TEODORO DI MOPSUESTIA

 

TEODORO DI MOPSUESTIA

1.​​ Nato ad Antiochia, allievo di Diodoro di Tarso e del retore Libanio, fu condiscepolo di Giovanni → Crisostomo. Dissuaso dal Crisostomo a sposarsi ritornò alla vita monastica. Ordinato sacerdote verso il 383, esplicò con zelo ad Antiochia il ministero sacerdotale fino al 392, quando fu eletto vescovo di Mopsuestia in Cilicia. Morì nel 428, altamente stimato per la sua scienza e ortodossia dai contemporanei. Più tardi però, visto quale maestro di Nestorio, fu condannato come “nestoriano” dal II Concilio di Costantinopoli (V ecumenico) nel 553.

T. è stato rivalutato da studi recenti. È inaccettabile ritenerlo “nestoriano prima di Nestorio”. T. è il più celebre esegeta della scuola di Antiochia. Le sue numerose opere nel testo originale andarono quasi tutte distrutte. Alcune però, in traduzioni orientali, furono scoperte nei primi decenni del nostro secolo, tra cui sedici omelie cat. nella versione siriaca, di incerta data.

2.​​ Pensiero cat.​​ T. fa subito risalire gli uditori al mondo invisibile, oggetto di fede, fondamento delle cose da sperare (I, 3-4).​​ Dio uno e trino-,​​ primario oggetto di fede, egli è uno (contro il politeismo; IX, 3, 16); di natura divina, comune alle tre Persone, distinte quanto all’ipostasi (= lo specifico di ciascuna). Dio è Padre, il Figlio gli è consustanziale (II, 14-15), coeterno, suo Verbo, da cui tutto fu creato (III, 15); lo Spirito S. procede dal Padre, crea, libera, rinnova.​​ Piglio ed economia dell’umanità del Signore:​​ l’incarnazione è l’unione tra ciò che era da sempre e ciò che venne nel tempo: il Verbo, forma di Dio, assunse la forma di schiavo, per cui “tutto ciò che (appartiene) alla natura dell’uomo, egli (il Verbo) lo prese su di sé ... lo perfezionò con la sua potenza ...​​ lo​​ strappò alla morte ... lo risuscitò dai morti ...​​ lo fece immortale ... lo fece salire al cielo” (V, 5-6). Ciò costituisce l’originalità della cristologia di T.; circa il​​ modo​​ dell’unione, T. nelle C. non disquisisce.

Per non fraintendere T., è necessario tener presente lo schema cristologico delle C., ossia la distinzione tra Christus-in-carne e Christus-in-Spiritu: nel primo caso l’umano è mortale e mutabile, nel secondo, immortale e immutabile (Efeso e​​ Calcedonia​​ preferirono al senso della storia, più biblico, la realtà dell’essere, più greco; J. M.​​ Lera​​ 1977, 300s). Cristo è uomo perfetto (contro il docetismo) (XIII, 8): così con l’incarnazione e la risurrezione di Cristo l’anima umana ritornò all’immortalità originaria, condizione dell’immortalità futura del corpo (V, 11), poiché tutto l’uomo doveva essere redento. In Cristo, fra Dio e Uomo c’è comunicazione di proprietà (VI, 4-7). Ne deriva la gloria per l’assunto e la nostra associazione definitiva a Dio (V, 1). Noi ci troviamo così impegnati in rapporto alle realtà invisibili e ai loro simboli, alla edificazione della città di Dio.

Pur accentuando più la rottura che la continuità tra AT e NT, T. mostra come le realtà umane e veterotestamentarie sono inserite nella nuova alleanza in Cristo (I, 3), che rinnovando tutta la creazione la trasporrà nei cieli (I, 4), e di ciò Cristo è già garante. Trascinati nel trionfo di Cristo anche noi saremo immortali e immutabili (VII, 4) nella Gerusalemme celeste; per pervenire alla quale il fedele deve “crescere”, sui passi di Cristo, in modo da passare alla “catastasi” futura mediante i sacramenti, che sono “l’indicazione in segni e simboli di cose invisibili e ineffabili” (XII, 2).

Per il rapporto tra il battesimo del cristiano e quello di Cristo, la rigenerazione battesimale si configura come “typos” della vera nascita eterna nella risurrezione dei morti. Il sacramento racchiude la figura del mondo futuro e le primizie dello Spirito (V, 4, 19).​​ Il battesimo e l’eucaristia:​​ lo snodarsi dei riti liturgici esprime l’eucaristia come memoriale della morte-risurrezione di Cristo (XII, 6-7), figura della nostra morte-sepoltura, della rigenerazione (VI, 13), partecipazione ai beni futuri. Gesti di rottura col demonio sono l’iscrizione del catecumeno nei registri della Chiesa, la sua accettazione nella Chiesa colla professione del Simbolo (XII, 26-27), col Pater, la rinunzia a Satana e l’adesione a Cristo (XIII, 3-15). È arruolato con Cristo col segno di croce in fronte. Il battesimo poi è inizio della seconda nascita e la triplice immersione segna il dono della grazia filiale (XIV, 23-25). Qui entra l’eucaristia-memoriale dell’unico, eterno sacrificio e preludio dell’economia futura. Eucaristia è cibo e presenza: noi riceviamo il primo cibo da chi ci ha generati, ossia dallo Spirito, che ha fecondato le acque e ora trasforma pane e vino nel corpo e sangue di Cristo.

La liturgia terrestre è figura di quella celeste. Viene così​​ la Chiesa:​​ istituzione, ma anche figura delle realtà celesti (XII, 11-13) e nella liturgia quaggiù c’è scambio molteplice tra realtà visibili e invisibili. La vita terrena è passaggio alla seconda catastasi: si esige l’impegno personale per adeguare la vita terrena al dono ricevuto nei sacramenti (XI,​​ 212)​​ in vista della​​ vita eterna.

Bibliografia

1.​​ Fonti

A. Mingana,​​ The Commentare of​​ Théodore​​ of Mopsuestia on the Iticene Creed,​​ 2 vol., Cambridge, 1932-1933;​​ R.​​ Tonneau –​​ R.​​ Devreesse (ed.),​​ Les homélies​​ catéchétiques de​​ Théodore​​ de JAopsueste,​​ Città del Vaticano, 1949 (ripr. fotost. del Ms Mingana Syr. 561; introd.; trad.; index).

2.​​ Studi

M. Jugie,​​ Le “Liber​​ ad baptizandos” de​​ Théodore​​ de Mopsueste,​​ in​​ «Échos d’Orient»​​ 38 (1935)​​ 235271;​​ J. M. Lera, “...​​ y se hizo hombre”. La​​ economia trinitaria​​ en las catequesis de​​ Teodoro​​ de Mopsuestia,​​ Bilbao, 1977; I. Onatibia,​​ La vida​​ cristiana tipo​​ de las realidades celestes,​​ in “Scriptorium Victoriense” 1 (1953) 100-133; G. Touton,​​ La méthode catéchétique de S. Cyrille de Jérusalem comparée​​ à​​ celle de St. Augustin et de Théodore de Mopsueste,​​ in «Proche-Orient chrétien» 1 (1951) 265-285; J. Vernette,​​ La méthode catéchétique de Théodore de M.opsueste,​​ Rome, Université Grégorienne, 1954​​ (tesi).

Ottorino​​ Pasquato

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TEODORO DI MOPSUESTIA

TEOLOGIA DELL’EDUCAZIONE

 

TEOLOGIA DELL’EDUCAZIONE

La TdE fa parte delle cosiddette “teologie col genitivo d’oggetto”, cioè di quella serie di ricerche teologiche che si propongono di chiarire, alla luce della fede cristiana, importanti settori delle realtà terrene, quali la storia, il lavoro, il progresso, l’educazione, ecc. Queste teologie si sono affermate subito dopo la seconda guerra mondiale in seguito all’incidenza sulla comunità cristiana di tutta una serie di fatti nuovi, quali il pluralismo ideologico e culturale, i processi di secolarizzazione e di scristianizzazione della culuta occidentale; fatti che provocarono l’emergere di molteplici problemi, teorici e pratici, ai quali la teologia dei manuali postridentini non era in grado di dare una risposta soddisfacente. Le teologie delle realtà terrene invece, sia pure tra molte difficoltà e incertezze, si sforzavano di trovarne qualcuna.

L’esigenza, però, di una fondazione teologica dell’educazione è molto anteriore alle teologie col genitivo d’oggetto: la troviamo già presente negli anni ’20-’30 all’interno della pedagogia “cattolica” sia nei paesi latini che in quelli dell’area culturale tedesca: la teologia viene postulata come scienza fondante nei confronti della pedagogia che si qualifica come cristiana. Un altro gruppo di scritti di pedagogia cristiana (si tratta in gran parte di opere di divulgazione) ritiene di poter attingere i propri materiali direttamente dalla Bibbia; nascono così le “Pedagogie del Vangelo”, una specie ibrida, che non è né teologia né pedagogia. Comunque gli scritti che portano il nome di TdE compaiono solo a partire dagli anni 1949-1950.

Tra i primi studiosi di TdE vanno ricordati P. C.​​ Leoncio​​ da Silva (che espone un progetto di TdE nel Congresso Internazionale di Pedagogia,​​ Santander​​ 1949), E. A.​​ Fitzpatrick,​​ S. E. Gallego Yriarte, Th. C. Donlan, F. Pòggeler, E.​​ Murtas,​​ G. Corallo, P. Braido, P. Gianola, G. Groppo, ecc. In seguito alla svolta antropologica della teologia nel postconcilio, anche la TdE entrò in crisi. Sono significativi a questo proposito gli scritti di R. Spaemann, di H. Bokelmann e di J. G.​​ Carrasco.​​ Chi però ripropose in modo radicale tutto il problema dello studio teologico dell’educazione e dei rapporti tra teologia e pedagogia fu H. Schilling agli inizi degli anni ’70. Circa 10 anni dopo C. Bissoli affrontò in modo critico il problema dei rapporti tra Bibbia ed educazione, offrendo indicazioni valide per una rinnovata concezione della TdE.

Tenendo presenti queste nuove prospettive, diremo schematicamente come si dovrebbe intendere la TdE dopo la svolta antropologica della teologia, il suo punto di partenza, la sua natura e i suoi problemi.

La TdE è semplicemente teologia senza ulteriori aggettivi. Perciò, come ogni ricerca teologica, la TdE parte dall’esperienza di fede della comunità cristiana attuale, con tutti i suoi problemi riguardanti il campo dell’educazione, e tenta di interpretarla criticamente. Le attese e le esigenze del nostro tempo, la prassi e le teorie pedagogiche attuali, proposte dalle scienze dell’educazione, costituiscono i “segni dei tempi” che stimolano il teologo a reinterpretare i testi biblici e della tradizione per scoprire in essi l’autentica Parola di Dio sull’educazione. A questo punto, però, deve evitare una grossa tentazione: quella di ricavare deduttivamente dalla Bibbia o dai grandi principi della fede teorie pedagogiche o strategie educative. Rischierebbe di ideologizzare la fede, riducendola a strumento di sostegno di determinate istituzioni o prassi o teorie educative, concepite come le uniche che meritino il nome di cristiane.

La TdE inoltre, in quanto teologia, possiede le due dimensioni proprie di ogni sapere teologico, quella teorica e quella pratica, anche se l’interesse per quest’ultima è prevalente. Infine, è un sapere di natura ermeneutica e ha per oggetto non l’educazione, ma la Parola di Dio su l’educazione, così come la si può ricavare dalla Bibbia e dalla Tradizione ecclesiale sotto l’urgenza dei problemi provocati dall’incarnarsi della fede nella cultura. I problemi che la TdE si pone sono molteplici. Ne accenniamo alcuni tra i principali: a) Qual è la rilevanza pedagogica dell’antropologia cristiana? della dottrina dell’uomo come immagine di Dio e di Cristo? della presenza del “peccato” e della “redenzione” nell’umanità? della potenza della “grazia”? Nel rispondere a questi problemi il teologo non deve dimenticare che le antropologie teologiche del pasasto, nonostante i loro grandi meriti, sono sempre letture parziali, culturalmente condizionate della Parola di Dio sull’uomo. Pertanto sono possibili nuove prospettive antropologiche, che siano contemporaneamente fedeli al messaggio cristiano e tuttavia fortemente divergenti da quelle del passato, b) Quale rilevanza pedagogica possiede la concezione cristiana della salvezza integrale dell’uomo in rapporto ai processi di promozione e di maturazione umana, stimolati dalle scienze dell’educazione? Qui si tratta, di esaminare criticamente tutta una prassi ascetico-pastorale del passato, molto spesso disumanizzante, alla luce di una reinterpretazione della Parola di Dio. c) Come ripensare la funzione educativa della famiglia, della scuola, della comunità cristiana nei nuovi contesti culturali in cui oggi i cristiani vivono la loro fede? Nel fare questo esame critico il teologo deve convincersi che tradizioni anche secolari del passato non necessariamente si identificano con “l’indispensabile” della fede, d) Come concepire oggi l’educazione “cristiana” e i processi di maturazione del cristiano singolo e della comunità? Qual è la funzione della C., della liturgia nei processi di maturazione della fede? ecc.

La TdE tenterà di reinterpretare la Parola di Dio su questi problemi e su tutti gli altri che la realtà educativa pone, non con la pretesa di scoprire da sola le soluzioni concrete, ma piuttosto per poter partecipare, in un dialogo alla pari con le scienze dell’educazione, alla scoperta di soluzioni valide e attuali in consonanza con la Parola di Dio. In questo lavoro la TdE potrà esercitare verso le scienze dell’educazione una funzione critica (mettendone in luce le antropologie latenti) e integratrice (offrendo ai loro obiettivi orizzonti ultimi di significato). Considerandosi, alla pari di tutte le scienze, un tipo di sapere sempre in cammino e perfettibile, potrà contribuire efficacemente ad una rinnovata umanizzazione del mondo e della cultura.

Bibliografia

C. Bissoli,​​ Bibbia ed educazione. Contributo storico-critico ad una teologia dell’educazione,​​ Roma, LAS, 1981 (ampia bibl.); E. A. Fitzpatrick,​​ Exploring a Theology of Education,​​ Milwaukee, 1950; G. Groppo,​​ Origine del dialogo tra Pedagogia e Teologia,​​ in H. Sobillino,​​ Teologia e scienze dell’educazione. Problemi epistemologici,​​ Roma, Armando, 1974, 15-65 (ampia bibl. sulle origini e gli sviluppi della TdE fino agli anni 1970); C.​​ Leoncio​​ da​​ Silva,​​ Líneas fundamentales​​ para una teologia de la​​ educación,​​ in “Salesianum” 11 (1949) 615-628; V. Sinistrerò,​​ Il Vaticano II e l’educazione,​​ Leumann-Torino, LDC, 1970.

Giuseppe Groppo

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TEOLOGIA DELL’EDUCAZIONE

Per t.d.e. si intende lo studio sistematico dei problemi educativi alla luce della fede cristiana, costituitosi recentemente come nuova disciplina teologica con funzione integrativa della filosofia dell’educazione in istituzioni universitarie di pedagogia di orientamento cristiano.

1.​​ Origine.​​ È da appena una cinquantina d’anni che si parla di t.d.e. Tuttavia riflessioni occasionali o sistematiche sull’educazione e la formazione umana di natura teologica sono rintracciabili in diversi scritti dei Padri della Chiesa e dei teologi medioevali e moderni. Gli storici della pedagogia le collocano sotto la categoria generica di​​ ​​ pedagogia cristiana, ma non le qualificano normalmente come teologiche. Prima ancora che si parlasse di t.d.e., durante la prima metà di questo secolo, si affermò tra i pedagogisti cattolici di lingua tedesca, l’esigenza di una fondazione teologica della pedagogia cristiana, la quale, nel frattempo, era stata elevata da​​ ​​ Willmann​​ alla dignità di «scienza cristiana dell’educazione». Però, anche quando la t.d.e. altrove si era già affermata, ci furono sempre notevoli resistenze a dare il nome di t.d.e. a questa fondazione teologica della pedagogia cristiana, nonostante la proposta di qualche studioso sia cattolico (F. Pöggeler) che evangelico (H. Köhler). Sempre nell’area culturale tedesca ma nell’ambito della confessione evangelica, a partire dagli anni Venti / Trenta con l’affermarsi della rinascita luterana e della t. di K. Barth, apparvero vari studi di natura teologica sull’educazione, studi, però, che definivano in termini di opposizione dialettica i rapporti tra fede ed educazione e tra t. e pedagogia. Questi scritti, ripresi e approfonditi dopo la seconda guerra mondiale, ebbero un notevole influsso su diversi pedagogisti cattolici di lingua tedesca, i quali cominciarono a rivedere in modo critico le loro posizioni tradizionali, contestate tra l’altro anche dai rappresentanti della pedagogia scientifica per motivi di tipo epistemologico. Queste differenti concezioni della pedagogia cristiana e dei rapporti tra pedagogia e t., emerse in ambito cattolico ed evangelico nei Paesi di lingua tedesca, arrivarono, già a partire dagli anni Trenta / Quaranta, nei paesi latini e anglosassoni attraverso la mediazione del mondo culturale fiammingo e contribuirono, assieme ad altri fattori, alla nascita della t.d.e. come nuova disciplina teologica. In ambito cattolico si affermò anzitutto l’esigenza di una fondazione teologica della pedagogia cristiana. Infatti quando nel 1949, al Congresso Internazionale di Pedagogia di Santander (Spagna) per la prima volta si parlò ufficialmente di t.d.e., questa fu presentata come la concretizzazione di tale esigenza (​​ C. Leôncio da Silva). Altre circostanze contribuirono efficacemente ad un suo primo e progressivo affermarsi. Anzitutto l’invito rivolto ai teologi da G. Thils, di occuparsi anche delle «realtà terrestri» (tra queste l’educazione), creando nuove discipline teologiche accanto a quelle tradizionali. In secondo luogo la necessità di distinguere, per correttezza epistemologica, nell’ambito di una teoria generale dell’educazione di ispirazione cristiana, la prospettiva filosofica da quella teologica, arrivando conseguentemente alla creazione di due discipline distinte: la filosofia dell’educazione e la t.d.e. (J. Mortimer Adler e E. A. Fitzpatrick, 1950). Queste ed altre cause resero possibile, a partire dal 1945, la nascita della t.d.e. come disciplina universitaria all’interno dell’Istituto Superiore di Pedagogia dell’allora Pontificio Ateneo Salesiano. Attualmente essa fa parte, assieme alla filosofia dell’educazione, delle discipline comuni dei vari curricoli della Facoltà di Scienze dell’Educazione nell’Università Pontificia Salesiana. I primi progetti di t.d.e. appaiono nel 1950 per opera di C. Leôncio da Silva e di E. A. Fitzpatrick. Durante gli anni Sessanta e Settanta la t.d.e. diviene oggetto di ulteriori riflessioni, di consensi e di critiche (E. Murtas,​​ ​​ G. Corallo, P. Braido). Per quanto riguarda il mondo protestante anglicano, troviamo la t.d.e. presente nel curricolo di pedagogia, a partire dal 1972, nell’università di Birmingham (Regno Unito), dove dal 1977, nella nuova facoltà di pedagogia, è possibile conseguire un «Master of Education Degree» in «Theology and Education» (J. M. Hull, L. J. Francis e A. Thatcher, 1990).

2.​​ Crisi e trasformazione. Durante gli anni del postconcilio, in seguito alle profonde trasformazioni operatesi nell’ambito della t. cattolica ed evangelica e all’intensificarsi del dialogo tra le due confessioni cristiane e tra la t. e le scienze umane, la t.d.e. andò in crisi e sentì il bisogno di trasformarsi. Studiosi cattolici ed evangelici si preoccuparono di rivedere le loro posizioni sul senso di una t.d.e. intesa come t. delle realtà terrestri (R. Spaemann, 1964; I. G. Carrasco, 1969), sui rapporti tra fede ed educazione, tra t. e scienza / e dell’educazione (H. Bokelmann, 1969). Su quest’ultimo tema è doveroso ricordare a parte l’opera decisiva di H. Schilling (1970). Negli anni Ottanta e all’inizio degli anni Novanta del sec. scorso vengono pubblicati diversi studi di t.d.e., tra i quali il saggio di t. biblica dell’educazione di C. Bissoli (1981, 1983); le riflessioni critico-metodologiche di G. Colombo (1989) sulla natura della t.d.e.; le interessanti prospettive di G. Abbà (1989, 1991) per la costruzione di una teoria dell’educazione morale all’interno di un’etica della virtù, contenuta nella t. di s.​​ ​​ Tommaso d’Aquino; e una nostra indagine sull’origine, natura, compiti della t.d.e. (1991).

3.​​ Natura e metodo di una t.d.e. rinnovata. Utilizzando i risultati di questa indagine, vorremmo tentare un ripensamento della t.d.e., offrendo piste di soluzione a problemi rimasti ancora aperti. Riteniamo necessario, come prima cosa, ribadirne la natura «teologica». La t.d.e. non intende in alcun modo identificarsi né sostituire la pedagogia cristiana e neppure potrebbe essere considerata in senso stretto una «scienza dell’educazione». In quanto disciplina teologica, essa ha come suo oggetto proprio la Parola di Dio riguardante, direttamente o indirettamente, l’educazione in tutta la sua complessità. La Parola di Dio, però, è «incarnata» in una pluralità di eventi, di linguaggi (biblici, liturgici, magisteriali), di prassi e di istituzioni ecclesiali, il tutto profondamente connotato dalle culture nelle quali fu espresso e trasmesso; per conseguenza essa è raggiungibile solo attraverso la previa interpretazione delle mediazioni umane, soprattutto ma non unicamente linguistiche, che in qualche modo la contengono. Perciò il teologo deve, mediante un’indagine scientifica di tipo ermeneutico, tentare di scoprire, nei testi biblici, ciò che Dio volle dire all’uomo sull’educazione attraverso gli autori umani che li hanno redatti e, nei testi della tradizione, ciò che la Chiesa ha ritenuto come Parola di Dio sull’educazione, quindi supremamente normativa per la sua fede e la sua vita. Facendo questa ricerca, il teologo dovrebbe essere animato dalla convinzione che la Parola di Dio, anche se pronunciata nel passato e incarnata in determinate culture, non si identifica totalmente con le formule nelle quali fu espressa e tramandata, ma le supera immensamente. Perciò si chiede se siano possibili e legittime nuove interpretazioni della Parola di Dio sull’educazione, che permettano non solo di superare le formule e le prassi tradizionali, ma anche di costruirne di nuove, le quali, senza essere in contraddizione con quelle che la Chiesa ha «definito» nel passato, risultino più rispondenti alle esigenze della situazione culturale, nella quale le comunità cristiane devono confessare e testimoniare la loro fede. Al termine di questa indagine, il teologo dovrebbe essere in grado di formulare una sintesi dei contenuti della Parola di Dio sull’educazione nella sua complessità, non solo organizzando in modo sistematico e logicamente coerente le affermazioni bibliche e quelle della tradizione, ma anche mettendo in luce la rilevanza pedagogica dell’antropologia e della teleologia contenute nel sistema teologico al quale ha aderito o lui stesso si è costruito. Il teologo, però, costata che la Parola di Dio, pur con tutta la luce che gli apporta e le ispirazioni che gli può suggerire, non basta da sola a risolvere i problemi educativi concreti, dai quali tutta la ricerca teologica ha preso le mosse. Ciò è dovuto alle finalità essenzialmente (ma non esclusivamente) soteriologiche della Parola di Dio rivolta all’uomo nell’A. e nel N.T., anche nei casi in cui essa si occupa direttamente o indirettamente di educazione Inoltre questa Parola, a causa del suo stato di acculturazione, è necessariamente «datata», e quindi non può, da sola, offrire soluzioni «concrete» ai problemi sempre nuovi, che l’impatto della fede con la cultura genera in continuità in campo educativo. Tuttavia, proprio perché l’intenzione comunicativa di Dio supera sia le formulazioni linguistiche che la esprimono come pure le realizzazioni prassiche e istituzionali escogitate dalle comunità cristiane del passato per incarnarne gli imperativi pratici, il teologo si sente obbligato, in quanto uomo e in quanto cristiano, ad impegnare la sua ragione e tutto il suo sapere in una ricerca creativa di soluzioni concrete, che siano valide nel contesto culturale in cui egli vive, e, nello stesso tempo, compatibili coi contenuti essenziali e con gli orizzonti di significato della Parola di Dio nella sua totalità. Questo compito ulteriore, però, il teologo può realizzarlo solo mediante un dialogo interdisciplinare con il sapere pedagogico (​​ epistemologia pedagogica).

4.​​ Le funzioni della t.d.e. nel dialogo interdisciplinare con le scienze dell’educazione.​​ I tradizionali modelli di rapporto tra la t. e la pedagogia cristiana (modelli di tipo gerarchico o analogico), oggi, tendono a ristrutturarsi secondo i nuovi paradigmi dialogici di tipo multidisciplinare o interdisciplinare. Essi tengono conto dello sviluppo attuale della t.d.e. e della trasformazione della pedagogia in scienze dell’educazione. All’interno di questo dialogo la t.d.e. esercita nei confronti delle scienze dell’educazione una triplice funzione: critica, stimolatrice e integratrice. Anzitutto una funzione​​ critica. Si tratta di un atteggiamento critico sia verso la propria antropologia e teleologia che verso quella del partner. È necessario prima di tutto scoprire, all’interno della Parola di Dio, un’antropologia e una teleologia, che permettano una più profonda comprensione del mistero dell’uomo, delle sue strutture, della sua condizione esistenziale, dei suoi fini, entro cui interpretare la Parola di Dio sull’educazione. In secondo luogo l’atteggiamento critico è verso le antropologie e le teleologie sottese dalle diverse teorie pedagogiche, chiedendosi fin dove e in che modo la concezione dell’uomo, veicolata da queste teorie, sia in consonanza con la Parola di Dio. Nell’uno e nell’altro caso questo lavoro di revisione critica viene fatto in funzione di una eventuale collaborazione tra t.d.e. e scienze dell’educazione. In secondo luogo una funzione​​ stimolatrice. Lo studio sempre più approfondito della Parola di Dio sull’educazione offre al teologo la possibilità di scoprire prospettive inedite sull’educazione, che egli comunica ai cultori delle scienze dell’educazione in funzione della costruzione di nuove teorie pedagogiche. E infine una funzione​​ integratrice.​​ La t.d.e. è impegnata a ricavare dalla Parola di Dio sull’uomo e sul suo destino un valido orizzonte ultimo di senso per tutta l’attività umana, quindi anche per l’educazione. Inoltre la t.d.e., esercitando le due funzioni precedenti nei confronti delle scienze dell’educazione, può entrare in collaborazione con esse per la costruzione di teorie pedagogiche e strategie didattiche, che possano qualificarsi come cristiane, non perché diventano teologiche, ma perché studiano e progettano i processi di maturazione umana (in se stessi comuni a tutti gli uomini), all’interno dei processi di​​ ​​ conversione e di crescita cristiana.

5.​​ Compiti attuali della t.d.e.​​ Riteniamo che oggi la t.d.e. dovrebbe far fronte ai seguenti quattro impegni specifici. Con l’aiuto delle scienze dell’educazione, dovrebbe anzitutto recensire i principali problemi che le culture attuali pongono alla fede delle comunità cristiane in campo educativo e pedagogico. Dovrebbe in secondo luogo assumere con vivo senso critico le attese delle comunità cristiane circa la natura e i contenuti della salvezza cristiana (una salvezza liberatrice e promotrice di umanità), i problemi dell’autonomia – relativa – delle realtà e finalità temporali, il significato della funzione umanizzatrice dell’educazione. In terzo luogo la t.d.e. dovrebbe studiare a fondo i processi di conversione e di crescita cristiana, per comprendere in qual modo possano diventare contemporaneamente processi di autentica promozione e maturazione umana. E infine la t.d.e., sempre in collaborazione con le scienze dell’educazione, dovrebbe arrivare a tracciare i parametri fondamentali di un itinerario di crescita e maturazione umano-cristiana sia a livello personale che comunitario, definendo contemporaneamente le componenti essenziali dell’​​ ​​ educazione cristiana.

Bibliografia

Schilling H.,​​ T. e scienze dell’educazione. Problemi epistemologici. Introduzione di G. Groppo, Roma, Armando, 1974; Bissoli C.,​​ Bibbia e educazione. Contributo storico-critico ad una t.d.e.,​​ Roma, LAS, 1981; Colombo G., «Per una t.d.e.», in G. Saldarini (Ed.),​​ Il presbitero educatore,​​ Casale Monferrato (AL), Piemme, 1989, 48-77; Francis L. J. - A. Thatcher (Edd.),​​ Christian perspectives for education, Leominster, Fowler Wright Books, 1990; Abbà G.,​​ Una filosofia morale per l’educazione alla vita buona, in «Salesianum» 53 (1991) 273-314; Groppo G.,​​ T.d.e. Origine identità compiti, Roma, LAS, 1991; Crump Miller R. (Ed.),​​ Theologies of religious education, Birmingham, Religious Education Press, 1995;​​ De la Tribouille A.,​​ L’éducation à la lumière de la Révélation, Paris, Mame / Cerf​​ 1996; Bissoli C.,​​ Il dibattito sulla pedagogia cristiana. Alcune puntualizzazioni, in «Orientamenti Pedagogici» 54 (2007) 357-368.

G. Groppo

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TEOLOGIA DELL’EDUCAZIONE

TEOLOGIA FONDAMENTALE

 

TEOLOGIA FONDAMENTALE

1.​​ La TF sembra stia diventando sempre più la prima​​ scienza di riferimento​​ della pedagogia religiosa In questo senso sembra assumere il ruolo che tradizionalmente — come è chiaramente visibile nell’insegnamento del catechismo — era attribuito alla dogmatica. L’IR e la C. — almeno nell’Europa occidentale — non si concepiscono più oggi come pura trasmissione delle “verità di fede” prestabilite e formulate dogmaticamente. Assai più e con sempre maggiore insistenza — soprattutto nell’IR scolastico — s’impone la domanda: che cosa parla​​ in favore della fede​​ (→ Apologetica), in quanto possibilità decisionale profondamente umana e piena di promesse. In questo senso vengono in primo piano una serie di problemi che hanno tutti a che fare con la​​ giustificazione della fede e della sua credibilità-,​​ il problema del rapporto critico tra esperienza del mondo, oppure esperienza di sé, e la tradizione della fede cristiana (→ correlazione); il problema della​​ verità​​ della fede cristiana nel contesto del sapere tecnico-scientifico. Rendere conto della fede è un compito che la pedagogia religiosa ha in comune con la TF. In un certo senso si può dire che l’attuale IR è caratterizzato dal fatto che si orienta verso la TF.

