1986; Orcajo A. - M. PÉrez Flores,​​ San Vincente de Paul. II: Espiritualidad y selección de escritos, Madrid 1981; Ibanez I.-M.,​​ Realismo y encarnacción,​​ Salamanca 1982;​​ Colloque sur Saint Vincent de Paul pour le quadricentenaire de sa naissance​​ [Bulletin de la société de Borda], Dax 1982;​​ Vincent Depaul. Actes du colloque international d’études vincentiennes. Paris 25-26 septembre 1981, Roma 1983; SIEV,​​ Mensis vincentianus, in Vincentiana 28 (1984) 257-840; Conzemius V.,​​ Al servizio dei poveri. Vincenzo de’ Paoli e Federico Ozanam, Brescia 1985; Mezzadri L.,​​ San Vincenzo de Paul. Una carità senza frontiere, Milano 1986; SIEV,​​ Colloquium vincentianum, in Vincentiana 30 (1986) 234408; Toscani G.,​​ La mistica dei poveri, Pinerolo 1986; Id.,​​ Amore contemplazione teologia, Gesù Cristo visto da s. Vincenzo, Pinerolo 1987; SIEV,​​ Mois vincentien, in Vincentiana 31 (1987) 349-899.

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VINCENZO DE’ PAOLI

VIOLENZA

 

VIOLENZA

La v. è in genere descritta come un tratto costitutivo della natura umana; dal punto di vista sociologico essa è fatta derivare dai conflitti; dal punto di vista psicologico è descritta come espressione della​​ ​​ aggressività.

1. È dunque considerata come momento reattivo degli individui di fronte a minacce esterne o​​ ​​ frustrazioni interne, tanto da impegnare l’interpretazione della aggressività interpersonale e della v. sociale (le guerre) come eventi riequilibratori dei conflitti. Ambedue le letture sono deboli sul piano teorico. L’aggressività concepita come tendenza, presente nel comportamento e nella fantasia, finalizzata alla etero ed auto-distruzione (per affermazione del sé) nel percorso frustrazione-aggressività-v. è messa in discussione da​​ ​​ Lewin, R. Lippit e R. K. White (1939) che demistificano la positività dell’effetto catartico conseguente allo scarico della tensione. Le ricerche etologiche mostrano poi che l’aggressività, per come è usualmente intesa dall’uomo, nel mondo animale non esiste. Lorenz (1976) libera la tendenza all’azione antagonista dai contenuti di aggressività distruttiva (per come sono psicologicamente vissuti dall’uomo) vedendoli come finalizzati alla conservazione della vita e del territorio.

2. Il​​ ​​ conflitto sociale è analizzato come il fulcro attorno a cui gravitano gli eserciti, la v. istituzionale ed i processi di guerra come strumento di difesa. Non risolto esso genera v. espressa con distruttività in ragione della potenza delle macchine belliche. Il criterio che alimenta l’espansione degli eserciti e delle guerre è paradossalmente quello della pace: la guerra infatti viene celebrata come strumento per la realizzazione della pace giusta, negando l’evidenza delle divisioni sociali e delle tensioni internazionali che sono sempre conseguenza dei conflitti. Quasi mai un conflitto genera pace con soddisfazione: la pace che si instaura, secondo R. Aron (1970), è in genere o pace fondata sul terrore e sull’impotenza o pace fondata sulla potenza (pace d’equilibrio, pace egemonica, pace imperiale).

3. Nella discussione sulla v. acquista un significato di rilievo l’analisi della v. esercitata dalle bande giovanili. Negli stili di vita violenti si riscontra il fallimento di un processo di educazione come liberazione dalla v. per la realizzazione di personalità capaci di​​ ​​ autorealizzazione soggettiva mediante disciplina, dialogo e confronto. Ciò che accade nelle bande giovanili ricorda che il compito dell’educatore è quello di insegnare a non far crescere l’aggressività, che continua erroneamente ad essere considerata forza positiva da scaricare, quasi l’essere umano fosse paragonabile ad un accumulatore privo di coscienza di sé e di capacità di modificare ed equilibrare i propri sentimenti.

Bibliografia

Lewin K. - R. Lippit - R. K. White,​​ Patterns of aggressive behavior in experimentally created «Social Climates», in «Journal of Social Psychology» 1939, 10, 271-299; Aron R.,​​ Pace e guerra tra le nazioni, Milano, Comunità, 1970; Lorenz K.,​​ L’aggressività, Milano, Il Saggiatore, 1976; Ferrarotti F.,​​ Alle radici della v., Milano, Rizzoli, 1979; Severino E.,​​ Techne. Le radici della v.,​​ Ibid., 1979; Caprara G. V. - P. Renzi,​​ L’aggressività umana,​​ Roma, Bulzoni, 1985; Salvini A.,​​ V. negli stadi, Firenze, Giunti-Barbera, 1986; Rebughini P.,​​ La v., Roma, Carocci, 2000; D’Ors A,​​ La v. e l’ordine, Lungro di Cosenza, Marco Editore, 2003; Boyle K.,​​ Media and violence: gendering the debates, Thousand Oaks, Sage, 2005; Flores M.,​​ Tutta la v. di un secolo, Milano, Feltrinelli, 2005.

