TRADIZIONALISMO

 

TRADIZIONALISMO

Il t. in educazione ha molti significati: statico (conservazione di qualcosa che si trasmette per generazione), dinamico (filo conduttore che unisce gli avvenimenti dando loro unità), polemico (impegno nella razionalizzazione delle forme irrazionali della vita), storico-pedagogico (caratteristica comune a tutti i popoli dell’Antico Oriente con la nota finalità di mantenere invariate le credenze religiose, la struttura politica e l’organizzazione sociale), e storico-critico (mantenere ciò che vi è di buono nel passato, aggiungere ciò che vi è di meglio nel presente e guardare al futuro).

1. Etimologicamente il termine deriva dal lat.​​ tradere​​ (trasmettere). Quando si tratta di una trasmissione spontanea dei beni culturali e nazionali da una generazione ad un’altra si parla dei presupposti della​​ ​​ cultura e dell’educazione di ogni popolo (si comunica il linguaggio, la religione, i costumi). In ambienti religiosi e confessionali, la tradizione è elemento e criterio di prim’ordine per l’«ortodossia» della pratica religiosa. Se in questo presupposto non interviene l’educazione il t. sarà statico e regressivo; se l’educazione interviene adeguatamente esso sarà dinamico e progressivo. Se si intende il t. in senso politico-pedagogico (ristagno in un’epoca passata, con la pretesa di farla rivivere, come successe a V. Trotzendorf riguardo alla Repubblica Romana o a certi t. cattolici), si nega automaticamente tutto il progresso educativo; in questo caso, l’educazione consiste nell’«inculcare»; il soggetto dell’educazione deve attenersi al programma e gli viene negata ogni creatività.

2. Il t. come reazione all’​​ ​​ Illuminismo, al razionalismo e alla rivoluzione presuppone la fine dell’ottimismo razionalista. In Francia lo incarnano L. de Bonald (1754-1840), J. de Maistre (1753-1821) e H.-F. R. de Lamennais (1782-1854); in Italia G. Ventura (1792-1861); in Spagna J. Donoso Cortés (1809-1853) e J. M. Ortí Lara (1826-1904). Con costoro il t. diventa una vera e propria ideologia, una visione globale della vita politica. In pedagogia si avvicina a queste posizioni il​​ ​​ perennnialismo. La negazione pratica di ogni t. (come in Neill e nella pedagogia libertaria) è presente in pochi educatori delle​​ ​​ Scuole Nuove mentre lo hanno criticato tutti coloro che si sono allineati a questa corrente o hanno scritto su di essa.

Bibliografia

Gambra R.,​​ El concepto de tradición en la filosofía actual,​​ in «Arbor» 9 (1945) 545-573; Agazzi A.,​​ Problemi e maestri del pensiero e dell’educazione, 3 voll., Brescia, La Scuola, 1955-1959; Ravera M.,​​ Introduzione al t. francese, Roma / Bari, Laterza, 1991.

V. Faubell

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TRADIZIONALISMO

TRADIZIONE

 

TRADIZIONE

1.​​ Fondamento della TR.​​ Il termine-concetto di TR dice poco: “trasmissione”. Nell’ambito cristiano però acquista pregnanza, perché il soggetto della trasmissione è Dio ed è la comunità della Chiesa, e l’oggetto è l’insieme dei doni della Rivelazione e della Grazia. La base, dunque, va collocata nel fatto che Dio è entrato nella storia, che i doni di Dio (Parola e Grazia) si sono fatti storia. Talvolta avviene di dire: “Dio si è fatto storia”; espressione da intendere bene, sia per non farne una retorica (specie nella C. e nella predicazione) e sia per non cadere in filosofismi che intacchino la trascendenza di Dio. Comunque, si insiste sulla storicità del fatto cristiano; il quale è “evento”, anzi una serie continua di “eventi”, vale a dire: esso presenta vere e reali novità, non precontenute in qualcosa di precedente, non pura evoluzione di premesse già date nella natura e nemmeno nelle fasi anteriori della storia; esso è creatività.

Tuttavia, questi eventi non toccano la storia umana solo in un punto: non sono semplicemente tangenziali e occasionali incontri, prima e dopo i quali ci sarebbe il vuoto; non si deve pensare, in concreto, che tra la prima venuta di Cristo e la sua seconda venuta l’umanità rimanga sola con se stessa tra speranza e attesa (puri atteggiamenti psicologici); no, il dono della Rivelazione-Grazia, in concreto il dono di Cristo, è un “seme” (questa l’insistenza maggiore dei dati del NT), seme che rimane nascosto, ma che esiste veramente dentro la storia, ed anzi è in crescita continua nel solco della Chiesa, per essere “lievitazione” perenne dell’umanità. Seme e lievito ormai ineliminabili; in questo senso l’evento cristiano è, insieme, creazione nuova, ma anche vera storia.

TR è questa storia divino-umana del seme-fermento cristiano. Vanno sottolineati i due fattori: Dio e l’uomo (l’umano della Chiesa). TR è vita, evoluzione, crescita dei doni inseriti da Cristo nella storia e affidati alla Chiesa; è trasmettere questi doni, evolvendoli; è al tempo stesso operazione dello Spirito Santo, e quindi dono e grazia, e operazione della Chiesa, e quindi impegno. Lo Spirito garantisce l’efficacia dei doni e la loro trasmissione perenne fino alla fine dei secoli (secondo la promessa di Gesù); la Chiesa, prolungando l’azione unica e primordiale di Maria, offre il campo, il terreno per la semina e per la crescita del seme, dona la veste umana, l’incarnazione culturale. La TR, quindi, è anche e tutt’intera nelle nostre mani.

2.​​ La parte umana​​ (della Chiesa)​​ coinvolta nella TR.​​ Ci si chiede: chi è il soggetto dell’azione del «trasmettere»?; quanto e come l’intervento umano viene assunto nell’azione del “trasmettere”?

— Anzitutto,​​ il soggetto.​​ Oggi la risposta ci pare ovvia: tutti. Ma si tratta di una verità riscoperta da non molto, e con fatica. Prima ci si limitava ad affermare il ruolo della “successione apostolica” dei vescovi, l’importanza dei concili, degli atti del magistero, della liturgia, e talvolta anche dei teologi (sempre però in subordine ai Padri della Chiesa). Oggi si insiste sulla​​ struttura carismatica​​ della Chiesa come qualcosa di fondamentale; e quindi si parla di​​ tradizione globale​​ che coinvolge tutti i carismi, dai profeti ai catechisti, ma soprattutto i santi, e quindi la vita e la testimonianza. TR implica, perciò, sia ciò che riguarda la continuità della Parola e della fede, sia ciò che la mostra tradotta nella testimonianza della vita. La​​ Dei Verbum​​ parla appunto di TR​​ viva,​​ che implica la Chiesa intera in tutto ciò che essa è e che essa fa; e insiste soprattutto su tre fattori: l’esperienza dei credenti che vivono la fede, lo studio e la riflessione dei sapienti, la predicazione dei Pastori e dei loro collaboratori.

— Circa il​​ quanto​​ di impegno umano viene coinvolto, basta anche qui una sottolineatura: tutto! Oggi si parla di​​ esperienza;​​ discorso che per decenni fu sospetto, in quanto lo avevano caricato di senso negativo coloro che (come i “modernisti”, agli inizi del nostro secolo) lo facevano passare come organo solo umano, e creatore di verità, dando luogo a interpretazioni soggettivistiche e immanentistiche della fede e della rivelazione cristiana. Esperienza, invece, dice di per sé anzitutto disponibilità a ricevere, ad accogliere, a riconoscere qualcosa che vien da fuori, e che è dato od offerto da Dio. Ebbene: la Chiesa diventa tanto più soggetto attivo di TR quanto più in tutti e in tutto essa sviluppa atteggiamenti di docilità, di ascolto, di “passività” attiva.

— Circa​​ il modo​​ concreto con cui si fa TR, oggi la teologia ecumenica anche ufficiale ha messo in onore quel processo di formazione di tradizioni (al plurale, appunto) che ha caratterizzato la creatività della Chiesa antica. Si parla ormai di​​ tradizioni nella TR e per la TR;​​ la TR è qualcosa di trascendente, che storicamente non esiste se non​​ in molte TR,​​ proprio perché l’impegno della Chiesa, dovendo coinvolgere integralmente tutto l’umano, deve mirare a vera incarnazione, perciò a piena inculturazione, e quindi per necessità deve accettare pluralità di espressioni.