Questo compito comune è però assunto in modo diverso. La TF, attraverso un discorso scientifico o riferito alla teoria scientifica, cerca di rendere conto della giustificabilità della fede e della fecondità della decisione di fede di fronte ai metodi della conoscenza scientifica e dei risultati delle scienze (cf per es. W. Pannenberg 1975). Nell’IR e nella C. il rendere conto della fede riguarda piuttosto la domanda se la decisione di fede abbia una funzione salutare oppure sia alienante nella prassi della vita quotidiana, nelle esperienze di vita e nelle crisi esistenziali dei giovani. Più sinteticamente: la TF deve porsi la domanda se la fede si giustifichi al cospetto della scienza. L’IR deve confrontarsi con il problema se la fede si giustichi nel contesto della vita umana. È importante che sia il discorso scientifico della TF, sia la prassi dell’IR facciano chiaramente vedere che la fede funziona anche come​​ correttivo critico​​ nei confronti del modo in cui abitualmente le scienze comprendono se stesse, come pure nei confronti di quel modo “normale” in cui l’uomo comprende se stesso, o che abitualmente si fa valere nella prassi della vita.

2.​​ Assai più di prima questi diversi modi di rendere conto della fede e della sua credibilità obbligano la pedagogia religiosa a una più intensa​​ cooperazione-,​​ la problematica scientifica delle scienze naturali, come pure delle scienze dell’uomo, si orienta sempre più verso la manipolazione tecnica della natura e del suo impatto sull’ambiente vitale dell’uomo, oppure verso le implicazioni e prospettive per la vita di ogni giorno. Per restare in dialogo con questi intenti scientifici, la TF dovrà porsi anch’essa la domanda circa il possibile apporto della fede per risolvere i problemi della vita quotidiana e superare le principali esperienze di alienazione (o di identità; cf J. Werbick 1983).

Sia la TF che la pedagogia religiosa , volendo aderire al fatto oggettivo, devono oggi praticare una teologia “in loco”, nel contesto del “quotidiano” con le sue sfide e i suoi processi di comunicazione. Senza il riferimento a queste esperienze, la descrizione teorica della conversione e della fede, che deve essere realizzata dalla TF, resterebbe astratta e senza attinenza alla storia. Perciò la pedagogia religiosa , operando sul piano pratico in questo ambito dell’esperienza, è il naturale interlocutore della TF. Questo dialogo fornisce alla TF l’accesso a quella base dell’esperienza alla quale essa deve riferirsi in modo riflesso, se non vuol perdere il carattere di una “scienza dell’esperienza”.

Con la stessa urgenza la pedagogia religiosa deve ricorrere al lavoro delle altre discipline teologiche, in particolare la TF. L’esegesi e la teologia sistematica devono verificare se i processi di apprendimento della fede e in vista della fede, messi in opera dalla C. e dall’IR, sono realmente ispirati dal Vangelo e aperti alla fede; esse devono esaminare se in tali processi di apprendimento si realizza ancora quella conversione che fa apparire come piena di promesse la fiducia fondamentale nel Dio di Gesù Cristo. La TF studia in modo particolare la forza di convincimento e la carica ispiratrice di quelle​​ motivazioni della fede​​ che insistono sul carattere​​ salvifico​​ della fede nei confronti dei molteplici conflitti e crisi della vita umana. Cercando di elaborare questi motivi della fede come​​ motivazioni​​ per accedere alla fede, la TF fonda quel lavoro di convincimento e di “fiducia” che deve essere svolto in tutti gli ambiti operativi della pedagogia religiosa​​ 

3.​​ In concreto, quale aiuto può aspettare la pedagogia religiosa dalla TF?

— Il chiarimento di​​ concetti fondamentali​​ e di​​ relazioni fondamentali​​ che sono rilevanti per la pedagogia religiosa : la TF deve stabilire fino a che punto la fede è relazionata alla​​ storia​​ e a​​ processi di apprendimento;​​ come essa procede dall’esperienza oppure penetra nell’esperienza o si rifa all’esperienza; come essa interpella l’intelligenza​​ umana; come porta l’intelligenza al di sopra di se stessa e nello stesso tempo la riconduce a sé.

— L’esame critico di tutte quelle ipotesi scientifiche che presumono un influsso negativo della fede sulla prassi della vita, oppure ricorrono ad argomentazioni scientifiche per mettere in questione la verità della fede: la TF deve confrontarsi in modo critico con le diverse forme della​​ critica della religione​​ ed esaminare in che senso esse possano contribuire all’autocritica della teologia.

— Criteri per distinguere tra espressioni autentiche e non autentiche e per riconoscere realizzazioni o articolazioni distorte e negative della fede cristiana: la TF deve esaminare quali fattori possono essere responsabili di una deformazione della fede cristiana in ideologia antiumana, e come si può superare la fede ideologizzata in vista di un autentico atteggiamento di fede cristiana.

— Proposte sul modo in cui, nel discorso delle scienze e nel processo di comprensione di sé, attraverso implicanze e prospettive della vita quotidiana, la fede può essere incontrata come la verità che risponde all’essere più profondo dell’uomo: la TF deve elaborare quale significato la verità della fede​​ può​​ avere per me nei confronti delle sfide che emergono dalla vita vissuta e nei confronti delle interpretazioni scientifiche di questa vita vissuta.

— Indicazioni del luogo dove è necessario decidere​​ pro​​ o contro la fede: la TF deve indicare le alternative fondamentali dell’esistenza umana alle quali si riferisce la decisione della fede; decisione che non è determinata in modo necessario dagli argomenti. In altre parole, di fronte al dispiegamento differenziato della fede in molte “verità di fede” la TF deve concentrare la fede cristiana su ciò che è il​​ centro,​​ il suo vero​​ essere.

È chiaro che queste possibili tematiche si riferiscono a contenuti e obiettivi che sono sicuramente centrali neU’apprendimento religioso scolastico e nell’apprendimento cat. È compito dei rappresentanti della TF e della pedagogia religiosa imparare gli uni dagli altri nell’elaborazione di queste problematiche.

Bibliografia

R. Latourelle​​ –​​ G.​​ O’Collins (ed.),​​ Problemi e prospettive di teologia fondamentale,​​ Brescia, Queriniana, 1980; R. Latourelle,​​ Per un rinnovamento della teologia fondamentale,​​ 6 vol., Assisi, Cittadella, 1982ss; W. Pannenberg,​​ Epistemologia e teologia,​​ Brescia, Queriniana, 1975; J. Seckler (ed.),​​ Handbuch​​ der Fundamentaltheologie,​​ Freiburg, Herder, 1984ss; J. Werbick,​​ Glaube in Kontext.​​ Prolegomena​​ und Skizzen zu einer​​ elementaren​​ Theologie,​​ Zürich,​​ Benziger, 1983.

Jürgen​​ Werbick

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TEOLOGIA FONDAMENTALE

TEOLOGIA PASTORALE

TEOLOGIA PASTORALE

Mario Midali

 

1. L’Ambito materiale

1.1. Ricognizione storica

1.2. Vaglio critico

1.3. La tematica

1.3.1. Necessità di una catalogazione aperta

1.3.2. Un elenco essenziale e indicativo

1.3.3. Legittimità e limiti dell’articolazione in discipline particolari

2. L’oggetto formale

2.1. Richiamo storico

2.2. Delimitazione critica

3. L’itinerario metodologico

3.1. Il metodo applicativo

3.2. Il metodo «vedere giudicare agire»

3.3. Metodo teologico, empirico-critico

3.4. Una proposta

3.4.1. La fase kairologica

3.4.2. La fase progettuale

3.4.3. La fase strategica

3.4.4. Itinerario teologico empirico-critico

4. La connotazione pastorale o pratica

4.1. Autocoscienza scientifica di un processo prussico

4.2. Rapporti con istanze autorevoli e decisionali

5. La qualifica teologica

5.1. Superamento di una contestazione

5.2. Mutua implicanza di prassi credente e teoria teologica

5.3. Riferimento specifico ai luoghi teologici

6. Il carattere scientifico

6.1. Inadeguatezza del modello scolastico

6.2. Utilizzo di una concezione moderna di scienza

6.3. L’istanza veritativa e l’esigenza di senso

7. Conclusione

 

La teologia pastorale è pure denominata teologia pratica (specialmente nei contesti di lingua tedesca) quando allarga il suo orizzonte di ricerca dal pastore alla comunità cristiana e al più vasto fenomeno della religione. La sua attuale configurazione è fatta in base ai seguenti punti di riferimento qualificanti: 1) l’ambito materiale; 2) l’oggetto formale; 3) l’itinerario metodologico; 4) la connotazione pastorale o pratica; 5) la qualifica teologica; 6) il carattere scientifico.

 

1. L’ambito materiale

1.1. Ricognizione storica

Storicamente attorno al termine «pastorale» usato per designare l’ambito di studio di questa disciplina teologica si sono radunati, in sostanza, tre gruppi di significati: 1) la delimitazione e fissazione del codice morale del pastore d’anime e l’organizzazione delle attività ecclesiastiche che a lui fanno capo; 2) la tematica riguardante il «ministero» pastorale considerato come esercizio di una «potestas» e la connessa sistemazione della capacità di iniziativa nella costruzione e conduzione della Chiesa; 3) la problematica attinente la configurazione storica dell’agire animato dalla fede in Gesù Cristo e, quindi, dell’azione della Chiesa nel suo divenire e modellarsi più o meno diversificato nella storia. Attualmente sono rilevabili tre distinti punti di vista: essi convergono nel riferirsi all’azione o alla prassi o all’esperienza; divergono nel delimitare la maggiore o minore ampiezza di tale azione o prassi o esperienza. Secondo l’orientamento tuttora prevalente nei documenti ecclesiastici, l’ambito di questa disciplina è​​ il campo d’azione proprio dei pastori,​​ considerato però in un’ampia prospettiva comprendente il rapporto Chiesamondo.

Per un consistente numero di autori cattolici e protestanti, l’oggetto materiale è piuttosto​​ l’azione o la prassi dell’intera comunità ecclesiale,​​ vista nel suo insopprimibile innesto nella società contemporanea e con particolare riferimento all’amplissima area dell’esperienza, intesa come realtà inglobante l’esistenza umana nel suo complesso.

Alcuni qualificati pastoralisti protestanti e cattolici allargano questa sfera di intervento della Chiesa alla​​ prassi religiosa extraecclesiale​​ o al più vasto e differenziato fenomeno religioso.

Se per i precedenti il centro di interesse è rispettivamente «il pastore» o la «Chiesa» o il «rapporto Chiesa-mondo», per questi ultimi è la «religione» o il «rapporto religione-chiesa-società».

Ognuna delle tre posizioni risponde a istanze che non si possono disattendere e poggiano su ragioni plausibili. D’altra parte la delimitazione di tale ambito non può essere fatta in base a una presunta concezione prevalente, tanto meno a una scelta convenzionale e arbitraria. Va piuttosto vagliata criticamente.

 

1.2. Vaglio critico

In un’impostazione sufficientemente ampia, coerente e attenta a tutto questo, l’ambito oggettuale della disciplina dovrebbe abbracciare la problematica concernente il​​ rapporto religione-chiesa-società​​ per le seguenti ragioni di fondo:

— tale scelta è quella maggiormente rispondente all’attuale realtà socio-culturale e religioso-ecclesiale assai pluralista e differenziata;

— è coerente con il messaggio biblico circa il primato e la maggiore estensione del Regno di Dio rispetto alla Chiesa, che di tale Regno è germe e segno;

— si colloca nella linea aperta dal magistero pastorale del Vaticano II riguardante la promozione del dialogo della Chiesa cattolica con le altre Chiese e comunità cristiane, con le religioni non cristiane e con la società contemporanea;

— consente di superare un presunto ecclesiocentrismo, una visione conflittuale tra prassi sociale e prassi ecclesiale, una contrapposizione tra concentrazione su tematiche intraecclesiali e apertura alla più vasta realtà socio-religiosa: questa tensione​​ ad intra - ad extra​​ attraversa il vissuto della Chiesa durante l’intera sua storia, per cui non è giustificata la scelta della tematica​​ ad intra​​ con esclusione di quella​​ ad extra,​​ e viceversa. All’interno di tale vasto orizzonte e in fedeltà a un’irrinunciabile ottica cattolica (è nota la minore attenzione del mondo evangelico alla tematica della Chiesa e il suo maggiore interesse alla realtà «religione»), soggetto portante e protagonista dell’intera azione cristiana e pastorale è sicuramente la Chiesa, popolo di Dio, comprendente pastori e fedeli nel senso del capitolo II della​​ Lumen Gentium.​​ Senza dubbio, tale azione va rapportata al fenomeno religioso presente al di là dei confini verificabili del cristianesimo e va considerata nel suo impatto nella società, secondo le prospettive aperte dal Vaticano II. Il posto e il ruolo specifico e insostituibile di coloro che, nella e per la Chiesa, sono rivestiti di un ministero ordinato va ormai inquadrato in una rinnovata ecclesiologia di comunione-partecipazione, che sviluppi alcuni asserti del recente Concilio e renda ragione del fatto che tutti i membri del popolo di Dio sono chiamati a essere soggetti attivi dell’intera azione ecclesiale, per altro da attuare con modalità e competenze distinte in forza di carismi e ministeri differenti.

 

1.3. La tematica

1.3.1. Necessità di una catalogazione aperta

Le proposte attuali rispecchiano le tre differenti delimitazioni appena segnalate e, nel loro insieme, offrono una caleidoscopica varietà di temi, che è difficile per non dire impossibile unificare.

Va rilevata la radicale insufficienza di ogni descrizione rigida della realtà oggetto di studio di questa disciplina, specie se condotta secondo schemi classici precostituiti com’è ad es. quello delle tre funzioni: profetica, sacerdotale, regale, o quello delle quattro azioni ecclesiali: annuncio della parola (kerigma), culto​​ (leitourgia),​​ rapporti ecclesiali (koinonìa)​​ e impegno sociale (diakonìa). Tali schemi rilevano alcuni aspetti significativi dell’azione o prassi religiosa cristiana ed ecclesiale, ma si dimostrano insufficienti a coglierla e inquadrarla nel suo insieme in modo soddisfacente.

Redigere un catalogo esauriente delle tematiche teologico-pastorali o teologico-pratiche è un’impresa di fatto impraticabile, attesi il divenire e il cambio storico della prassi studiata da questa disciplina.

Di conseguenza, ogni catalogazione attenta a tale dato deve rimanere aperta, per essere in grado di assumere, in modo organico, problematiche variamente nuove e successivamente emergenti tanto nei campi tradizionali dell’agire ecclesiale, quanto in nuovi progetti umani.

 

1.3.2. Un elenco essenziale e indicativo

In ogni caso, pur nella complessità e disparità delle proposte, è possibile individuare alcuni​​ plessi tematici​​ attorno ai quali, storicamente, si sono radunati i vari problemi. Toccano elementi o fattori costitutivi dell’azione o della prassi, vista nella sua struttura statica e nel suo divenire dinamico. Concretamente essi riguardano:

— la questione generale e fondante attinente il​​ rapporto teoria-prassi​​ in ambito teologico pratico;

—​​ i soggetti​​ individuali e collettivi dell’azione o della prassi, con particolare attenzione alla loro differente qualifica antropologica, rispettivamente maschile o femminile, alla loro diversa competenza ministeriale (vescovi, presbiteri, diaconi, laici), alla loro forma specifica di vita (matrimonio cristiano, varie forme di vita consacrata) e ai vari modelli di interazione (ad es. i vari tipi di comunità);

—​​ i referenti​​ di tale azione o prassi, considerati in rapporto all’età, alle diverse forme esistenziali di vita (celibi o sposati, operai, intellettuali, professionisti, anziani, malati...), a differenti ambienti sociali (familiare, rurale, urbano, cosmopolita), a particolari situazioni socio-economiche o politico-culturali (poveri, emarginati, emigrati, borghesia, aristocrazia);

—​​ i tipi generalissimi di tale azione​​ o prassi: l’annuncio della parola, la celebrazione liturgica, l’interazione ecclesiale, il servizio sociale;

—​​ i modelli di azione pastorale:​​ la pastorale di cristianità stabilita oppure di nuova cristianità; la pastorale della maturità della fede; la pastorale profetica o evangelizzatrice; la pastorale estensiva o di massa; la pastorale intensiva o di élite; la pastorale a scacchiera che ricopre un’intera zona, oppure la pastorale a poli di nuova evangelizzazione di tipo dialogale;

—​​ le dimensioni​​ che sono vitalmente innervate in ogni forma di azione o prassi religiosa cristiana ed ecclesiale e che ne attraversano ogni momento: la​​ comunicazione​​ tanto nel rapporto personale io-tu (comunicazione personale), come nell’esperienza di gruppo (comunicazione gruppale), come nella comunicazione di massa (comunicazione sociale);​​ l’educazione​​ o la formazione; la​​ consulenza​​ attuata specialmente nel rapporto interpersonale; il​​ servizio​​ considerato soprattutto nel suo aspetto sociale;

—​​ le forme istituzionali​​ e​​ organizzative​​ che strutturano tutti gli aspetti dell’azione e della prassi finora elencati;

—​​ i campi d’azione​​ (ad es. la pastorale giovanile, la predicazione, la catechesi, la pastorale liturgica, l’animazione comunitaria...) compresi come un insieme di attività collegate tra loro: essi corrispondono ai vari referenti, ai tipi d’azione, alle dimensioni della prassi, alle sue forme istituzionali, e vanno mantenuti aperti alla problematica che emerge sempre di nuovo;

— i differenti contesti socio-culturali e religioso-ecclesiali in cui tutti questi aspetti sono inseriti, con la connessa problematica generale concernente l’inculturazione e-o l’acculturazione propria delle aree afro-asiatiche; l’identità cristiana nell’ambiente post-cristiano e-o post-religioso che caratterizza l’occidente; la dipendenza, la cattività e la liberazione che attraversano il cristianesimo dell’America Latina e di altri paesi del terzo mondo.

 

1.3.3. Legittimità e limiti dell’articolazione in discipline particolari

La diversità e la complessità di tale tematica giustificano l’articolazione di questa disciplina in teologia pastorale o pratica​​ fondamentale​​ e in discipline teologico-pastorali​​ particolari​​ (catechetica, omiletica, pastorale liturgica, odegetica, pedagogia religiosa, pastorale giovanile, pastorale sociale, pastorale familiare...).

Il fatto che tale tematica è fortemente intrecciata e inscindibile mette in evidenza i​​ limiti o​​ l’aspetto​​ relativo​​ di tali discipline particolari: esse producono conoscenze che rilevano settori limitati della prassi e, di conseguenza, non possono esibire un discorso completo e tanto meno esauriente. Sono esposte al rischio di isolarsi, di costituirsi in discipline a se stanti e chiuse in sé stesse, impedendo di affrontare questioni che richiedono un più ampio contesto.

Per superare tali limiti ed evitare tali rischi, in cui di fatto sono incorse lungo la loro storia, occorre che rimangano costantemente aperte agli apporti delle altre discipline e della riflessione teologico-pastorale di tipo generale e fondante.

 

2.​​ L’oggetto formale

L’ambito dell’azione o della prassi religiosa cristiana ed ecclesiale, così delimitato, può essere accostato da differenti punti di vista: ad es. per stabilirne la previa giustificazione (teologia fondamentale); per approfondirne la natura o l’essenza teologale (teologia biblica storica e sistematica); per coglierne gli aspetti etici (teologia morale); per descriverne e valutarne l’evoluzione storica nel passato (storia delle religioni, del cristianesimo e della Chiesa).

Da parte sua la teologia pastorale o teologia pratica ne rileva determinate dimensioni e ciò costituisce il suo compito o oggetto specifico, anche se al riguardo vi sono tuttora posizioni differenti.

Come per l’ambito materiale, così per l’oggetto formale non ci si può attenere alla concezione prevalente o affidare a una scelta convenzionale.

Occorre coglierlo storicamente e vagliarlo criticamente.

 

2.1. Richiamo storico

Secondo una lunga (ma non ininterrotta) tradizione tanto cattolica quanto evangelica, questa disciplina riflette sull​​ 'attuale divenire storico della Chiesa​​ in vista della sua realizzazione nell’oggi. Ciò è stato espresso con varie formule: «l’autorealizzazione della Chiesa nel presente» (K. Rahner), e il suo «rinnovamento permanente» (Liégé), la sua «attuazione vitale» (Klostermann), la sua mediazione della salvezza più aderente al qui-ora della situazione storica (Cardaropoli).

Per i fautori di una configurazione della teologia pastorale o teologia pratica nell’ottica di una «teologia dell’azione o della prassi», è compito di tale scienza non semplicemente rilevare e orientare l’attuale divenire della prassi credente cristiana ed ecclesiale, quanto piuttosto definirne, con una teoria, le​​ leggi​​ (ad es. la gradualità, la comunione, la conflittualità) e i​​ modelli​​ di cambio (ad es. il modello cibernetico autoregolativo della prassi, il modello di pastorale intensiva oppure di pastorale estensiva, il modello a scacchiera oppure quello a poli di evangelizzazione) (M. Lefebvre, Zerfass).

I sostenitori delle varie teologie della liberazione prendono in considerazione la prassi storica (economica, politica, culturale, sociale, religiosa ed ecclesiale) in quanto è determinata da​​ concreti contesti socio-culturali.​​ Per essi, questa disciplina elabora una riflessione teologica al servizio della prassi cristiana liberante da situazioni di dipendenza e cattività che attraversano il cristianesimo latino-americano e vaste zone del cosiddetto terzo mondo.

 

2.2. Delimitazione critica

Benché formulate in distinti momenti storici e in riferimento a differenti situazioni socioculturali e religioso-ecclesiali, le tre posizioni non sono inconciliabili. Si completano, anzi, a vicenda pur nella loro diversità.

Ad ogni modo, per tener conto delle istanze in esse mergenti e delle motivazioni da esse addotte, l’oggetto formale di questa disciplina può essere così delimitato:​​ rilevare, valutare e orientare, alla luce della fede e con l’ausilio di principi unificatori, di leggi, di modelli e di categorie interpretative, il divenire della religione, del cristianesimo e della Chiesa, considerato nell’oggi e nei differenti contesti umani, cristiani ed ecclesiali.

I principi unificatori​​ dell’intera riflessione teologico-pratica sulla prassi religiosa cristiana ed ecclesiale sono, ad es. il principio d’incarnazione (Arnold), il principio dell’evento Gesù (H. Schuster), il principio dell’autorealizzazione della Chiesa (K. Rahner), il principio di correlazione tra chiamata divina e risposta umana (Tillich)...

I modelli​​ interpretativi di tali prassi sono, ad es., il modello cibernetico proposto dallo Zerfass, i modelli di comunicazione prospettati dai cultori delle scienze della comunicazione...

Le prospettive o​​ le categorie con cui vengono studiati tutti i fattori della prassi finora segnalati sono, ad es. la prospettiva sociologica, ermeneutica, critica, ideologica, simbologica, didattica, retorica, giuridica, pedagogica, comunicativa: si possono ricordare al riguardo le suggestioni di S. Hiltner e di Otto Gert.

 

3.​​ L’itinerario metodologico

L’oggetto di questa disciplina così definito è studiato con un proprio metodo o, meglio, con un proprio itinerario metodologico, perché si tratta di prendere in considerazione non un fatto puntuale, ma una prassi nel suo passaggio dalla situazione data a quella desiderata. Anche su questo argomento vi è attualmente una pluralità di proposte.

 

3.1. Il metodo applicativo

Nel suo cammino storico la teologia pastorale o pratica è stata sovente ridotta semplicemente a​​ scienza applicativa,​​ cioè a una somma di corollari di tesi dogmatiche, di leggi morali, di norme canoniche, di indicazioni liturgiche da​​ applicare​​ appunto nella prassi del pastore o dell’azione ecclesiale. In tale visuale il procedimento metodologico è semplice: occorre elaborare una dottrina o delimitare dei principi o chiarire delle norme da​​ applicare​​ all’azione o alla prassi.

Si tratta di un procedimento metodico pienamente​​ legittimo,​​ in quanto è diretto a evidenziare le implicanze pratiche di asserti dottrinali, di principi morali e di norme canoniche, oppure a motivare teologicamente determinate scelte operative. Il Vaticano II l’ha ampiamente praticato nei suoi decreti e ha invitato i teologi a rielaborare i contenuti delle loro discipline in modo da evidenziarne la dimensione pastorale o pratica.

Assodato questo, va però riconosciuto che tale metodo presenta vistosi limiti segnalati da numerosi pastoralisti che nell’ultimo ventennio hanno affrontato l’argomento. Essi criticano una comprensione del sapere teologico incline a identificarlo con la teologia dogmatica o sistematica e a ridurre la teologia pastorale o pratica a sapere applicativo nel senso appena indicato. Nel fare ciò, gli autori cattolici hanno presenti concezioni e prassi purtroppo ancora prevalenti in non pochi contesti ecclesiali; gli autori evangelici si riferiscono principalmente alla teologia della Parola promossa da K. Barth e alle varie teologie esistenzialiste e personaliste degli ultimi decenni.

Va precisato, a scanso di dannosi equivoci, che con tale critica non si è voluto né si vuole negare la legittimità di tale metodo. Si è inteso e s’intende rifiutare una posizione acritica che propone una derivazione unilaterale della prassi dalla teoria: tale posizione è incapace di cogliere il sapere o la teoria (spesso prescientifica) presente in ogni prassi credente cristiana ed ecclesiale, e di percepire la funzione di verifica empirica che tale prassi può svolgere nei confronti della teorizzazione, come si chiarirà più oltre (vedi n. 6.2). E soprattutto si è voluto e si vuole affermare che la teologia pastorale o pratica non può essere ridotta a tale operazione: il suo cammino conoscitivo volto a rilevare, valutare e orientare la prassi è assai più complesso e articolato.

 

3.2. Il metodo «vedere giudicare agire»

Come è noto, in alcuni suoi documenti e specialmente nella​​ Gaudium et spes,​​ il Vaticano II ha adottato un procedimento che parte dalla rilevazione e valutazione di una situazione, ad es. della persona, della società e dell’attività umana nel mondo contemporaneo, al fine di definire la missione della Chiesa nell’attuale epoca storica. Ciò è rilevabile in modo particolare nello sforzo compiuto dal Concilio nel cogliere e valutare i segni dei tempi, da esso considerati altrettanti imperativi per la Chiesa, cioè altrettanti impegni, che essa deve fronteggiare per essere fedele alla presenza dello Spirito di Dio rivelantesi nell’attuale situazione storica.

Tale modo di riflettere, qualificato a ragione come «pastorale» (e in tale senso la costituzione​​ Gaudium et spes​​ venne denominata «pastorale»), è stato ampiamente adottato da successivi documenti del magistero sia pontificio (ne è un esempio recentissimo l’enciclica​​ Solicitudo rei socialis)​​ sia episcopale, ad es. i documenti di Puebla dell’episcopato latino-americano.

Si è pure imposto in numerosi contesti ecclesiali e in pubblicazioni pastorali per lo più di tipo divulgativo, che Io mettono a tema attorno al trinomio «vedere giudicare agire». Tale metodo aiuta indubbiamente a cogliere alcuni aspetti importanti del divenire della prassi credente cristiana ed ecclesiale, come sono: la descrizione (=​​ vedere)​​ e la valutazione (=​​ giudicare)​​ di una determinata situazione socio-religiosa in base a un quadro di riferimento (=​​ dottrina​​ o​​ criteri)​​ e le indicazioni operative per il suo miglioramento (=​​ agire).​​ Tuttavia lascia in ombra o non rileva riflessamente altri aspetti imprescindibili del divenire della prassi. Più precisamente, presenta in modo globale e non tematizza sufficientemente la fase progettuale e quella strategica, come tosto si spiegherà.

 

3.3. Metodo teologico, empirico-critico

Nel tentativo di superare i limiti di questi due metodi, vari progetti di teologia pastorale o pratica, prodotti specialmente nell’area di lingua tedesca e inglese, si ispirano al metodo empirico critico proprio delle scienze della prassi o dell’azione. Ma all’atto di configurarlo o di attuarlo presentano assieme a sicure convergenze anche palesi divergenze. Convergono, in linea di massima, nell’individuare alcuni punti qualificanti, come sono: l’analisi della situazione o della prassi vigente, gli obiettivi da raggiungere per rinnovarla, l’esigenza di programmare il passare dalla prassi rilevata a quella prospettata, e tutto questo alla luce della fede o in una prospettiva teologica, cioè in base a un’adeguata criteriologia teologica.

Si differenziano nel descrivere le distinte fasi e i connessi momenti dell’intero cammino metodologico: alcuni ad es. lasciano in ombra la fase programmatica o strategica; altri non tematizzano in modo adeguato il momento criteriologico cioè i criteri teologici utilizzati nell’intero itinerario metodologico.

A dire il vero, nessuna proposta prospetta un cammino completo e ben articolato in ogni suo momento indispensabile e insopprimibile. L’attuazione pratica poi di tale itinerario metodologico comporta il riferimento alle altre discipline teologiche e alle scienze umane; e ciò è diversamente concepito dai vari pastoralisti.

 

3.4. Una proposta

Per sopperire a tale lacuna, personalmente ho prospettato in forma telegrafica un itinerario metodologico, che integra in modo unitario e articolato le suggestioni avanzate dalle recenti correnti di teologia pastorale o teologia pratica. Esso comprende le tre fasi distinte della prassi: l’analisi valutativa della situazione data (o fase kairologica); la fase progettativa della prassi desiderata (o fase progettuale); la fase programmatrice del passaggio dalla prassi vigente alla nuova prassi (o fase strategica). Ognuna di esse comprende vari momenti da concepire non come separati tra loro, ma come mutuamente implicati gli uni negli altri. In ognuna di queste fasi sono presi in considerazione gli elementi costitutivi della prassi.