V. Masini - G. Vettorato

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VIOLENZA

VIRTÙ

 

VIRTÙ

La v. è una disposizione od orientamento stabile del carattere che rende facilmente accessibile e in certo modo connaturale una qualche particolare forma di comportamento morale positivo (​​ etica).

1. Il concetto di v. è stato elaborato dalla filosofia greca e da questa è poi passato nella riflessione morale cristiana, dove ha svolto a lungo una funzione di quadro ermeneutico del fatto morale e di principio ordinativo della sua esposizione. Il pensiero morale di s.​​ ​​ Tommaso è tutto fondato sul ruolo centrale di questo concetto: la vita morale vi è concepita e descritta come un complesso ma articolato ed unitario «organismo» di v.

2. Nell’epoca moderna, la teologia e la filosofia morale hanno abbandonato questo paradigma, sostituendolo con un’impostazione di carattere prevalentemente normativo, fondata sull’idea di una libertà senza storia e senza radici, alle prese con una decisione puntuale e tra un bene e un male astratti e atemporali. Recentemente un manipolo di studiosi (facenti capo ad A. McIntyre) sta cercando di restituire nuova vita all’impostazione aretologica classica. Non mancano inoltre autori (S. Hauerwas, E. Simpson) che tentano di trasporre in campo pedagogico questo revival. Essi imperniano le loro teorie sull’importanza e l’educabilità del carattere e delle v. che lo costituiscono e sul ruolo di una «comunità del carattere» nella sua formazione.

3. L’impostazione aretologica della morale permette di superare la concezione statica e atomistica del pensiero morale «moderno» e ci aiuta a capire il carattere evolutivo ed organico dell’esperienza morale. Il concetto di v. esprime bene l’idea di una crescita progressiva, attraverso la quale, facendo il bene, il soggetto plasma la sua personalità morale, rendendo sempre più stabile e connaturato il suo orientamento al bene. Essa coinvolge tutti gli spessori del vissuto umano e presuppone un’educazione globale. La pluralità dei tratti e delle disposizioni che costituiscono una personalità morale si integra in un tutto vivente. Il paradigma delle v. richiama infine il carattere originale ed unico della fisionomia morale di ogni persona. L’educazione può trovare nell’organismo delle v. non soltanto un modello, universale ma remoto, di riferimento ideale, ma anche la consapevolezza che l’educazione agisce sempre su un concreto carattere morale, dotato di qualità o disposizioni positive, ma anche di limiti, imperfezioni e condizionamenti negativi altrettanto particolari, combinati in un equilibrio assolutamente unico.

Bibliografia

Hauerwas S.,​​ Character and the Christian life: a study in theological ethics, San Antonio, Trinity University Press, 1975; Dent N. J. H.,​​ The moral psychology of the virtues, Cambridge, Cambridge University Press, 1983; McIntyre A.,​​ Dopo la v.: saggio di teoria morale, Milano, Feltrinelli, 1988; Abbà G.,​​ Felicità,​​ vita buona e v.: saggio di filosofia morale, Roma, LAS, 1989.

G. Gatti

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VIRTÙ

VITA

 

VITA

Etimologicamente il termine deriva dal lat.​​ vis​​ (forza, vigore, potenza, energia). Nell’accezione comune, allora, la v. può essere descritta come forza attiva propria degli esseri animali e vegetali. La v. umana poi non è soltanto un organismo biologico ma anche una biografia esistenziale di una​​ ​​ persona.