Ma più importante ancora è la individuazione dei principali momenti in cui si scandisce tale processo di incarnazione, che produce singole TR (in​​ e​​ per “la” TR). Nello specchio della Chiesa antica, soprattutto dell’Oriente, anche i testi del Concilio parlano di quattro aspetti o quattro momenti successivi, strettamente legati tra di loro:​​ spiritualità, liturgia, comportamento, teologia.​​ A volte si parla appunto di: TR spirituale, di TR rituale o liturgica, di TR canonica e di TR teologica. Ma si tratta di tappe di un unico processo. Anzitutto viene la​​ spiritualità;​​ è il momento più radicale e fondante; risulta dall’impatto tra Vangelo e cultura (di un popolo, come pure di una comunità particolare, o anche di un singolo credente); il seme riceve particolari caratteristiche (o le evidenzia) a seconda del terreno (→ parabole di Gesù!); fino a che non avviene tale “reazione vitale”, il seme cristiano non manifesta tutta la sua vitalità; la fede resta superficiale.

Prima e autentica espressione della spiritualità è la​​ liturgia​​ (o lo dovrebbe essere): se il soggetto che reagisce al Vangelo assume e coinvolge veramente il “genio” della propria cultura, non può non privilegiare le espressioni comunitarie; ed ecco che nel momento “dossologico”,​​ coram​​ Deo,​​ la spiritualità ha modo di valorizzare i propri connotati specifici; nascono così i vari “riti”, come vero momento creativo (e il problema, eventualmente, si porrà quando a modificazioni storiche della cultura, di una comunità o di una persona, non corrispondono adeguati aggiornamenti nella spiritualità e nella liturgia, e il “rito” diventa formalismo, ripetitività morta). L’espressione liturgica, però, non esaurisce il “corpo” storico della spiritualità; il dono ricevuto lo si deve proclamare, nella propria cultura e con la propria cultura, non solo in verticale,​​ coram Deo,​​ nella dossologia, ma anche in orizzontale,​​ coram​​ mundo,​​ in testimonianza; ecco allora la​​ TR canonica,​​ che, in senso classico, denota lo stile armonico del vivere comunitario di un popolo credente; implicando cioè, più che regole e norme formali, verifica viva della fede nel comportamento integrale, e con una testimonianza missionaria che coinvolge anche le comunità in quanto tali.

Da ultimo viene la​​ teologia,​​ ossia la riflessione che traduce in parole e concetti “universalizzabili”, o meglio “comunicabili”, l’esperienza vissuta (sia quella radicale o di spiritualità, e sia quella espressa nella liturgia e nel costume pratico); viene per ultima, perché essa non crea l’esperienza, ma la rende soltanto comunicabile ad altri, anche “fuori le mura” della TR ristretta; senza tale traduzione, il Vangelo incarnato rischia di restare “imprigionato”, perché ogni cultura rappresenta anche un limite e non solo un valore; la teologia dovrebbe dare la parola a una determinata TR proprio per liberarla dai limiti, per aiutarla al distacco da sé, per un trascendimento che aiuti la missione, e anzitutto la comunicazione mutua con altre tradizioni e in vista della TR (maiuscola e al singolare!).

Proprio perché oggi si è scoperta l’importanza del “plurale”, ossia di TR incarnate profondamente nelle culture dei popoli, proprio per questo si è accentuato il problema-impegno di curare l’unità, ossia “la​​ TR”, da intendersi come frutto di comunione ordinata tra le diverse TR. Infatti, solo a questa condizione le singole TR garantiscono la propria autenticità; perché solo alla Chiesa in​​ quantouniversale​​ e totale Dio assicura l’indefettibilità e l’infallibilità. Ogni TR, perciò, deve restare in mutua e vitale relazione con tutte le altre; per dare e ricevere rispetto alla Chiesa intera, con dipendenza costante da essa.

3.​​ L’ambiguità dell’umano in ogni TR.​​ Proprio il fatto che il “seme” evangelico resta ancora nella storia implica che si debba tener conto della “zizzania”, dell’anti-Vangelo. L’umano, cioè, anche quello con cui la Chiesa veste la Parola, non diventa per questo “assoluto”, cioè divino, senza limiti e senza peccato. Resta sempre qualcosa di provvisorio e di caduco, chiuso nei limiti; e per di più esposto alla tentazione e quindi al peccato. “Chiesa sempre bisognosa di purificazione”, dice la LG (n. 8). Perciò le​​ diversità​​ (fra TR) rischiano sempre di trasformarsi in​​ divisioni​​ (scismi); e​​ l’evoluzione​​ (dentro ogni TR) rischia sempre di diventare, almeno parzialmente,​​ involuzione​​ e infedeltà (eresie).

Anche la C. quindi (con tutte le altre attività della pastorale) deve mettere in evidenza tali rischi; e insistere sulla necessità di saper sempre “relativizzare” le forme in cui il Vangelo viene tradotto e incarnato. E il modo migliore per predisporre tale relativizzazione è di allenare a restare costantemente in confronto con altre TR, soprattutto con gli orientamenti della TR universale (espressi dalle istanze centrali della Chiesa); e di guardare fuori, in atteggiamento missionario, per mostrare il valore di salvezza e di promozione umana insito nel Vangelo.

Bibliografia

Vedere voci attinenti (non solo TR, ma anche altre: dogma; sviluppo del dogma; Scrittura e TR; Chiesa...) nei vari Dizionari teologici; così pure vedere Commentari alla​​ Dei Verbum,​​ cap. 2.

L. Borello,​​ La Tradizione fonte della Catechesi,​​ in «Credere-oggi» 7 (1982) 1, 79-88 (riferimento ai Documenti cat. ufficiali); Y. Congar,​​ La Tradizione e le tradizioni,​​ 2 vol., Roma, Ed. Paoline,​​ 19611965;​​ Id.,​​ La Tradizione e la vita della Chiesa,​​ Catania, Ed. Paoline, 1964; H. Holstein,​​ La Tradizione nella Chiesa,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1968; W. Kasper,​​ Il dogma sotto la Parola di Dio.​​ Brescia, Queriniana, 1968; K. Rahner – J. Ratzinger,​​ Rivelazione e Tradizione,​​ Brescia, Morcelliana, 1970.

Luigi Sartori

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TRADIZIONE

Chiamiamo t. «il complesso delle memorie, notizie e testimonianze trasmesse da una generazione ad un’altra» (Devoto-Oli). Dato il valore vitale che riveste in quanto affermazione di continuità nella mutevolezza, la t. è fatta oggetto di scienze molteplici, segnatamente la storia, la religione, l’antropologia culturale e certamente la pedagogia. In ambito educativo, la t. (e le t. che la codificano, segnatamente le t. popolari o folkloriche) viene considerata nel suo doppio senso di contenuto e di forma di trasmissione.

1. Così nell’educazione familiare, scolastica e religiosa la t. rappresenta teoricamente​​ i contenuti formativi nelle loro radici storiche, carichi dunque di esperienzialità e di saggezza, per cui rinunciando alla t. si sperpera un’eredità ricevuta. Uno snodo educativo delicato riguarda il rapporto intergenerazionale, tra anziani e giovani. Squilibri demografici ed ancor più culturali oggi nelle società occidentali determinano sovente un reciproco «muro del silenzio» e quindi fatalmente l’impoverimento del senso della vita, carente di storia.

2. È vero però che talora la t. riveste un​​ peso eccessivo​​ rispetto al futuro e all’innovazione, per cui l’educazione rischia il​​ ​​ tradizionalismo e la conservazione. Nello stesso rischio cade una educazione che realizza la trasmissione dei valori della t. affidandosi prevalentemente a forme di socializzazione e di imitazione materiale. Il pericolo consiste nel non discernere la giusta validità di quanto si trasmette, conferendogli valore normativo indebito e quindi generando per opposizione ribellione e rifiuto.

3. È corretto il cammino educativo se la​​ t. rimane «un atto tra vivi», si stabilisce una reciprocità tra passato e presente, per cui quanto viene ricevuto si trova a sua volta arricchito. Purtroppo questo non è facile né scontato. L’approccio carismatico o quello meramente riproduttivo si contendono scorrettamente il campo e tradiscono la t. come insieme di beni tramandati da assumere creativamente.

4. Può essere​​ paradigmatico l’ambito cristiano​​ (​​ educazione cristiana). Ivi la t., a differenza della S. Scrittura, che è momento codificato e rigido degli avvenimenti fondatori, rappresenta il credo religioso, con i suoi riti ed istituzioni, nel loro essere vissuti da comunità di persone, che tengono viva la t. mediante la personale partecipazione. L’educazione alla t. vivente si ha nella​​ ​​ Chiesa pienamente soltanto attraverso un processo di iniziazione, ossia di vitale inserimento in quanto viene notificato nella catechesi e celebrato nel rito. È lecito affermare che ha senso l’educazione alla t. (nel significato vitale del termine) e che essa deve andare oltre la fase istruttiva, nozionale, a favore di un cammino formativo culturale ed esistenziale insieme. In tale cammino è indispensabile abilitare all’esercizio critico delle tante t. che pullulano, ora legittimamente, ora no, nel corso dei secoli.