Ciò che caratterizza questo itinerario metodologico, chiaramente empirico-critico, rispetto a quello percorso da analoghe scienze dell’azione è il suo​​ riferimento alla fede,​​ ovvero a​​ criteri teologici​​ ricavati dal Vangelo, dalla Tradizione cristiana e dalla lettura ecclesiale dai segni dei tempi. Tale riferimento qualifica appunto questo tipo di riflessione e la fa essere «teologica» o, come si dice comunemente, «pastorale».

 

3.4.1. La fase kairologica

In questa prima fase si tratta di analizzare o descrivere​​ (momento fenomenologico-descrittivo)​​ e d’interpretare e valutare (momento ermeneutico e critico)​​ una determinata situazione o prassi con l’ausilio sia delle scienze umane e sia della fede​​ (momento criteriologico),​​ al fine di cogliere le indicazioni che lo Spirito Santo offre alla comunità credente in una determinata congiuntura storica​​ (momento kairologica).​​ I vari momenti in cui si articola tale analisi valutativa della situazione rivestono un valore diverso.

Il momento fenomenologico​​ corrisponde al «vedere» del secondo metodo. Esso riguarda l’analisi o la descrizione di una determinata situazione attuale della religione, della Chiesa e della società nei suoi molteplici aspetti. Per lo più comprende anche il richiamo retrospettivo a dati del passato, da cui tale situazione può variamente dipendere. Concretamente e a grandi linee essa prevede distinti passaggi:

— innanzi tutto la descrizione della società con particolare riferimento al rapporto tra persona e società e, inoltre, alle vicendevoli relazioni tra le principali situazioni sociali;

— in tale contesto viene chiarito lo​​ status​​ sociale della religione e della Chiesa;

— in connessione con tutto ciò viene quindi rilevata la relazione intercorrente tra cittadino-religione-Chiesa;

— infine, dato che religione-Chiesa-società sono grandezze non statiche ma dinamiche, va descritto il cambio dello​​ status​​ sociale della Chiesa come della religione in tutte le loro componenti col mutare della realtà sociale;

— e siccome le situazioni socio-religiose ed ecclesiali differiscono da luogo a luogo e da un sistema sociale all’altro, ciò fa parte di tale descrizione fenomenologica.

Più in particolare, s’intende generalmente indicare questo momento descrittivo quando si ricorre alle seguenti formule sintetiche: dati della situazione, congiuntura storica, fenomeni socio-culturali e-o economico-politici, fenomeni strutturali e-o congiunturali, situazione o domanda religiosa, situazione ecclesiale, condizione umana, condizione femminile, condizione giovanile.

Tale analisi fenomenologica viene condotta sulla base di una griglia di lettura offerta dalle scienze interessate all’azione e con il ricorso a criteri teologici nella prospettiva di un ben inteso dialogo interdisciplinare e, all’occorrenza, transdisciplinare.

Il momento critico o interpretativo​​ corrisponde al «giudicare» del secondo metodo. Di fronte all’attuale prassi religiosa cristiana ed ecclesiale, la teologia pastorale o pratica non si limita a descriverla, né tanto meno assume un atteggiamento di acritica accettazione dello​​ sta tu quo.​​ Mira invece a interpretarla e a valutarla criticamente. Essa è espressione qualificata di una legittima e corretta​​ opinione pubblica​​ nella Chiesa e per la Chiesa.

Tale interpretazione è diretta alla formulazione di​​ giudizi di fede sulla situazione​​ o a una valutazione «pastorale» della medesima. È volta, cioè, a stabilire se e in che misura una determinata situazione è conforme a valori evangelici e rispondente a legittime attese umane riconducibili alla presenza di Dio nella storia attuale: sono i cosiddetti giudizi «pastorali».

È necessariamente condotta con criteri teologici, utilizzati in collaborazione con le scienze umane interessate, che vanno considerate come scienze non puramente fenomenologiche, ma anche valorative.

L’interpretazione critica della prassi attuale concerne sia la tradizione in essa presente e sia la problematica da essa emergente.

In riferimento alla​​ tradizione vigente,​​ la teologia pastorale o teologia pratica sviluppa una riflessione retrospettiva volta a valutare criticamente un’eredità del passato che spesso ritarda l’impegno nel costruire il futuro. Ciò avviene con un approccio che prevede vari passaggi: collocazione di fatti, norme, modelli di comportamento, strutture, usi, costumi, ecc. nel loro contesto storico d’origine; esplicitazione, tramite l’analisi storico-sociologica e teologica, della continuità o discontinuità fra il contesto socio-culturale e religioso-ecclesiale di tale passato e quello attuale; riesame dei valori evangelici e della tradizione cristiana pertinenti; delimitazione di spazi attualmente praticabili, perché liberati da condizionamenti di ieri e non più rispondenti a legittime esigenze dell’oggi.

Il riferimento alla​​ problematica oggi emergente,​​ la teologia pastorale o teologia pratica è attenta agli interrogativi e ai sospetti avanzati dalle scienze umane e produce un discorso diretto a valutarla criticamente rispetto tanto alla tradizione debitamente vagliata quanto alle attuali istanze irrinunciabili.

Di più, questa disciplina pone costantemente in discussione il dato attuale e forme storiche in cui si è strutturata ed espressa la prassi sociale religiosa ed ecclesiale. E ciò non certo per attaccamento a una volontà di critica, a sua volta criticabile e inaccettabile, ma allo scopo di favorire un miglioramento di tale prassi.

Il momento criteriologico​​ corrisponde alla «dotrina» del metodo applicativo, che però viene rielaborata in criteriologia. La descrizione fenomenologica e l’interpretazione critica della situazione sono attuate non a piacimento o, peggio, arbitrariamente, ma in base a un determinato «quadro di riferimento» o a una «scala di valori» o a una «griglia di lettura» o — come si è già accennato — a determinati «criteri» di ragione e di fede, ricavati in dialogo interdisciplinare rispettivamente dalle scienze dell’azione e dalle scienze teologiche.

I​​ criteri teologici​​ possono essere, secondo i casi, principi dottrinali, valori evangelici, norme morali, modelli ecclesiali, comportamenti operativi, aspirazioni pronfonde... Saranno, quindi, di volta in volta criteri cristologici, pneumatologici, ecclesiologici, antropologici, storico-salvifici, considerati nelle loro successive formulazioni storiche e tenuto conto specialmente di quelle attuali.

Nel cammino metodologico in esame non sono assunti (come nel metodo applicativo) per essere​​ applicati​​ alla situazione, ma utilizzati piuttosto per analizzare o​​ descrivere​​ e per valutare o​​ interpretare​​ la situazione. Le due prospettive sono palesemente diverse e non vanno identificate. Altra cosa è ad es. utilizzare i concetti di Chiesa-comunione e Chiesa-servizio come criteri per descrivere e giudicare se e in che modo una determinata comunità li realizzi, e altra cosa è applicarli alla vita di una comunità col supporre che essa li realizzi o debba realizzarli.

Questo momento criteriologico è determinante rispetto ai due precedenti, in quanto da esso dipende il tipo di analisi e di valutazione di una determinata prassi e il suo valore. In effetti, in base ai criteri razionali e teologici invocati, tale analisi valutativa risulterà puramente umana o teologico-pratica, completa o incompleta, unilaterale o riduttiva, selettiva o funzionale a istanze ad es. di mantenimento dello​​ statu quo​​ oppure di rinnovamento. Per queste stesse ragioni, il momento criteriologico è determinante anche per quello kairologico.

Il momento kairologico.​​ La descrizione e l’interpretazione della situazione, attuate con criteri teologici mirano a cogliere valori da conservare o da riattualizzare, aspetti da abbandonare, attese e aspirazioni a cui rispondere, problemi da risolvere, nuovi valori o espressioni culturali da recepire, fenomeni o eventi da denunciare, criticare, rigettare, secondo i casi.

In definitiva, si prefiggono di interpretare l’attuale realtà storica, religiosa sociale ed ecclesiale, come storia rispettivamente di salvezza (kairòs) o non salvezza, in cui la Chiesa è chiamata da Dio a operare. È il discorso, in particolare, sui segni dei tempi. È il riconoscimento dell’irruzione carismatica, fino al paradosso, nella storia umana, nelle varie forme religiose, nella vita del cristianesimo. È il “discernimentopastorale.

 

3.4.2. La fase progettuale​​ 

In questa seconda fase, a partire dal «disagio» nella Chiesa​​ (elemento soggettivo) si tratta d’identificare gli obiettivi o le mete a lungo termine, generali e settoriali, da raggiungere per ottenere una prassi rinnovata o riorientata​​ (momento normativo),​​ avvalendosi in tutto questo di criteri razionali e teologici​​ (momento criteriologico).​​ Rientra qui, in certo modo, l’«agire» del secondo metodo.

L’elemento soggettivo.​​ L’esigenza progettuale nasce dall’insoddisfazione o dal disagio soggettivo di singoli, di élites, di gruppi, di intere comunità, di una o più Chiese particolari nei confronti della situazione fattuale rilevata e valutata.

Entra qui in giuoco la cosiddetta «critica nella e della Chiesa», che sorge ed è alimentata dalla «crisi nella e della Chiesa». La prima consiste sostanzialmente in un atteggiamento sia spontaneo (per lo più negli operatori, nei gruppi, nei responsabili ai vari livelli) sia riflesso (proprio generalmente dei​​ leaders​​ qualificati, dei pastoralisti, ecc.) di non piena accettazione della situazione concreta e di volontà di migliorarla. La seconda consiste nel fatto che una data situazione socio-religiosa e cristiano-ecclesiale è colta, secondo i casi, come imperfetta o lacunosa o inadeguata o variamente criticabile o decisamente da riformare. La teologia pastorale o teologia pratica (lo si è rilevato nella precedente fase) sviluppa un discorso critico circa la situazione data e mette a tema in modo critico tale situazione di insoddisfazione, di disagio e di critica spontanea.

Il momento normativo​​ è costituito dalle mete, dagli​​ imperativi​​ morali che si prospettano per migliorare la prassi. Tali imperativi riguardano tutte le componenti della prassi cristiana ed ecclesiale rilevata e valutata.

E siccome a monte di tali mete vi sono sempre determinate visioni e scelte teologiche, cristologiche, pneumatologiche, ecclesiologiche e antropologiche, è necessario esplicitarle. In caso contrario, c’è il rischio di comprenderle in maniera assai differente. E ciò ostacola l’intervento operativo nella prassi. In tale esplicitazione si dovrebbe rispondere, in modo adeguato e aderente alla situazione rilevata, ai seguenti interrogativi di fondo: quale Cristo vogliamo annunciare? Quale visione dello Spirito e della sua azione nella storia abbiamo? Quale esperienza ecclesiale vogliamo promuovere? Quali modelli di comunità vogliamo attuare? Quale servizio all’uomo, nelle situazioni attuali, vogliamo offrire? Quali cambi della società vogliamo promuovere, seguendo il Vangelo? Nell’attuale periodo post-conciliare, le grandi mete sono quelle segnalate dal Vaticano II, aggiornate dai successivi documenti pontifici ed episcopali in riferimento ai differenti contesti. Sono, ad es. l’attuazione del rinnovamento ecclesiale di tipo spirituale, morale, operativo dottrinale e strutturale; la promozione del dialogo con le altre Chiese e comunità cristiane, con le religioni non cristiane; l’evangelizzazione delle culture, della politica e dell’ideologia, della religiosità popolare; l’impegno per la giustizia e per la pace; la valorizzazione dei bisogni umani primari. Tali mete non vanno identificate con una​​ dottrina​​ attinente gli obiettivi indicati. Altra cosa è una dottrina ad es. circa la natura teologale dell’evangelizzazione, ed altra cosa sono le mete dell’evangelizzazione in una determinata situazione: la prima ne chiarisce la natura o l’essenza, le seconde ne indicano i traguardi storici da raggiungere.

Il momento criteriologico​​ corrisponde alla «dottrina» del metodo applicativo, ma rielaborata in criteriologia progettuale. L’identificazione di tali obiettivi o imperativi non può essere lasciata alle pur rispettabili preferenze personali o di gruppo, ma va vagliata con l’aiuto di criteri il più possibile obiettivi. Altrimenti c’è il pericolo di sostituire un criticabile clericalismo della conservazione o della restaurazione con un altrettanto criticabile clericalismo della contestazione e del cambio, e viceversa.

A livello di riflessione puramente razionale, tali criteri sono derivati dalle acquisizioni attendibili delle scienze cosiddette progettuali: in parte la psicologia e la sociologia; in modo particolare la metodologia pedagogica, la futurologia e la politica.

A livello di riflessione teologico-pastorale o pratica, essi sono attinti, in dialogo con tali scienze, a una ricognizione, sempre rinnovata e aggiornata, delle mete assegnate dal messaggio della Bibbia e della Tradizione al fatto religioso cristiano ed ecclesiale: l’attualizzazione dell’evento Gesù e dell’esperienza fondante della comunità cristiana primitiva. Sono ricavati, inoltre e sempre nel confronto dialogico con le scienze progettuali, dalle indicazioni emerse dall’analisi valutativa della situazione effettuata nella prima fase. In effetti, gli imperativi sono ricavati tanto dalla memoria critica del passato cristiano ed ecclesiale, quanto dalla lettura critica e profetica del presente religioso, cristiano ed ecclesiale e, cioè dal momento kairologico.

È compito della teologia pastorale o teologia pratica non semplicemente accostare questi due ordini di criteri, ma operarne un confronto: si tratta, in sintesi, di decodificarli in riferimento alla prassi biblica e storica passata, e di ricodificarli in riferimento alle presenti differenti congiunture ambientali e regionali. È il rapporto dialettico e ineludibile tra memoria e profezia, collocato a livello di riflessione teologica scientifica.

Anche in questa fase, il momento criteriologico è decisivo ai fini dell’identificazione e comprensione di quello normativo.

 

3.4.3. La fase strategica

Il vocabolo «strategia», oggi sovente abusato, può essere utilizzato in non pochi sensi. In questa sede lo s’intende come complesso di elementi e fattori necessari per consentire di passare dalla situazione data a quella desiderata, delineata nelle mete generali e settoriali appena indicate. Non va quindi affrettatamente identificata con espedienti tattici, con tecniche operative o con ricette pratiche per altro utili e rispettabili, ma che non rientrano in questo discorso metodologico. Viene attuata mediante la cosiddetta «programmazione» pastorale comprendente ad es. piani annuali, biennali, pluriennali. Questa va elaborata criticamente​​ (momento critico)​​ utilizzando determinati criteri di ragione e di fede​​ (momento criteriologico).​​ Questa fase esplicita l’«agire» del secondo metodo recensito.

Il momento descrittivo-critico.​​ Per essere fedele alla struttura e alla dinamica dell’azione, la strategia deve prendere in considerazione, criticamente, almeno i seguenti elementi:

— gli​​ operatori​​ interessati, ai vari livelli, al raggiungimento delle mete: delimitato il ruolo tanto dei singoli come di organismi e di istituzioni, va pure specificato il tipo d’interazione attuato da singoli agenti fra loro e nell’ambito dei vari organismi e istituzioni a ciò deputate; quindi, i tipi di comunicazione, le sedi decisionali o di ricorso, ecc.;

— i​​ referenti​​ coinvolti nella prassi rilevata e nelle mete identificate: di essi va definito ad es. il tipo di collaborazione o di co-protagonismo che sono chiamati ad assumere con gli operatori;

— le​​ modalità di attuazione​​ attinenti ad es. gli obiettivi prioritari, le possibilità sicure o probabili, gli ostacoli o le difficoltà prevedibili o immancabili e come e in quali sedi superarle; i possibili imprevisti e come e dove provvedervi per risolverli; le nuove urgenze e come e dove affrontarle per potervi rispondere con tempestività; le inevitabili forme di tensione e conflittualità e come e dove trovarne un esito positivo; le possibili espressioni di autoritarismo o di democraticismo e come comportarsi in merito...;

— i​​ tempi di attuazione​​ concernenti ad es. gli obiettivi a breve o a medio termine, la durata dei possibili piani d’azione, i momenti per la necessaria personalizzazione delle mete da raggiungere, per la verifica e la rettifica dell’itinerario compiuto;

— i​​ mezzi necessari​​ al conseguimento delle mete: mezzi di comunicazione, mezzi finanziari, istituzioni addette a illuminare, accompagnare e sostenere l’intero cammino di rinnovamento della prassi: esperti, centri di ricerca, di consulenza, di formazione e di riqualificazione;

— la​​ sperimentazione,​​ siccome l’agire ecclesiale e pastorale acquista determinatezza tramite la «decisione», i cui risultati non sono previamente assicurati ma solo desiderati, si rende necessario sperimentare nelle debite forme (generalmente limitate), in modo da aprire vie fondatamente agibili e proficue alla prassi credente e all’azione ecclesiale;

— la periodica​​ verifica​​ e l’eventuale​​ rettifica​​ tanto dell’analisi valutativa della situazione, quanto delle mete generali e settoriali come pure dell’intera strategia intrapresa: ciò è imprescindibile per fare in modo che l’azione avviata sia sempre rispondente agli imperativi proposti, pur essi periodicamente verificati e aggiornati; in tale compito di verifica e rettifica è importante attuare un processo di cosiddetta «onda di ritorno»​​ (feed-back), che sia corretto e ispirato ai più aggiornati e attendibili sistemi cibernetici (ad es. quello proposto dallo Zerfass);

— la​​ personalizzazione: la lettura critica della situazione, gli imperativi proposti e la strategia programmata vanno conosciuti e recepiti da parte di tutti gli agenti interessati o comunque in ciò implicati: senza consenso diventa oggi assai difficile raggiungere le mete fissate.

Il momento criteriologico​​ corrisponde alla «dottrina» del metodo applicativo, ma rielaborata in criteriologia strategica. Allo studio di una strategia d’azione, dei suoi fattori e della loro composizione di tipo operativo si dedicano in modo speciale alcune scienze: ad es. la metodologia pedagogica, la didattica, la politica. Vi è pure interessata, a titolo proprio, la teologia pastorale o pratica, benché questo aspetto sia sovente disatteso dalla letteratura in merito, anche recente. Di fatto, nell’attuazione di una strategia sono implicati imperativi da raggiungere, comportamenti morali da assumere, valori evangelici da rispettare: realtà tutte teologali e morali che vanno messe a tema e chiarite, in modo riflesso e rigoroso, appunto da una riflessione teologico-pastorale.

A titolo esemplificativo, la delimitazione dei ruoli degli agenti e dei referenti e dei modelli d’interazioone può essere rispettosa, oppure no, dei loro diritti, può valorizzare o meno le loro capacità, può favorire o limitare la comunicazione e la partecipazione. La definizione delle modalità d’intervento può essere conforme a imprescindibili esigenze evangeliche di comunione, comunicazione, partecipazione, oppure può essere variamente difforme da esse. La statuazione di determinati tempi d’intervento può condurre a disattendere esigenze rilevanti, e ciò può essere valutato fondatamente negativo da un punto di vista morale. Un discorso analogo vale per l’impiego dei mezzi, per la verifica, la rettifica e la personalizzazione del progetto pastorale. In breve, il passaggio strategico dalla prassi data a quella desiderata comporta una riflessione teologico-pratica assai impegnativa ai fini di un pilotaggio, ispirato dal Vangelo ed efficace, dell’azione ecclesiale verso il conseguimento dei traguardi programmati.

Questo delicato e nevralgico ingranaggio dell’agire cristiano ed ecclesiale non può essere lasciato all’inventiva e all’esperienza, pure necessarie, degli operatori oppure demandato alle libere scelte politiche o diplomatiche, da tenere nel dovuto conto, dei responsabili ai vari livelli. Va cioè sottratto alla riflessione spontanea, al pragmatismo, al «si è sempre fatto così».

Occorre tematizzarlo scientificamente e svilupparlo rigorosamente, anche per portare alla luce precomprensioni presenti in esso, che possono rivelarsi non conformi al Vangelo o ispirate da interessi molto umani e non sempre giustificabili come, ad es. il desiderio di possesso, la ricerca di prestigio o di potere... Tra le cause per cui, nel periodo postconciliare, nonostante le migliori buone intenzioni e le energie profuse in non poche generose iniziative apostoliche, non si sono raggiunti gli sperati obiettivi di rinnovamento, con ogni probabilità vi è la messa in opera di una carente strategia pastorale, perché non vagliata con rigore scientifico.

 

3.4.4. Itinerario teologico empirico-critico

Dal rapido esposto dovrebbe apparire ormai abbastanza palese che l’itinerario metodologico descritto non può essere ricondotto al metodo applicativo e a quello «vedere giudicare agire». Di questi due metodi recepisce le istanze irrinunciabili. Tuttavia, rispetto ad essi, è assai più complesso e più rigorosamente articolato nel tentativo di cogliere gli elementi costitutivi dell’azione o prassi nel suo divenire concreto.

Può essere connotato con fondamento come itinerario metodologico empirico-critico e teologico.

È​​ empirico​​ perché prende le mosse​​ dall’empeirìa​​ cioè dalla prassi, dall’azione, dalla situazione fattuale; perché è finalizzato a riprogettare una prassi o un’azione rinnovata e riorientata; perché accompagna in modo riflesso il cammino strategico che va dalla prassi vigente alla prassi prospettata.

È​​ critico​​ perché elaborato in maniera rigorosa e autocontrollata; perché sviluppa una riflessione critica attinente l’interpretazione e valutazione della situazione data, la fissazione delle mete desiderate e la definizione della strategia d’intervento; perché vaglia criticamente, nel dialogo interdisciplinare o nel discorso transdisciplinare, le informazioni che gli provengono dalle altre discipline teologiche e dalle scienze interessate all’azione. È​​ teologico​​ perché in ognuna delle sue tre fasi di attuazione e dei connessi momenti procede facendo riferimento esplicito a criteri di fede e producendo giudizi di fede (vedi n. 5).

 

4.​​ La connotazione pastorale o pratica

Nel corso della sua storia plurisecolare, la caratteristica​​ pastorale​​ o​​ pratica​​ di questa disciplina teologica è stata diversamente concepita. Le posizioni vanno da coloro (per lo più persone di azione o pastoralisti con preoccupazioni pragmatiche) che l’hanno giudicata troppo teorica e​​ poco pratica,​​ perché percepita più o meno distante dalle problematiche e attese degli operatori pastorali, a coloro (per lo più teologi dogmatici e pastoralisti accademici) che l’anno reputata​​ troppo pratica​​ e poco teorica, fino al punto da non annoverarla tra le discipline teologiche e da relegarla al rango di arte o sapere prescientifico di competenza non della ricerca universitaria, ma degli ecclesiastici responsabili ultimi delle rispettive Chiese. Tra queste due posizioni estreme vi è una variegata gamma di altre concezioni intermedie.

Negli ultimi tempi, in seguito a una più approfondita comprensione del rapporto inscindibile tra teoria e prassi, si è raggiunto un consistente consenso attorno ad alcuni asserti rilevanti. Sicché, al di là delle presentazioni più o meno complete e delle differenti accentuazioni riscontrabili nei singoli autori, è possibile individuare i seguenti tratti pratici o pastorali caratterizzanti questa disciplina.

 

4.1. Autocoscienza scientifica di un processo prassico

La teologia pastorale o teologia pratica ha numerosi e peculiari legami con la prassi. Infatti, la prassi religiosa e l’azione del popolo di Dio, ivi compresi i pastori, sono il suo ambito di ricerca; e il divenire storico attuale, concreto e differenziato, secondo i diversi contesti socio-culturali e religioso-ecclesiali di tale prassi, è il suo oggetto formale di studio. Di più, essa è un momento qualificante di tale prassi: ne è l’autocoscienza scientifica.​​ In effetti, in ogni prassi credente cristiana ed ecclesiale è sempre innervata vitalmente, come suo costitutivo insopprimibile, una teoria: sono le motivazioni e i contenuti della propria scelta religiosa o del proprio credere cristiano e cattolico; sono le comprensioni che si hanno della situazione sociale, culturale, politica, religiosa ed ecclesiale; sono i progetti che si coltivano guardando al proprio futuro; è la strategia che si pensa di mettere in opera per raggiungerli. Tale teoria è generalmente spontanea, ma può essere già abbastanza riflessa e critica. Mossa dall’esigenza di penetrare in modo razionale e rigoroso tale teoria spontanea, la teologia pastorale o teologia pratica si propone di sottoporre a vaglio critico le mediazioni culturali, ideologiche, politiche e teologiche operanti in essa. Di conseguenza si configura come riflessione scientifica, cioè rigorosa, controllata e verificabile, di tale teoria quotidiana per lo più prescientifica.

Inoltre, in quanto è proposta da pastoralisti, membri della Chiesa e organicamente collegati ad essa, si autocomprende non come variamente staccata dalla prassi o dall’esperienza credente, ma come​​ speciale momento critico e profetico: tende infatti a cogliere il momento di grazia (kairos) e il mistero di iniquità operante in esso.

Senza dubbio la prassi e la connessa riflessione teologica dei credenti, dei cristiani, degli operatori e responsabili pastorali, ai vari livelli, è​​ atto primo​​ rispetto alla teologia scientifica elaborata dai pastoralisti, che è quindi​​ atto secondo.​​ Tuttavia, entrambe fanno parte di un unico processo esperienziale o prassico: tale è infatti il fenomeno religioso, il cristianesimo vissuto e l’esperienza ecclesiale quotidiana. In tale processo, la teologia pastorale o teologia pratica risponde a un’esigenza umana ineliminabile, perché costitutiva della razionalità della persona: l’esigenza di una prassi illuminata e orientata criticamente da una consapevolezza controllata, verificata e sistematizzata. È ciò che si propone appunto di offrire un sapere teologico scientifico.

 

4.2. Rapporti con istanze autorevoli e decisionali

In questa visuale generale vanno pure compresi i rapporti dei pastoralisti con gli operatori pastorali e con i responsabili dell’azione ecclesiale ai vari livelli.

È criticabile e inaccettabile un agire cristiano delle comunità e dei loro pastori, che prescinde da una riflessione teologico-pratica (quando non la disattende volutamente) e procede autonomamente, senza verificare seriamente le comprensioni che sono a monte delle proprie scelte pastorali. L’azione cristiana ed ecclesiale non può essere lasciata in balia della pur lodevole iniziativa di singoli o di gruppi, o essere improntata a improvvisazione, a dilettantismo, a empirismo pratico: comportamenti tutti degni di attenzione e rispettabili, ma inadeguati ai fini di un’agire cristiano ed ecclesiale rispondente a esigenze di criticità e il più possibile di completezza. Nell’attuale contesto sociale e culturale, essa deve ormai valersi degli apporti seri e aggiornati della teologia pastorale o teologia pratica.

D’altra parte è criticabile e inaccettabile una teologia pastorale o teologia pratica tendente a sostituirsi alle libere scelte degli operatori e dei responsabili pastorali, primi protagonisti dell’azione cristiana ed ecclesiale, o a sviluppare un magistero pastorale parallelo: ciò esula dalle sue competenze di sapere teologico scientifico. A ragione tale fenomeno è stato denunciato e criticato dalle autorità ecclesiastiche.

I rapporti dei pastoralisti con tali istanze operative e autorevoli sono per alcuni aspetti di dipendenza e per altri di anticipazione e, in ogni caso, di servizio responsabile e qualificato. Data l’origine e la finalità esperienziale e prassica del sapere da loro prodotto, questo è volto al servizio degli agenti e referenti pastorali: prende le mosse dal loro mondo di vita e d’azione (e in ciò dipende da loro), per riflettervi sopra scientificamente, per illuminarlo e per offrire indicazioni progettuali e strategiche atte a un suo miglioramento (e in ciò anticipa un loro possibile futuro migliore).

In tale modo questa disciplina teologica favorisce la creazione e la maturazione di più corretti processi comunicativi e di più vasti spazi di motivato consenso, senza per altro disattendere i benefici che possono derivare da una ben intesa e controllata dinamica conflittuale, tanto all’interno della comunità cristiana, quanto tra questa e la società.

Più precisamente, col suo sapere scientifico essa contribuisce a intensificare la «competenza pratica o pastorale» degli operatori e dei responsabili ai vari livelli. Tale competenza pastorale va intesa come capacità di determinarsi alla decisione ragionevole e fondata, da collegarsi a un apprezzamento realistico delle possibilità effettive dell’agire cristiano in una determinata situazione e in rapporto a un agibile progetto di futuro.

Tale competenza va ricondotta non alla figura​​ dell’homo faber​​ cristiano ed ecclesiale (il praticone, il faccendiere) e neppure a quella delì’homo sapiens​​ (il teorico puro, astratto), ma piuttosto alla figura dell’homo ludens,​​ abilitato e impegnato all’invenzione di modelli atti a animare e orientare sapientemente ed efficacemente l’azione.

Tutto questo praticamente è possibile solo a una condizione di fondo: la messa in opera, dove mancasse, e l’incentivazione, dove già esistesse, di rapporti tra pastoralisti da un lato e operatori pastorali e autorità ecclesiastiche dall’altro, improntati a sincero e costante dialogo e a franca e permanente collaborazione, attuati nel rispettoso riconoscimento delle distinte competenze.

 

5.​​ La qualifica teologica

A motivo del suo riferimento all’azione, all’esperienza, alla prassi e del conseguente suo livellamento su un piano operativo, la teologia pastorale o teologia pratica ha sofferto storicamente una persistente contestazione della sua natura teologica e ha subito la tentazione di autoemarginarsi dalla teologia.

 

5.1. Superamento di una contestazione

Questo annoso divario tra teologia pastorale e teologia in generale va attribuito a una determinata concezione di teologia, in cui pensiero ed esperienza, teoria e pratica sono contrapposti.

Quando tale disciplina, per avvicinarsi il più possibile alla pratica, assume la figura di tecnologia o di ricettario operativo cessa di essere teoria teologica e viene rigettata dal consenso delle scienze teologiche.

Quando, al contrario, prende più o meno le distanze dalla pratica e si costituisce in teoria, si configura sovente come semplice variazione del sapere teologico di tipo biblico, storico, sistematico specialmente ecclesiologico.