1.​​ La v. come valore.​​ In senso analogico il sinonimo del «vivere» è quello dell’esistere​​ e al dover nascere alla v. va sempre correlato il «poter vivere o esistere». Va subito precisato però che c’è un duplice modo di concepire e vivere l’esistenza. Questa duplicità è sottesa dall’ambivalenza etimologica del termine stesso:​​ ex-esistere.​​ Infatti il significato della v. cambia a seconda della significatività che assume il prefisso​​ ex:​​ esso se applicato al termine «esistere» può essere interpretato come essere​​ fuori​​ o essere​​ verso.​​ Nel primo caso l’esistenza è oggettivata, emarginata. Essa si confonde con le cose. Esistere significa «essere-fuori», o «essere-altrove», o «essere-gettato» (ob-jectum), per cui l’esistenza in sé perde di senso, appare senza valore, senza possibilità e prospettive. Si pensi in proposito al dibattito suscitato dall’esistenzialismo in genere e da quello di Heidegger in particolare. Nel secondo caso l’esistenza è «verso-qualcosa» o «verso-qualcuno»: esistere, perciò, è «essere-per» o «essere-con», come il pensiero contemporaneo ha messo in luce. L’esistenza acquista così il senso, il valore e la finalità della​​ relazione, della​​ ​​ alterità. La relazione con l’altro diviene così la sua possibilità di autorealizzazione e la​​ ​​ libertà è assunta come compito e impegno. In questa ottica, allora, quando si parla dell’uomo-vivente si allude non solo alla qualità della v., ma alla​​ sacralità della v., perché l’uomo è persona ed è l’unico essere in cui la v. diventa capace di «riflessione» su di sé, di autodeterminazione; egli è l’unico vivente che ha la capacità di cogliere e scoprire il senso della sua esistenza e delle cose. La v. umana si presenta così come il valore massimo nel creato e trascende ogni altro bene temporale. Essa ha valore di fine e non di mezzo e si presenta come il punto assoluto di riferimento, a cui ogni altro valore mondano e storico deve riferirsi. Non esiste perciò un «diritto» contro la v. umana, dal momento che la stessa v. è il fondamento del diritto. Questa fondamentale forza assiologica e deontologica è radicata su un principio universale, assiomatico e operativo nello stesso tempo: l’uomo quando nasce deve essere valutato come un​​ dono​​ «per» e «con» e non come un​​ prodotto​​ da manipolare o commercializzare: la v. non si fabbrica, non si brevetta.

2.​​ La cultura della v.​​ Che significa avere una cultura della v.? La risposta a questo interrogativo è costituita da tre dimensioni tra loro concentriche, il cui centro è la persona umana. La prima dimensione è costituita dalla​​ inscindibile unicità della persona.​​ L’​​ ​​ uomo è un tutto unico e non può essere interpretato a compartimenti stagno. Infatti questo tipo di concezione dell’uomo, a comparti separati, ha generato dualismi impropri e bipolarità tra loro erroneamente contrapposte: istinto-volontà, materiale-spirituale, corpo-anima ecc. Ora, tale verticalizzazione rigida delle facoltà umane è rimessa fortemente in questione: infatti, anche se distinguibili, non vanno separate; tutte sono all’insegna del richiamo reciproco e vanno viste tra loro interdipendenti e interagenti nel contesto unitario della persona umana. L’uomo è un’unità inscindibile e la sua essenza è costituita dal​​ soma​​ (il corpo, la corporeità), dalla​​ psiche​​ (le emozioni, i sentimenti), dalla​​ nous​​ (la mente, la razionalità) e dal​​ sema​​ (i valori, i sistemi di significato). Tutti questi fattori, distinti sì ma non separabili perché tra loro interagenti, costituiscono l’essenza della persona, della v. umana. Nell’esercizio del corpo, per es., è tutta la persona che si visibilizza. La seconda dimensione che caratterizza la cultura della v. si ispira al rispetto assoluto della v. durante tutto l’arco cronologico dell’esistenza, dal concepimento alla morte naturale, sottraendola all’arbitrio di qualsiasi persona e di qualsiasi autorità. Ora la questione della v., della sua promozione e difesa, non è prerogativa dei soli cristiani – anche se dalla fede evangelica questo fatto riceve luce e forza straordinarie –; essa appartiene ad ogni coscienza umana che aspiri alla verità e che sia attenta e pensosa per le sorti dell’umanità. In questa ottica va anche la «Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo» (1948). È stato giustamente detto che il diritto alla v. è la nuova «questione sociale», perciò la promozione e la difesa della v. vanno attuate in tutto l’arco dell’esistenza umana: la​​ v.​​ iniziata​​ (il problema dell’aborto, la violenza sui minori); la​​ v.​​ verificata​​ (il primato della salute, l’umanizzazione della medicina); la​​ v.​​ manipolata​​ (l’adulterazione genetica, le tecniche della fecondazione); la​​ v.​​ marginale​​ (le nuove povertà, la condizione dell’anziano); la​​ v.​​ terminale​​ (il problema dell’eutanasia, l’umanizzazione del morire e della​​ ​​ morte). La soluzione di tutte queste vicende umane attiene ad un’autentica cultura della v. e va affrontata nel segno di un inequivocabile principio: la v. di ogni uomo è sacra! (bioetica). La terza dimensione sorge da un problema di scottante attualità: la nuova coscienza ecologica che ripropone un​​ rinnovato rapporto tra l’uomo e la natura.​​ Nel creato l’uomo non è il fine dell’evoluzione biologica, ma la v. è il fine. Perciò il rispetto della natura dev’essere basato sulla centralità della v. e questo principio deve farci passare da un immotivato​​ vitalismo antropocentrico, secondo cui l’uomo veniva definito senza limiti (jus utendi atque abutendi!), il senso di tutte le cose, ad una ragionata​​ visione biocentrica​​ che reinserisce l’uomo nella contestualità della biosfera assegnandogli il compito di controllare i processi. In parole più concrete: ciò che deve stare al centro del rapporto operativo uomo-natura non è tanto l’uomo come soggetto di conoscenza e di dominio, ma è la v., nel cui contesto la vicenda umana è il punto-vertice (​​ ambiente,​​ ​​ educazione ambientale). Ai credenti in particolare, per non concorrere all’ecocidio è richiesto di mediare l’amore per il prossimo attraverso l’amore per tutte le creature. Si tratta di un nuovo atteggiamento etico, personalista e cosmocentrico nello stesso tempo: la premura per la garanzia delle condizioni della v. in tutto il creato è il primo amore che dobbiamo avere verso il prossimo.