Bibliografia

Benedetti M. V.,​​ T. educazione società, Salerno, Libreria Editrice Internazionale, 1970; Centro di Studi Filosofici di Gallarate, «T.», in​​ Dizionario delle idee, Firenze, Sansoni, 1977; Prandi C., «T.», in E. Pace (Ed.),​​ Dizionario di sociologia e antropologia culturale, Assisi, Cittadella, 1984, 600-604.

C. Bissoli

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TRADIZIONE

TRAINING AUTOGENO

 

TRAINING AUTOGENO

Metodo sistematico di allenamento graduale per raggiungere attraverso esercizi di concentrazione psichica ed autoregolazione uno stato di distensione.

1. Il neurologo J. H. Schultz (1884-1972), interessatosi al movimento psicoanalitico, si dedicò poi a ricerche ed esperienze nel campo dell’ipnosi, cercando di correlare funzioni somatopsichiche. Nel 1932 con​​ Das Autogene T., Schultz presentò l’elaborazione scientifica dei fondamenti teorici e le modalità di svolgimento del t.a. La tecnica è applicabile in trattamenti individuali e di gruppo a scopi preventivi e terapeutici, in soggetti interessati e con sufficiente autonomia psichica; il t.a. è sconsigliato con bambini fino ai cinque anni e nei casi di severi disturbi mentali ed emotivi. Il t.a. si pone due obiettivi generali: il miglioramento e / o l’eliminazione di disturbi in funzioni neuropsichiche, conseguenti a modifiche ottenibili con la concentrazione e la distensione. Il complesso fenomeno della commutazione biopsichica, analoga a quella del sonno fisiologico, comprende la totalità dell’individuo (aspetti dinamici, relazionali e simbolici). È necessario perciò che la persona che impiega a scopi terapeutici e / o insegna il t.a. abbia una profonda conoscenza del metodo, della dinamica psicologica e dei meccanismi neurofisiologici dell’essere umano.

2. Gli esercizi fondamentali riguardano: la sensazione di peso (distensione muscolare), la sensazione di calore (distensione vascolare), la regolazione del battito cardiaco e del ritmo respiratorio, la sensazione di fresco alla fronte ed, infine, la sensazione di calore nella zona del plesso solare. Tali esercizi hanno lo scopo di modificare funzioni neurofisiologiche e stati emozionali (tensione, ansia, aggressività) attraverso l’esperienza di distensione che costituisce l’essenza stessa del t.a. Agli esercizi segue una fase di ripresa, necessaria per ripristinare lo stato di coscienza vigile e di attività neuromuscolare. Gli esercizi superiori riguardano piuttosto la sfera della personalità: attraverso esperienze immaginative guidate e libere (es. visualizzazione di colori, formulazione di proponimenti) è possibile far emergere vissuti interiori che possono essere utilizzati a scopo terapeutico e / o come mezzo di sviluppo e di crescita individuale.

3. Oltre che in campo clinico, il t.a. trova un suo impiego in una pedagogia razionale dove assume una funzione preventiva, nella prospettiva di una educazione della tensione (Schultz, 1966). L’obiettivo tende a favorire lo sviluppo autentico ed armonico degli individui, in base ad un’adeguata conoscenza della propria unità biopsichica e delle proprie potenzialità psicosomatiche. Il t.a. viene impiegato, infine, nello sport e nel lavoro; nel primo caso permette, attraverso la distensione e la concentrazione, migliori prestazioni, nel secondo caso favorisce l’eliminazione dello stress ed il recupero di energie psicofisiche in tempi brevi.

Bibliografia

Schultz J. H.,​​ Das Autogene T.​​ Konzentrative Selbstentspannug; Versuch einer klinisch-praktischen Darstellung, Stuttgart, Thieme, 1966 (trad. it. 1983); Id.,​​ Übungsheft für das autogene​​ T., Ibid., 1980 (trad. it.:​​ Quaderno di esercizi per il t.a., Milano, Feltrinelli, 1982); De Vita F.,​​ Il t.a. nell’ansia adolescenziale. Un manuale teorico-pratico per operatori psicopedagogici e sociali dell’età evolutiva, Roma, Armando, 1993; Albisetti V.,​​ Il t.a. per la quiete psicosomatica, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 1997.

G. Giordanella Perilli

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TRAINING AUTOGENO

TRANSFER DELL’APPRENDIMENTO

 

TRANSFER​​ DELL’APPRENDIMENTO

Il t.d.a. si definisce come l’acquisizione personale, senza intervento di un insegnamento, di un’attività o contenuto per effetto dell’apprendimento di altre attività o contenuti. L’interrogativo che sta sotto al t.d.a. si esprime così: quale influsso ha l’apprendimento di un’abilità sull’apprendimento o sulla performance di un’altra attività? Concretamente, si manifesta con il chiedersi se la conoscenza dell’italiano che ha una persona l’aiuterà ad apprendere lo spagnolo o il francese e se saper pattinare su ghiaccio può aiutare l’imparare a pattinare su ruote.

1.​​ Tipi di t.d.a.​​ Si conoscono tre tipi di t.: positivo, negativo e neutro. Il t. positivo dell’apprendimento avviene ad es. quando si insegna ad un gruppo di studenti un’abilità B che viene acquisita dopo 6 sessioni di pratica a differenza di quanto accade ad un altro gruppo di studenti che ha imparato in precedenza un’abilità A che acquisisce l’abilità B dopo 3 sessioni di pratica. Dato che il numero di sessioni di pratica è stato ridotto da 6 a 3, si ha un t. positivo (6 - 3 = +3). Il t. negativo si ha quando, contrariamente all’esempio dato, l’abilità A appresa in precedenza ha effetti deleteri sull’apprendimento dell’abilità B con il risultato (6 - 9 = -3). Il t. neutro (o t. zero) si ha invece quando il possesso di una data abilità ha un effetto minimo sull’apprendimento di un’altra abilità; esemplificando, l’apprendimento del lavoro a maglia non ha nessun effetto sull’apprendimento della grafica computerizzata (6 - 6 = 0).

2.​​ Aspetto psicologico del t.d.a.​​ Sebbene nella psicologia contemporanea il t.d.a. venga trattato come un argomento a parte con il proprio disegno sperimentale e le proprie procedure di misurazione, le sue implicazioni pervadono l’intera psicologia, dall’apprendimento condizionato allo sviluppo della personalità. Lo studio sperimentale del t.d.a. da parte degli psicologi non è facile dato che il carattere indeterminato ed ampio delle formulazioni teoretiche offerte rende difficile l’applicabilità nel vivo della classe. Per questo motivo, lo studio sperimentale si è concentrato in laboratorio. Questo ha permesso la scoperta di fenomeni legati al t.d.a. Il primo è la somiglianza stimolo-risposta. Il metodo di apprendimento di associazione di parole a due a due ha mostrato che quando all’apprendimento di una prima lista di parole segue l’apprendimento di una seconda lista avviene un t. negativo e che a maggiore somiglianza di elementi che costituiscono gli stimoli presenti nelle due liste, maggiore è il grado di t. negativo. Se si aumenta invece la somiglianza nei termini di risposta cresce il t. positivo. Collegati direttamente alla somiglianza stimolo-risposta sono i fenomeni chiamati inibizione retroattiva e proattiva. Se l’apprendimento di un nuovo compito interferisce con la produzione dell’abilità acquisita in precedenza, ha luogo una inibizione retroattiva. Ad es. i risultati forniti dopo l’apprendimento di una lista di vocaboli in lingua straniera da parte di due gruppi sono diversi se nell’intervallo tra l’apprendimento e la performance si chiede ad uno dei due gruppi d’imparare un’altra lista di vocaboli mentre all’altro si chiede di eseguire un compito molto diverso dal precedente. Se invece un’abilità appresa rende difficile la competenza in un’altra abilità appresa dopo si ha un’inibizione proattiva. Qui, contrariamente all’esempio precedente, l’apprendimento della seconda lista di parole avviene prima dell’apprendimento della lista che verrà poi valutata. Da questi due esperimenti è stato dedotto che a maggiore somiglianza delle liste di parole da apprendere corrisponde una minore ritenzione. Comunque, l’inibizione proattiva produce minore dimenticanza dell’inibizione retroattiva (​​ memoria). Un ulteriore fenomeno che testimonia del t.d.a. è la predifferenziazione dello stimolo. I film didattici possono essere considerati un esempio quotidiano di predifferenziazione dello stimolo perché gli studenti che li vedono ricevono un’informazione preliminare da utilizzare nei momenti successivi di apprendimento. La visione di un film sulla cellula prepara gli studenti ad acquisire meglio le abilità necessarie alla corretta visione delle cellule al microscopio. La predifferenziazione dello stimolo viene largamente sfruttata con i pacchetti multimediali (​​ multimedialità) e consente un miglior t.d.a. perché i risultati di un gran numero di sperimentazioni hanno mostrato che quando uno studente ha l’opportunità di entrare in un ambiente globale ritiene un numero di informazioni sui componenti incontrati che lo preparano ad intrattenersi senza difficoltà con il pacchetto di apprendimento. L’apprendimento contrapposto è l’ultimo fenomeno trattato nello studio del t.d.a. Il soggetto impara a discriminare tra due colori, ad es. il rosso e il blu in un insieme di oggetti colorati di rosso e di blu; deve poi operare la scelta corretta quando gli viene chiesto di indicare uno dei due colori e subito dopo gli viene chiesto di indicare l’altro colore. All’inizio trova difficoltà nello scegliere la seconda opzione dato che è influenzato dalla prima scelta corretta, poi, con l’esercizio, migliora e arriva a non commettere più errori. Nell’apprendimento extra-dimensionale il soggetto impara prima a discriminare, ad es. scegliendo un oggetto quadrato in un insieme di oggetti quadrati e rotondi, e poi a contrapporre la sua scelta scegliendo l’oggetto rotondo. Queste contrapposizioni sono difficili per molti studenti perché sono presenti effetti negativi dato che l’individuo tende a persistere nello scegliere l’oggetto quadrato che all’inizio era l’opzione corretta. Man mano che si eseguono prove, la tendenza a scegliere la prima opzione s’indebolisce e, con ulteriori prove, l’utente arriva al punto di non fare più errori.