Solo di recente, grazie a una più approfondita comprensione degli stretti legami che intercorrono tra teoria e prassi, tra pensiero ed esperienza, tra riflessione ed azione si è riusciti ad esplicitare e definire in maniera meno problematica e inadeguata del passato la compatibilità teologica di questa disciplina.

 

5.2. Mutua implicanza di prassi credente e teoria teologica

Occorre ormai superare inveterate concezioni dualiste che separano azione e fede, e fare propria una visione integrale della prassi religiosa, cristiana ed ecclesiale in cui agire e credere sono implicati costituzionalmente l’uno nell’altro.

Ciò è rilevabile nelle azioni elementari del testimoniare e del confessare la fede e nelle attività sorrette dalla speranza cristiana e dalla carità evangelica: non sono semplici azioni umane o impegni temporali e filantropici, ma agire credente, testimoniante, confessante, sperante e amante.

Più precisamente ancora, per essere autenticamente cristiana ed ecclesiale, un’esistenza umana dev’essere illuminata dalla fede tanto nella sua comprensione per lo più spontanea della situazione, come nella sua progettazione anch’essa generalmente irriflessa di mete da raggiungere, come pure nella definizione variamente esplicita della strategia da impiegare per conseguire gli obiettivi desiderati. In ogni prassi credente ed ecclesiale, considerata nella sua dinamica concreta, è necessariamente immanente un sapere​​ teologale.​​ La teologia pastorale o teologia pratica mette a tema in maniera sistematica e controllata tale sapere teologale prescientifico: essa formula giudizi di​​ fede​​ sulla situazione; delimita imperativi​​ evangelici​​ per l’agire ecclesiale e pastorale; elabora strategie d’intervento vagliate col ricorso a criteri di​​ fede.​​ In breve, essa produce un sapere scientifico della​​ fede: è originariamente intelligenza della​​ fede,​​ cioè teologia.

E lo è in un modo particolare a lei proprio, dovuto al suo approccio specifico alla prassi: infatti è intelligenza della fede in riferimento alle tre fasi costitutive (situazione, progetto, strategia) della prassi credente e dell’azione ecclesiale. Essa invoca l’evento Gesù e la presenza dello Spirito nella storia per valutare se, in che modo e in quale misura questi sono operanti oggi nella prassi credente, cristiana ed ecclesiale, allo scopo di progettare una prassi del cristianesimo e della Chiesa più conforme e fedele ad essi e di programmare una strategia atta a raggiungere tali traguardi evangelici.

La​​ verità​​ da essa ottenuta è, dunque, di natura​​ teologica.​​ Non risulta da pura evidenza teorica, né può essere verificata semplicemente con criteri di efficienza. Rivela la sua efficacia nell’esperienza di fede, speranza e amore. In essa fa trasparire la presenza del Signore e del suo Spirito e, insieme, riconosce la distanza tra essa e l’evento Gesù e l’azione dello Spirito Santo: in tal modo rende possibile un loro concreto accoglimento più fedele e sempre da rinnovare.

 

5.3. Riferimento specifico ai luoghi teologici

Alla pari di ogni riflessione teologica, la teologia pastorale o teologia pratica fa riferimento ai luoghi teologici tradizionali, ma con modalità corrispondenti al proprio oggetto materiale e formale e al proprio itinerario metodologico. In concreto, vi ricorre per disporre di criteri teologici con cui formulare giudizi di fede sulla prassi vigente, identificare e vagliare valori e imperativi morali da perseguire, programmare adeguate strategie conformi alla fede cristiana.

Ricorre alla​​ Bibbia​​ a partire dall’attuale concreta situazione di vita e d’azione e in dialogo con le scienze bibliche: ne rilegge il contesto sociale, culturale, politico e religioso; ne ricomprende il messaggio veritativo e i valori da attualizzare; ne circoscrive i limiti e le mediazioni da non assolutizzare e da superare; ne coglie possibili risposte a problemi posti dalla prassi attuale contestata o da quella riprogettata.

Ricorre in maniera analoga alla​​ Tradizione​​ passata, considerata come portatrice di valori e di un senso che possono e debbono essere fatti valere per il qui-ora del cristianesimo e della Chiesa. In tale ottica, il motivato abbandono di forme storiche ritenute caduche e ormai da abbandonare è espressione di fedeltà dinamica alla Tradizione; e il mantenimento della memoria del passato è garanzia di fedeltà e coerenza nel progettare il futuro.

Ricorre alle indicazioni autorevoli del​​ Magistero pastorale vivente​​ come a luogo teologico irrinunciabile. Lo fa nella prospettiva di un corretto rapporto di dialogo e di collaborazione, e nella consapevolezza della comune responsabilità e della distinta competenza di fronte all’inculturazione e acculturazione del Vangelo e della Chiesa nel vivere e operare umano di un oggi proteso verso il suo domani.

Ricorre​​ alla prassi credente cristiana e pastorale​​ considerata anch’essa come luogo teologico: tale ricorso, anzi, costituisce il compito determinante di una ricerca teologico-pratica, in quanto ne è il momento kairologico.

 

6.​​ Il carattere scientifico

La domanda di una riflessione di tipo scientifico è ricorrente nella storia della disciplina, specialmente in riferimento a una situazione ecclesiale dominata dal pragmatismo pastorale e da una concezione puramente applicativa di questa branchia del sapere teologico.

Storicamente la risposta a tale domanda è stata offerta seguendo due differenti tracciati: l’uno, di ispirazione aristotelico-tomista, utilizza il modello scolastico di scienza; l’altro fa propria la figura di scienza maturata dalle moderne scienze sperimentali specialmente dell’azione.

 

6.1. Inadeguatezza del modello scolastico

Secondo il modello scolastico, la scienza è un sapere apodittico, il cui nerbo è costituito dalla dimostrazione, cioè dalla coerenza logica tra premesse e conclusioni: a partire da principi sicuramente appurati procede in modo rigorosamente deduttivo (in forma di sillogismo) fino a scoprire nuove verità nelle conclusioni.

Nel caso specifico, la qualifica scientifica della teologia pastorale o teologia pratica è assicurata assumendo il comando missionario di Cristo come principio rivelato circa l’agire della Chiesa e deducendo da esso l’intero agire pastorale.

I limiti di questa concezione sono dovuti al fatto che la scientificità è ristretta alla coerenza logica tra premesse e conclusioni, e collocata a livello di sapere universale e necessario. Il singolare, la situazione fattuale non è raggiunta da tale conoscenza. Per poter fare ciò essa deve ricorrere a un’altra componente, la virtù della prudenza, che si pone fuori dal proprio ambito di conoscenza e che offre apporti distinti da essa.

In tale modo le mediazioni necessarie per passare da un sapere universale e necessario all’intervento operativo sono demandate all’inventiva dell’operatore pastorale, alle sue doti e alla sua esperienza: sono quindi situate fuori dal campo proprio di un sapere teologico-pratico di tipo scientifico. Coerentemente, accanto a una​​ scienza​​ pastorale è esigita​​ un’arte​​ pastorale.

In questa impostazione, teoria e prassi sono considerate come separate e il loro raccordo è puramente estrinseco in quanto attuato dalla prudenza.

Alla radice di tale concezione vi è la mancata tematizzazione dell’esperienza e della prassi, tale da consentire di superare il dualismo soggetto-oggetto nel processo conoscitivo; tale cioè da non giudicare scientificamente spurio ogni conoscere alla cui costituzione concorre anche il soggetto; e tale da non ridurre l’intrinseca connessione tra conoscenza teorica ed esperienza vissuta a pura argomentazione di convenienza.

Questi limiti hanno condotto a un più o meno generalizzato abbandono di una teologia pastorale o teologia pratica concepita come scienza delle conclusioni attuata secondo il metodo applicativo, e hanno stimolato il progressivo ricorso a una concezione moderna di scienza, capace di assumere in modo riflesso la prassi nel suo divenire storico con l’utilizzo del metodo empirico-critico.

 

6.2. Utilizzo di una concezione moderna di scienza

Riferendosi allo sviluppo della concezione di scienza impostosi nell’epoca moderna e contemporanea, la teologia pastorale o teologia pratica mira a produrre una riflessione scientifica intesa come sapere rigoroso, controllato, falsificabile perché verificabile.

Tale verifica è duplice. L’una è​​ logica​​ e concerne la consistenza degli asserti teologici quanto alla loro spiegazione, sistemazione, e validità delle ragioni prò e contro addotte a sostegno. L’altra è​​ empirica​​ e riguarda la corrispondenza o meno degli asserti teologici attinenti la prassi religiosa cristiana ed ecclesiale, compresa come comunicazione interpersonale, e l’esperienza vissuta o progettata delle persone.

L’itinerario metodologico precedentemente proposto assume appunto tale concetto di scienza in ognuna delle sue fasi costitutive. In effetti, mira a produrre una riflessione organica, riflessa e verificabile tanto nella descrizione valutativa della situazione, quanto nella delimitazione delle mete e della strategia d’intervento.

Esso prevede il ricorso, in un discorso interdisciplinare e transdisciplinare, alle scienze interessate a ciascuna di tali operazioni conoscitive. A tale scopo elabora​​ teorie​​ intese come insieme coerente di asserti circa la realtà rilevata, riprogettata e riprogrammata in modo strategico. Sia che ciò avvenga nella direzione razionalistico-critica, che evidenzia la funzione integrativa della teoria nei confronti del sistema sociale, oppure nella direzione della «teoria critica» della società, che sottolinea invece la funzione critica della teoria nei confronti dell’assetto sociale vigente. Essendo teorie verificabili e falsificabili, i loro asserti rivestono il carattere di​​ ipotesi: sono affermazioni ottenute mediante un’analisi regolata, rivedibile in base al controllo della loro capacità di spiegare la realtà rilevata e di prevedere il possibile andamento dei fatti socio-religiosi.

Allo stesso scopo ricorre pure allo strumento conoscitivo offerto dai​​ modelli,​​ ad es. di Chiesa, di società, di intervento generale o settoriale nella prassi: modelli di catechesi, di pastorale giovanile, di pastorale liturgica, di impegno sociale... Essi sono rappresentazioni teoriche della realtà fenomenica; in essi sono individuate le variabili caratterizzanti una prassi; sono catalogate le interdipendenze; il tutto al fine di programmare interventi migliorativi nel campo dell’azione o della prassi.

Un ampio consenso riscuote oggi, fondatamente, l’utilizzo del modello cibernetico di autoregolazione della prassi, proprio del sistema comunicativo cosiddetto dell’onda di ritorno​​ (feed-back): esso è diretto ad assicurare le condizioni ottimali in vista di una costante verifica dell’efficacia dell’intervento rapportato al raggiungimento delle mete progettate.

Il ricorso a teorie e a modelli, intesi come strumenti scientifici atti ad aggredire la realtà o la prassi per orientarla nel senso desiderato, si prefigge di conferire agli operatori o responsabili pastorali una competenza operativa nel campo dell’agire credente, cristiano ed ecclesiale.

Secondo le differenti impostazioni, tale competenza sarà capacità di autoregolare l’azione, nel senso inteso dal razionalismo critico; oppure capacità di denuncia e di smascheramento delle strutture sociali repressive, nella linea della teoria critica della società; oppure capacità critica e insieme costruttiva della prassi, nella prospettiva più accettabile delle due precedenti, perché ne supera il dualismo​​ (o​​ costruttiva​​ o​​ critica) con cui designano la funzione della teologia pastorale o teologia pratica.

 

6.3. L’istanza veritativa e l’esigenza di senso

La critica mossa, specialmente da parte dei teologi sistematici evangelici, alla recezione del concetto moderno di scienza parte dal presupposto che la teologia è scienza​​ sui generis​​ rispetto alle altre scienze: essa è dotata di una propria figura in quanto si autocomprende come intelligenza della fede, e ciò non è adeguatamente riconducibile ad altri generi di sapere umano. Inoltre è inerente ad essa una specifica istanza veritativa e di senso. Al riguardo va chiarito che la configurazione finora proposta di questa disciplina tiene debitamente conto di tale duplice esigenza veritativa e di senso. Lo fa non nella linea di alcuni autori protestanti e cattolici che propongono una combinazione di metodi e, precisamente, l’integrazione di metodi analitici propri delle scienze positive e di sapere ermeneutico proprio delle discipline teologiche, bibliche, storiche e sistematiche. Se ciò risponde all’esigenza di accostare con metodi diversificati aspetti diversi dell’oggetto di studio, si risolve di fatto in un eclettismo metodico, che esige di essere ulteriormente giustificato, per non scadere in accostamento soltanto sincretico delle componenti che prende in considerazione.

La soluzione precedentemente avanzata e motivata è quella di un itinerario metodologico che, nel suo insieme, è empirico-critico. Il ricorso alla fede come orizzonte ultimo di verità e di senso è debitamente integrato in ognuna delle tre fasi di tale itinerario. Tutte e tre, infatti, sono condotte sulla base di criteri evangelici e sono volte, rispettivamente, quella kairologica a percepire il senso, alla luce della fede, di una determinata situazione; quella progettuale a definire gli imperativi di fede da raggiungere e, quindi, il senso cristiano del futuro; quella strategica a identificare e valutare in base a criteri di fede i vari elementi che la compongono e, quindi, il senso di un itinerario cristiano di rinnovamento.

Si tenga presente la distinzione fondamentale tra significati o contenuti di fede e loro formulazioni culturali tanto prescientifiche che scientifiche, e tra verità propria dei significati di fede e verità delle loro formulazioni culturali.

I contenuti di fede sono assunti dalla teologia come principi non dimostrabili: sono semplicemente creduti. In quanto​​ intelligenza​​ della fede, la teologia verifica e falsifica (nel senso appena spiegato) le mediazioni culturali prescientifiche e scientifiche in cui vengono espressi tali contenuti di fede.

Al riguardo, occorre premunirsi contro il rischio di trasferire alla teologia, intesa come sapere umano scientifico, prerogative di verità e di assolutezza che sono esclusive della fede. Ciò è indispensabile se si vuole rendere un servizio corretto sia alla verità di fede e sia alle possibilità del sapere teologico di accedervi con i propri strumenti umani, sempre limitati e inadeguati.

In breve, non si deve identificare la teologia con la fede, il sapere teologico, frutto della ricerca umana, con il senso teologale, dono dello Spirito di Dio, la verità e il valore della fede con la verità e il valore della teologia: la teologia è​​ intelligenza verificabile​​ della fede e non s’identifica con la fede.

Tale distinzione, già basilare nell’ambito della teologia sistematica, è ancor più importante in sede di teologia pastorale o teologia pratica. Infatti, questa mira a formulare giudizi di fede su situazioni concrete, su mete future, su itinerari strategici da seguire per raggiungerle. Tali valutazioni formulate alla luce della fede e tramite un complesso e delicato discernimento teologale, riguardano aspetti contingenti della realtà; rivestono senza dubbio un senso e un valore veritativo, ma in misura diversa da quelli ad es. inerenti a formule bibliche e dogmatiche di fede che si riferiscono a realtà assolute. È quanto viene dichiarato dalla nota esplicativa annessa all’introduzione della​​ Gaudium etspes​​ del Vaticano II.

 

7.​​ Conclusione

II modello di teologia pastorale delineato costituisce un progetto di massima piuttosto ambizioso. Senza dubbio la sua rigorosa attuazione, a raggio di riflessione generale e fondante e a raggio di singole discipline particolari, richiede dal pastoralista l’acquisizione di una solida informazione di base in non poche scienze teologiche e umane interessate al medesimo oggetto di studio. Al pari degli altri modelli di teologia esige dai suoi cultori non un sapere enciclopedico, oggi impensabile e irrealizzabile, ma una specifica competenza teologico-pastorale capace di dialogare con le scienze segnalate.

 

Bibliografia

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TEOLOGIA PASTORALE

TEOLOGIA PASTORALE – CORRENTI

TEOLOGIA PASTORALE (CORRENTI)

Mario Midali

 

1. La proposta dell’«Handbuch der pastoraltheologie»

1.1. Delimitazione e fondazione dell’oggetto

1.2. La tematica materiate

1.3. L’oggetto formate

1.4. Il metodo

1.5. Rilievi valutativi

2. Superamento della prospettiva ecclesiologica dell’«Handbuch»

2.1. Il riferimento al Cristo «storico» secondo G. Biemer e P. Siller

2.2. La prospettiva «eristica» di H. Schuster

2.3. La ripresa del principio d’incarnazione secondo J. Goldbrunner

3. Comunità, Chiesa del futuro, secondo F. Klostermann

3.1. Il «principio comunità»

3.2. Lo statuto epistemologico della teologia pastorale

3.3. La teologia pastorale fondamentale

3.4. Rilievi valutativi

4. Teologia del cambio ecclesiale, secondo P.-A. Liégé

4.1. Il concetto di teologia pastorale

4.2. La concentrazione ecclesiologica e il vissuto ecclesiale

4.3. Funzioni e campo della teologia pastorale

4.4. Rapporti con le altre discipline

4.5. Annotazioni valutative

5. Riflessione pastorale come «interpretazione dell’esperienza»

5.1. La proposta di M. Van Caster

5.2. La proposta di G. Ceriani

6. Teologia pastorale e formazione clinica del pastore in campo europeo

6.1. Il colloquio pastorale e l’itinerario formativo del pastore

6.2. Comprensione europea della proposta nordamericana

6.3. Piste di approfondimento teologico-pastorale

1. Teologia pratica come «scienza dell’azione»

7.1. Configurazione «prasseologica»

7.2. Configurazione in un sistema di «autoregolazione»

7.3. Configurazione in riferimento alla «prassi comunicativa»

1 A. Configurazione centrata su una criteriologia e una kairologia

8. Sviluppi della recente teologia pratica evangelica

8.1. Il mutato contesto sociale ed ecclesiale

8.2. Critica del metodo storico-critico e necessità del metodo empirico-critico

8.3. Il ricorso a formulazioni di teorie e modelli

9. Teologia pastorale nel contesto delle teologie della liberazione

9.1. Modelli di azione pastorale

9.2. Pastorale o evangelizzazione liberatrice

9.3. Il dibattito teologico-pastorale attorno a Puebla

9.4. Rilievi valutativi

 

Nel periodo che va dagli anni ’60 agli anni ’80, dietro il forte impulso impresso dal Vaticano II, ma anche per le notevoli sollecitazioni provenienti da situazioni socio-culturali e religioso-ecclesiali in movimento, si è registrato un considerevole sforzo di ricerca e di approfondimento nell’ambito della teologia pastorale, riconducibile a correnti di pensiero, a progetti proposti, a problemi sollevati, a piste per l’ulteriore studio. Qui di seguito se ne offre una visione di sintesi ristretta alla teologia pastorale fondamentale.

 

1. La proposta​​ dell’«handbuch​​ der pastoraltheologie»

Nel mondo teologico tedesco degli anni ’60 avviene un intenso confronto con la problematica teologico-pastorale, nella realizzazione del noto​​ Manuale di teologia pastorale. La teologia pratica della Chiesa nel suo presente,​​ curato da F. X. Arnold, F. Klostermann, K. Rahner, V. Schurr e L. M. Weber. Esso costituisce un notevole tentativo di reimpostare in modo scientifico e teologico l’intera problematica pastorale, per sottrarla all’improvvisazione, a impostazioni unilaterali, conservative o innovative, e a una carente fondazione teologica.

La teologia pastorale proposta è, in sostanza, un’ecclesiologia esistenziale​​ perché studia l’attuale esistenza storica della Chiesa, da distinguere, quindi, da un’ecclesiologia essenziale attinente l’essenza della Chiesa. II principio su cui è fondata è «l’autorealizzazione della Chiesa nell’oggi». Questa proposta, elaborata da K. Rahner, si ricollega alla tradizione della scuola di Tubinga (e in particolare ad A. Graf), rispecchia il clima caratteristico del periodo conciliare e indica l’oggetto materiale e formale proprio della «teologia pastorale», denominata pure «teologia pratica», in quanto allarga il suo orizzonte dal pastore d’anime all’azione dell’intera comunità ecclesiale.

 

1.1. Delimitazione e fondazione dell’oggetto

L’oggetto materiale della teologia pastorale è​​ l’autorealizzazione della Chiesa attraverso l’insieme delle sue attività.​​ Questa scelta è giustificata in base a una ricognizione storica e a una rielaborazione dell’ecclesiologia volta a superare quelle disponibili, ritenute insufficienti (in ciò la teologia pastorale fa opera di supplenza), e ad aprire valide prospettive teologico-pastorali. È condensata in questo asserto: «la Chiesa è la comunità, legittimamente organizzata come società, nella quale, mediante la fede, la speranza e l’amore, la rivelazione di Dio (come sua autocomunicazione), escatologicamente completa in Cristo, rimane presente come realtà e verità per il mondo».

La Chiesa così definita si costruisce nella​​ storia​​ e attraverso scelte storiche. Ciò consente di evidenziare la dialettica tra la sua essenza permanente e le forme storiche contingenti del tempo presente, che sono appunto oggetto di studio della teologia pastorale. E ciò che caratterizza tale storicità non è «il permanere, ma il realizzarsi sempre di nuovo». Essendo di sua natura correlata all’autocomunicazione divina, l’autorealizzarsi della Chiesa avviene in una​​ duplice direzione: in quella della​​ verità creduta​​ con l’ascolto della Parola annunciata e insegnata, e in quella dell’amore​​ divino accettato​​ e donato nella vita cristiana, nei sacramenti e nella preghiera. Le tre virtù teologali esprimono questo autorealizzarsi della Chiesa come verità e amore, e le diverse attività ecclesiali devono tendere a concretizzarlo.

Questa delimitazione dell’oggetto proprio della teologia pastorale è giudicata più originaria rispetto a quella tradizionale, incentrata sui tre uffici di Cristo e riconducibile ai due poteri di ordine e di giurisdizione, che manifestano soltanto il realizzarsi giuridicosacrale della Chiesa.

 

1.2. La tematica materiale

La tematica materiale affrontata ricopre l’intera ecclesiologia essenziale e non pochi temi di dogmatica, che vengono trascritti in chiave teologico-pastorale per fare da solido fondamento alla disciplina. In concreto vengono trattati i seguenti argomenti:

—​​ I soggetti dell’autorealizzazione: tutti i membri della Chiesa; tutte le funzioni e i ruoli che esercitano come soggetti della sua autorealizzazione: la funzione propria del singolo cristiano e di ogni comunità, la ricomprensione, alla luce dell’unità del ministero e della collegialità, della figura del vescovo e della diocesi, del presbitero e del parroco, delle funzioni diaconali, del papato e della curia romana.

—​​ Le funzioni fondamentali della Chiesa​​ riconducibili alle sue attività verificate per renderle conformi alla sua essenza e aderenti alla situazione contemporanea: la predicazione della parola, la liturgia e l’amministrazione dei sacramenti, la disciplina ecclesiastica, l’attuazione concreta della vita cristiana e il servizio al mondo, la​​ caritas​​ come assistenza istituzionalizzata.

—​​ Gli aspetti sociali dell’autorealizzazione​​ collegati con la dimensione sociale della Chiesa e con la situazione umana e storica dei suoi membri: l’istituzionalizzazione ecclesiale, i modelli di verità, di comportamento morale e di controllo sociale, il ruolo delle ideologie, i meccanismi di integrazione, i processi di interiorizzazione e di comunicazione, la propaganda ecclesiale.

—​​ I presupposti antropologici​​ radunati attorno all’«esistenziale soprannaturale» e articolati secondo le varie dimensioni dell’essere umano, con particolare riferimento alla dualità sessuale e al differente apporto dell’uomo e della donna nella vita della Chiesa.

—​​ Le strutture formali fondamentali​​ qualificanti la realizzazione della Chiesa: la distinzione tra «processo di salvezza» e «mediazione di salvezza»; le diverse forme di pietà; il rapporto tra​​ élite​​ e massa; la​​ partnership​​ e la struttura dialogale di comunicazione; la struttura formale della predicazione del messaggio (distinzione tra kerigma e dogma); l’interiorità del fatto religioso e le caratteristiche della propaganda cristiana; la differenza tra morale vissuta e morale annunciata; le strutture «tattiche» della cura d’anime.

1.3. L’oggetto formale

Il punto di vista formale dal quale è considerata questa tematica è il legame costitutivo che la realizzazione della Chiesa ha con​​ la situazione attuale​​ comprendente le realtà sociali, culturali e politiche. Superando criticamente visioni clericali che reputano tali realtà come variamente estranee alla Chiesa, il manuale valuta il mondo presente come l’ambiente voluto da Dio per la sua Chiesa, come l’appello di Dio al suo popolo. Tramite il mondo Dio richiama la Chiesa al suo compito, sempre nuovo, di formulare e annunciare il vangelo​​ per​​ e non​​ contro​​ l’umanità attuale, amata da Dio con amore indefettibile.

Il​​ presente​​ o​​ l’oggi è​​ inteso, quindi, come la concretizzazione dello sfondo permanentemente storico e perciò mutevole, sul quale avvengono l’offerta e l’accoglienza della libera autocomunicazione della verità e dell’amore di Dio a ogni generazione umana. Come tale, la situazione presente caratterizza in modo decisivo l’umanità, al quale la Chiesa deve comunicare il vangelo; caratterizza pure in modo profondo la missione della Chiesa e dei suoi responsabili e con ciò la sua natura storica.

 

1.4. Il metodo

Il metodo esibito prevede vari momenti. Un primo momento riguarda​​ il reperimento di principi teologici​​ sempre validi ad es. riguardanti l’essenza permanente della Chiesa, necessari per analizzare, valutare e orientare teologicamente l’attuale realizzazione della comunità cristiana.

Il secondo momento è​​ critico​​ e consiste nell’analisi socio-religiosa della situazione sociale ed ecclesiale, attuata con l’ausilio delle scienze sociologiche e confrontata con un’analisi teologica, che colloca i risultati della ricerca sociologica in un orizzonte di storia della salvezza e li trasforma da semplici dati «esistenziali» in dati «provvidenziali» o «storico-salvifici» per la Chiesa.

Il terzo momento è​​ normativo​​ ed è indirizzato all’identificazione di una duplice serie congiunta di «imperativi» per l’agire ecclesiale: le norme «più alte» ricavate dall’essenza permanente della Chiesa che assicurano alla sua realizzazione «la conformità all’essenza»; le norme secondarie o di «minor peso», ma non per questo meno importanti, che traducono i dati storico-salvifici desunti dall’analisi teologica della situazione in norme di azione. Il rinvenimento di tali imperativi è compiuto con il ricorso alle libere decisioni della comunità e dei suoi responsabili, frutto di un «discernimento degli spiriti». L’ultimo momento è quello​​ strategico​​ e consiste nell’elaborazione di un piano o progetto pastorale complessivo e unitario, in cui confluiscano gli imperativi indicati, in modo da superare visioni tattiche di semplice adattamento o parziali e inadeguate, e da attuare una pianificazione aperta della realizzazione della Chiesa rispondente all’attuale situazione.

Questo procedimento conoscitivo teologico in larga parte nuovo e non privo di difficoltà è giustificato con il richiamo all’istinto di fede del popolo di Dio (sensus fidei).​​ Esso include sempre, assieme a conoscenze ed esperienze profane, un sapere teologale, cioè una comprensione teologica, per lo più spontanea o atematica, della situazione e del da farsi. La teologia pastorale può tematizzare, almeno in modo limitato e sempre problematico, tale sapere atematico: la sua riflessione è scientifica perché critica e metodica, è teologica perché è intelligenza dell’istinto di fede.

 

1.5. Rilievi valutativi

L’impostazione ecclesiologica del manuale costituisce la sua forza e il suo limite. Per il fatto di essere un’ecclesiologia esistenziale non giunge ancora a essere veramente una teologia della prassi cristiana ed ecclesiale nel senso proposto da altri pastoralisti contemporanei. Le obiezioni mosse all’opera vertono su tutti i suoi punti qualificanti e riflettono, evidentemente, le comprensioni di teologia pastorale proprie dei recensori.

Viene denunciata la mancanza di scientificità in quanto l’identificazione degli imperativi è frutto non della riflessione teologica, ma della coscienza ecclesiale e delle sue decisioni. Viene criticata la formula «autorealizzazione della Chiesa», perché assieme a un’interpretazione corretta, si presta a comprensioni ideologiche e clericali della Chiesa come l’introversione su sé stessa e la minore attenzione al servizio al mondo; inoltre perché postula una subordinazione dell’ecclesiologia esistenziale a quella essenziale e, quindi, della teologia pastorale alla dogmatica.

Viene ritenuto non soddisfacente il modo con cui è spiegato il rapporto tra essenza permanente della Chiesa e sua realizzazione storica: la Chiesa si troverebbe a dover semplicemente rispondere alle sollecitazioni della situazione socio-culturale; un’ecclesiologia esistenziale alleggerita di dati storici e arricchita di dati sociologici non è ancora una teologia pastorale plausibile; il modo con cui si effettua il confronto tra norme più alte e norme subordinate non è indicato.

Anche per la mancanza di ricerche in merito, il manuale offre solo spunti circa l’analisi teologica della situazione, che resta tutta da fare. Inoltre, l’analisi sociologica sembra solo giustapposta all’interpretazione teologica e considerata come sua «ancella».

La successiva riflessione supera la proposta del manuale su argomenti rilevanti: l’impostazione ecclesiologica, il rapporto teoria-prassi, l’utilizzazione del metodo empirico-critico, il rapporto tra teologia pratica e scienze umane.

Ammessi questi limiti, va detto che il progetto conserva una sua validità e attualità da riferire non tanto ai suoi contenuti concreti, quanto piuttosto alla problematica sollevata, alla tematica proposta, alle sue intuizioni portanti e alle piste aperte all’ulteriore ricerca.

 

2. Superamento della prospettiva ecclesiologica dell’«handbuch»

Il contesto dei primi anni del postconcilio, caratterizzato dai noti fenomeni contestativi delle istituzioni ecclesiastiche, e l’attenzione alle nuove acquisizioni della cristologia ed ecclesiologia di tipo critico portano a superare la prospettiva ecclesiologica dell’Handbuch, con la proposta di porre a fondamento della teologia pastorale o teologia pratica un principio cristologico. La formula «teologia pratica» si impone anche in campo cattolico e la disciplina viene ormai elaborata secondo le esigenze del dialogo ecumenico.