3.​​ L’educazione alla v.​​ S. Ireneo ha detto che «la gloria di Dio è l’uomo pienamente vivente!». Ma perché la v. sia vissuta nella sua pienezza occorre che essa abbia un​​ ​​ senso. Ora, per capire che cosa significa avere o produrre «senso» nella v. lo si interpreta dagli «effetti» che il senso stesso provoca: esso, infatti, produce attese, speranze, aspirazioni; rende capaci di amore solidale; stimola impegno e capacità costruttiva; suscita fedeltà e senso del rischio; sostiene la tenacia e la perseveranza attraverso giorni e stagioni dell’esistenza umana. Quando manca un «senso» tutta la v. diventa insensata, tutte le cose perdono i loro contorni precisi, si arriva al non-senso dei rapporti umani e gli avvenimenti perdono ogni qualità, la libertà si paralizza e si traduce in pigra indifferenza, i progetti hanno la durata di un’ubriacante evasione, la v. si dissocia e si disperde in momenti sconclusionati e senza senso, si vive per delega, e più che vivere alla giornata, si «muore alla giornata». Perché la v. abbia senso occorre, allora, credere in «qualcosa» o in «qualcuno». Perciò il senso della v. nasce innanzitutto da una​​ fede​​ – non necessariamente intesa come fede religiosa –, da una fede cioè vista come atto mediante cui l’uomo si affida a «valori» e a «speranze», dei quali non è ancora in grado di mostrare il grado di realizzabilità o di attitudine a saziare la v., ma che sono in grado però di costituire «quel» qualcosa o «quel» qualcuno per cui la v. ha significato, è «sensata»; e in questa direzione ci si impegna.

Bibliografia

Frankl V.,​​ Alla ricerca di un significato della v., Milano, Mursia, 1990; Pearson C.,​​ L’eroe dentro di noi, Roma, Astrolabio, 1990; Fizzotti E. (Ed.),​​ «Chi ha un perché nella v.…», Roma, LAS, 1992; Gevaert J.,​​ Il problema dell’uomo, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1992; Fromm E.,​​ L’amore per la v., Milano, Mondadori, 1993; Mancini R.,​​ Il dono del senso,​​ Assisi, Cittadella, 1999; Sanna I. (Ed.),​​ La sfida del post-umano, Roma, Studium, 2005.

C. Bucciarelli

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VITA

VITA – MORTE

VITA-MORTE

Luis A. Gallo

 

1. Un quadro globale di riferimento

2. La vita alla luce della fede in Cristo

3. Una pastorale giovanile «dalla parte della vita»

 

1. Un quadro globale di riferimento

La pastorale giovanile, in quanto azione di salvezza nell’ambito dei giovani, si colloca all’interno di un quadro globale di riferimento che le conferisce il suo senso ultimo. Esso viene dato da un’esperienza umana radicale e universale, che comporta due aspetti complementari.

Il primo è quello del desiderio di vivere, e di vivere in pienezza, attivamente presente in ogni essere umano, e quindi anche nei giovani. Anzi, in questi in maniera di solito ancora più intensamente sentita.

Tale desiderio è, indubbiamente, il più radicale tra quelli che esperisce l’uomo. Infatti, se lo si considera con attenzione, si scopre facilmente che qualunque altro desiderio umano, individuale o collettivo, è espressione — indovinata o sbagliata — del desiderio di vivere, e di vivere in pienezza. In pienezza di qualità e di durata. Un desiderio quindi di Vita, con la maiuscola. Ad appagarlo vanno indirizzati, in ultima istanza, tutti gli sforzi umani, ad ogni livello. Questo desiderio è anche il movente ultimo di ogni dinamismo umano.

Ma accanto a questo primo aspetto ce n’è un secondo, di portata non meno universale né meno radicale: esiste la Morte. Morte intesa come tutto ciò che in qualunque modo ostacola o contraddice la realizzazione del desiderio di vivere in pienezza. Morte, quindi, anche con la maiuscola.