3.​​ Aspetto pedagogico-didattico del t.d.a.​​ Tre modi di vedere il t.d.a. hanno dominato fin dall’epoca più antica: la disciplina formale, la presenza di elementi identici e la conoscenza di principi generali. Attraverso lo studio della geometria ci si aspettava di veder migliorare le abilità della ragione come attraverso lo studio del latino ci si aspettava di veder migliorare la memoria. Sebbene molti educatori abbiano creduto al potere della disciplina mentale, i test sperimentali l’hanno rifiutata perché le abilità di ragionamento di gruppi di studenti di matematica della scuola superiore, confrontati con altri studenti ugualmente capaci che non avevano però lo stesso esercizio in campo matematico non hanno mostrato nessuna differenza nel ragionamento logico. È stata postulata una teoria alternativa che afferma come il t. tra attività ha luogo solo se dette attività condividono gli stessi elementi. Da questa teoria deriva la predizione che l’abilità nell’addizionare aiuta notevolmente l’abilità nel moltiplicare dato che la moltiplicazione è un insieme di addizioni. La formulazione circa gli «elementi comuni» è stata scossa quando è stato sperimentalmente scoperto che è la comprensione di principi generali ad avere il maggiore effetto sul t.d.a. La disciplina formale, la presenza di elementi comuni e la conoscenza di principi generali più che teorie rigorosamente definite sono punti di vista che possono avviare ricerche e sperimentazioni. Ad es. si potrebbe ipotizzare che l’abilità in matematica non produce miglioramento nelle abilità di ragionamento forse perché l’insegnamento è svolto in modo tradizionale. Il t.d.a. resta da esplorare e deve essere un impegno di ogni insegnante / educatore per aiutare di più e meglio i propri studenti.

Bibliografia

Mestre J. (Ed.),​​ T. of learning: research and perspectives. From a modern multidisciplinary perspective, Greenwich (CT), Information Age, 2005; Singley M. K. - J. R. Anderson,​​ The t. of cognitive skill, Cambridge, London, Harvard University Press, 1989; De Beni M.,​​ Costruire l’apprendimento, Brescia, La Scuola, 1994;​​ Royer​​ J. M. (Ed.),​​ The cognitive revolution in educational psychology, Greenwich (CT), Information Age, 2005.

C. Cangià

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TRANSFER DELL’APPRENDIMENTO

TRANSFERT / CONTROTRANSFERT

 

TRANSFERT /​​ CONTROTRANSFERT

Il t. (o traslazione, come il termine compare nella ediz. it. delle​​ Opere complete​​ di​​ ​​ Freud) indica nella sua accezione più generale l’atteggiamento emotivo (positivo o negativo) del paziente nei confronti del proprio psicoanalista. In un’accezione più specifica viene definito come il processo mediante cui il paziente proietta sulla figura dello psicoanalista affetti, pensieri e condotte originariamente relativi a persone della propria esperienza precedente l’analisi e in particolare relativi a persone facenti parte del proprio nucleo familiare.

1. Per Freud, il t. non caratterizza esclusivamente la situazione analitica – si può infatti parlare di t. in diverse situazioni interpersonali quali quelle rappresentate dalla relazione tra medico e malato, fra maestro e allievo, tra ipnotizzatore e ipnotizzato ma è nella situazione analitica, e soltanto in essa che il t. viene interpretato e utilizzato come fondamentale strumento terapeutico. Diversamente da altri concetti cardine della​​ ​​ psicoanalisi, quello di t. è stato oggetto, da parte di Freud, di una elaborazione progressiva. Questo termine indica nei primi scritti freudiani soltanto una delle modalità di spostamento dell’affetto da una rappresentazione a un’altra, mentre dal 1912 (La dinamica della traslazione) e in gran parte come conseguenza della scoperta e sistematizzazione del complesso edipico, della riflessione sui problemi tecnici che i primi trattamenti psicoanalitici sollevavano nonché dei contributi dei primi allievi, quali ad es. Ferenczi, che già nel 1907 aveva mostrato come nell’analisi, ma anche nelle tecniche di suggestione e di ipnosi, il paziente inconsciamente facesse svolgere al medico il ruolo delle figure parentali amate o temute il t. diviene il principale strumento della tecnica psicoanalitica. Per Freud (che identifica nel t. sia una componente negativa, «l’arma più forte della resistenza», sia una componente positiva caratterizzata dall’emer-gere di sentimenti positivi nei confronti dell’analista, che consentono di «stabilire una relazione positiva con l’analista» e che viene quindi in parte a coincidere con la «alleanza terapeutica») la situazione psicoanalitica crea le premesse indispensabili per il sorgere della «nevrosi di t». Per Freud, dunque (che a più riprese, fino negli ultimi scritti, sottolinea la centralità del concetto di t. considerandolo, insieme alla teoria della rimozione e alla teoria pulsionale, «uno dei tre pilastri su cui si regge la dottrina psicoanalitica delle nevrosi») il t. crea «una provincia intermedia fra la malattia e la vita, attraverso la quale è possibile il passaggio dalla prima alla seconda». In questo senso il t., o meglio la nevrosi di t. (una sorta di «malattia artificiale completamente accessibile agli attacchi» dello psicoanalista) diventa il mezzo principale per «domare la coazione a ripetere». Diventa cioè una sorta di palestra in cui quest’ultima può espandersi in una «libertà quasi assoluta e dove le è prescritto di presentarci tutti gli elementi pulsionali patogeni che si nascondono nella vita psichica dell’analizzando». La nevrosi di t. (che svolge «l’inestimabile servizio di rendere attuali e manifesti gli impulsi amorosi, occulti e dimenticati dei malati») diventa così il principale strumento analitico, lo specifico terreno della cura analitica. Per Freud dunque il t., «che fa sì che il paziente scorga nel medico un ritorno di una persona importante del suo passato [...] e trasferisca quindi su di lui sentimenti e reazioni che spettavano a questo modello» si rivela come «un momento di insospettata importanza nel trattamento psicoanalitico». Da un lato dunque il t. è considerato «un mezzo ausiliare di valore inestimabile», dall’altra una fonte di seri pericoli. «La lotta tra il medico e il paziente [...] si svolge quasi esclusivamente nell’ambito dei fenomeni di t. È su questo terreno che deve essere vinta la battaglia e la vittoria si esprime nella guarigione definitiva della nevrosi» (Freud, 1912). Il concetto di t. ha assunto nei diversi autori un’estensione assai ampia fino ad abbracciare tutti i fenomeni inerenti alla relazione del paziente con lo psicoanalista; esso esprime quindi, più che qualsiasi altro concetto, la concezione di ciascun analista in merito alla cura, al suo oggetto, alla sua dinamica, alla sua tattica, ai suoi obiettivi.