 

2.1. Il riferimento al Cristo «storico» secondo G. Biemer e P. Siller

Un primo tracciato percorso da G. Biemer e P. Siller si prefigge di produrre una riflessione scientifica di direttive difendibili e controllabili del servizio ecclesiale, che è diretto a testimoniare e mediare la fede e la speranza per l’uomo contemporaneo. La teologia pratica si costruisce appunto come riflessione «critica» di tale servizio ecclesiale.

Nel fare ciò, si riferisce al Gesù di Nazaret considerato «principio della comunità», perché all’origine del discepolato biblico e dei connessi comportamenti, e considerato insieme «principio concreto della teologia pratica», perché interpreta criticamente l’esperienza del Gesù storico in riferimento alla problematica ecclesiale attuale.

Questa riguarda il conflitto tra norme ecclesiali date e agire ecclesiale sensibile alla continua novità della situazione. La sua corretta soluzione va ricercata nell’interpretazione critica dei processi storici, alla luce dell’«evento Gesù», della sua esperienza del contrasto e della sua storia di critica dei modelli esistenti e di apertura a un futuro assoluto che viene da Dio. Va ricercata insieme nell’adattamento alla situazione presente accompagnato dall’apertura al futuro, in modo da concretizzare nell’oggi il discepolato biblico. Il che va operato con il ricorso alle scienze umane. In questa visuale, la fede della comunità cristiana conduce a una rottura nei confronti di sistemi di bisogni sociali esistenti. E la teologia pratica mira a un mutamento del sistema, dato che la storia del​​ NT​​ è storia di emancipazione.

 

2.2. La prospettiva «eristica» di H. Schuster

H. Schuster, collaboratore dell’Handbuch​​ e discepolo di K. Rahner, sposta l’accento dall’ecclesiologia a un’aggiornata comprensione dell’«evento Gesù»​​ (Die Sache Jesu),​​ ritenuto criterio ultimo dell’essere e dover essere della Chiesa.

La formula «evento Gesù» è connessa con quelle di «vangelo di Gesù» e «regno di Dio» nella misura in cui queste indicano inscindibilmente Gesù stesso, la rilevanza della sua azione e della sua dottrina per i suoi discepoli, l’interpretazione che tutto ciò ha avuto nelle primitive comunità cristiane mediante la parola (ad es. tradizioni e scritti) e le attività (ad es. le strutture comunitarie). L’evento Gesù è inseparabilmente «evento dell’uomo» perché dà senso e rilevanza all’esistenza umana, e «evento di Dio» perché rivelativo della realtà da lui chiamata «Padre». L’evento Gesù così inteso è normativo per l’intera azione ecclesiale e quindi per la teologia pastorale o teologia pratica.

In effetti, l’esperienza di fede nel Cristo, vissuta dalla comunità dei discepoli, è il motivo della fondazione della Chiesa e il punto di partenza per la fondazione e la vita di altre comunità ecclesiali. Sicché la Chiesa esiste solo dove vi sono persone che vivono l’evento Gesù e testimoniano per gli altri la loro speranza.

La teologia pratica deve assumere come «fondamenti ecclesiologici» questi dati raggiunti dalla recente ecclesiologia critica, e non definire l’essenza della Chiesa appellandosi a una sua strutturazione storica, di per sé legittima, ma di un periodo posteriore (come fa l’Handbuch).

Distinguendo tra «motivazioni cristiane» costituite dall’evento Gesù continuamente operante nella storia, e «strutture ecclesiali» riconducibili alle forme di pensiero, di organizzazione e di vita che la Chiesa si è data lungo i secoli, è compito della teologia pratica: essere sensibile e rendere sensibile alle differenti motivazioni rilevabili nelle concrete situazioni umane e aiutarne la loro successiva concretizzazione in strutture che siano genuinamente cristiane e al servizio della persona nel suo divenire storico; svolgere un servizio critico rispetto alle strutture ecclesiali, tradizionali e nuove, per verificare se favoriscono o non piuttosto ostacolano l’accesso all’evento Gesù, se cioè sono a parole e di fatto espressione di quell’amore, di quella speranza, giustizia e libertà che gli uomini hanno sperimentato nel Cristo, come dono e impegno del Padre.

Nel fare ciò dovrà ascoltare non solo il vangelo, ma anche le persone per cogliere i motivi cristiani che le guidano. La prassi dei cristiani, confrontata con la prassi di Gesù, diventa luogo teologico principale per la teologia pratica, e questa a sua volta si colloca sempre più nell’orbita ellittica i cui due fuochi sono la prassi e la teoria.

 

2.3. La ripresa del principio d’incarnazione secondo J. Goldbrunner

Il principio d’incarnazione, già illustrato dall’Arnold, viene ripreso da J. Goldbrunner per valutare le recenti proposte pastorali (che saranno presentate più oltre) e per rispondere alle seguenti esigenze irrinunciabili della teologia pastorale.

È un principio teologico che unifica altri principi prevalentemente sociologici e incompleti, proposti da sostenitori di una teologia pratica come scienza dell’azione. Illumina le coordinate fondamentali fede e non-fede, che caratterizzano molti contesti socio-culturali attuali e che sarebbero carenti​​ nell’Handbuch​​ essendo centrato sulla Chiesa. È un principio specificamente cristiano che coglie insieme teocentrismo e cristocentrismo ed evidenzia lo specifico cristiano disatteso da qualche pastoralista attuale (ad es. G. Otto). Salvaguardia il primato della persona nella comunità contro tendenze collettiviste e comunitariste. Rende possibile il superamento del verticalismo e dell’orizzontalismo e salva la dualità natura-soprannatura. È capace di unire teoria e prassi nella concretezza delle situazioni storiche: la storicità, la legge della croce e la riserva escatologica consentono di cogliere il divenire storico, la conflittualità e la relatività delle realizzazioni umane. Rende possibile un atteggiamento unitario tra vita intraecclesiale e impegno verso il mondo.

 

3. Comunità, chiesa del futuro, secondo f. Klostermann

Ferdinando Klostermann (1907-1983), noto pastoralista di Vienna, approfondisce la prospettiva cristologica ed ecclesiologica dell’Handbuch​​ attorno al «principio comunità». È particolarmente sensibile agli aspetti strutturali e istituzionali della Chiesa, fonte di disagio e oggetto di contestazione, e ne prospetta con disarmante audacia il cambio. Si confronta con i pastoralisti contemporanei e offre un proprio apporto critico e innovativo.

 

3.1. Il «principio comunità»

Egli ravvisa nel «carattere comunitario della vita ecclesiale» il principio informatore e unificatore delle molteplici attività della comunità e lo assume come motivo dominante della teologia pastorale. Per raggiungere tale obiettivo si riferisce alla «comunità di Gesù» e ne definisce i lineamenti essenziali recependo i risultati della recente ecclesiologia critica.

La comunità di Gesù è caratterizzata dalla tensione escatologica e dall’essenziale dimensione comunitaria. Si costruisce in funzione del regno di Dio presente in essa, ma che non s’identifica con essa, e nell’intrinseca correlazione tra singolo e comunità. È segnata dal rapporto dialettico tra la sua componente divina e misterica e la sua componente umana e visibile. Di conseguenza, è attraversata dall’esigenza del continuo «aggiornamento», cioè dalla necessità di confrontare le sue forme storiche con il dettato della rivelazione circa la natura, la costituzione interna e i compiti assegnatile da Gesù. Questo suo riferimento a Cristo è determinante, per cui la dimensione istituzionale della Chiesa va valutata in base alla parola di Cristo espressa nel servizio o «diaconia». In concreto, il fatto che si entra nella comunità per libera scelta comporta che i suoi membri siano sempre di nuovo messi di fronte alla propria decisione. Tra Chiesa e mondo vi è, da un punto di vista umano, una radicale disfunzionalità, che fa apparire la Chiesa come straniera; tuttavia, la sua missione universale la orienta all’evangelizzazione e la lega vitalmente all’umanità. In questa visuale si situa il rapporto tra discepolato e apostolato, tra vita di comunione e azione evangelizzatrice.

Sono «elementi costitutivi» della comunità di Gesù: il suo riferimento originario allo Spirito che la costruisce; l’accoglienza della parola del Signore e la celebrazione del culto del Signore, mediante i quali si edifica come comunità; l’amore fraterno nel Cristo, che ne costituisce l’aspetto completivo e perfezionatore.

Sono suoi «elementi strutturali»: la fondamentale uguaglianza dovuta alla pienezza dello Spirito e all’amore di Cristo; la disuguaglianza data dalla presenza di uffici e carismi distinti e correlati; la storicità connessa, da un lato, con la distribuzione di compiti e ruoli rispondenti a esigenze del tempo e, dall’altro, con il condizionamento storico dell’immagine sociale della Chiesa; la necessaria revisione permanente delle strutture comunitarie facendo riferimento alle comunità neotestamentarie e alle strutture sociali di ogni epoca.

Il principio comunità presiede l’opera di aggiornamento strutturale della Chiesa: il cristianesimo può esistere e realizzarsi solo come comunità e in comunità; va superato, quindi, lo schema attivo-passivo nei rapporti intraecclesiali e va affermato che l’intera comunità è soggetto attivo dell’azione ecclesiale;​​ l’ecclesia​​ neotestamentaria si realizza e attualizza solo in riferimento a un determinato spazio umano, cioè in «comunità locali o particolari», legate alla legge della vicendevole comunicazione nel contesto della «comunità universale».

Questi asserti vengono verificati in rapporto alle forme storiche in cui la comunità di Gesù si realizza e si manifesta: la Chiesa universale e le questioni attinenti la collegialità e la partecipazione; la Chiesa episcopale e la problematica riguardante gli organismi di collaborazione e le dimensioni della diocesi; la comunità parrocchiale e i problemi delle sue dimensioni ottimali e della partecipazione responsabile dei laici; altre forme di comunità locali, tradizionali o nuove; il rapporto tra singolo e comunità che dev’essere attento alle successive fasi di crescita cristiana delle singole persone e mirare alla loro maturità.

 

3.2. Lo statuto epistemologico della teologia pastorale

In forza del principio comunità, la teologia pastorale si costituisce come «teologia dell’attuazione vitale della Chiesa» (formula preferita rispetto a quella dell’Handbuch,​​ perché ne evita le note critiche). Essa studia «come la rivelazione e la fede si attualizzano nella comunità di Gesù, che si costruisce sempre di nuovo nel futuro, animata dalla continua presenza dello Spirito di Dio e di Cristo».

Il suo punto di vista formale è il riferimento al «qui-ora» della comunità e, quindi, l’attuale congiuntura storica della Chiesa. Ciò è dovuto alla storicità della comunità di Gesù, destinata a realizzarsi sempre di nuovo nel susseguirsi delle diverse situazioni storiche. È quindi inaccettabile un’unilaterale concezione monofisita della Chiesa che ne considera unicamente la dimensione divina e ne disattende quella umana sottoposta al fluire della storia.

La situazione presente della Chiesa è interpretata col ricorso alla teologia del​​ kairós:​​ situazione interna alla Chiesa e sua collocazione nella storia contemporanea sono interpretate come momento storico-salvifico. Lo sviluppo metodico di tale kairologia prevede due momenti successivi: un’analisi interpretativa condotta dalle scienze umane (antropologia, psicologia, sociologia, critica ideologica e critica culturale), i cui risultati non sono direttamente riferibili alla vita della Chiesa, perché questa si situa in un ambito di fede che sfugge loro; un’interpretazione teologica di tali risultati condotta alla luce della rivelazione o della cosiddetta «dottrina dei principi». Così intesa, la kairologia abilita il credente e la comunità a valutare lo​​ hic et nunc​​ della Chiesa come suo concreto​​ kairós​​ e a individuare conseguenti linee di azione.

 

3.3. La teologia pastorale fondamentale

In forza del principio comunità, l’A. difende e giustifica la costituzione di una teologia pastorale fondamentale avente il compito di studiare «l’intera vita della Chiesa come essa deve realizzarsi qui-ora, con un dinamismo che la protende verso il futuro».

In base a tale principio, egli critica la frammentazione dispersiva delle molte discipline teologico-pastorali e la loro configurazione storica come scienze indipendenti. Ritiene carente sia la tripartizione della materia presieduta dal triplice ufficio di Cristo e della Chiesa, sia la bipartizione della teologia pastorale attinente il terzo ufficio inteso come cura della singola persona e cura della comunità, perché l’una e l’altra disattendono un discorso fondante e unificante offerto appunto dal principio comunità.

Concepisce la teologia pastorale fondamentale come disciplina avente il compito di studiare le problematiche comuni a tutte le discipline particolari, che di conseguenza devono riferirsi a essa come a imprescindibile presupposto. Essa sviluppa tre tematiche di fondo: una «dottrina dei principi» valevoli per tutti i settori della vita ecclesiale e ricavati dalla dogmatica oppure elaborati da essa se non disponibili: in pratica è la fondazione storico-salvifica e cristologico-ecclesiologica della teologia pastorale; una kairoiogia; la realizzazione della Chiesa nel suo insieme.

La teologia pastorale speciale tratta «quei settori della vita ecclesiale che per la loro speciale rilevanza o per il loro significato è bene sottoporre a una ricerca più particolareggiata», fino a costituire discipline a sé stanti nel quadro della teologia pastorale. La loro distinzione non risponde, quindi, a esigenze teoriche e non è comandata, in particolare, dal triplice ufficio; ubbidisce piuttosto a istanze concrete proprie di ogni epoca.

La presentazione che l’A. fa dei contenuti materiali della propria proposta privilegia lo studio dell’attuale struttura della Chiesa e mira a evidenziarne le auspicabili riforme. L’operazione è compiuta a più riprese e trova un ampio sviluppo nell’opera intitolata​​ Comunità. Chiesa del futuro, in cui applica coerentemente la metodologia segnalata, avvalendosi di una vasta documentazione internazionale e producendo un discorso di tipo interdisciplinare.

 

3.4. Rilievi valutativi

La critica teologica ha valutato positivamente i seguenti aspetti della proposta del Klostermann: l’adozione del principio comunità formulato in base a una cristologia ed ecclesiologia critiche; la giustificazione teologica di una teologia pastorale fondamentale; la definizione di una kairologia; il vigore dell’analisi pastorale e l’audacia delle proposte di cambio ecclesiale; l’impiego di un approccio interdisciplinare.

Gli aspetti carenti o problematici, che per altro superano la proposta dell’A. e rispecchiano il momento teologico ed ecclesiale del postconcilio, riguardano questi argomenti: la non adeguata esplicitazione dei momenti in cui è ricostruito il principio comunità; il procedimento interpretativo del​​ kairós​​ che pare egemonizzato dalie esigenze dell’attuale aggiornamento strutturale; l’assunzione dei risultati delle scienze umane senza un’adeguata critica delle ideologie che le presiedono.

 

4.​​ Teologia del cambio ecclesiale, secondo P.-A. Liégé

Pierre-André Liégé (1921-1979), professore di teologia pastorale all’istituto cattolico di Parigi, ha offerto un proprio contributo di valore allo sviluppo della teologia pastorale, specialmente nell’area di lingua francese.

 

4.1. Il concetto di teologia pastorale

Nei vari tentativi di definire il profilo e la metodologia della teologia pastorale, Liégé si rifà alla prassi pastorale vigente, nella quale rileva alcuni pericoli ricorrenti, che questa disciplina dovrebbe aiutare ad evitare: la pastorale selvaggia fatta di spontaneismo o di sperimentazione incontrollata; la pastorale tecnocratica dominata da esigenze organizzative e burocratiche; la pastorale di acritico adattamento alle tendenze socioculturali dominanti; la pastorale di conservazione attaccata a una prassi uniforme e ripetitiva, securizzante ma esposta a sterile immobilismo. Mette in evidenza le maggiori acquisizioni raggiunte dalla teologia pastorale recente e avallate autorevolmente dal Vaticano II. È critico di fronte a concezioni che riducono questa disciplina a «corollari pastorali» della dogmatica e della morale, oppure a «una teologia della pastorale: teologia esteriore all’agire ecclesiale a cui si degna di offrire i suoi principi teologici e su cui esercita il suo controllo di ortodossia». È pure critico di fronte a «una pastorale della teologia, incaricata di rendere questa disciplina meno astrusa e più digeribile», rendendola attenta all’esperienza cristiana ed ecclesiale, aperta alle questioni attuali, preoccupata che la verità cristiana sia a servizio della missione della Chiesa.

Assume questa definizione della teologia pastorale che ritiene condivisa e adatta a definirne l’identità, in quanto ne indica il carattere di conoscenza scientifica, la natura teologica, la qualifica pratica o pastorale, l’oggetto materiale e formale: «la disciplina teologica che offre un suo discorso specifico alla coscienza riflettente dell’agire ecclesiale nell’oggi del suo compiersi».

È consapevole che una teologia pastorale così concepita è finora attuata solo in modo frammentario; tuttavia, esso consente di legittimare lo statuto a cui essa aspira.

 

4.2. La concentrazione ecclesiologica e il vissuto ecclesiale

Egli giudica ormai assodato che la teologia pastorale ha come oggetto di riflessione la Chiesa, luogo in cui si realizza rincontro salvifico della persona umana con Dio e con Cristo, che costituiscono la realtà studiata dalla teologia.

Ciò che polarizza la riflessione pastorale è «l’oggi dell’esperienza ecclesiale» presa nella sua «globalità organica» comprendente pastori e fedeli, considerata «nel suo dinamismo» teso all’edificazione della comunità, considerata cioè nel suo agire (compreso in senso blondeliano come sintesi dell’essere, del volere e del pensare), luogo in cui si attua e si manifesta il mistero divino.

L’oggi della Chiesa, il vissuto ecclesiale è studiato dalla teologia pastorale non al fine di offrire ricette pratiche di adattamento, ma come luogo in cui è immanente dinamicamente la parola di Dio, «che l’atto teologico ha il compito di scrutare e riattualizzare», in modo che la coscienza ecclesiale sia adeguatamente orientata: la teologia pastorale è una prassiologia.

Così compresa, la teologia pastorale suppone una concezione ecclesiologica che va tematizzata attorno al rapporto tra «Chiesa eterna», comunità escatologica, perfetta, che esprime la comunione compiuta di tutti in Dio, e «Chiesa storica», che anticipa in modo germinale la comunità escatologica e tende verso il raggiungimento di tale meta mediante realizzazioni storiche parziali.

 

4.3. Funzioni e campo della teologia pastorale

Fra le molteplici funzioni della teologia (contemplativa e dossologica, apologetica, ermeneutica e critica, pratica...), la teologia pastorale rivendica per sé la funzione pratica, che l’A. articola in tre aree tra loro strettamente correlate: l’area criteriologica, l’area retrospettiva, e l’area prospettica o progettuale. A conclusione di varie riprese dell’argomento, sono proposti i seguenti​​ criteri,​​ cristologici i primi due e pentecostali gli altri: il criterio d’incarnazione o mediazione, che rimanda al Cristo risorto come realizzatore del piano salvifico divino; il criterio storico o di durata riguardante i condizionamenti storici dell’agire ecclesiale; il criterio comunitario, che propone la dialettica di persona e comunità all’interno del popolo di Dio; il criterio di cattolicità riguardante la necessaria apertura del messaggio cristiano alle culture; il criterio d’istituzione, che evidenzia l’insopprimibile componente istituzionale della Chiesa; il criterio di apostolicità o di tradizione, che sottolinea la continuità apostolica della dottrina e dell’autorità nella Chiesa; il criterio di unità di missione, che legittima la diversità e la convergenza di carismi e ministeri nella vita ecclesiale.

Tramite la sua​​ funzione retrospettiva o​​ di memoria, la teologia pastorale concentra l’attenzione critica sui condizionamenti storici dell’attuale esperienza ecclesiale e opera «una critica liberante nei confronti di un’eredità che spesso ritarda l’immaginazione». Le scelte pastorali del passato e, in particolare, le opzioni del tempo di cristianità sono analizzate criticamente e valutate in vista di una loro possibile assunzione oppure di un loro superamento nell’azione pastorale del presente. La​​ funzione progettuale​​ o creativa costituisce un momento tipico della teologia pastorale e ne fa una «teologia del cambio». L’attuazione metodica di tale funzione parte dalla precisazione del disagio nei confronti di «una prassi ereditata e contestata»; il traguardo finale è «una prassi riorientata e rinnovata». Il cammino tra i due estremi prevede una «spiegazione storica» dei fatti, attenta agli interrogativi e ai sospetti avanzati dalle scienze umane; una rivisitazione delle «fonti della fede», per ricavarne criteri teologici; «una rivalutazione pastorale» della situazione rilevata e un suo riorientamento verso mete operative e strategiche ridisegnate.

Collocata in questa prospettiva, la teologia pastorale «rivendica il diritto di ricoprire tutto il campo riguardante il progetto di Chiesa nel suo progressivo costruirsi, tutti i compiti che esso implica, tutte le istituzioni che mette in opera». E «siccome si è entrati in un’epoca in cui la teologia si presenta al plurale, sotto il segno della diversità e del cambio, occorre attendersi che la teologia pastorale si diversifichi da una regione all’altra della Chiesa e che sia minacciata di un invecchiamento quotidiano [...] Questo non significa però che la teologia pastorale di ieri sia oggi falsa. L’esperienza ecclesiale elevata a un livello critico e riflessivo in un momento storico è portatrice di una certa continuità».

 

4.4. Rapporti con le altre discipline

I suoi rapporti con altre discipline teologiche (dogmatica, morale, storia) sono di distinzione e di reciprocità, in ragione di un comune campo di ricerca e di differenti approcci e metodi specifici di ognuna di esse.

II suo ricorso alle scienze umane è indispensabile e avviene in tre momenti successivi: all’inizio per l’analisi del vissuto ecclesiale; nel proseguo per «transcodificare» le letture fatte da tali scienze con una lettura credente; al termine per produrre orientamenti dell’agire ecclesiale, che integrino l’oggi culturale. Le scienze umane non vanno considerate discipline «ausiliari» della teologia pastorale. Occorre piuttosto istituire fra loro una «integrazione» sul piano della ricerca e una distinzione di competenze a livello di risultati. Senza dubbio l’interpretazione ultima del vissuto ecclesiale si situa nell’orizzonte di fede, per cui è di competenza non delle scienze umane ma della teologia pastorale.

Il rapporto della filosofia con la teologia pastorale è meno decisivo di quanto lo è per la teologia sistematica. La teologia pastorale se ne avvale in maniera seria ma piuttosto eclettica, nel senso che essa è orientata di preferenza verso le filosofie dell’azione, della persona e della storia, perché più omogenee al suo progetto.

 

4.5. Annotazioni valutative

Benché disperso in numerosi contributi, il pensiero teologico-pastorale del Liégé lascia intravedere la sua struttura fondamentale criticamente sensibile alle istanze del periodo esaminato. Le sue proposizioni qualificanti

attinenti gli argomenti esposti consentono un’organizzazione ben fondata della teologia pastorale e l’adozione di un modello metodologico praticabile anche se parziale. Occorre tuttavia riconoscere che la proposta è per vari aspetti interlocutoria e si ferma allo stadio di suggestioni e intenzioni, giustificate ma non sviluppate e approfondite.

Ad ogni modo, va riconosciuto all’A. il merito di aver richiamato l’attenzione sul carattere ambizioso del profilo di teologia pastorale da lui delineato. A ragione egli può dichiarare che solo chi ha un’immagine povera di questa disciplina la può considerare una teologia declassata.

 

5. Riflessione pastorale come «interpretazione dell’esperienza»

Lina problematica in parte simile a quella dell’Handbuch​​ e del Liégé, ma sviluppata in maniera originale, la si trova nella riflessione pastorale prodotta specialmente da M. Van Caster e da G. Ceriani.

 

5.1. La proposta di M. Van Caster

Il centro d’interesse della riflessione pastorale del Van Caster è costituito dall’«esperienza vissuta», dove esperienza indica una realtà inglobante l’intera esistenza della persona e, precisamente, «la realizzazione e integrazione di valori in una situazione personale attraverso la mediazione di alcune attività».

Ci si trova di fronte a un capovolgimento di prospettive. In effetti, l’esperienza non viene concepita «come applicazione pratica di una verità dottrinale o teorica o come prolungamento attuale di una realtà storica espressa nella Bibbia..., o come il quotidiano dove il mondo spirituale, celebrato nella liturgia, trova spazio di irraggiamento e di azione», ma appunto «come oggetto della riflessione cristiana», come esperienza «interpretata alla luce della fede».

Questo cambio di visuale è guidato dalla certezza di una divina presenza di rivelazione e di grazia nel quotidiano dell’esperienza umana. La teologia pastorale tende a evidenziare e a interpretare tale presenza in vista dell’elaborazione di orientamenti per l’azione. Lo fa lungo due direttrici distinte ma complementari.

La prima considera la vita vissuta come possibile portatrice di «valori», di cui vanno percepiti i significati al fine di una loro progressiva integrazione. «Si tende a precisare il senso immediato e il senso profondo (cioè il significato esplicitamente cristiano) di questo valore e si studiano le modalità attraverso cui può essere realizzato e integrato, nella doppia significatività, attraverso l’azione nelle diverse situazioni».

La seconda considera invece l’esperienza come luogo di possibili «appelli», che esigono determinate risposte di fede e d’impegno cristiano. «Si tratta di interpretare in modo umano e cristiano l’appello che nasce da questa situazione, per cogliere le modalità efficaci attraverso cui assumerla nel modo migliore, determinando per quali valori tale situazione costituisce una chance d’integrazione o una minaccia di scacco». L’interrogativo di fondo che ha sollevato questa corrente di riflessione pastorale riguarda il posto che occupano, in tale interpretazione dell’esperienza, i non-valori, i messaggi devianti, il male, il peccato strutturato, in breve, il​​ mysterium iniquitatis.

 

5.2. La proposta di G. Ceriani

Chiamata a riflettere sull’«azione salvifica della Chiesa considerata nella sua contemporaneità alle condizioni umane in cui essa opera», la teologia pastorale ha, come «elemento caratteristico, la visione storica» e, in essa, «l’esperienza umana».

Pur senza collocarla tra le fonti della teologia pastorale, il Ceriani giudica tale esperienza come «uno dei segni dei tempi più vivamente sentiti oggi». La ricollega all’esperienza scientifica, morale, sociale, estetica, intesa come «coscienza che l’uomo possiede delle attività della vita totale e del loro significato unitario», e come «pensiero che ne scopre la struttura razionale, la logica dell’esistenza umana». Non si tratta, quindi, di un’esperienza soggettiva, individuale, ma di un dato oggettivo che definisce l’uomo nella sua essenzialità. Per questo richiede una sua comprensione e interpretazione cristiana ed ecclesiale. Il farlo è compito della teologia pastorale.

Compresa alla luce del mistero di Cristo, l’esperienza umana suggerisce un importante approccio pastorale, che permette di valorizzare tutto ciò che in ogni uomo c’è di positivo. In questo senso si parla di «metodo dell’immanenza» che spinge a realizzare la salvezza proprio all’interno dell’esperienza stessa, in quanto rivelativa di un mistero che supera l’uomo e completa l’uomo, se spiegata nel mistero di Cristo.

In questo ordine di idee, l’A. prospetta l’attuale orientarsi della teologia pastorale come teologia della storia d’oggi e come teologia dell’azione. E in questo si ricollega con altre correnti di pensiero.

 

6.​​ Teologia pastorale​​ e formazione clinica​​ del pastore in campo europeo

La formazione clinica del pastore continua ad avere una vasta risonanza nella prassi pastorale nordamericana, meno nella sua riflessione teologica. In campo europeo questo movimento viene conosciuto attorno agli anni ’60 (R. Hostie, A. Godin) e il suo approdo ufficiale avviene prima in Olanda (W. Zijlstra, F. Haarsma, H. Andriessen) e successivamente in Germania (D. Stollberg, M. Klessmann, W. Becker, H. Harsch, H. J. Clinebell, J. Scharfenberg, H. Ch. Piper, Y. Spiegel) Inghilterra e Svezia con la creazione di centri di​​ clinicalpastoral training.​​ Negli ambienti protestanti è generalmente recepito, benché in modo critico.

Nei paesi a maggioranza cattolica viene introdotto in modo limitato e tra perplessità e difficoltà (Y. Saint-Arnaud, H. Faber, B. Giordano).

 

6.1. Il colloquio pastorale e l’itinerario formativo del pastore

L’abbondante letteratura europea in merito presenta i vari aspetti del​​ colloquio pastorale: la problematica attinente il suo carattere «non direttivo; i suoi modelli, quindi, il colloquio centrato sul cliente oppure centrato sul consulente, oppure ispirato alla collaborazione; la consulenza individuale, quella di gruppo e quella che combina l’una e l’altra per raggiungere la persona nel «campo» di forze sociali da cui è condizionata e in cui interagisce; il procedimento e le tecniche di sperimentazione come lo «studio del caso», generalmente nel contatto diretto con una o più persone, oppure sulla base di un materiale già elaborato; gli atteggiamenti del consulente-pastore raggruppati attorno a due poli maggiori: «l’ascolto» inteso come funzione di accoglienza e «il consiglio» considerato come funzione di discernimento.

Tale letteratura descrive pure le componenti del​​ l’itinerario formativo​​ al colloquio pastorale. Il suo obiettivo è l’acquisizione non tanto di conoscenze teoriche (non escluse), quanto piuttosto di capacità operative. Il suo principio informatore è «l’imparare facendo», cioè il fare riflessione critica, psicologica e teologica, all’interno delle proprie esperienze pastorali. Oltre la clinica, il suo luogo d’attuazione è la comunità umana e cristiana. Tra i metodi di apprendimento e affinamento vengono applicati i seguenti: la discussione di un caso; l’analisi del colloquio sulla base della sua verbalizzazione​​ (verbatim);​​ la relazione sullo svolgimento di un caso​​ (processonotes); il «giuoco dei ruoli»​​ (role-playing),​​ in cui il presentatore gioca il ruolo del cliente; la visita in due al cliente​​ (dual calling); Tautosperimentazione della dinamica di gruppo. L’intervento del «supervisore» è ritenuto determinate: secondo i momenti del processo formativo, egli svolge il ruolo di ricercatore con gli studenti, di docente che offre informazioni, di osservatore, assistente e interprete del lavoro di gruppo. Il curricolo formativo può essere integrato da successive verifiche e da gruppi di studio dei casi giunti a conclusione (gruppi di Balint).