Questo secondo aspetto trova la sua massima e più palpabile espressione nella morte corporale o biologica, nella quale l’uomo fa — in altri logicamente — l’esperienza del venir meno di ogni possibilità di soddisfare il più radicale dei suoi desideri. Ma, oltre a questa espressione-limite, ci sono altre innumerevoli forme di Morte: la fame, la malattia fisiologica o psichica, l’insicurezza psicologica o anche economica, l’angoscia, la solitudine forzata, l’incapacità di avere rapporti interpersonali, l’emarginazione imposta, la schiavitù sociologica o psicologica, la perdita del senso della vita, lo sfruttamento subito singolarmente o collettivamente, ecc. In breve, ogni forma di menomazione umana. Questa duplice esperienza umana universale è, per dirla con una formula molto pregnante, l’esperienza della dialettica Vita-Morte, del coesistere cioè delle due facce dell’esperienza in una continua contrapposizione ed eliminazione vicendevole.

Essa costituisce la realtà concreta ultima del mondo dell’uomo; al di là di essa non se ne può trovare un’altra. Perciò, tale dialettica viene a costituire come un trascendentale universale e concreto, che si rende attivamente presente in ognuno dei suoi «inferiori», senza però esaurirsi in nessuno di essi. Eccone alcuni: sazietà-fame, salute-malattia, sicurezza-insicurezza, angoscia-serenità, solitudine-comunione, emarginazione-partecipazione, schiavitù-libertà, ecc.

In seno a questa dialettica, una e molteplice, l’uomo, spinto dalla sua brama di Vita, è sempre alla ricerca conscia o inconscia, come lo rilevano già i più antichi miti dell’umanità, di una Vita-senza-Morte.

Tale ricerca si manifesta in forma non soltanto positiva, ma anche negativa, come paura della Morte. Quest’ultima, che in realtà non è altro che l’altra faccia del desiderio della Vita, costituisce lo sfondo più radicale di ogni paura umana. Anche in forza di essa vengono messi in movimento i diversi dinamismi dell’uomo, individuali e collettivi.

 

2.​​ La vita-in-pienezza​​ alla luce della fede in cristo

Soprattutto in un mondo come il nostro, in cui il pluralismo di visioni della realtà e di proposte di Vita-in-pienezza è così accentuato, si rende indispensabile un chiarimento sul modo stesso di concepire tale pienezza.

C’è, infatti, chi propone agli uomini d’oggi, quale appagamento del loro desiderio di vivere, l’affermazione propria a scapito degli altri, chi il semplice dispiegamento delle proprie energie corporali, intellettuali, estetiche, ecc., chi il possesso sempre crescente di beni materiali, chi ancora altri ideali. E ciò precisamente perché di tale pienezza di Vita non si ha esperienza, dal momento che resistenza viene vissuta sempre all’interno della dialettica Vita-Morte.

La fede cristiana si lascia ispirare, com’è ovvio, nel precisare la concezione della Vita, da ciò che su di essa asserisce la rivelazione su cui poggia. In realtà, l’intera rivelazione divina è un messaggio di Vita per gli uomini; ancora di più, una proposta in ordine alla pienezza di Vita per l’uomo, singolo e collettivo. Già le pagine dell’AT​​ si possono leggere in questa prospettiva. Esse, infatti, parlando del destino dell’uomo da parte di Dio, fanno capire che tale destino è appunto la Vita-in-pienezza. Un testo veramente emblematico a questo riguardo è quello delle prime pagine del libro della Genesi (1-3), in cui si narra la creazione del mondo e dell’uomo. In esso, pur con forme letterarie diverse e utilizzando materiali mitologici dell’epoca, la Bibbia svela la vocazione ultima dell’uomo: il Dio creatore e salvatore lo vuole partecipe nella sua pienezza di Vita, e a questo scopo lo chiama ad un rapporto di figliolanza con Sé, di fratellanza con gli altri uomini, e di signoria verso il creato. E anche quando l’uomo, per la non adeguata realizzazione di tali rapporti cade nei molteplici lacci della Morte, la volontà di Vita di Dio per lui rimane intatta e diventa promessa di vittoria futura​​ (Gn​​ 3,15). E il protovangelo, l’annunzio primo del trionfo pieno e definitivo della Vita sulla Morte. Ma è soprattutto nel​​ NT​​ dove tale rivelazione raggiunge il suo apice. Essa trova la sua massima espressione nella Pasqua del primo Uomo «realizzato» (GS22; cf​​ Col​​ 1,18), Gesù Cristo; Pasqua che è fondamentalmente vittoria piena e definitiva della Vita sulla Morte. Lui, emblema e promessa per tutti è, a partire da allora, «il Vivente»; un Vivente in pienezza nel quale la Morte, per un momento vincitrice, è completamente sconfitta per sempre​​ (Ap​​ 1,17) e non ha più niente a che fare​​ (Rm​​ 6,20). Come canta equivalentemente l’antica Sequenza pasquale, la dialettica Vita-Morte si è risolta definitivamente in lui dalla parte della Vita.