2. Il c. (o controtraslazione) può essere definito come la risposta inconscia dello psicoanalista al paziente e più particolarmente al suo t. Il concetto di c. è stato scarsamente elaborato da Freud, che lo considera «l’effetto dell’influsso del malato sui sentimenti inconsci del medico». Freud dunque (che ritiene che «ogni psicoanalista procede esattamente fin dove glielo consentono i suoi complessi e le sue resistenze interne») utilizza il concetto di c. per indicare quei «difetti personali dell’analista che interferiscono con la sua capacità di dare un’esatta valutazione del paziente». In questo senso, e tenendo conto delle particolari condizioni in cui si svolge il lavoro analitico, Freud fa riferimento al c. quasi esclusivamente per sostenere in un primo tempo la necessità che l’analista, «riconoscendo in se stesso l’esistenza della controtraslazione», affianchi «alle proprie esperienze con i malati» l’approfondimento della propria autoanalisi e in un secondo momento per sostenere la necessità dell’analisi didattica, che metterebbe l’analista in grado di «imparare abbastanza dai suoi stessi errori e di superare i punti deboli della sua personalità». Il concetto di c. ha successivamente assunto una notevole importanza (tanto sul piano metodologico che sul piano teorico) nella psicoanalisi post-freudiana. La posizione dei diversi autori rispetto alla delimitazione di questo concetto non è univoca. Per alcuni infatti il c. riguarda tutti gli aspetti della personalità dell’analista che possono intervenire nella cura, mentre per altri esso si riferisce esclusivamente ai processi inconsci che il t. dell’analizzato induce nell’analista. Dal punto di vista tecnico si possono distinguere schematicamente tre orientamenti: a) ridurre il più possibile le manifestazioni di c. mediante l’analisi personale; b) utilizzare, senza perderne il controllo, le manifestazioni del c. nel lavoro analitico; c) orientarsi, per l’interpretazione stessa, sulle proprie reazioni di c., spesso assimilate, in questa prospettiva, alle emozioni che si sono provate. Tale atteggiamento postula che la risonanza «da inconscio a inconscio» costituisca la sola comunicazione autenticamente psicoanalitica.

Bibliografia

Nagera H.,​​ I concetti fondamentali della psicoanalisi, Torino, Bollati Boringhieri, 1974; Gill M. M.,​​ Teoria e tecnica dell’analisi del t., Roma, Astrolabio / Ubaldini, 1985; Semi C. A. (Ed.),​​ Trattato di psicoanalisi, Milano, Cortina, 1988; Etchegoyen R. H.,​​ I principi della tecnica psicoanalitica, Roma, Astrolabio / Ubaldini, 1990; Luborsky L.,​​ Capire il t., Milano, Cortina, 1992; Gill M. M.,​​ Psicoanalisi in transizione, Ibid., 1996; Langen D. - K. Mann,​​ Training autogeno, Milano, Red Edizioni, 2006.

F. Ortu - N. Dazzi

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TRANSFERT / CONTROTRANSFERT

TRASCENDENZA – Esperienza della

 

TRASCENDENZA (Esperienza della)

1.​​ Il tema della trascendenza nella C. e nella cultura attuale.​​ La C. ha oggi da fare i conti con una diffusa mentalità orizzontalista. Interi filoni culturali vi si ritrovano: l’orizzonte storico-esistenziale è assunto come approdo definitivo. La stessa mentalità secolare, come celebrazione delle realtà terrestri, può suffragare tale tendenza. In questo contesto l’annuncio evangelico spesso si scontra con una tenace insensibilità.

La tradizione cat. ha percorso itinerari diversi per aprirsi un varco sulla trascendenza intesa come realtà alternativa e definitiva. Si è avvalsa per lo più della riflessione razionale sul mondo: è partita dall’esperienza sensibile per affermare la realtà ultra-sensibile (Tommaso).

La ricerca attuale è concentrata sull’esperienza e la sua interpretazione. È più riflessione antropologica che cosmologica. E tuttavia proprio da questa sua fondamentale accentuazione sembra aprire spazi insospettati per la C. Di fatto la C., soprattutto a partire dal Sinodo 1977, si interpreta come C. esperienziale e sollecita un’attenzione privilegiata a quei risvolti che lasciano presagire una presenza trascendente. La stessa riflessione antropologica offre oggi apporti molteplici. L’istanza di trascendenza è superamento dell’uomo (Nietzsche), è umanizzazione delle condizioni storiche (Marx), è anelito di speranza (Bloch); è almeno ricerca di una nuova qualità di vita (istanza radicale). Più acutamente la filosofia esistenziale ha identificato l’esistenza in un progetto mai conchiuso e perciò permanentemente sollecitante. Dove la ricerca antropologica ha fatto spazio attento alla dimensione religiosa l’ha radicalmente ancorata all’istanza di trascendenza che fermenta e qualifica l’esistenza umana.

Alcuni studiosi hanno portato a lucida elaborazione un cumulo di elementi presenti nella cultura contemporanea. G. Marcel, ad es., ha mostrato con vigile e paziente analisi fenomenologica lo sbocco obbligato dell’esperienza nella trascendenza, quando voglia attingere intera e piena la risposta (Dal rifiuto all’invocazione).​​ Così Max Scheler ha tentato anche di interpretare gli aspetti peculiari e specifici in cui si articola la dimensione trascendente dell’esperienza (L’eterno nell’uomo).​​ Secondo tutta questa diffusa sensibilità attuale soggiace cioè all’esperienza più diversa che l’uomo conduce un pungolo irrisolto, un’attesa inappagata, un’esigenza di pienezza e di totalità sproporzionata a ogni incontro, eppure irriducibile. Quasi richiamo che giunge da profondità disattese, difficilmente esprimibili; irriducibilmente “oltre” rispetto a qualunque realizzazione.

2.​​ EdT e legittimazione dell’atteggiamento religioso.​​ È una testimonianza che l’uomo porta con sé: presagita, più che conosciuta; più interiore e più personale di qualunque formulazione esplicita o decisione cosciente. La parte più segreta dell’esistenza, forse anche la risorsa più feconda e preziosa, cui l’uomo non rinuncia, pena il più desolato ripiegamento e abbandono. È da questa profondità che l’uomo appella a Dio. Il puntare allora all’istanza di trascendenza, presagirla, tentarne l’interpretazione cosciente, tematizzarla adeguatamente, potrebbe costituire un iter che incontra la solidarietà dell’uomo attuale, in grado di interpretarlo fino a celebrarne le attese più irrinunciabili. Dio risulta appello e proposta che dilata l’esistenza e spalanca orizzonti proporzionati alla sua tenace ambizione; o forse meglio, alla sua vocazione più vera. “L’esigenza di Dio — secondo la osservazione concisa e chiara di Marcel — non è che l’esigenza di trascendenza che scopre il suo autentico volto”.

Purché la riflessione sulla trascendenza venga condotta fino all’incontro con il Tu che accoglie e dialoga. Di fronte al quale l’esistenza si trova realizzata e contemporaneamente sospinta oltre se stessa, in una partecipazione e in una comunione appagante a un tempo e carica di sollecitazione e di futuro. “La caratteristica dell’atto di trascendenza — rileva ancora Marcel —-, preso nella sua ampiezza, è d’essere orientato; in linguaggio fenomenologico diciamo che comporta un’intenzionalità... È un’esigenza, un appello... Non è cioè pensabile che sulla base di una certa partecipazione ad una realtà che mi sorpassa e mi avvolge”. A questa realtà fa appello l’esistenza.

3.​​ La valorizzazione dell’EdT nella C.​​ La C., soprattutto dove privilegia l’itinerario esperienziale, può ragionevolmente avvalersi dell’apporto offerto dalla ricerca antropologica e religiosa attuale. Resta naturalmente irrisolto il margine di ambiguità che l’esperienza della trascendenza comporta, esposta com’è a ridursi al bisogno dell’uomo e perciò a chiudersi nel progetto personale o nell’utopia storica. È d’altronde compito della riflessione catechetica assecondare e illuminare gli sforzi di un’accorta antropologia religiosa che sappia legittimamente approdare sul versante della trascendenza, quale realtà definitiva cui anela l’esistenza.

Bibliografia

M.​​ Buber,​​ L’eclissi di Dio,​​ Milano, Comunità, 1961; J. Gevaert,​​ La dimensione esperienziale della catechesi,​​ Leumann-Torino, LDC, 1984; A. J. Heschel,​​ Dio alla ricerca dell'uomo,​​ Torino, Boria, 1969; M. Horkheimer,​​ La nostalgia del totalmente altro,​​ Brescia, Queriniana, 1977; E.​​ Levinas,​​ Totalité​​ et​​ infini,​​ La​​ Haye,​​ Nijhoff,​​ 1961;​​ G.​​ Marcel,​​ Dal rifiuto all'invocazione,​​ Roma, Città Nuova, 1976; R. Otto,​​ Il Sacro,​​ Milano, Feltrinelli, 1966; K.​​ Rahner,​​ Hörer des Wortes,​​ München, Kösel, 1969; M. Scheler,​​ L'eterno nell'uomo,​​ Milano,​​ Fratelli​​ Fabbri, 1972; Z.​​ Trenti,​​ Esperienza e Trascendenza,​​ Leumann-Torino, LDC, 1982.