 

6.2. Comprensione europea della proposta nordamericana

La recezione europea ravvisa nella proposta teologico-pastorale nordamericana un’innovazione radicale: la teologia che questa propone le appare come teologia vivente, sperimentale, non facilmente integrabile nell’edificio teologico tradizionale; e la teologia pastorale da questa prospettata è vista come «teologia empirica», elaborata in riferimento non a un settore del sapere teologico, ma all’intera esperienza del pastore intesa come relazione interpersonale o come comunicazione, sicché risulta una «teologia in atto»​​ (doing theology)​​ prodotta nel farsi della consulenza pastorale.

La letteratura europea rileva le seguenti obiezioni mosse dalla teologia tradizionale a tale impostazione: l’assunzione massiccia dei metodi sociologici accompagnata da una carente giustificazione teologica delle proposte; la comprensione della fede come forza d’integrazione psichica e sociale; il primato riservato ai dati delle scienze della comunicazione interpersonale e gruppale rispetto all’elaborazione concettuale e all’aspetto dottrinale. Rileva pure i tentativi di legittimare teologicamente il programma: sono riconducibili ai seguenti asserti ispirati dalla teologia delle relazioni di Tillich.

Conformemente alla rivelazione biblica che si attua più in eventi che in enunciati dottrinali, l’autocomunicazione di Dio si iscrive nell’esperienza globale dell’uomo, per cui le relazioni interpersonali costituiscono i canali, imperfetti ma rilevanti, dell’amore salvifico divino. La fede non è adesione angosciosa a formule tramandate, ma capacità di parteciparsi agli altri sulla base di un’originaria fiducia. L’annuncio della rivelazione è partecipare sé stessi e il proprio amore agli altri, dato che nella relazione interpersonale si​​ rivelano​​ la grazia e il giudizio di Dio.

1 meccanismi di autodifesa e di rigetto che ostacolano una comunicazione autentica sono segni tipici della peccaminosità umana.

 

6.3. Piste di approfondimento teologico-pastorale

Nell’area europea emerge specialmente l’esigenza di conferire una più consistente fondazione teologica alla proposta nordamericana. Lo fa seguendo varie piste che concepiscono il colloquio pastorale come «luogo teologico».

Una prima pista (H. Ch. Piper) considera l’atteggiamento del pastore nella relazione di aiuto come traduzione moderna del​​ «pure docere evangelium»;​​ interpreta i limiti e le debolezze dell’operatore alla luce della «theologìa crucis»',​​ comprende i processi interpersonali e gruppali come espressione del «mutuum colloquium et consolatio fratrum».

Una seconda pista (V. Làpple) mette in luce gli elementi di una «teologia implicita» nel colloquio pastorale, chiarendo come in esso confluiscono contenuti della tradizione cristiana e tecniche terapeutiche. Il rapporto tra psicologia e teologia qui implicato è di sua natura dialettico. Verità psicologica e verità teologica non sono due compartimenti stagni: occorre allora ripensare la verità psicologica su colui che è la verità, Gesù Cristo. Non è consentito alla teologia prescrivere norme alla psicologia. D’altra parte, è illusorio trasferire determinate conoscenze psicologiche intese come «pura prassi» nell’agire pastorale, perché alla loro base vi sono presupposti antropologici e teologici, che è compito della teologia esplicitare nella disputa con le scienze dell’uomo.

Una terza pista (D. Stollberg) critica la concezione di teologia sottesa all’obiezione di carente teologicità del programma clinico-pastorale: tale teologia elabora il suo sapere secondo le scienze dello spirito (filosofia, linguistica, scienze storiche) e disattende un più ampio orizzonte culturale offerto dalle scienze dell’azione. Difende una concezione della teologia capace di assumere, in una «visione di fede» la totalità delle prospettive culturali attuali. Per cui «ogni scienza può diventare disciplina teologica attraverso una “prospettiva teologica”». Fare teologia vuol dire, in conclusione, «accettare le scienze [del mondo profano e secolare] come scienze di Dio e in questo senso come teologia».

La teologia pratica si costituisce nel dialogo tra fede e scienze dell’azione. Il suo «testo» o ambito di ricerca è il «qui-ora» dell’uomo rapportato alla Chiesa. Ivi l’uomo è condizionato dalla memoria del passato (tradizione biblica e postbiblica) e dalle attese di fronte al futuro (proiezione), ma il suo «qui-ora» si manifesta in molteplici interazioni, specialmente sociali e politiche, nonché in una complessa dinamica intrapsichica. Compito fondamentale della teologia pratica è mediare l’esperienza e il diritto degli antenati da un lato (tradizione), l’esperienza e il diritto dei contemporanei dall’altro (situazione), e assumere insieme la responsabilità per un futuro più degno dell’uomo in senso cristiano (proiezione). Suo obiettivo è elaborare la norma di fede per il qui-ora umano ed ecclesiale. Suo criterio interpretativo è la «presenzialità» o «contemporaneità» della rivelazione divina (da non identificare con le sue fonti scritte del passato), che si realizza sempre di nuovo nella situazione di dialogo, nella comunità in cui la comunione evangelica si esprime in comunicazione​​ (Mt​​ 18,19s). Per la teologia pastorale, la rivelazione di Dio «si schiude qui-ora, certamente anche nell’incontro di testi e tradizione con noi qui-ora, ma precisamente​​ con noi​​ (scienze umane)​​ qui-ora​​ (scienze empiriche)».

 

7.​​ Teologia pratica come «scienza dell’azione»

Una corrente di pensiero che, a partire dagli anni ’70, riscuote ampi e crescenti consensi definisce la teologia pratica come «scienza dell’azione».

Si presentano qui alcune sue configurazioni maggiori espresse in campo cattolico e nel dialogo interconfessionale.

 

7.1. Configurazione «prasseologica»

Un primo abbozzo è quello del pastoralista canadese Marcel Lefèbvre, che riprende e sviluppa suggestioni del Liégé nella linea della recente prassiologia.

Questa si snoda lungo tre direzioni: l’analisi degli elementi dell’azione; il cammino dell’azione; i fattori costitutivi di un’azione collettiva.

Utilizzando i risultati di tale tipo di ricerca, l’A. ritiene che ogni azione ecclesiale possa essere studiata nei seguenti suoi elementi costitutivi: un obiettivo semplice o complesso da raggiungere; la traiettoria che l’azione pastorale deve compiere per raggiungerlo; il controllo dell’obiettivo lungo la traiettoria al fine di verificare se viene perseguito; lo studio dei mezzi e dei metodi richiesti per eseguire l’azione programmata; la delimitazione dei mezzi per recepire le informazioni sull’andamento dell’azione; le decisioni da prendere nelle diverse fasi esecutive.

Circa l’azione collettiva come è quella pastorale, segnala i vantaggi che ad essa potrebbero derivare dall’applicazione delle metodologie introdotte dall’Organization Development,​​ le quali mirano a garantire, assieme all’efficienza dell’azione, anche la valorizzazione delle persone interessate alla sua realizzazione, coinvolgendole in un movimento di compartecipazione e corresponsabilità.

Infine affronta il tema dell’interdisciplinarità nell’azione e nella riflessione pastorale: ne giustifica l’adozione; ne prospetta i vari modelli di attuazione con i loro limiti e problemi; ne individua le possibilità e le condizioni di realizzazione; solleva la questione dell’interfecondazione tra ricerca e azione, la cui positiva soluzione apre promettenti prospettive tanto alla prassi ecclesiale quanto alla riflessione teologico-pastorale.

 

7.2. Configurazione in un sistema di «autoregolazione»

La configurazione più esplicita e condivisa è quella proposta da Rudolf Zerfass, che fa sua l’impostazione dell’Hiltner​​ e la rielabora come possibile alternativa a quella dell’Handbuch.

In analogia con le scienze dell’azione (sociologia, psicologia, pedagogia, politologia, scienze economiche e della comunicazione), la teologia pratica si concentra sull’attuale agire umano, come dato verificabile, considerato nella sua dimensione religiosa (esperienza del contingente) e nelle sue manifestazioni concrete e istituzionalizzate: è la prassi religiosa, cristiana ed ecclesiale compresa in senso molto vasto comprendente ad es. la parola, il silenzio, la preghiera...

Essa solleva i più radicali interrogativi teologici rispondenti alle dimensioni elementari di tale prassi: la soggettività (centralità della persona che agisce e interagisce), l’intersoggettività (ogni azione umana è sempre orientata all’agire di altre persone), la storicità (ogni agire umano è sempre basato su precedenti scelte umane e spazio di libera decisione). Di conseguenza affronta ad es. i problemi concernenti il progresso, le fasi di maturazione, i conflitti e i modelli risolutivi, i compromessi, le ideologie, le strutture e istituzioni, i processi decisionali, la pianificazione e il controllo.

Dovendo non tanto definire​​ quale prassi​​ vada rilevata (quella clericale, quella cristiana, quella ecclesiale, quella religiosa), quanto piuttosto delimitare​​ come​​ tale prassi​​ si modifichi e si sviluppi, ha il compito di elaborare​​ modelli​​ che consentano di analizzare e verificare scientificamente il divenire del cambio della prassi.

Per modello l’A. intende un sistema di segni e di rapporti che, per il numero di dati significativi collegati tra loro, corrisponde effettivamente alla realtà descritta. Egli propone un modello mutuato dalla cibernetica e costituito da tre grandezze: 1) la prassi data frutto della tradizione vigente e della problematica in essa emergente; 2) la prassi desiderata; 3) la teoria teologia pratica che media il passaggio dalla prassi data a quella progettata. Tale modello consente l’autoregolazione dell’azione ed è configurato nel modo seguente.

La riflessione teologia pratica parte, per definizione, da una determinata prassi religiosa cristiana ed ecclesiale che fa problema. La prima reazione dovrebbe essere quella di rifarsi alla tradizione vigente (comportamenti e regole obicttivati in formule di fede, nella dogmatica nella morale e nel diritto) che l’ha introdotta e che va riesaminata. Ne nasce così una situazione più o meno conflittuale che può essere rilevata in modo scientifico. Per poter agire, si rende necessario una risposta che aiuti a superare tale fase di disturbo e venga incontro alle nuove esigenze. Tale risposta va ricercata confrontando la tradizione vigente con i dati della situazione rilevata, perché questa non va accolta nella sua fattualità, ma va valutata criticamente alla luce appunto della tradizione vigente, a sua volta riesaminata. È questo il compito della teologia pratica. In questo modo essa pone in condizione non solo di offrire indicazioni operative per una nuova prassi, nella linea desiderata, ma anche di integrare i nuovi impulsi provenienti dalla situazione rilevata e di reinterpretare e riattualizzare i valori della tradizione vigente. Questa nuova prassi entra nel circuito di regolazione, per cui diventa, a sua volta, punto di partenza per il proseguo del processo conoscitivo, che è così mantenuto aperto e in movimento.

Essendo punto di contatto tra patrimonio normativo e dato fattuale, la teologia pratica assomma in sé dati teologici e dati delle scienze umane; sviluppa teorie di «media portata» distinte in quanto tali da asserti di altro valore con cui lavorano altre discipline teologiche; prospetta inoltre delle ipotesi che, come tali, vanno sottoposte a verifica nel corso del processo.

 

7.3. Configurazione in riferimento alla «prassi comunicativa»

Un altro tentativo, tra i più organici, è compiuto dal pastoralista Norbert Mette a conclusione di un’accurata ricognizione storica circa le numerose interpretazioni del rapporto teoria-prassi nella teologia pratica. Prende l’avvio da alcune annotazioni preliminari e poggia su alcune tesi generali.

Per ovviare a imprecisioni, confusioni e ambiguità è indispensabile premettere alla riflessione teologia pratica una rigorosa delimitazione dei concetti e linguaggi utilizzati, attese la diversità dei contesti culturali e delle matrici scientifiche in cui sono prodotti: concezioni filosofiche, antropologiche, psicologiche, sociologiche... È imprescindibile inoltre precisare, già nell’ambito dell’epistemologia scientifica, la validità degli strumenti di pensiero che vengono assunti.

Poste queste premesse, l’A. ritiene (ed è una prima tesi) che la teologia pratica vada collocata nel contesto di una teologia intesa, nel suo insieme, come scienza empirica o prassica. Una teologia, quindi, consapevole del fatto che la fede ha sempre a che fare con una prassi storica e sociale, per cui si configura come riflessione scientifica vitalmente innervata in tale prassi.

La teologia pratica va definita inoltre (ed è una seconda tesi) nel quadro di una teologia fondamentale che studia la struttura dell’agire cristiano in base a una teoria della «prassi comunicativa» ovvero dell’interazione tra le persone, il che consente di impostare in modo unitario l’intera riflessione teologica. Di conseguenza «la teologia pratica va concepita come un​​ 'esplicita​​ teoria teologica dell’azione comunicativa».

Il suo campo di ricerca è, conseguentemente, assai vasto. Comprende non solo i settori istituzionalizzati dell’agire cristiano ed ecclesiale, ma anche tutte le forme di comunicazione umana tese alla ricerca di solidarietà, di sostegno e di senso per la propria esistenza, individuale e collettiva, di fronte agli interrogativi sollevati da ogni epoca storica. Deve configurarsi come teologia politica (ci si riferisce a Metz). Inoltre, superando i limiti di una teologia pratica strettamente connessa con l’ecclesiologia (studio dell’autorealizzazione o dell’edificazione della Chiesa...), deve interessarsi delle realizzazioni umane qualificate come obiettivazioni «anonime» del cristianesimo (ci si riferisce a K. Rahner e alle tesi del Pannenberg).

Essa affronta tale problematica in una prospettiva non di legittimazione ideologica, ma di emancipazione evangelica: il suo sapere è diretto a eliminare situazioni, causa di sofferenza fisica e sociale e di illiberalità per gli uomini, e a anticipare condizioni di «vita vera» offrendo possibilità di realizzare i modi elementari di comunicazione ordinaria senza restrizioni.

Una teologia pratica cosi concepita consente di comprendere e attuare il rapporto teoria-prassi all’interno di una prassi comunicativa: l’elaborazione di un contenuto teologico è connessa con la realizzazione di una maniera elementare di agire comunicativo e lo fonda. Consente inoltre una più adeguata prospettiva per la formazione del pastore: la colloca nel contesto di una prassi comunicativa tra i vari soggetti dell’agire cristiano (fedeli e collaboratori) e le assegna come obiettivo non la semplice acquisizione di un sapere da applicare alla prassi (superamento di una teologia pratica applicativa), ma l’abilitazione a un «mutato comportamento comunicativo».

A tale scopo essa mette in questione il valore delle norme che reggono la comune intesa e l’agire comune, e favorisce il crearsi di un accordo circa nuove possibilità e orientamenti operativi. In tale modo essa si configura come elaborazione teorica e critica dei processi diretti alla preparazione della decisione e alla formazione del consenso. Nei confronti poi delle molteplici forme di comunicazione distorta, svolge un ruolo terapeutico e di denuncia, e favorisce l’avvio di processi di comunicazione sana e riuscita.

Posto questa sua configurazione, il suo necessario ricorso a metodi empirici e analitici (specialmente sociologici) non deve escludere la dimensione ermeneutica del pensiero e la connessa ricerca di senso per i soggetti della sua riflessione (ci si riferisce alle istanze del Pannenberg).

Il comune riferimento della teologia pratica e delle altre scienze dell’azione all’evento della comunicazione umana fonda, in definitiva, l’esigenza della loro cooperazione e giustifica la connotazione della teologia pratica come scienza dell’azione. Ma ciò non significa che la problematica dell’interdisciplinarità sia risolta: resta piuttosto uno dei problemi più gravi di questa disciplina.

 

7.4. Configurazione centrata su una criteriologia e una kairologia

Un altro abbozzo è proposto dal pastoralista viennese Paul M. Zulehner, che mira a delimitare l’orizzonte metodologico e contenutistico, in cui definire una teologia pastorale fondamentale destinata a informare tutte le altre discipline pastorali speciali.

L’A. parte dalla costatazione che nella prassi cristiana ed ecclesiale è sempre immanente una specie di «teologia pratica quotidiana» cioè una «teoria» più o meno riflessa. La teologia pratica ne è l’elaborazione scientifica: in effetti, essa «sviluppa una teoria teologica e scientifica della prassi credente ed ecclesiale ereditata dalla storia di ieri, oggi vigente e protesa verso il futuro». È coinvolta nel fluire storico di tale prassi e ne è la coscienza critica e profetica. Studia la prassi religiosa intraecclesiale ed extraecclesiale nel suo duplice aspetto di evento e di istituzione. Lo fa in dialogo costante con coloro che in essa hanno specifiche responsabilità decisionali.

Un suo primo tema imprescindibile è costituito dalla​​ criteriologia​​ intesa come dottrina diretta a accertare gli obiettivi, principali e secondari, inerenti alla prassi ecclesiale. Gli obiettivi principali sono collegati alla prassi di Gesù riguardante il regno, compreso come gratuita offerta di vita per l’uomo, e la configurazione della Chiesa secondo il «principio comunità». Gli obiettivi secondari concernono i vari modi con cui la tradizione si istituzionalizza, la religiosità popolare, i desideri umani primari: avere un nome e una reputazione, disporre di un potere e essere liberi, possedere beni materiali. Rispetto agli obiettivi sono ambivalenti, perché li possono concretizzare ma anche ostacolare.

Un secondo tema imprescindibile è costituito dalla​​ kairologia​​ cioè dalla riflessione teologica volta a accertare la situazione di salvezza o di non salvezza in cui è inserita la prassi credente ed ecclesiale. Dal punto di vista metodologico ciò comporta un inevitabile dialogo interdisciplinare, articolato in modo che a una prima riflessione sociologica attinente il rapporto individuo-religione-società-Chiesa faccia seguito una seconda riflessione specificamente teologico-pastorale.

La kairologia fa comprendere che il cambio è un destino permanente della Chiesa. La teologia pratica ha il compito di sviluppare una​​ teoria della prassi di cambio,​​ che può avvenire secondo due opzioni: la creazione di Chiese parallele, con iniziative promosse dall’alto o dal basso; oppure la messa in opera di una riforma ecclesiale nella linea aperta dal Vaticano IL

 

8.​​ Sviluppi della recente teologia pratica evangelica

Durante l’ultimo ventennio, in ambiente evangelico europeo, la teologia pratica (formula preferita a quella di «teologia pastorale») rispecchia un mutato contesto culturale ed ecclesiale ed è caratterizzata dall’impiego del metodo empirico-critico e dal ricorso alla formulazione di teorie, ipotesi e modelli.

 

8.1. Il mutato contesto sociale ed ecclesiale

Nel periodo indicato, la teologia pratica supera ormai i confini confessionali, diventa interconfessionale o ecumenica. Il forte sviluppo delle scienze sociali e la riforma degli studi universitari allargata a quelli teologici conducono a una rinnovata concezione della teologia in generale come scienza empirica o prassica e della teologia pratica come «scienza dell’azione».

Il tema del rapporto tra teoria e prassi vi diventa centrale e pregiudiziale. La sua soluzione è guidata da tre distinte concezioni di scienza. La prima, di tipo riformistico e rivelatasi perdente, cerca di recuperare la concezione umanistica prima e idealistico-romantica poi di scienza intesa come elaborazione di «teoria» e della sua «applicazione pratica». La seconda, qualificata come «funzionalista», vuole superare tale impostazione. Per essa la scienza è lavoro spirituale in cui interagisce teoria e prassi; scienza non è soltanto cambio di coscienza, ma anche cambio del mondo; non è solo contemplazione, ma anche produzione, «sostanza dell’agire pratico». La terza, connotata come «critico-progressista» (scuola di Francoforte), considera il lavoro scientifico come fattore dell’umanizzazione della società, perché teso a mutare in modo «pratico-critico» i rapporti sociali stabiliti, in vista di un’autoliberazione dell’uomo.

 

8.2. Critica del metodo storico-critico e necessità del metodo empirico-critico

La teologia evangelica (W. Herrmann, G. Lauter, G. Krause) innesta questi fermenti nella propria problematica. Su un versante riconosce gli apporti positivi del​​ metodo storico-critico,​​ preminente nella letteratura teologica, ma ne evidenzia pure i limiti. Esso è legato allo studio e all’interpretazione dei «documenti» del passato e mira a stabilirne l’attendibilità storica e a coglierne in modo critico il messaggio o il significato. Il suo ricorso alle fonti storiche consente una revisione critica degli asserti biblici e dogmatici, in quanto vengono riferiti al loro contesto storico, e ciò è positivo. Ma tale ricorso non riesce da solo a sottrarre la teologia nel suo insieme da una certa storicizzazione, che tende a privilegiare e ad assolutizzare la storia e il passato a scapito del presente e del futuro. Su un altro versante mette in risalto l’esigenza d’introdurre in teologia il​​ metodo empirico-critico,​​ legato all’analisi e all’interpretazione critiche di eventi o prassi o attività. Esso consente di vagliare scientificamente teologia e Chiesa in rapporto alla loro situazione attuale e ai problemi che si pongono nel presente ecclesiale. L’orizzonte in cui va compresa oggi la teologia non è il passato e il testo, ma piuttosto il futuro di teologia-Chiesa e società, in quanto la parola di Dio non coincide immediatamente con il testo biblico che ne è una conseguenza, ma si esprime pure, a pari titolo, nella cristianità attuale e nel suo futuro.

A livello di organizzazione dello studio teologico, tutto questo sfocia nella critica al modello «dal testo alla predica», proprio della teologia barthiana e della teologia kerigmatica: esso concepisce la prassi come semplice luogo di applicazione della teoria elaborata dall’esegesi biblica, dall’interpretazione storico-critica e dalla riflessione sistematico-normativa.

Il modello alternativo proposto va «dalla prassi alla teoria» in vista di una prassi migliore: parte (nel caso esemplare della predica) dalla predicazione attuale e ne evidenzia i presupposti biblici, sistematico-normativi, teologico-pratici e pastorali-psicologici. In tale modo apre la via all’autocritica il cui luogo proprio è il dialogo nella comunità. In questa direzione si cerca di rispondere all’interrogativo di fondo: come comunicare la fede oggi di fronte all’incapacità della predicazione e della catechesi di inserirsi nei circuiti del comunicare umano.

 

8.3. Il ricorso a formulazioni di teorie e di modelli

In questo contesto emerge l’esigenza di elaborare la teologia pratica come scienza dell’azione, recependo i risultati specialmente delle scienze sociali (G. Krause, D. Ròssler, Y. Spiegel, H.-D. Bastian).

Si chiariscono progressivamente i concetti chiave​​ «azione», «prassi»,​​ «empeiria»: essi indicano non la sola attività produttiva, ma anche un agire di tipo contemplativo; riguardano non soltanto la prassi dei pastori o della Chiesa, ma il più vasto fenomeno della religione.

Si approfondisce il concetto di​​ teoria:​​ essa è un sistema di conoscenze, aperto alla recenzione di nuovi dati, necessario in rapporto a determinate regole, ma in situazione di nonsapere circa l’agire ecclesiale, che va superato con l’ausilio appunto di tale strumento conoscitivo.

Accanto a proposizioni dogmatiche assiomatiche che esprimono i valori permanenti della rivelazione e della tradizione cristiana, si fa spazio a​​ proposizioni ipotetiche,​​ che sono parziali, relative, provvisorie in quanto cercano di rilevare e interpretare il presente contingente e mutevole della prassi religiosa, cristiana ed ecclesiale.

Si elaborano pure dei​​ modelli​​ compresi come insieme idealizzato di fattori della realtà, atti a rilevarla e a guidarne il cambio. Il modello privilegiato è quello cibernetico: tra​​ l’homo sapiens​​ (il teologo) e l'homo faber​​ (l’operatore ecclesiale) la teologia pratica introduce​​ l’homo ludens,​​ il pastoralista che creando modelli di agire ecclesiale svolge il ruolo di regolatore e guida della prassi ecclesiale.

Teorie, ipotesi e modelli sono elaborati in riferimento alla prassi religiosa da migliorare, ed è in in questo modo che divengono riflessione teologico-pratica. Le principali teorie proposte sono le seguenti.

La​​ teoria funzionale di​​ K. W. Dahm, secondo cui la religione è variamente innervata nel tessuto sociale e vi assolve un ruolo emancipatorio. Per l’individuo essa costituisce un vincolo con concezioni di valore e di significato, ne facilita l’apprendimento e ne rafforza le motivazioni. In rapporto alla società, essa favorisce lo sviluppo e la trasformazione di tali concezioni, sostiene i processi di socializzazione e promuove l’elaborazione di nuove costellazioni di valori e di significati, rispondenti ai mutevoli bisogni dei suoi membri. La Chiesa, a sua volta, è funzionale nei confronti della società in quanto è coinvolta con altri gruppi sociali, con le loro funzioni e i loro interessi, e riveste un significato per la convivenza umana; inoltre in quanto è orientata a precisi compiti religiosi e di mediazione sociale e culturale in momenti di crisi e di conflitto.

La​​ teoria critica della prassi mediata religiosamente nella società​​ di Gert Otto. Secondo questo pastoralista che si ispira alla scuola di Francoforte, la teologia pratica in quanto «teoria critica» si prefigge di evidenziare le potenzialità dell’uomo e di creare un mondo in cui le forze ed esigenze umane siano soddisfatte, e ciò tramite non un semplice miglioramento delle conoscenze, ma specialmente attraverso l’emancipazione e la liberazione da ogni forma di oppressione. In quanto teoria critica «della prassi mediata religiosamente nella società», la teologia pratica produce un’analisi critica di tutte le manifestazioni che hanno una motivazione religiosa. Come tale, non può rinchiudersi negli schemi tradizionali dei servizi ecclesiali o mirare a costruire un nuovo sistema; deve piuttosto tendere a rinnovare in continuità il campo di ricerca, in modo da essere in grado di offrire sempre nuove possibilità di correttura e ristrutturazione nel campo della religione, della Chiesa e della società.

La​​ teoria della prassi del vangelo attraverso la Chiesa nella società​​ di M. Jossutis, che denuncia il carattere selettivo e riduttivo di movimenti culturali che producono un’interpretazione del vangelo in categorie o solo religiose o solo politiche, e tenta di superare tali alternative, focalizzando la dimensione tanto religiosa quanto politica del vangelo e, quindi, della missione della Chiesa.

La​​ teoria del ministero del pastore​​ (W. Neidhart, W. Steck) che riafferma l’indiscusso significato che può assumere, accanto a una teologia pratica scientifica sviluppata secondo i progetti finora descritti, una teologia pastorale rinnovata, che si prenda carico della problematica specifica del pastore d’anime e della sua formazione professionale.

La​​ teoria del cristianesimo contemporaneo​​ di D. Ròssler, volta a valutare, alla luce dei dati fondamentali della tradizione cristiana e dell’odierna esperienza religiosa ed ecclesiale, le responsabilità attuali in ordine alla configurazione del volto cristiano della Chiesa oggi e, in essa, della vita dei cristiani.

 

9.​​ Teologia pastorale​​ nel contesto delle teologie​​ della liberazione

Nel quadro della teologia pastorale come scienza della prassi merita una particolare considerazione la recente letteratura latino-americana ispirata dalle varie teologie della liberazione. Prese nel loro insieme queste non sono ancora teologie pratiche comprese nel senso delle recenti correnti europee; sono prevalentemente teologie​​ empiriche​​ o​​ prussiche, perché si prefiggono di elaborare il messaggio cristiano a partire dalla prassi cristiana ed ecclesiale al fine di illuminarla, accompagnarla e orientarla.

Tuttavia alcuni autori sviluppano una riflessione teologica attinente la pastorale o l’evangelizzazione liberatrice non soltanto per offrirne una comprensione dottrinale (compito sicuramente basilare), ma anche per indicare​​ come​​ essa vada attuata. In concreto, essi valutano, alla luce del Vangelo riletto e reinterpretato nella prassi storica liberatrice, le opzioni pastorali emergenti dalla realtà latino-americana, e segnalano le linee di azione per un efficace e credibile impegno cristiano ed ecclesiale di liberazione.

 

9.1. Modelli di azione pastorale

La loro riflessione teologia pastorale fa riferimento a distinti modelli di azione ecclesiale o pastorale presenti nel continente, e ai corrispondenti distinti modelli di Chiesa: gli uni e gli altri considerati come strettamente collegati a differenti comprensioni della realtà socio-economica, politico-culturale e religioso-ecclesiale latino-americana, con speciale riferimento al cattolicesimo popolare. Gustavo Gutierrez identifica quattro modelli di azione pastorale rilevabili nel continente e dipendenti, in larga parte, da analoghi modelli europei:

— la pastorale di​​ cristianità​​ corrispondente a una Chiesa di cristianità, solidamente collaudata dall’esperienza plurisecolare del cattolicesimo uscito dalla riforma tridentina e tuttora maggioritaria;

— la pastorale di​​ nuova cristianità​​ attuata da settori di cattolici, i quali di fronte alle istanze di autonomia del temporale e al processo di scristianizzazione del mondo moderno si prefiggono, tramite un laicato specializzato e militante, di dar vita a una nuova «cristianità profana», distinta da quella precedente sacrale e clericale;

— la pastorale della​​ maturità della fede​​ postulata dal fenomeno della secolarizzazione impostosi nel primo mondo e presente pure nel continente;

— la pastorale​​ profetica​​ di solidarietà con i poveri nella linea promossa dal Vaticano II e dall’assemblea episcopale di Medellin (1968): è detta anche​​ pastorale liberatrice​​ e ad essa vanno le preferenze dell’A.

Muovendosi in questa stessa prospettiva di fondo, Segundo Galilea ravvisa nella pastorale liberatrice il punto di confluenza tra pastorale estensiva e pastorale intensiva, due tipi di pastorale che hanno caratterizzato le Chiese latino-americane tra il 1930 e il 1970.