Questa Pasqua di Cristo, quale raggiungimento della pienezza della Vita in Dio, è stata tuttavia preparata dalla vicenda storica di Gesù di Nazaret. In essa con le sue parole, ma soprattutto con la sue azioni, egli svela il senso ultimo dell’esistenza umana come esistenza-per-la-Vita nonostante la dura realtà della Morte.

Le sue azioni, infatti, realizzate in ordine al compimento di quella causa da lui vissuta appassionatamente, che in termini propri del suo ambiente esprime come «regno di Dio»​​ (Me​​ 1,14-15), sono tutte orientate a produrre Vita: a restituire la Vita a chi ne è stato spogliato o dalla natura o dagli uomini (guarigioni corporali o psichiche, esorcismi, ecc.), o a farla crescere dove già c’è. Egli dimostra così di capire che ogni uomo, apertamente o velatamente, si porta dentro la domanda rivoltagli da quell’uomo delle molte ricchezze: «Cosa devo fare per avere la vita eterna (= piena?)»​​ (Me​​ 10-17). Ma dimostra anche di sapere che Dio, il Dio Vivente, non può regnare dove regna la Morte, e che per far avvenire il regno di questo Dio tra gli uomini bisogna debellare il regno della Morte in tutte le sue manifestazioni.

È per queste ragioni che interviene attivamente, anzitutto, per scacciare la Morte dai corpi degli uomini. I vangeli sono pieni di testimonianze al riguardo. La Vita per lui inizia da questo livello elementare ma radicalmente condizionante di tutta 1’esistenza. Ma interviene, inoltre, anche per scacciare la Morte che si annida nei falsi rapporti degli uomini con Dio, denunciando e combattendo atteggiamenti e istituzioni religiosi generatori di paura, di schiavitù e di sfruttamento; nei falsi rapporti degli uomini tra di loro, svelando atteggiamenti personali e gruppali di ingiustizia, oppressione ed emarginazione; nei falsi rapporti degli uomini con le realtà extraumane, mettendo a nudo atteggiamenti e strutture di accaparramento egoistico e di avarizia. Tutti falsi rapporti che costituiscono altrettante fonti di Morte tra gli uomini e i gruppi umani.

Con le sue parole, poi, Gesù svela il senso profondo del suo agire e lo fa diventare proposta per gli altri, quale invito a percorrere una vita vivificante.

Ci sono nei vangeli delle frasi, forse da lui mai letteralmente pronunciate ma elaborate da chi ne aveva ereditato lo Spirito, che esprimono molto bene il suo pensiero. Fra queste va citata quella del discorso giovanneo del Buon Pastore, nella quale egli dichiara il significato globale del suo agire: «Io sono venuto perché [le pecore, ossia gli uomini] abbiano la Vita, e l’abbiano in abbondanza»​​ (Gv​​ 10,10). E quell’altra in cui illumina il senso che, all’interno della sua vicenda, acquistano la sua croce e la sua morte: «Se il chiccho di frumento cade per terra e muore, produce molto frutto»​​ (Gv​​ 12,24).

Tutto questo insieme di cose permette di cogliere che Gesù, come ogni altro essere umano, era radicalmente mosso dal desiderio di vivere e di vivere in pienezza, e che trovò l’appagamento di questo suo desiderio nell’impegno appassionato per la realizzazione di questo stesso desiderio negli altri. Vivificando gli altri, si è anche autovivificato. La Pasqua portò a pienezza questo processo. Oltre ad aver percorso personalmente questa strada che lo portò alla pienezza della Vita, Gesù di Nazaret la propose con entusiasmo agli altri: egli proclamò in mille modi a tutti coloro che vollero ascoltarlo, che il suo era il vero cammino della Vita (Gv 14,6). Chi vuole avere la Vita in pienezza, quindi, deve camminare sulla stessa strada.

Non vanno dimenticati, in questo contesto, due dati evangelici di importanza decisiva. Gesù sostiene, in primo luogo, più con i fatti che con le parole, che solo chi si lascia sollecitare emozionalmente ed effettivamente dal bisogno di Vita degli altri può trovare la propria Vita​​ (Gv​​ 12,24). Chi dunque si chiude egoisticamente nella ricerca esclusiva della propria realizzazione personale, non la può trovare; anzi, una ricerca del genere porta alla Morte propria e altrui. L’egoismo è, per Gesù, l’antitesi della Vita. Un’eco di questo modo di pensare la si ritrova nella prima lettera di Giovanni che dice: «Chi non ama [il fratello] rimane nella morte»​​ (1 Gv​​ 3,14).