Zelindo Trenti

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TRASCENDENZA – Esperienza della

TRATTI DELLA PERSONALITÀ

 

TRATTI DELLA PERSONALITÀ

I t. sono una caratteristica duratura (ad es. «cordiale», «onesta») per mezzo della quale le persone si differenziano l’una dall’altra; essi si manifestano in modo consistente in varie situazioni e sono molto numerosi. Da alcuni decenni vari ricercatori hanno pensato che la saggezza popolare insita nei t. potrebbe essere un punto di partenza per la descrizione scientifica della personalità. Ma questo richiede previamente di riordinare i molteplici numerosi t. e ridurli ad un ragionevole numero. Questa operazione è stata fatta da alcuni autori dopo un’attenta riflessione: sono infatti stati eliminati i sinonimi con il procedimento dell’analisi fattoriale (​​ ricerca).

1.​​ Struttura.​​ I t. così vagliati sono stati considerati dei fattori costitutivi della personalità ma sul loro numero per descriverla per mezzo dei questionari ci sono ancora notevoli incertezze in quanto esso oscilla da un massimo di 58 ad un minimo di 3. I t. non descrivono la personalità in modo esauriente in quanto componenti importanti come valori non sono colti dai t. e i t. stessi non includono necessariamente le competenze (Matthews e Deary, 1998). I t. sono disposti in una struttura gerarchica, formata da un numero di t. indipendente (cosiddetto 1° strato) e da quelli combinati tra loro che formano il 2° strato. I t. del 1° strato vengono chiamati anche t. di sorgente in quanto sono costitutivi della personalità, mentre quelli che non appartengono a tale strato si chiamano t. di superficie in quanto integrano la descrizione della medesima (Teglasi, Simcox e Kim, 2007). Ogni t. ha il suo opposto con cui forma la specifica dimensione della personalità. Il t. si manifesta in una determinata situazione, senza cui esso è solo una disposizione latente. Il t. sotto un unico termine riassume vari comportamenti che si manifestano in differenti situazioni; i comportamenti sono dei segni o degli indici da cui viene fatta un’inferenza al rispettivo t. latente. Per poter valutare l’intensità di un t. occorre osservare il soggetto in varie situazioni; lo stesso t. può inoltre manifestarsi nelle medesime situazioni in modo differente. I t. si formano nell’interazione del soggetto con il suo ambiente e tale formazione è influenzata in modo rilevante dai fattori genetici. Infatti, i figli della stessa famiglia, nonostante la relativa uniformità del clima formativo dei genitori, presentano una grande variazione in numerosi t. I t. vengono utilizzati in tre grandi aree per diagnosticare o per descrivere la personalità: nel differenziale semantico, nei costrutti personali e nei​​ ​​ questionari di personalità.

2.​​ Critica ai t.​​ Nel 1968, W. Mischel (1968) ha sostenuto che i t. non sono altro che delle schematizzazioni di colui che osserva il comportamento altrui e quindi inesistenti nel soggetto osservato (Rogers, 1995, 619). Il​​ ​​ comportamento umano, di conseguenza, è dovuto alla situazione, i t. sono solo debolmente correlati con i criteri e hanno quindi una scarsa utilità pratica. L’opera di Mischel ha avuto notevole eco e ha contribuito a rinvigorire il neocomportamentismo nel suo aspetto di diagnosi comportamentale, basata sull’osservazione diretta del comportamento. Ai segni del t. è stato sostituito il campione di comportamento. L’obiettivo della diagnosi non è più rappresentato dalla stabilità del comportamento ma dalla sua fluttuazione, dovuta alla situazione e l’attenzione è stata spostata dalle differenze interindividuali a quelle intraindividuali. Volutamente sono state ignorate le cause remote del comportamento mentre l’attenzione veniva rivolta all’apprendimento precedente del soggetto, al suo ambiente attuale e alle conseguenze del comportamento prodotto in una specifica situazione. In quanto ai mezzi diagnostici non sono stati considerati importanti i requisiti tradizionali come la validità di criterio (concorrente e predittiva) e la validità di costrutto. L’unico tipo di validità richiesto per tali mezzi è stato quello della validità di contenuto. La critica di Mischel ha avuto un effetto benefico sui t. in quanto alcune sue affermazioni sono state sottoposte ad una accurata verifica. È stata constatata una grande variazione nei coefficienti per gruppi e t.; alcuni gruppi sono risultati molto consistenti, altri meno consistenti e la stessa cosa valeva per i t. Anche i coefficienti di correlazione considerati bassi da Mischel confermavano in molti casi la loro utilità pratica. Vari t. inoltre risultavano correlati in modo rilevante con alcuni criteri sociali importanti, come per es. l’aggressività infantile con la delinquenza nell’adolescenza. Nella polemica sono stati disattesi i dati ottenuti sui gemelli monozigoti i quali, pur avendo vissuto in ambienti diversi si rassomigliavano notevolmente in numerosi t. L’effetto più importante però consisteva nella combinazione del t. con la situazione e nella riscoperta dell’interazionismo: è stato infatti ampiamente riconosciuto che il comportamento è dovuto sia al t. che alla situazione. Attualmente vari metodi, come la «psicostoria» e la «psicobiografia» hanno confermato che i t. sono molto stabili lungo tutto l’arco della vita umana. Come reazione alla critica sono stati elaborati nuovi questionari con le metodologie più avanzate.

3. Una domanda ineludibile è quella del rapporto dei t. con i disturbi di personalità. Dato che i t. sono positivi e negativi si potrebbe supporre che i primi descrivono il soggetto sano mentre quelli negativi definiscono il soggetto disturbato. In realtà tanto i primi quanto i secondi sono utili per entrambi tipi di soggetti, ma differente è la distribuzione delle frequenze dei medesimi per le due categorie (sana e disturbata). Livesley e Jang (2005), sostengono che i t. (positivi e negativi) dei soggetti affetti da patologia occupano posizioni estreme della distribuzione normale, essendo solo bassi o alti. Inoltre, tali soggetti in determinati t. risultano rigidi in quanto reagiscono a differenti situazioni in modo uguale (un paranoide si sentirà minacciato in ogni situazione e da ogni persona). Ostendorf e Riemann (2005) riportano i dati di alcuni studi secondo i quali la corrispondenza tra il DSM-IV (disordini della personalità) e il Five-Factor Model of Personality - FFM (cinque t. positivi) quanto alla varianza è stata soltanto di 52-70% il che indica da un lato un discreto accordo tra i due procedimenti diagnostici e dall’altro una significativa differenza cogliendo le due situazioni della salute psichica. Di conseguenza Ostendorf e Riemann sostengono che il FFM può diagnosticare i disordini della personalità in modo attendibile e valido.

4.​​ L’utilizzazione educativa.​​ I t., essendo modificabili, si prestano al potenziamento e alla correzione con opportuni interventi educativi. Data la loro notevole stabilità lungo tutta la vita umana, essi offrono la possibilità di prevedere l’evolversi di alcuni comportamenti socialmente indesiderabili (aggressività-delinquenza), e quindi possono costituire interventi di prevenzione già in tenera età. La distinzione tra t. di sorgente e t. di superficie può essere di guida nell’educazione poiché offre una realistica possibilità di prevedere l’efficacia di un intervento in quanto i primi sono più resistenti al cambiamento dei secondi. Infine i t. danno la possibilità di prevedere (ed anche prevenire) l’esito dell’interazione tra il soggetto e la situazione specifica nell’adattamento scolastico, professionale e sociale (​​ orientamento, teoria di Holland).

Bibliografia

Mischel W.,​​ Personality and assessment, New York, Wiley, 1968; Rogers T. B.,​​ The psychological testing enterprise: an introduction, Pacific Grove, Brooks / Cole, 1995; Matthews G. - I. J. Deary,​​ Personality traits, Cambridge, Cambridge University Press, 1998; Ostendorf F.- R. Riemann,​​ Personality and personality disorders: introduction to the special issue, in «European Journal of Personality» 19 (2005) 249-256; Livesley W. J. - K. L. Jang,​​ Differentiating normal,​​ abnormal,​​ and disorder personality, in «European Journal of Personality» 19 (2005), 257-268; Teglasi H. - A. G. Simcox - N. Y. Kim,​​ Personality constructs and measures, in «Psychology in the Schools» 44 (2007) 215-228.

K. Poláček

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TRATTI DELLA PERSONALITÀ

TRINITÀ

 

TRINITÀ

Nella teoria della pedagogia religiosa nessuno mette in dubbio che la tradizione cristiana ha sempre professato Dio come uno e trino, “Padre, Figlio e Spirito Santo” (Mi​​ 28,19) e che anche nella C. contemporanea deve essere presentato in questo modo. Rare volte però si affronta questo problema. In certe concezioni, espresse in forma privata piuttosto che pubblicamente, applicate nella pratica ma poco riflesse, esistono comunque diversità di opinioni circa le seguenti domande: Questa professione del Dio uno e trino è come tale comprensibile e significativa — almeno per fanciulli e giovani — oppure si tratta soltanto di una inutile eredità proveniente da antiche controversie concettuali? E ammesso che si tratti di una realtà comprensibile e significativa, in quale età, in quale contesto, secondo quali modalità bisogna trattare questa professione di fede?