La​​ pastorale estensiva​​ è condizionata da una società tradizionale, rurale, stabile, ed è espressione di una Chiesa patrimonio del clero e coestensiva alla società qualificata come cristiana. È una pastorale di cristianità prevalentemente indirizzata a conservare la pratica religiosa e la coscienza cattolica della società; è quindi impegnata preponderantemente non nell’evangelizzazione, ma nella sacramentalizzazione; è segnata da un atteggiamento conformista e sovente parassita nei confronti di una religiosità popolare fatta di devozionalismo ritualista; è palesemente o inconsapevolmente allineata col potere civile ritenuto garante di una situazione generalizzata di cristianità e di tutte le istituzioni educative, assistenziali, culturali che ciò comporta. A partire dagli anni ’30 manifesta progressivamente le sue carenze e risulta inadeguata nell’affrontare le nuove sfide.

La​​ pastorale intensiva​​ sorge e si sviluppa in tale congiuntura. È condizionata da una società segnata da questi fenomeni: l’industrializzazione che dà vita a un incipiente proletariato e pone la questione sociale; l’urbanizzazione che provoca la decadenza della cultura rurale e crea masse emarginate e disgregate; la crescente secolarizzazione che è accompagnata dalla politicizzazione; la democratizzazione che stimola le aspirazioni popolari all’uguaglianza e alla partecipazione organizzata. Tale pastorale è espressione di una Chiesa missionaria, fatta di élite e di diaspora impegnata nella realtà socio-politica e culturale. È apertamente ispirata dalla riflessione teologia pastorale francese e in parte tedesca degli anni ’50. Attraverso l’azione cattolica ed altri movimenti, mira a formare un laicato specializzato e militante; accentua l’evangelizzazione dell’ambiente; è critica nei confronti del cattolicesimo popolare; tende a mutare l’atteggiamento socio-politico delle Chiese del continente e a renderle indipendenti dal potere politico; è interessata a proporre valori piuttosto che modelli di comportamento; è impegnata più a formare la coscienza sociale che a promuovere opere assistenziali; è una pastorale profetica che annuncia il vangelo e denuncia le situazioni disumanizzanti. Nel suo cammino pluridecennale incontra resistenze e viene accusata di elitismo, di allontanare la Chiesa dalle masse, di deprezzare il cattolicesimo popolare.

 

9.2. Pastorale o evangelizzazione liberatrice

Attorno agli anni ’70, con raffermarsi della tematica della liberazione, questi due modelli vengono ormai compresi nella visuale di un’unica pastorale liberatrice e dell’unitario processo di evangelizzazione che va dalla testimonianza e dall’annuncio alla celebrazione cultica e all’impegno nel sociale, nel politico e nel culturale.

È un’evangelizzazione​​ che, nel continente, viene qualificata come​​ liberatrice,​​ perché formula il messaggio cristiano come risposta alle attese liberatrici dei popoli latino-americani, perché nella sua metodologia concreta fa costante riferimento ai loro sforzi di liberazione: li assume come punto di partenza essendo sforzi ispirati dalla fede, li accompagna nel loro cammino per sostenerli, verificarli e purificarli, li orienta alla realizzazione di un progetto di società e di Chiesa più umani e fraterni. È un’evangelizzazione liberatrice di sua natura, perché animata da una fede impegnata che permea tutte le espressioni dell’azione pastorale.

Per la​​ conoscenza della situazione pastorale​​ delle Chiese, ci si avvale di tutte le risorse delle scienze storiche e sociali: l’esigenza di un approccio pluridisciplinare e scientifico alla completa realtà del continente, come presupposto indispensabile per impostare un’evangelizzazione liberatrice valida, è molto rimarcato da vari autori.

Quanto agli​​ imperativi pastorali,​​ è assai evidenziato l’impegno cristiano ed ecclesiale di solidarietà con le classi popolari, di liberazione dalla violenza istituzionalizzata e da una cultura alienante od oppressiva; è molto sottolineata la funzione critica e profetica di denuncia dell’ingiustizia e di annuncio della fraternità; viene valorizzata una liturgia stimolatrice di una fede che animi la prassi liberatrice socio-politica; viene promossa un’azione pastorale che aiuti le comunità cristiane ad assumere le proprie responsabilità nella liberazione dell’uomo latino-americano e nella costruzione di società più giuste e fraterne.

Nell’ambito di questo comune orizzonte, le varie correnti di teologia della liberazione propongono differenti letture e scelte pastorali. Alcune élites (H. Assmann) si appellano alla ragione progressita illuministica nella linea del neo-liberalismo sviluppistico e, inoltre, alla ragione critico-dialettica marxista che ha promosso una prassi rivoluzionaria. Accentuano'la critica etico-politica e acutizzano il conflitto. Altre correnti maggioritarie (G. Gutierrez, L. Boff, L. Gera, J. C. Scannone) sono più attente al significato liberatorio dei simboli religiosi e della fede dei popoli latino-americani; assieme all’analisi socio-analitica sviluppano pure una ricerca storico-culturale; accentuano l’esigenza della riconciliazione.

La​​ pastorale popolare​​ è anch’essa interpretata diversamente. Per chi intende il popolo come classe sociale dei poveri emarginati in senso socio-economico e politico-culturale, essa è «evangelizzazione dei​​ poveri,​​ partendo dai poveri». Per chi, invece, considera il popolo come soggetto collettivo di un’esperienza storica, con una cultura indigena, una religiosità propria, una mentalità peculiare, una lingua differenziata e un destino comune, essa è «evangelizzazione della​​ cultura​​ di un popolo».

La​​ pastorale intensiva,​​ la quale trova nuova vitalità nelle comunità ecclesiali di base, assume anch’essa due distinti orientamenti. Alcune comunità insistono di più sull’aspetto comunitario e mettono a fuoco l’azione​​ ad intra​​ della Chiesa: la vicinanza, la fraternità, l’ascolto della parola, l’aiuto vicendevole, la preghiera... Altre, invece, accentuano maggiormente l’aspetto «di base» e tendono a dare più importanza alla funzione​​ ad extra​​ della Chiesa: l’impegno politico, la preoccupazione per le strutture, le manifestazioni esterne, una fede liberatrice nel pubblico, la comunione critica con la Chiesa istituzionale.

 

9.3. Il dibattito teologico-pastorale attorno a Puebla

Nell’ultimo decennio, la teologia pastorale ispirata dalle teologie della liberazione si concentra quasi esclusivamente attorno all’evento Puebla (1979). Il tema della missione evangelizzatrice è motivo di tensione e di discussione prima durante e dopo questa terza conferenza dell’episcopato latino-americano. Le posizioni che si fronteggiano sono, in sostanza le seguenti.

La posizione di coloro che identificano la missione storica della Chiesa con​​ l’evangelizzazione della cultura​​ e, in particolare, della religiosità popolare. Per l’analisi della realtà si avvale del metodo storico-antropologico e culturale, giudicato più globale e comprensivo rispetto a quello sociologico. L’ecclesiologia invocata è, in larga parte, quella contenuta nel simbolo apostolico. Rivela un’accentuata preoccupazione per l’ortodossia. Criticati il capitalismo e il collettivismo per il loro carattere secolarista, propone, come progetto pastorale, la creazione di una società nuova, impregnata di valori evangelici e la configurazione cristiana della cultura. Enfatizza l’identità della missione ecclesiale di fronte a possibili rischi di ridurla a compiti temporali, socio-politici.

La posizione di coloro che identificano la missione storica della Chiesa con​​ l’evangelizzazione liberatrice​​ a partire dai poveri. Per l’analisi della realtà ricorre in modo particolare alla teoria della dipendenza. La sua comprensione ecclesiologia è quella di una Chiesa profetica e missionaria, segno e strumento di liberazione nella prospettiva del regno di Dio, una Chiesa che dà la priorità all’azione pastorale a favore della giustizia e di difesa dei diritti dei poveri e degli emarginati. Ciò che ne caratterizza il progetto pastorale è l’inserimento storico della Chiesa nella prassi liberatrice in atto in vari contesti sociali, politici e culturali del continente.

La posizione che identifica la missione storica della Chiesa con​​ l’evangelizzazione per la comunione e la partecipazione​​ al fine di superare situazioni conflittuali. Allarga da un punto di vista teologico e pastorale la proposta dell’evangelizzazione della cultura, sottolineando i valori di comunione e partecipazione. Alla sua base vi è l’ecclesiologia di comunione proposta dalla​​ Lumen Gentium.​​ Il progetto pastorale proposto è volto a promuovere la comunione e la partecipazione a tutti i livelli tanto ecclesiali che civili. È preoccupata di definire più la vita intraecclesiale che non la missione storica della Chiesa nella realtà concreta latino-americana. Tale missione è demandata, in certo modo, all’impegno etico di ogni cristiano, rettamente orientato dalla dottrina sociale della Chiesa. Critica i sistemi e le ideologie dominanti nel continente, ma in concreto offre linee programmatiche piuttosto generali e astratte. Nonostante lo sforzo compiuto a Puebla per integrare queste posizioni, nel dopo-Puebla, di fatto queste si fronteggiano nuovamente all’atto di interpretare i documenti definitivi di tale conferenza.

In effetti, ognuna di esse ritiene che la propria proposta pastorale sia quella centrale e preminente nei testi approvati, rispetto alle altre che, quindi, andrebbero subordinate o integrate in essa.

 

9.4. Rilievi valutativi

È non solo difficile e rischioso, ma prematuro e pressoché impossibile offrire una valutazione complessiva e critica di questo movimento vivo e ancora in pieno processo di creazione.

Al di là delle note e autorevoli critiche mosse a non poche delle sue impostazioni teologiche, vanno segnalati i seguenti apporti illuminanti: l’aver tentato di impostare una teologia nel suo complesso «prassica» o empirica, in quanto prende l’avvio dalla prassi ecclesiale, si prefigge di illuminarla e orientarla; inoltre l’aver cercato di integrare in essa una riflessione teologia pastorale o teologia pratica in senso specifico; in tal modo ha per lo meno tentato di superare il divario, ripetutamente deprecato nel corso della storia della teologia pastorale o teologia pratica, tra teologia storica e sistematica da una parte e teologìa pastorale o pratica dall’altra.

A questo riguardo, però, i teologi della liberazione, pur offrendo indicazioni pertinenti, non tematizzano ancora in modo rigoroso una teologia pastorale o teologia pratica concepita nel senso proposto dalla recente e qualificata letteratura cattolica ed evangelica, la quale configura questa disciplina come teoria teologica circa le regole o le modalità di miglioramento della prassi religiosa, cristiana ed ecclesiale.

 

Bibliografia

Midali Mario,​​ Teologia pastorale o pratica.​​ Cammino storico di una riflessione fondante e scientifica,​​ LAS, Roma 1985. Inoltre la bibliografia indicata sopra alla voce teologia pastorale.

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TEOLOGIA PASTORALE – CORRENTI

TEOLOGIA PASTORALE – STORIA

TEOLOGIA PASTORALE (STORIA)

Mario Midali

 

1. Origine e primi sviluppi della teologia pastorale in campo cattolico

1.1. La letteratura pastorale dell’epoca postridentina

1.2. La nascita della teologia pastorale

1.3. Orientamento «pragmatico» e «ateologico» della prima manualistica

1.4. L’orientamento «biblico-teologico»

2. Nascita e primi sviluppi della teologia pratica nel protestantesimo

2.1. L’impostazione teologica di Martin Lutero

2.2. La concezione rinnovata di Friederich Schleiermacher

2.3. Alcune successive impostazioni di matrice idealista

3. L’apporto critico di Anton Graf

4. La manualistica cattolica dalla metà del sec. XIX in poi

5. La teologia pratica evangelica dalla metà del sec. XIX in poi

5.1. La concezione «empirica» dei grandi manuali

5.2. L’affermarsi della «teologia della parola»

5.3. La riflessione sul rapporto Chiesa-mondo

5.4. La «consulenza pastorale» come proposta di teologia pastorale

6. Sviluppi innovatori della teologia pastorale cattolica tra il 1920 e il 1960

7. La «pastorale d’insieme»

8. Il significativo apporto del Vaticano II

8.1. Carattere «pastorale» del magistero conciliare

8.2. La prospettiva globale del magistero pastorale conciliare

8.3. Comprensione conciliare delibazione pastorale»

8.4. Comprensione della «teologia pastorale»

 

Una teologia pastorale intesa come riflessione speciale destinata al clero in vista del suo ministero pastorale esiste già nella Chiesa delle origini (le​​ Lettere pastorali).​​ In alcuni scritti dei Padri si incontrano indicazioni pastorali variamente corredate da una corrispondente riflessione teologica. Un esempio significativo è il​​ Liber regulae pastoralis​​ di san Gregorio Magno, che esercitò un notevole influsso su numerosi opuscoli e trattati del periodo successivo.

Il concilio di Trento diede un impulso decisivo a tale riflessione. Esso accolse la tradizione largamente diffusa del periodo immediatamente precedente circa «il tipo ideale» di vescovo, e individuò la chiave di volta della riforma ecclesiale nella figura del «pastore», dichiarato protagonista della vita della comunità cristiana. Esso offrì essenziali orientamenti, a livello teorico e pratico, per risolvere le più rilevanti questioni pastorali dell’epoca: i criteri di scelta dei vescovi, i loro compiti e l’ideale del loro comportamento, i compiti del parroco, l’obbligo della residenza per vescovi e parroci, il principio della territorialità delle circoscrizioni ecclesiastiche, il dovere per il vescovo della visita pastorale, l’adeguata formazione del clero.

 

1. Origine e primi sviluppi della teologia pastorale in campo cattolico

1.1. La letteratura pastorale dell’epoca postridentina

Per rispondere alle esigenze poste ai sacerdoti in «cura d’anime» da tale riforma, sorge ben presto una letteratura contenente una serie di indicazioni riguardanti l’amministrazione dei sacramenti e i diritti e doveri del clero. Tra le opere di questo periodo che ebbero una più o meno vasta diffusione vanno ricordate: il manuale di J. Molanus​​ Theologiae practicae compendium​​ (1585) in cui si separa una teologia speculativa da una teologia pratica in senso ampio; l’Enchiridìon theologiae pastoralis​​ (1591) di P. Binsfeld, vescovo ausiliare di Treviri, che fa propria la formula​​ theologìa pastoralis​​ utilizzata per la prima volta dal Canisio; il​​ Manualeparochorum​​ (1661) di L. Engel e quello di J. Opstraet, professore di Lovanio, intitolato​​ Pastor bonus​​ (1698).

1.2. La nascita della teologia pastorale

Come disciplina universitaria la teologia pastorale viene alla luce nel contesto della riforma degli studi teologici (1774) voluta dall’imperatrice Maria Teresa e affidata al canonista benedettino, Stefano Rautenstrauch (1734-1785), prima direttore della facoltà teologica di Praga e poi di quella di Vienna. All’origine del progetto del Rautenstrauch sta il disagio per una pratica pastorale priva di un adeguato supporto teologico, e per una speculazione teologica priva di rilevanza pratica. Per superare tale situazione egli progetta una riorganizzazione dell’intero curricolo teologico a cui imprime un deciso orientamento pastorale: scopo della teologia è di «formare degni servitori del vangelo, cioè perfetti pastori».

Tale riforma è sostenuta da una seria preoccupazione per la teologia: il richiamo alle fonti bibliche e patristiche, alla storia della Chiesa e del dogma le assicura il suo fondamento; l’orientamento all’azione pastorale salda tra loro le distinte discipline e non deve pregiudicarne il carattere scientifico. Un sapere serio, sensibile alla cultura illuminista e aperto allo sviluppo delle scienze storiche e positive, è ritenuto indispensabile per i futuri pastori.

La configurazione del piano di studi teologici è guidata dalla loro stessa «natura», che prevede un gruppo di «scienze preparatorie» (discipline bibliche e storiche), un secondo gruppo di scienze riguardanti «la teoria stessa della teologia» (dogmatica, morale, diritto canonico) e un terzo gruppo di discipline, delle quali fa parte la teologia pastorale, che insegnano «come la teoria della teologia è da applicare in modo concreto e utile alla pratica della vita umana».

In tale piano di riforma la teologia pastorale non è semplice «appendice» di altre materie, ma disciplina teologica integrante, destinata a studiare il complesso delle attività pastorali, unificato attorno a un triplice genere di doveri dei pastori: il dovere di insegnamento, il dovere delTamministrazione dei sacramenti e il dovere dell’edificazione della comunità. La nuova disciplina concentra in sé materie pastorali fino allora conosciute: la catechetica, l’omiletica, l’ascetica, la retorica, la liturgia e la rubricistica.

La​​ storiografia recente​​ ha fatto rilevare che tale progetto è guidato dall’ideologia giuseppinista di asservimento della Chiesa allo stato e di subordinazione della teologia agli interessi statali, in quanto il pastore è insieme funzionario dello stato e chiamato a formare «non solo buoni cristiani, ma anche buoni cittadini».

Esso apre uno spiraglio alla riflessione sulla situazione presente di religione-Chiesa e società, ma ciò è filtrato dagli interessi del clero, unico protagonista della pastorale. La teologia pastorale è dichiarata parte della teologia, ma la sua struttura teologica propria non è esibita né giustificata.

1.3. Orientamento «pragmatico»​​ e «ateologico» della prima manualistica

Nel periodo immediatamente successivo compare una serie di manuali di teologia pastorale (F. Chr. Pitroff, J. Lauber, F. Giftschiitz, A. Reichenberger, K. Schwarzel) variamente influenzati dalla riforma viennese. La nuova disciplina è denominata più spesso «teologia pastorale» ed anche «teologia pratica» o con altre formule che, in questo periodo, hanno tutte un significato pressoché identico.

La sua comprensione è segnata dalla figura del singolo pastore d’anime, che è definito in rapporto alla «religione» intesa come moralità e pratica delle virtù: egli è insieme «servitore della religione» e servitore dello stato. Questi manuali organizzano in modo sistematico la materia attorno allo schema dei tre doveri pastorali fissato dal Rautenstrauch. Ma lo fanno guidati da esigenze descrittive e non teologiche, anche se generalmente richiamano il comando missionario di​​ Mt​​ 28,18-20, che non basta certo da solo a fondare teologicamente la teologia pastorale. Tenuto conto di questi dati si comprende perché la​​ storiografia recente​​ ha qualificato questa prima manualistica come «pragmatica» e «ateologica». Per essa, infatti, il rapporto del pastore con la Chiesa è esteriore e formale, essendo identificato col riconoscere un’autorità ecclesiale superiore capace di porre leggi, a cui si deve docile ubbidienza.

1.4. L’orientamento «biblico-teologico»

Accanto a questo orientamento ne emerge un altro chiamato da alcuni storici «biblico-teologico». Il suo rappresentante principale è J. M. Sailer (1751-1832) della scuola cattolica di Tubinga. Con lui si passa da una teologia pastorale di stampo illuministico a una teologia pastorale influenzata dal romanticismo, per l’attenzione prestata a un cristianesimo vivente e a una predicazione autentica.

In sintonia con altri pastoralisti (A. Schramm di Fulda e P. Conrad di Treviri), Sailer cerca di dare una fondazione biblica all’azione pastorale e di conferire un carattere teologico alla teologia pastorale, ispirandosi al cristianesimo testimoniato dalla Scrittura e alla comprensione paolina della Chiesa come corpo di Cristo.

La figura del pastore cambia in modo sostanziale rispetto al filone manualistico contemporaneo: non è più il semplice maestro di religione incaricato dell’ordine morale, servitore dell’autorità religiosa e civile. È invece il «pastore» formato secondo lo Spirito e il volere di Cristo. Non è più il funzionario tutore delle istituzioni statali, ma il rappresentante di Dio posto al servizio dell’opera redentiva, affidata da Cristo alla sua Chiesa. Con questo orientamento biblico-teologico viene superata radicalmente l’impostazione antropocentrica della manualistica dell’epoca, anche se la fondazione ecclesiologica della teologia pastorale non va oltre la fase di abbozzo.

 

2.​​ Nascita e primi sviluppi della teologia pratica nel protestantesimo

 

2.1. L’impostazione teologica di Martin Lutero

In ambito protestante la riflessione sull’azione pastorale, designata con la formula «teologia pratica», è profondamente segnata dalla concezione di Lutero.

In polemica con i teologi del suo tempo dediti a speculazioni sottili e a volte artificiali, il grande Riformatore sostiene la caratterizzazione «pratica» della sua teologia​​ (vera theologia estpracticà),​​ perché incentrata sull’esperienza di fede e sulla predicazione della parola, il cui tema è l’incontro drammatico tra Dio giustificante e salvante e l’uomo peccatore e perduto.

La dimensione antropologica di questa teologia pratica non implica né antropocentrismo né soggettivismo, perché la sua certezza è posta fuori dal soggetto: la fede fiduciale poggia sulla solidità della parola biblica di salvezza.

La giustificazione teorica e la strutturazione rigorosa di tale teologia pratica è ricercata non nella linea scolastica del rapporto tra ragione e fede, tra ordine naturale e ordine soprannaturale, ma nel rapporto indicato dal NT tra legge e vangelo, introdotto nella storia con la manifestazione di Gesù Cristo. La teologia pratica è chiamata a echeggiare tale vangelo e a servire l’opera di giustificazione dell’uomo peccatore.

La storia successiva della teologia pratica evangelica (specialmente del razionalismo liberale) testimonia la fragilità della situazione assegnatale da Lutero, ma anche le virtualità insite in essa.

 

2.2. La concezione rinnovata di Friederich Schleiermacher

F. Schleiermacher (1768-1834) è stato considerato come il secondo padre della riforma protestante. In un opuscolo intitolato​​ Breve presentazione dello studio teologico...​​ (1811), ' egli presenta un’organizzazione assai sistematica della teologia e, in essa, della teologia pratica.

Ispirandosi alla filosofia di Schelling, concepisce la teologia come «scienza positiva» in quanto il suo oggetto, il cristianesimo, è già prefissato, e il suo scopo non è la ricerca di una verità assoluta, propria della filosofia, ma un ruolo pratico: la conduzione della Chiesa (Kirchenleitung), che distingue dal governo ecclesiastico (Kìrchenregiment).

Egli propone un’articolazione tripartita del sapere teologico: la «teologia filosofica» riguardante la natura del cristianesimo rapportato alla cultura e ad altri gruppi sociali; la «teologia storica» destinata a definire l’essenza della Chiesa e la sua situazione nel divenire storico; la «teologia pratica» di cui dà questa descrizione: «lo scopo della conduzione della Chiesa cristiana è, da un punto di vista estensivo e intensivo, la coesione e la formazione; il sapere attinente tale attività si costituisce in una tecnica che, unitamente a tutte le sue branche, designiamo col termine di teologia pratica».

Di queste tre branche, tra loro correlate, la teologia pratica è la corona, in quanto cerca di cogliere il dinamismo della fede cristiana emergente da attuali movimenti, legati al sentimento di piacere o di disagio di fronte ai differenti stadi della Chiesa, studiati dalla teologia filosofica e storica.

Per lui, la teologia pratica non va ridotta a empirismo o a semplice raccolta di tecniche applicative di principi attinti altrove, ma deve rivestire rigore scientifico per essere utile a un’azione riflessa. Il suo ambito di competenza è la determinazione di procedure da mettere in opera per attuare in modo efficace i compiti ecclesiali. Si svilupperà in numerose branchie attinenti tali compiti e stabilirà un certo numero di categorie atte a cogliere il suo oggetto complesso. Dovrà pure prendere le distanze dalla pratica concreta e collocarsi a un certo livello di generalizzazione. Suo obiettivo primordiale è verificare in continuità il rapporto tra mezzi e procedure impiegati, e fini perseguiti.

Infine, per Schleiermacher, la teologia pratica è concepibile solo a patto e nella misura in cui esiste una comunità cristiana avente una propria regolazione, dove la vita non è pura ripetizione, ma luogo di critica. Suppone quindi la presenza di una «élite» culturale capace di attivare un’animazione e purificazione evangeliche di una «massa» recettiva di tale intervento. La teologia pratica presiede questa circolazione sul piano delle idee e delle rappresentazioni come su quello del culto e dei costumi, in ordine alla conduzione della Chiesa a raggio locale e al governo ecclesiastico nella sua globalità.

La recente critica storica​​ ha fatto i seguenti rilievi alla proposta dell’A.: essa segna un’epoca storica riannodandosi agli inizi della riforma luterana e reimpostando la finalizzazione pratica della teologia; risente dell’epistemologia idealista che assegna il primato alla filosofia rispetto alla teologia; è vincolata a inconfessati presupposti politici attinenti il rapporto Chiesa-stato; rispecchia un’idea di cristianesimo e una visione confessionale della Chiesa del tempo, che non facilitano il dialogo ecumenico; alcune categorie da essa impiegate (élite e massa, tecnica, corona) non sono state delimitate in modo da eliminare possibili ambiguità, di fatto verificatesi nella sua successiva rivisitazione.

 

2.3. Alcune successive impostazioni di matrice idealista

Tra i non molti tentativi di sviluppo della teologia pratica protestante del secolo XIX, meritano di essere qui ricordati quelli del teologo sistematico di Berlino, Philip Marheineke (1780-1846), del discepolo di Schleiermacher, Cari Immanuel Nitzsch (1787-1868) e del docente di Tubinga, Christian Palmer (1811-1875). Tutti e tre sono influenzati dalla filosofia hegeliana e preoccupati di garantire il carattere teologico e scientifico della teologia pratica centrandola sulla Chiesa e inquadrandola in un​​ sistema​​ coerente di pensiero.

Secondo​​ Marheineke,​​ la teologia ha per oggetto la religione cristiana, che è insieme un sapere e un agire, per cui implica, in modo inseparabile, un momento di teoria (teologia teoretica) e un momento di pratica (teologia pratica). Pur connotata come pratica, la teologia pratica è un sapere, ma costruito in modo sistematico cioè scientifico. Si distingue dalla teologia teoretica perché questa studia la Chiesa a livello di «possibilità», mentre essa si interessa della realtà effettiva della comunità cristiana.

C.I. Nitzsch,​​ ritenuto il «riformatore della teologia pratica» per la sua opera classica​​ Praktische Theologie,​​ giudica troppo speculativa la costruzione di Marheineke. Egli definisce la teologia pratica nel quadro di una teologia intesa come «autocoscienza scientifica della Chiesa», concepita a sua volta come comunità attiva dei credenti che progredisce, si rinnova e si perfeziona. Per lui, la teologia in generale è​​ «sdentici adpraxim»​​ in quanto fa riferimento all’azione ecclesiale; la teologia pratica è «scientia praxeos»​​ in quanto ha per oggetto «l’attivazione della Chiesa da parte di sé stessa» (Selbsthdtigung) e produce una «teoria dei metodi di azione» per orientare tutte le attività ecclesiali ufficiali.

A differenza di parecchi teologici dell’epoca, Ch.​​ Palmer​​ non vorrebbe che questa disciplina si avvicinasse a tal punto alla dogmatica da perdere la sua specificità. Per questo avvicina al massimo la teologia pratica alla vita, a compiti concreti, essendo convinto che il cristianesimo è innanzitutto questione di vita e solo successivamente fatto di pensiero. Distingue le «necessità divine», studiate dalla dogmatica, dalla «libertà umana» che rende operanti tali necessità, e che è oggetto di ricerca della teologia pratica. Questa infatti elabora «teorie pratiche» (omiletica, catechetica, liturgia) attinenti la vita cristiana, lo spessore umano della realtà ecclesiale, la tensione tra pratica reale e futuro ideale. Concepisce la «teologia pastorale» come insieme di indicazioni per il pastore, a cui non riconosce carattere scientifico, per cui la esclude dall’ambito della teologia pratica. L’attuale storiografia​​ ha fatto notare come l’esigenza di rigore teologico, di serietà scientifica e di realismo pratico sono tuttora al centro dell’attuale teologia pratica; ma in questi pastoralisti sono collegati a un sapere costruito in sistema totalizzante, nel quale la teoria, di fatto, divora la pratica.

 

3.​​ L’apporto critico di Anton Graf

Attorno alla metà del secolo scorso appare l’opera del pastoralista cattolico di Tubinga, Anton Graf (1814-1867), intitolata:​​ Presentazione critica dell’attuale situazione della teologia pratica​​ (1841). Discepolo geniale di G. A. Mòhler e G. S. Hirscher, Graf intende confrontarsi con la teologia pastorale cattolica e la teologia pratica protestante al fine di promuovere una ricerca interconfessionale sull’argomento.

La sua concezione della teologia poggia su un​​ 'ecclesiologia,​​ in cui la Chiesa è pensata come organismo attivo, luogo dell’azione divina nella storia, autorevole annunciatrice di salvezza per l’umanità e, quindi, responsabile nel suo insieme della propria vita e del proprio costruirsi (Selbsterbauung).

La teologia è definita come «autocoscienza scientifica della Chiesa» considerata nei suoi tre aspetti, fondamentali e inseparabili: è una realtà storica studiata dalle scienze bibliche e storiche; possiede una determinata essenza divina studiata dalla dogmatica e dalla morale; si costruisce storicamente nel futuro e ciò costituisce​​ l’oggetto proprio​​ della teologia pratica.

La scelta della formula «teologia pratica» al posto di quella di «teologia pastorale» tende a superare la prospettiva clericale della precedente manualistica e a sottolineare che il soggetto dell’azione è la Chiesa nella sua globalità.

Graf è interessato a garantire uno​​ statuto scientifico​​ alla teologia pratica. A tale scopo ritiene necessario abbandonare un accostamento rapsodico alla materia e cercarne invece una comprensione unitaria e sistematica.

Ritiene pure necessario superarne un’impostazione pragmatista e utilitarista che si appella all’esperienza empirica, per giungere a un​​ 'intelligenza teologica​​ della realtà ecclesiale, facendo riferimento al volere di Cristo circa la natura della sua Chiesa nella storia. La​​ connotazione pratica​​ della teologia pratica è collegata non a una «necessità pratica» nel senso che senza di essa non si è in grado di esercitare il ministero pastorale, ma a una «utilità pratica» in quanto essa è diretta all’autoedificazione della Chiesa. Criticando Schleiermacher, dichiara: «La teologia pratica non esiste perché c’è un prevalente interesse pratico nella teologia, ma questa e quello sono presenti perché la Chiesa è una realtà che edifica sé stessa».