In secondo luogo, Gesù sostiene che, in questo lasciarsi sollecitare dal bisogno di Vita degli altri, occorre rispettare, come fece lui, una gerarchia di urgenza, nella quale occupano il primo posto coloro che sono più intensamente «moribondi»​​ (Lc​​ 10,30-37: parabola del Buon Samaritano). Le opzioni da lui fatte per i più poveri, emarginati ed esclusi, per gli ultimi e per quelli che non contano, sono una chiara dimostrazione di questo orientamento.

 

3.​​ Una pastorale giovanile dalla parte della vita

Fare pastorale giovanile è, come si è ricordato, fare opera di salvezza nell’ambito giovanile. Se la salvezza è il trionfo della Vita sulla Morte, s’intende allora come una vera pastorale giovanile non possa non mettersi, all’interno della reale e concreta dialettica Vita-Morte, dalla parte della Vita. Essa deve essere tutta intenta a fare che il desiderio radicale di vivere in pienezza che si annida nel cuore dei giovani, non solo non venga ostacolato o soffocato, ma trovi invece il suo giusto sbocco e la sua realizzazione. Sarà indispensabile, quindi, che aiuti i giovani a mettersi essi stessi dalla parte della Vita, a cominciare dalla loro propria vita.

Suo primo impegno sarà, quindi, quello di aiutarli a dire il loro sì alla propria vita, a vedere il lato positivo del loro desiderio di pienezza, a considerarlo come un grande dono e una vocazione. Nessun progetto di pastorale giovanile che si ispiri seriamente a Gesù Cristo può andare controcorrente a questo desiderio radicale. Detto in un altro modo: qualunque progetto pastorale che porti alla negazione di tale desiderio, va giudicato come radicalmente antievangelico.

Il sì alla propria vita ha però oggi un risvolto molto concreto tra i giovani italiani: l’accoglienza di un determinato senso della vita stessa. Il generico sì è in concreto condizionato dalla scoperta e dall’accoglienza di detto senso. Una Pastorale giovanile autenticamente evangelica dovrà proporre, per coerenza, a questi giovani, quale senso radicale della Vita quello stesso che Gesù visse e propose. Essa dovrà tener presenti i dati evangelici sopra ricordati, per aiutare i giovani a orientare alla loro luce la realizzazione del loro desiderio.

Il primo di questi dati richiede che venga fatta ai giovani una proposta di Vita non-narcisista. Stando al Vangelo di Gesù, infatti, fintanto i giovani saranno direttamente e prioritariamente alla ricerca della loro propria pienezza di Vita, individuale o di gruppo, non la raggiungeranno mai: «Chi cerca la propria vita, la perde» (Gv 12,24). Ciò non significa che essi devano essere invitati a rinunciare al loro desiderio di vivere — il Vangelo, va ribadito una volta ancora, non è un invito alla «mortificazione», ma alla «vivificazione» —; significa invece che devono essere invitati e aiutati a dire il loro sì a tale desiderio cercando efficacemente, nella misura delle loro possibilità e condizioni, la Vita-in-pienezza di tutti, e non solo di sé stessi.

Il secondo dato evangelico richiede che la Pastorale giovanile s’imposti «a partire dagli ultimi». Che si organizzi cioè all’insegna di coloro che della Vita sono più spogli e-o spogliati, a cominciare dai suoi livelli più elementari. E ciò non solo nell’ambito interpersonale o in quello assistenziale, ma anche nell’ambito sociale. L’opzione preferenziale per i poveri, fatta dalla Chiesa universale nel Sinodo dei Vescovi del 1985 e ribadita su scala addirittura planetaria da Giovanni Paolo II nell’Enciclica​​ Sollicitudo rei socialis​​ (n. 47), deve segnare necessariamente una Pastorale giovanile che voglia essere in linea con il Vangelo e con la Chiesa d’oggi. Le implicanze concrete di quest’opzione sono forse ancora in gran parte da scoprire. .

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VITA – MORTE

VITTORINO DA FELTRE

 

VITTORINO DA FELTRE

n. a Feltre nel 1373 / 78 - m. a Mantova nel 1446, umanista e educatore italiano.

1. Inizia gli studi in ritardo a causa della situazione disagiata della famiglia, dovendo lavorare per mantenersi. È scolaro di Giovanni da Conversino, con il quale impara grammatica, dialettica, retorica e poesia. A Padova segue lezioni di filosofia, scienze fisiche e astronomia. Tra i suoi maestri più noti: Vergerio, Barzizza,​​ ​​ Guarino Guarini. Verso il 1419, V. fonda un convitto (contubernium) nella sua casa di Padova per studenti poveri dotati di ingegno. Dopo un breve periodo come professore di retorica allo Studio di Padova, accetta nel 1423 l’invito del marchese Gonzaga di recarsi a Mantova come precettore dei figli. Nella villa «Ca’ zoiosa», ribattezzata «Ca’ giocosa», organizza una scuola-convitto che dirige fino alla morte.