I.​​ L’annuncio biblico​​ — anche se formulato per adulti e non per fanciulli o giovani — offre i seguenti orientamenti e compiti.

2.​​ Il​​ contesto​​ nel quale il NT parla del Dio uno e trino non è mai quello di una astratta speculazione sull’essenza di Dio, ma è quello del​​ lieto messaggio​​ di Gesù che è altamente significativo; questo messaggio lo si può formulare soltanto in forma trinitaria: Dio in quanto “Padre” ci invita, per mezzo di Gesù Cristo, suo “Figlio” (Parola, Immagine), ad accogliere in noi il suo “Spirito” e a vivere come suoi figli e sue figlie; in tutta la nostra sensibilità, nel nostro pensiero, nel nostro agire, come singoli e come partner sociali, dobbiamo poter dire insieme con Cristo e in forza del suo Spirito: “Abbà, Padre” (Rm​​ 8,15;​​ Gal​​ 4,6). Certamente nelle numerose e antiche formule trinitarie il NT (2​​ Ts​​ 2,13;​​ Ef​​ 1,3;​​ 1 Pt​​ 1,1;​​ Mt​​ 28,19) riflette anche su Dio in sé; tale riflessione però si iscrive sempre nel contesto “salvifico” della C. battesimale, della parenesi, della lode liturgica, della professione di fede e della benedizione, vale a dire: per annunciare e spiegare il lieto messaggio del nostro nuovo rapporto con Dio (F. J. Schierse 1967).

3.​​ I rapporti tra il Padre, il Figlio e lo Spirito, e i loro rapporti con noi costituiscono per il NT​​ una ben distinta trinità.​​ Il Padre è sempre e solo “Colui che manda”, l’Origine e il Fine; il Figlio è mandato, e con il Padre manda lo Spirito, il quale non manda ma viene soltanto mandato. Dall’angolatura dell’uomo: “Nello” Spirito “tramite” il mediatore Cristo abbiamo accesso “verso” il Padre (E/ 2,18).

Di fronte a questo dato i fanciulli e i giovani con una abituale istruzione religiosa provano grande difficoltà nel differenziare i loro rapporti con “Dio”. Anche se nella liturgia e nella C. hanno imparato la dossologia “Gloria al Padre...” e altre formule trinitarie, si dimostrano insicuri e perfino incapaci quando devono indicare in che modo i tre in Dio si riferiscono a noi e in che cosa si distinguono tra loro. Molti non sanno far altro che ripetere materialmente la formula solenne della professione trinitaria: “Padre, Figlio e Spirito Santo”, e si smarriscono subito quando iniziano con la persona sbagliata. Per esempio, ancora verso 12-13 anni, la voce “Dio” è associata con “Gesù Cristo, Spirito Santo, san Michele”; oppure: “Padre, Figlio, Gesù Cristo, tre persone divine”; oppure caratterizzano la prima Persona come “Padre di Dio”, o come “Chef delle tre persone divine” (J.-P. Deconchy 1967, 157ss). '

4.​​ Per il NT la trinità di Padre, Figlio e Spirito​​ non contiene alcuna contraddizione con la fede nell’unico Dio,​​ non vi è in nessun modo la fede in tre divinità (Tritheismus). Il NT ha parlato senza problemi di questa trinità nell’opera di Dio verso di noi (“trinità salvifica”) e nel suo essere (“trinità immanente”), anche se gli occorreva rivendicare fortemente la fede nell’unico Dio contro il politeismo del tempo. Per il NT la Trinità indica con ogni chiarezza trinità-unità, intendendo questa unità come aperta e non già come rigida. Fanciulli, giovani e adulti oggi provano invece notevoli difficoltà con questa trinità in Dio:

a)​​ Spesse volte la sentono come​​ contrapposta alla fede nell’unico Dio;​​ finché non ci riflettono molto, concepiscono i tre in Dio come tre Esseri indipendenti, tre Io, che​​ collaborano​​ tra loro come una famiglia armoniosa. Nel modo abituale di comprendere la fede questo “grossolano triteismo, non enunciato come tale ma presente “sotto la pelle”“ è probabilmente molto più frequente che non la tendenza contraria, vale a dire concepire la Trinità in forma modale, soltanto come tre modi di operare (non come tre modi di essere) di un Dio che in sé è strettamente unitario (K. Rahner 1967, 342). Più tardi questo conduce all’obiezione: Dio non può essere che​​ una sola persona;​​ non ci può essere che​​ uno solo​​ Ultimo, Infinito, verso il quale ci rivolgiamo nella preghiera e al quale dobbiamo la nostra esistenza.

b)​​ Perciò molti hanno l’impressione che la Trinità di Dio sia una​​ contraddizione logica:​​ non è possibile che Dio consista contemporaneamente di una e di tre persone. Non appena nei ragazzi di 11-12 anni si sviluppa il pensiero logico-formale, essi diventano progressivamente sensibili a questa difficoltà.

II.​​ Per la educazione religiosa e l’IR oggi​​ questi problemi conducono alle seguenti finalità e compiti.

1.​​ Il​​ contesto​​ in cui, anche abbastanza presto, il discorso del Dio uno e trino diventa comprensibile e significativo è, stando al NT,​​ il lieto messaggio dell’agire salvifico del Dio uno e trino verso di noi.​​ Occorre sempre e soprattutto far vedere come nella nostra ricerca, nel nostro ringraziamento e nella nostra preghiera entriamo in contatto con​​ Dio Padre,​​ con il suo Figlio Gesù Cristo e con il suo Spirito. Soltanto a partire dalla Trinità nel nostro rapporto con Dio — per i più piccoli sarà inizialmente soltanto in modo intuitivo, più tardi con maggiore riflessività — potrà essere resa comprensibile la trinità di Dio in sé. Una riflessione sulla trinità di Dio in sé deve sempre e soltanto venire come chiarimento del lieto messaggio. Non deve mai essere presentata come una dottrina su Dio isolata dal lieto messaggio. In forma più esplicita se ne deve parlare al fanciullo soltanto dai 9 anni in poi.

2.​​ Riuscire a distinguere chiaramente e in riferimento all’esperienza la trinità di Padre, Figlio e Spirito è un obiettivo che per fanciulli di 6-8 anni è già rilevante e raggiungibile. Lo dimostrano le osservazioni, tuttora valide, fatte con il testo didattico canadese​​ Viens vers le Pere​​ (Équipe catéchétique 1965; Marie de la Visit. 1966; B. Grom 1970,​​ 123128;​​ 138-147).

Dopo i primi stimoli per il raccoglimento, i fanciulli vengono introdotti ad avere fiducia in “Dio-Padre”, a ringraziarlo, a collaborare con lui e a usare correntemente questo titolo; poi viene chiaramente presentato Gesù come messaggero e Figlio di “Dio-Padre”, con il quale possiamo pregare insieme il Padre nostro; infine è presentato lo Spirito Santo come colui che ci aiuta affinché anche noi possiamo parlare e agire con Dio-Padre come ha fatto Gesù. Quindi se la prima iniziazione al lieto messaggio viene impostata in questo modo, il fanciullo sarà presto in grado, senza confusione e incertezza, di costruire rapporti differenziati con le tre Persone, e sarà anche in grado di chiarirli. Il risultato è attendibile almeno nel caso in cui il fanciullo (e i suoi genitori) si dimostrano interessati a una regolare preghiera personale. Sul piano linguistico occorre distinguere chiaramente tra “Gesù” e “Dio” (o → “Dio Padre”), e non già, come capita spesso, chiamare Gesù “buon Dio” o “salvatore”, ma semplicemente “Gesù”.

3.​​ L’altro obiettivo, complementare con il precedente, cioè arrivare a vedere la​​ unità nella trinità,​​ evitando il fraintendimento triteistico, può essere affrontato da due punti di vista:

a)​​ A partire dalla trinità,​​ quindi piuttosto nella linea della teologia orientale: in qualsiasi discorso sul Padre, sul Figlio, sullo Spirito deve apparire implicitamente che questi tre sono​​ sempre in relazione tra loro,​​ e quindi vanno visti insieme e non già a sé stanti. Invece per allievi a partire dai 9-10 anni, all’occasione, occorre esprimere esplicitamente questa unità.

Si potrebbe, per es., riflettere nel seguente modo: Che cosa si vuol esprimere chiamando “padre” una persona umana? Che cosa di questa caratteristica è valida anche per Dio-Padre e che cosa è diverso in lui? A differenza del padre umano, Dio-Padre non si può mai pensare senza il Figlio, perché egli è totalmente origine, fonte, donazione al suo (unico) Figlio. Analogamente il “Figlio di Dio” non è come il figlio di una persona umana che deve al padre umano la nascita e l’educazione, diventando però sempre più indipendente da lui: Gesù è totalmente “del Padre” di modo che — come nessun altro figlio — egli può dire di sé che è nel Padre e che il Padre è in lui (Gv​​ 14,9.11). Lo “Spirito” infine è precisamente l’amore con il quale i due sono collegati tra loro, e non già qualcosa d’altro che esiste accanto a loro, o paragonabile a un sentimento tra esseri umani che presto può scomparire o tramutarsi in odio. “Padre, Figlio e Spirito Santo” non significa quindi, come noi quasi spontaneamente ci immaginiamo, tre Io autonomi, che costituiscono per così dire un gruppo, ma un unico Dio, al quale posso dire “Tu”, anche se gli parlo come “Padre” (come nel Padre nostro) o come “Gesù” o come “Spirito Santo”, o come “Dio”, “Signore”, ecc.

La venerabile espressione del II Concilio di Costantinopoli: “Una divinità (natura) in tre persone” non è più utilizzabile oggi come formula cat., poiché a causa dei cambiamenti linguistici essa induce a malintesi. Nel tempo di quel Concilio e nel medioevo il termine “persona” indicava soltanto una componente di un tutto. Invece nell’attuale comprensione linguistica significa qualcosa che è assai più autonomo, vale a dire pienamente soggetto, coscienza di sé, Io (K. Rahner 1967, 343; 353ss; 365ss; W. Kasper 1982, 349). Di “tre persone” in Dio è meglio parlare soltanto a studenti (più grandi) che hanno già sentito parlare di questa formula e quindi devono essere istruiti circa il fraintendimento al quale sono esposti.

b)​​ A partire dall’unità,​​ e quindi piuttosto nella tradizione della teologia occidentale: senza aver la pretesa di “chiarire” o di risolvere il mistero di Dio, si potrebbe, partendo da una esperienza umana analoga, trasmettere una precomprensione del fatto che Dio non è un Io immobile, isolato, ma un Io comunicativo con “emanazioni”.

Per es.: un essere umano non è soltanto un Io, è pure un Io in dialogo con se stesso. Mi domando sempre di nuovo chi sono, e se posso accettarmi così come sono. In un certo senso si potrebbe dire che io sono trinitario: vivo come Io, sono consapevole di me stesso (sono anche un tu per me), sono da me stesso rifiutato o accettato. Analogamente Dio non è soltanto Io, ma è in qualche modo un​​ permanente colloquio con se stesso in tre tappe-,​​ il suo Io (come “Padre”, “Origine”) riconosce se stesso e si rispecchia, come se dicesse a se stesso “Tu”. Perciò è anche “Figlio” o “Parola” o “Immagine”. Dio però non rifiuta questo Tu o Immagine di sé, ma lo accetta radicalmente nella forza dell’amore, nello “Spirito Santo”. In questo senso Dio è interamente dialogo, affermazione di sé, è un sì. Anzi, anche a noi Dio vuol dire questo sì, nel suo Figlio e con la forza del suo Spirito, affinché siamo in grado di dire sì a noi stessi e al prossimo.

Questo tentativo può apparire non abituale e impegnativo. Partendo però dall’esperienza dell’uomo con se stesso, dovrebbe essere maggiormente plausibile che non i tanti paragoni impersonali e le tante “tracce della Trinità”, che a partire dai Padri della Chiesa sono state ripescate sempre di nuovo: l’unico triangolo, costituito da tre angoli; il trifoglio composto da tre foglie; oppure il fuoco composto da luce, calore e movimento, ecc. Scopo di questi e altri tentativi è permettere di farsi una vaga idea del fatto che Dio uno e trino significa “Dio è amore” (1​​ Gv​​ 4,8).

Bibliografia

P. Aubin,​​ Padre, Piglio, Spirito. La Trinità alla luce della Bibbia,​​ Torino, Gribaudi, 1978; W.​​ Breuning​​ (ed.),​​ Trinität,​​ Freiburg, 1984; J.-P.​​ DeconCHï,​​ Structures génétiques​​ de​​ l'idée​​ de​​ Dieu chez les catholiques français, garçons et filles de S à 16 ans,​​ Bruxelles, 1967; C. Ferrière,​​ Initiation des enfants à la vie trinitaire,​​ in «Lumen​​ Vitae»​​ 22 (1967) 713-726; U.​​ Gianetto,​​ Catechesi del mistero della Trinità,​​ in «Catechesi» 37 (1968) fase. 426, 19-22; B. Grom,​​ Der Mensch und der dreifältige Gott,​​ München, 1970; Id.,​​ L’homme et le Dieu-Trinité dans la catéchèse contemporaine,​​ in “Lumen​​ Vitae”​​ 25 (1970) 33-46; Id. – J.​​ Guerrero,​​ El​​ anuncio​​ del Dios​​ cristiano,​​ Salamanca, 1979; W.​​ Kasper,​​ Der Gott Jesu Christi,​​ Mainz, 1982; Marie de la Visitation,​​ Introduire un enfant dans le mouvement des relations trinitaires?​​ Une interview entre une fillette et une religieuse, in “Lumen​​ Vitae”​​ 21 (1966) 523-532; J.​​ Moltmann,​​ Trinität und​​ Reich​​ Gottes,​​ München, 1980; K.​​ Rahner,​​ Der dreifältige Gott als transcendenter Urgrund der Heilsgeschichte,​​ in J. Feiner – M. Löhrer (ed.),​​ Mysterium Salutis,​​ vol.​​ 2, Einsiedeln 1967, 317-397;​​ F.​​ J. Schierse,​​ Die neutestamentliche Trinitätsofenbarung,​​ ibid., 85-129; G. Wainwright,​​ The Trinity in the New Testament,​​ London, 1962.

Bernhard Grom

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TRINITÀ

TRSTENJAK Anton

 

TRSTENJAK Anton

1.​​ Anton Trstenjak nacque 1’8-1-1906 a Gornja Radgona, diocesi di Maribor (allora appartenente alla monarchia austro-ungarica, dopo la prima guerra mondiale alla Jugoslavia, e ora parte della Rep. Soc. Slovena). Frequentò il ginnasio a Maribor; studiò filosofìa (1925-1929) e teologia (1929-1930) a Innsbruck e si laureò in entrambe. L’incontro con Gatterer, Jungmann e più tardi Croce fu decisivo per il suo lavoro nel campo della C. Ordinato sacerdote nel 1935, divenne prof, di religione nel ginnasio statale e nello stesso tempo professore di filosofia nel seminario maggiore di Maribor. Conseguì l’abilitazione con una brillante dissertazione su​​ Metodi di C.​​ e fu nominato docente di catechetica presso la Facoltà di teologia di Ljubljana. Il suo vol.​​ Metodi di C.​​ divenne presto testo ufficiale per la preparazione dei futuri prof, del ginnasio. Fu tradotto in diverse lingue straniere, tra cui l’italiano.

2.​​ L’interesse per la C. condusse T. allo studio della psicologia presso A. Gemelli a Milano (Istituto di psicologia del S. Cuore), che nel 1945 gli offrì una cattedra. Analoga offerta gli venne fatta dall’Univ. di Graz (Austria). Le sue ricerche scientifiche nell’ambito della C., alla luce della psicologia, sbocciarono nel libro​​ Psicologia pastorale,​​ che fu tra i primi e più importanti lavori in questo ambito. Nominato prof, ordinario alla facoltà di Ljubljana, continuò le sue ricerche scientifiche sull’attività umana, studiando la creatività, l’attività economica, ecc. In quel periodo scrisse sette volumi sull’uomo, di cui​​ II cammino dell’uomo​​ fu tradotto in italiano. Le sue ricerche di psicologia erano indirizzate in modo particolare verso la psicologia dei colori, settore in cui diventò un’autorità mondiale.

T. ha scritto oltre 40 libri e più di 300 studi scientifici (in gran parte riassunti delle sue conferenze tenute in Europa e in America, utilizzando quattro lingue mondiali). Ha il merito di aver incominciato, tra i primi, a studiare problemi cat. e pastorali con l’aiuto della psicologia.

Bibliografia

A. Trstenjak,​​ La metodica dell’insegnamento religioso.​​ Saggio di psicologia religioso-pedagogica, Milano, Vita e Pensiero, 1945. La seconda ed. porta il titolo​​ Psicologia e pedagogia nell'insegnamento religioso,​​ ivi, 1955.

Walter Dermota

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