2. Non ci sono pervenuti scritti di V. tranne alcune lettere e un piccolo trattato​​ De ortographia. Le testimonianze degli scolari mettono in risalto i tratti della sua personalità di educatore: equilibrato e ricco di umanità, di aspetto grave ma non severo, di ingegno attivo e penetrante, efficace nel parlare e abile nel fare, di spiccata vocazione per l’insegnamento, uomo profondamente religioso. Nel programma della «Ca’ giocosa», accanto agli autori classici, erano studiate le discipline del «quadrivium» (aritmetica, geometria, musica, astronomia) e si dedicava attenzione alla danza, al gioco, al nuoto, al contatto con la natura, alle pratiche religiose. L’obiettivo di V. era di formare «giovani che potessero servire Dio nella Chiesa e nello Stato», qualsiasi impegno fossero chiamati a svolgere. Nella sua scuola l’idea umanistica tendeva «alla perfetta fusione tra la tradizione classica e l’esperienza cristiana» (Bertin, 1961, 316). È ritenuto l’educatore più rappresentativo dell’​​ ​​ Umanesimo italiano.

Bibliografia

Gambaro​​ A.,​​ V. da F.,​​ Torino, Stab. Tip. Vogliotti, 1946;​​ Bertin G. M.,​​ La pedagogia umanistica europea nei secoli XV e XVI,​​ Milano, Marzorati, 1961; Prellezo J. M. - R. Lanfranchi,​​ Educazione e pedagogia nei solchi della storia, vol. 2, Torino, SEI, 2004, 22-28.

J. M. Prellezo

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VITTORINO DA FELTRE

VIVEKANANDA Swami (Narendranath Datta)

 

VIVEKANANDA Swami​​ (Narendranath Datta)

n. a Calcutta nel 1863 - m. ivi nel 1902, monaco ed educatore indiano.

1. La famiglia benestante gli permette di studiare senza problemi economici fino all’università. Le domande di senso sull’uomo lo conducono alla militanza politica e quelle su Dio all’incontro con Ramakrishna, dal quale non si separerà più e che farà conoscere all’Occidente (Congresso delle Religioni, Chicago 1893). Alla contemplazione di Ramakrishna, egli unisce l’impegno nella società e nella storia, cerca cioè di diffondere quanto l’umanità ha raggiunto attraverso lo sviluppo dell’uomo in genere e di Ramakrishna in particolare. La razionalità di V., attratta dalla mistica del maestro, è rafforzata dall’esperienza sia indiana che occidentale. Il Vedanta (​​ Vedismo) è il sistema filosofico-religioso dal quale egli riceve le risposte che cerca e che costituisce il suo riferimento costante nell’insegnamento ispirato ad una religione a carattere universale, più ideale che reale.

2. L’idea di educazione in V. trova fondamento nella religione ed in particolare nell’​​ ​​ Induismo. L’educazione è tutto quello in cui si manifesta la perfezione dell’uomo e l’uomo spirituale è la sede di ogni conoscenza. Propone il metodo della concentrazione attraverso cui l’energia mentale è convogliata sull’oggetto di conoscenza. Seguono la meditazione ed il distacco necessari per il passaggio al momento della valutazione. Lo yoga (unione dell’uomo a Dio) proprio della cultura indiana (Upanishad) torna in V. che riprende ed amplia il lavoro di sistemazione condotto da Patanjali. Nel 1885 V. fonda il primo monastero ispirato agli insegnamenti del maestro (Ramakrishna Math), nel 1887 viene istituito l’Ordine (per i monaci) e nel 1897 la Missione (per i laici) che assumerà progressivamente la forma di movimento la cui valenza pedagogica si manifesta tuttora a livello mondiale, sia nei contenuti teorici che nella creazione e nel mantenimento di centri, scuole,​​ college, servizi sociali.

Bibliografia

V.S.,​​ Yoga pratici. Karma-yoga,​​ Bhakti-yoga,​​ Raja-yoga, Roma, Ubaldini, 1963; Chistolini S.,​​ Ramakrishna,​​ V.,​​ Gandhi. Maestri senza scuola, Roma, La Goliardica, 1992; Filippani Ronconi P. - F. Scialpi - S. E. K. Sahdev,​​ Nel centenario dell’intervento di S.V. al Parlamento mondiale delle religioni (Chicago 1893): due conferenze, Roma, Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente, 1997.

S. Chistolini

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VIVEKANANDA Swami (Narendranath Datta)
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