L’articolazione della materia​​ è presieduta da molti fattori che contribuiscono all’edificazione della Chiesa: 1) «i fattori trascendentali» come Dio, Cristo, lo Spirito, la grazia, la rivelazione divina nella natura, il destino delle comunità...; 2) «le istituzioni» come le feste, i templi, i libri sacri...; 3) «i fattori personali e sociali» come i reciproci rapporti dei membri della comunità, l’educazione e la vita cristiana, l’azione dei genitori animata dallo Spirito, la preghiera della comunità e la sua spiritualità.

Il metodo​​ utilizzato non è quello empiricoinduttivo, ma quello speculativo-deduttivo: partendo dall’idea di Chiesa si deducono le conclusioni attinenti i vari aspetti della sua autoedificazione.

La​​ recente storiografia​​ è divisa nel valutare questo progetto e ciò rispecchia le loro differenti comprensioni della teologia pratica. Secondo l’Arnold va ascritto a merito di Graf la critica alla concezione antropocentrica della prima manualistica e la messa in luce di un’impostazione teocentrica della teologia pratica. H. Schuster ravvisa nell’orientamento ecclesiologico del Graf l’apice di uno sviluppo storico della teologia pratica. Per W. Steck nel modello proposto è rilevabile una tendenza ecumenica, anche se orientata dall’essenza della Chiesa e non da un’attenzione riflessa alla sua realtà empirica. Secondo R. Marlé la teologia pratica prospettata dal Graf non è altro che una variante dell’ecclesiologia sviluppata dalla scuola di Tubinga.

 

4.​​ La manualistica cattolica dalla metà del sec. XIX in poi

In campo cattolico, il periodo che va dalla metà dell’Ottocento alla metà del Novecento è caratterizzato da un’abbondante produzione di manuali di teologia pastorale pubblicati nelle varie aree culturali euroamericane. Essi riprendono impostazioni di tipo pragmatico; per lo più non hanno pretese scientifiche e si concentrano sull’ufficio del «pastore», unico soggetto attivo rispetto al «gregge», presentato variamente come recettore passivo.

Tale cambio è già rilevabile in​​ Joseph Amberger​​ (1816-1889), discepolo del Graf: egli propone una visione sovrastorica e sovraterrena della Chiesa, che diviene percettibile e presente nel singolo pastore d’anime, intermediario tra Dio e la comunità. Di conseguenza abbandona la formula «teologia pratica» e ritorna a quella di «teologia pastorale». Il rigetto esplicito dell’impianto ecclesiologico e della configurazione scientifica del progetto di A. Graf è compiuto da Michael Berger (1822-1870).

In questa seconda manualistica, l’ufficio del pastore​​ è definito in termini di «cura d’anime», dove «anima» indica la dimensione spirituale dell’essere umano bisognosa di salvezza, e la «cura» pastorale è orientata alla «salute delle anime», compresa in un’antropologia spiritualista del soprannaturale. Ciò esige nel pastore una disposizione spirituale connotata come «zelo per le anime» e che la cura pastorale sia attenta a tutti i bisogni religiosi e morali dei singoli e della società. L’articolazione dell’ufficio pastorale è quella tripartita, ma questo filone ne tenta una​​ fondazione teologica,​​ collegandola al triplice ufficio di Cristo, profeta, sacerdote e re, assumendo un teologumeno prodotto dalla teologia protestante dell’epoca.

L’ambito della teologia pastorale​​ abbraccia la descrizione della figura del pastore (pastorale generale), quindi le sue caratteristiche salienti (vocazione, consacrazione sacerdotale, missione canonica) e le conoscenze teologiche, la santipersonale, le doti o virtù pastorali necessarie per una corretta azione pastorale. Abbraccia inoltre la descrizione delle varie attività del pastore (pastorale speciale). Viene abbandonata una visione unitaria della teologia pastorale ed emergono singole discipline (omiletica, catechetica, liturgia) che si costruiscono in modo autonomo.

Il metodo​​ impiegato varia da autore ad autore: è «ascetico-mistico» se particolarmente attento alla spiritualità del pastore; è «mistico-pratico» se ne evidenzia lo spirito apostolico; è «scolastico-pratico» se rivendica un’intenzione scientifica a questa disciplina. In ogni caso, è di tipo «applicativo» in quanto applica principi dogmatici e morali alla pratica pastorale. Di conseguenza, la teologia pastorale è configurata come semplice «corollario» di altre discipline teologiche.

 

5. La teologia pratica evangelica dalla metà del secolo XIX in poi

Nel periodo che va dalla metà dell’Ottocento agli anni ’60 del Novecento, la teologia pratica evangelica registra alcuni momenti evolutivi interessanti.

 

5.1. La concezione «empirica» dei grandi manuali

Negli ultimi trent’anni del secolo scorso compaiono​​ i grandi manuali​​ di Th. Harnaz, G. von Zerschwitz, Ch. Achelis, A. Krauss e altri, che dominano il campo della teologia pratica fino alla prima guerra mondiale.

Si distaccano dall’impostazione idealista centrata sull’idea e sul sistema e portano in primo piano l’interesse per il dato effettuale. Manifestano un rinnovato interesse per il dato fenomenico della religione, studiato tramite la ricerca storica condotta col metodo empirico-critico. Prestano un crescente rilievo ai dati della psicologia e della sociologia attinenti la realtà ecclesiale. Spostano l’accento dalla Chiesa al cristiano e alla devozione, dalla comunità all’individuo e al suo rapporto religioso con Dio.

La teologia pratica si dissocia sempre più da compiti ecclesiali e si costruisce sempre più come teologia «scientifica» diversa dalla precedente teologia «ecclesiale». Si dissolve come disciplina unitaria e le sue singole discipline assorbono parti di altre (ad es. l’omiletica è assorbita nella liturgia, la catechetica nell’omiletica...).

 

5.2. L’affermarsi della «teologia della parola»

Con l’avvento della teologia dialettica di K. Barth (1886-1968) s’impone un nuovo orientamento (H. Diem, H. Thielicke, H. Vogel), che copre i decenni tra il 1920 e il 1960. Il suo punto di partenza non è la teologia (reputata fatto «secondario»), ma l’esperienza di fede (giudicata atto «primario»). E il centro d’interesse di questa non è la sua «essenza», ma la sua esistenza compresa come «evento» di salvezza.

Tale esperienza di fede, provocata dai tragici eventi della prima guerra mondiale, trova il suo corrispondente immediato nella predicazione, il cui ambito è talmente ampliato da abbracciare tutta la rivelazione e l’intera teologia. Questa risulta finalizzata nel suo insieme alla predicazione, sicché i confini tra teologia pratica e altre discipline teologiche divengono assai fluidi.

Alla teologia pratica è assegnata la funzione di trasformare la prassi ecclesiale con la predicazione: ciò conduce al deprezzamento delle problematiche teologico-pastorali concrete e alla trasformazione della teologia pratica in teologia della parola compresa come teologia della predicazione, dell’insegnamento, della stessa costituzione ecclesiale. Tale ipertrofia della predicazione manda a rotoli la liturgia. L’omiletica invece diviene la «punta di lancia» ed è assai favorita. Secondo K. Barth, la teologia pratica s’interessa, in particolare, di ciò che oggi in certo modo enfatico si indica come «evento linguistico», si occupa cioè del linguaggio da adottare, che dev’essere capace di «ripetere» la storia d’Israele e di Gesù Cristo e di «trasferirla» nella vita quotidiana dell’uomo contemporaneo. Ciò comporta il ricorso alla psicologia, alla sociologia e alla linguistica. Stando alla​​ critica storica recente,​​ la teologia dialettica da un lato ha conferito alla prassi e alla riflessione pastorale una colorazione cherigmatica, cristocentrica ed escatologica, d’altro lato ha accresciuto il disagio circa la configurazione e collocazione della teologia pratica, atteso il ruolo centrale e preminente assegnato all’esegesi e alla dogmatica.

 

5.3. La riflessione sul rapporto Chiesa-mondo

In una fase ulteriore la teologia pratica evangelica riprende il tema del rapporto Chiesamondo. Ciò avviene specialmente ad opera di alcuni pastoralisti che si rendono interpreti della responsabilità della comunità cristiana in questo campo e approfondiscono questi temi: il rapporto tra Chiesa, regno di Dio e mondo profano (A. D. Muller); la descrizione della Chiesa «reale» confrontata con la Chiesa «corpo di Cristo» (E. Hertzsch); i compiti della Chiesa concreta di fronte all’ateismo contemporaneo (O. Haendler).

In quest’ordine di idee e in riferimento al mutato contesto scientifico degli anni ’60, vi sono vari tentativi diretti a garantire dignità scientifica alla teologia pratica (M. Setz, W. Jetter, R. Bohren, M. Metzger, W. Eisinger, W. Hermann, G. Lauter, E. Rosembroom). Essa viene considerata «disciplina di confine» destinata a mediare tre ambiti distinti ma correlati, cioè teologia-Chiesa e società. Essa rivede la rilevanza pratica della teologia per il servizio della Chiesa al mondo; valuta criticamente se la prassi ecclesiale è conforme al messaggio biblico e la riorienta perché risponda agli imperativi dell’oggi; interpreta alla luce della fede gli avvenimenti umani per aprire nuove strade all’intervento della comunità cristiana.

 

5.4. La «consulenza pastorale» come proposta di teologia pastorale

Attorno agli anni ’30, nel protestantesimo nordamericano segnato dal pragmatismo e dal «vangelo sociale», nasce e si sviluppa un movimento pastorale orientato a prendersi carico delle difficoltà del pastore nei confronti di destinatari in situazioni psicologiche critiche. Tale movimento passa sotto il titolo di​​ Clinical Pastoral Trainig​​ o anche​​ Clinical Pastoral Education.​​ I suoi precursori riconosciuti sono il teologo A. Boisen e il medico R. Cabot. L’interlocutore privilegiato, sul versante psicologico, è C. R. Rogers.

La giustificazione teologica del progetto registra posizioni differenziate. Secondo C. A. Wise, la consulenza è una funzione essenziale del ministero cristiano ed esprime l’effettivo servizio al prossimo: egli accentua il dialogo terapeutico rispetto all’annuncio del messaggio evangelico. E. Thurneysen, invece, pur riconoscendo l’importanza del colloquio pastorale fatto di ascolto, pone in primo piano l’efficacia dell’annuncio della parola di salvezza e dell’intervento della grazia.

Seward Hiltner,​​ psicologo e pastoralista presbiteriano, assume un atteggiamento più sfumato e armonizza efficacia psicologia e ruolo simbolico della consulenza pastorale. Adotta il metodo rogeriano, ma ne corregge la prospettiva individualistica evidenziando il contesto in cui si sviluppa il dialogo pastorale.

Soprattutto prospetta, su tale base, una teologia pastorale che diviene classica nell’ambiente nordamericano.

Egli ritiene che occorre superare sia concezioni della teologia pastorale impostesi storicamente, sia la semplice recezione della psicologia e della sociologia, cercando di individuare le​​ prospettive​​ generali in cui ridurre a unità le molteplici espressioni della vita ecclesiale. Da parte sua assume come prospettiva generale «l’attenzione pastorale» (sheperding)​​ debitamente integrata con altre due inseparabili da essa: «i processi di comunicazione» (communicating) e «i dinamismi organizzativi»​​ (organizing).​​ Nel definire l’ambito specifico della teologia pastorale, distingue nettamente, senza negarne la necessaria correlazione, le discipline teologiche incentrate sulla logica perché volte a cogliere il senso, lo sviluppo e il significato della fede contenuta in testi scritti (logic-centered brandi of theology),​​ dalle discipline direttamente interessate all’azione o alla vita cristiana vissuta (operation-centered branch of theology).​​ La teologia pastorale rientra in queste ultime. Le prime hanno un proprio metodo, storico-critico, mutuato dalle corrispettive scienze umane; le seconde ricorrono ormai al metodo empirico-critico elaborato dalle moderne scienze psicologiche e sociologiche. La teologia pastorale non va però ridotta a psicologia pastorale o a sociologia pastorale. Essa è disciplina teologica, perché «incomincia con questioni teologiche e conclude con risposte teologiche» nel suo confronto con tali scienze.

La critica teologica​​ ha accolto positivamente l’impostazione dell’Hiltner, pur criticandone alcuni aspetti ancora individualistici e clericali e una carente riflessione teologica se intesa secondo modelli del passato debitori di una prevalente matrice filosofica.

 

6. Sviluppi innovatori della teologia pastorale cattolica tra il 1920 e il 1960

In campo cattolico, nel periodo compreso tra la prima guerra mondiale e l’inizio del Vaticano II, vari pastoralisti sviluppano una riflessione teologico-pastorale che tenta, in misure e forme diverse, di rispondere alle istanze di una situazione socio-culturale e religioso-ecclesiale per tanti aspetti mutata radicalmente rispetto all’epoca precedente.

Viene denunciata​​ l’insufficienza della manualitica​​ del tempo, che si dimostra incapace di affrontare in modo rigoroso e tempestivo problematiche via via emergenti. Si fanno strada​​ limitate ricerche innovative​​ attinenti ad es.: la ristrutturazione della parrocchia urbana esigita dal fenomeno dell’urbanizzazione, la pastorale sovrapparrocchiale, le risposte concrete a nuovi problemi di ordine morale, la rilevanza pastorale delle ideologie. L’opera di M. Pfliegler, pensata negli anni ’50 interpreta queste diffuse istanze.

Vi sono​​ due tentativi di ridefinire la teologia pastorale ricentrandola sull’odegetica,​​ cioè sulla «cura d’anime» (L. Bopp) o sul terzo ufficio pastorale (C. Noppel). La tesi è giustificata col rimando alla situazione di diaspora del cristianesimo contemporaneo (Bopp), oppure riprendendo la dottrina del corpo mistico di Cristo (Noppel). In entrambi è evidente il recupero della dimensione comunitaria dell’azione pastorale e la valorizzazione della collaborazione del laicato, concepita però nella linea della «partecipazione all’apostolato gerarchico».

Va ricordata la vicenda della​​ teologia cherigmatica​​ di Innsbruck (J. A. Jungmann, P. F. Dander), nata dalla costatazione del divario esistente tra la sistemazione teologico-scolastica del tempo e le esigenze di una predicazione più sensibile al messaggio della Bibbia e della Tradizione. La soluzione proposta tende a evidenziare la valenza salvifica della verità teologica e l’inscindibile riferimento della teologia al compito dell’annuncio. Il dibattito sviluppatosi conduce a mettere in luce la «dimensione pastorale» di ogni teologia per il suo contributo alla formazione del pastore (M. Grabmann, A. M. Hoffmann, G. Engelhardt, Y. Congar).

Nel secondo dopoguerra si intensifica​​ la preoccupazione per lo statuto scientifico, teologico e pratico​​ della vita pastorale (R. Fiiglister, L. De Coninck, Santos Beriguistain, C. Sanchez Alisenda, R. Spiazzi, G. Ceriani). La configurazione scientifica e teologica della teologia pastorale è ricercata nella concezione aristotelico-tomista della scienza teologica: essa è dottrina dei principi di fede (il comando missionario di Cristo) che guida, per via deduttiva, le conclusioni teologiche attinenti le varie funzioni pastorali. Il suo metodo risulta analitico-deduttivo per la conoscenza dei principi e descritdvo-induttivo per la conoscenza dei dati empirici. La sua connotazione pratica è collegata al suo oggetto di studio, che è l’azione ecclesiale nel suo divenire storico attuale. Dalla teologia pastorale come scienza è distinta l’« arte» pastorale intesa come abilità operativa, la quale è illuminata dalla virtù della «prudenza» all’atto di applicare la riflessione teologico-pastorale all’azione concreta.

L’esigenza di disporre di un quadro teologico adeguato in cui definire l’azione pastorale e sviluppare la teologia pastorale ritorna in​​ F. X. Arnold​​ (+ 1969), noto pastoralista di Tubinga. Alla base della sua riflessione di tipo fondante vi è la scelta di «una pastorale che nella sua elaborazione teorica e nella sua applicazione concreta è l’espressione di una teologia centrata sull’insieme della rivelazione», e il rifiuto di «una pastorale orientata in funzione di fatti contingenti» e, quindi, eclettica e dispersa.

Collocandosi nell’orizzonte della salvezza, egli distingue due concetti base tra loro correlati: il «processo di salvezza» riguardante il realizzarsi concreto dell’intervento salvifico di Dio, protagonista primo e assoluto, il cui dono è accolto nella fede e nell’amore; e «la mediazione di salvezza» riguardante il servizio che la Chiesa svolge con l’azione pastorale volta ad attivare e incrementare il processo di salvezza favorendo la risposta di fede e di amore alla grazia divina.

Questa comprensione strumentale e subordinata dell’azione ecclesiale consente all’A. di superare sia il «naturalismo pastorale» riscontrabile in concezioni di ispirazione illuminista, sia «il quietismo pastorale» rilevabile in mentalità che accentuano tanto la dimensione comunitaria fino a disattendere l’apporto personale all’evento salvifico.

Per mantenere distinti ma uniti il fondamentale rapporto primario tra Dio e la persona, e l’attività intermediaria strumentale della Chiesa viene invocato il principio cristologico calcedonense: «il principio del divino umano». In base da esso, l’azione pastorale deve rispettare congiuntamente il fattore divino e la sua gratuità, il fattore umano e la sua libertà, il rapporto dialogico o «sinergetico» dei due attori del processo salvifico. Ciò le consente di evitare sia un «teocentrismo» unilaterale a cui consegue un «quietismo etico», sia un esagerato «antropocentrismo» che conduce al «naturalismo» pastorale, teorico e pratico.

Nel quadro di questa visione cristologicà soteriologica ed ecclesiologica, la teologia pastorale non può essere ridotta a mera «tecnica» o a semplice «applicazione» dei risultati di altre discipline teologiche: essa dispone di un campo specifico: l’edificazione della Chiesa nel futuro (formula ripresa dal Graf) e di un proprio principio teologico formale: il principio del divino-umano. Soggetto dell’azione pastorale non è solo il clero, ma l’intera comunità dei fedeli, non per mandato della gerarchia, ma in forza del battesimo. Il modello metodologico utilizzato è ispirato dal principio teandrico: fa riferimento alla rivelazione (elemento divino) e insieme alla realtà storica concreta (elemento umano). La​​ critica teologica​​ è concorde nel riconoscere il ruolo innovatore dell’Arnold nella configurazione teologica della teologia pastorale in continuità creativa con la tradizione della scuola di Tubinga. Tuttavia rileva che la sua proposta non va oltre la dichiarazione d’intenti e, in sostanza, si riduce a variazione significativa dell’ecclesiologia sistematica.

 

7.​​ La «pastorale d’insieme»

Nel secondo dopoguerra fino agli anni ’60 s’impone un movimento complesso di azione e riflessione, conosciuto in campo cattolico come «pastorale d’insieme». Dall’area francofona in cui ha origine (F. Boulard, G. Michonneau, L. Dingemans, F. Houtard), si diffonde nelle aree di lingua spagnola (F. J. Calvo, F. Gonzalez, S. Galilea, C. Floristàn), italiana (G. Locatelli) e tedesca, dove prende il nome di «pastorale d’ambiente» (Ch. Schreck, S. Augsten, F. Benz, V. Schurr). In una​​ prima tappa​​ ci si rende conto che la pastorale parrocchiale è inadeguata ad affrontare il fenomeno della scristianizzazione, per cui si impone un’azione pastorale capace di raggiungere nel suo «insieme» il più vasto mondo sociale. Le motivazioni teologiche invocate a sostegno sono l’aspetto sociale della grazia e la natura missionaria della Chiesa.

La​​ tappa successiva​​ fa scoprire l’interiorità della pastorale d’insieme: il lavoro apostolico del clero va collocato entro una pastorale globale, tendente a integrare tutte le forze apostoliche e a orientare in modo unitario l’azione pastorale, facendo riferimento alla «zona umana», a cui deve corrispondere, a livello ecclesiale, la «zona pastorale» comprendente più parrocchie ed équipe apostoliche. Il richiamo alla natura comunionale della Chiesa e alla collegialità dei suoi ministeri fa da supporto a tale orientamento. La​​ terza tappa​​ fa emergere la dimensione episcopale della pastorale, cioè l’imprescindibile riferimento di tutte le forze e istituzioni di una diocesi al loro pastore nell’attuazione della pastorale d’insieme. La giustificazione teologica di tale impostazione è una rinnovata visione ecclesiologica della figura del vescovo, considerato fonte e centro coordinatore e animatore della pastorale d’insieme diocesana.

L’accento viene spostato dall’attività cultuale all’azione missionaria di penetrazione nell’ambiente sociale. Ciò guida la redifinizione dei soggetti della pastorale: accanto al sacerdote,​​ missionario​​ del mondo del proletariato, è assegnato un posto specifico al laico militante, la cui competenza è collegata alla sua qualifica di battezzato inserito nel mondo. Guida pure la ricomprensione dell’azione pastorale che è intesa come «cristianizzazione» di ambienti urbani e rurali giudicati ormai pagani.

La riflessione teologico-pastorale si confronta specialmente con le scienze storiche, antropologiche, sociologiche e sviluppa il metodo condensato nel trinomio «vedere giudicare agire» che prevede appunto: il rilevamento della situazione sociale ed ecclesiale in base all’inchiesta socio-religiosa (vedere); l’interpretazione dei risultati in una prospettiva pastorale (giudicare); l’individuazione delle proposte operative, la revisione delle mentalità degli operatori, il coordinamento degli interventi​​ (agire).

Secondo​​ la critica teologica,​​ il risultato perseguito da questo movimento è una pastorale realista, animata dalla missione e tesa a creare comunicazione sia all’interno della Chiesa, sia tra la Chiesa e la società. La riflessione che l’accompagna si configura ormai come propriamente teologico-pratica, perché seriamente confrontata con la prassi religiosa, cristiana ed ecclesiale considerata negli attuali contesti sociali e culturali.

 

8.​​ Il significativo apporto del Vaticano​​ II

Il concilio Vaticano II ha costituito senza dubbio un avvenimento significativo nella recente storia della riflessione teologico-pastorale. Esso è stato un traguardo in cui sono variamente confluite le istanze e impostazioni cattoliche ed anche protestanti specialmente del secondo dopoguerra; un momento storico assai rivelativo di determinate problematiche e aporie connesse, di fatto, con la riflessione teologico-pastorale sull’azione ecclesiale; un punto di partenza per un rinnovato modo di fare teologia pastorale o teologia pratica e di comprenderla.

 

8.1. Carattere «pastorale» del magistero conciliare

Secondo Giovanni XXIII, il concilio doveva sviluppare un magistero «il cui carattere è preminentemente pastorale», da intendere nel senso di riformulare la dottrina cristiana in risposta ai problemi e alle esigenze dell’attuale condizione umana e con linguaggi capaci di farla penetrare nella coscienza dell’uomo contemporaneo.

Il dibattito conciliare svoltosi attorno allo schema sulle «fonti della rivelazione» e sulla qualifica «pastorale» della​​ Gaudium et spes​​ mise in evidenza due tendenze circa la natura di «dottrinale» e «pastorale». La prima era preoccupata della fedeltà alla dottrina, che identificava con determinate concezioni e formulazioni, precise e irreformabili (ma di fatto legate alla polemica e apologetica antiprotestante), viste come punto di riferimento sicuro a difesa della fede. Il magistero che esprimeva era dottrinale, conservativo, normativo e difensivo. Concepiva il magistero «pastorale» come applicazione di una dottrina alla vita con il ricorso a un linguaggio meno rigoroso di quello dottrinale. La seconda era preoccupata della diffusione del messaggio evangelico, espresso in formulazioni comprensibili e attuali, in modo da farlo più facilmente e vitalmente recepire dall’uomo contemporaneo. Il magistero che esprimeva era teologico-pastorale perché elaborava una dottrina in risposta ai problemi attuali, era propositivo ed ecumenico perché teso al dialogo, faceva ricorso a un linguaggio semplice, vitale e dinamico, ritenuto non meno rigoroso di quello dottrinale.

L’assise ecumenica fece propria questa seconda comprensione di dottrinale e pastorale, e ciò è rilevabile nei suoi documenti specialmente nelle quattro grandi costituzioni. In tale senso si è autorevolmente pronunciato il Sinodo straordinario del 1985: «Non è lecito separare l’indole pastorale dal vigore dottrinale dei documenti» (1.5).

 

8.2. La prospettiva globale del magistero pastorale conciliare

Secondo papa Giovanni, la prospettiva generale in cui si doveva situare tale magistero pastorale era quella dell’aggiornamento​​ della Chiesa. Esso venne poi tematizzato da Paolo VI attorno alle tre famose vie: «la coscienza​​ che la Chiesa deve avere e deve alimentare su sé stessa; [...]​​ il rinnovamento​​ ascetico, pratico, canonico di cui la Chiesa ha bisogno per essere conforme alla coscienza sopraddetta; [...] il dialogo che riguarda il modo, l’arte, lo stile che la Chiesa deve infondere nella sua attività ministeriale verso il mondo contemporaneo».

Collocandosi in questa visione generale, il Vaticano II ridefinisce la coscienza o identità globale della Chiesa (Lumen gentium​​ e​​ Sacrosanctum Concilium) alla luce della Parola di Dio​​ (Dei Verbum)​​ e in riferimento al mondo contemporaneo​​ (Gaudium et spes),​​ evidenziandone questi lineamenti essenziali: essa è​​ realtà misterica​​ inserita nel mistero trinitario, essendo «un popolo adunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo»​​ (LG​​ 4b); è costituzionalmente un mistero di​​ comunione; è essenzialmente​​ missionaria,​​ cioè​​ inviata​​ al mondo; attua tale​​ missione​​ nel​​ servizio​​ espresso in molteplici​​ ministeri​​ (per cui è tutta ministeriale), che hanno alla loro origine dei doni o​​ carismi​​ dello Spirito (per cui è di sua natura carismatica); per tutto questo è​​ universale sacramento di salvezza,​​ cioè segno e strumento dell’unione degli uomini con Dio e dell’unità del genere umano​​ (LG​​ 1,48); è il popolo di Dio pellegrino nella​​ storia​​ e incamminato verso il perfezionamento​​ escatologico (LG​​ 8,9).

Questa rinnovata consapevolezza ecclesiale guida il rinnovamento, ritenuto​​ dovere permanente​​ del popolo di Dio:​​ il rinnovamento religioso, morale e ascetico​​ a cui viene assegnata la priorità;​​ il rinnovamento operativo​​ riguardante tutte le attività ecclesiali;​​ il rinnovamento dottrinale​​ attinente la gerarchia delle verità e la loro formulazione;​​ il rinnovamento istituzionale​​ concernente tutte le strutture umane e mutevoli della Chiesa.

La rinnovata coscienza e il connesso rinnovamento operativo si traducono in​​ dialogo,​​ a livello di relazioni con i non cattolici, i non cristiani e gli uomini in generale del nostro tempo. Esso è considerato come espressione della missione universale della Chiesa, rapportata all’attuale situazione storica della cristianità e dell’umanità, e rinnovata in sintonia con l’intervento dialogico di Dio nella storia della salvezza e con il comportamento pure dialogico di Cristo nell’attuazione della sua missione tra gli uomini.

 

8.3. Comprensione conciliare delibazione pastorale»

Il concilio fa sua la concezione della manualistica cattolica per la quale​​ azione pastorale​​ è quanto si riferisce all’esercizio dei tre uffici profetico, sacerdotale e regale da parte del ministro ordinato; recepisce inoltre gli sviluppi innovativi riguardanti la pastorale d’insieme. Ma colloca ormai tali concezioni nella cornice della rinnovata ecclesiologia appena esposta, la quale a sua volta è presieduta da una rinnovata cristologia e soteriologia.

La figura, le funzioni e le attività dei pastori (vescovi e presbiteri) sono presentate nel quadro della collegialità e situate nel più vasto contesto del popolo di Dio, vivente nelle Chiese e comunità locali, assai rivalutate e considerate come soggetto attivo dell’azione ecclesiale. Questa è giustamente vista come differenziata perché frutto dell’intervento di differenti ministeri e forme di vita e, insieme, organica perché legata alla legge della comunione.

Un particolare rilievo viene dato all’apporto specifico dei laici e dei religiosi all’intera azione ecclesiale, in forza della qualifica laicale per i primi, della vocazione carismatica per i secondi.

Da tutto questo risulta una figura di vescovo, di presbitero, di religioso e di laico dai lineamenti spirituali e apostolici marcatamente rinnovati rispetto a quelli proposti dalla manualistica cattolica antecedente il concilio e più in sintonia con i ricordati tentativi innovativi.

 

8.4. Comprensione della «teologia pastorale»

La formula «teologia pastorale» ricorre una sola volta nei documenti conciliari, ma la concezione di questa disciplina, del suo ambito e dei suoi rapporti con altre discipline è proposta da vari testi e rispecchia gli orientamenti cattolici rinnovatori del preconcilio. Il Vaticano II li supera, in certo modo, in quanto ne amplifica il campo di riflessione, includendovi la pratica dell’ecumenismo, il dialogo con le religioni non cristiane e la pastorale missionaria.

In ogni caso, l’apporto innovatore del concilio va cercato non tanto nei suoi pronunciamenti espliciti circa la teologia pastorale, quanto piuttosto​​ nel modo con cui fa riflessione teologico-pastorale,​​ che è assai differenziato, secondo la natura dei documenti e degli argomenti, e secondo il modo di riferirsi alla dottrina, alla situazione, al progetto e alla strategia pastorali. Sono rilevabili vari tipi o modelli.

Un primo tipo di riflessione, riscontrabile ad es. nella​​ Lumen gentium​​ e nella​​ Dei Verbum,​​ è​​ dogmatico-pastorale: è dogmatico perché mira a elaborare una dottrina; è pastorale perché presta attenzione alle problematiche attuali, assume gli attuali risultati del magistero e della teologia e usa un linguaggio sensibile al contesto culturale contemporaneo. In non pochi testi (ad es.​​ Sacrosanctum Concilium, Cristus Dominus, Presbyterorum Ordinis, Orientaliurn ecclesiarum, Inter mirifica),​​ il concilio produce una riflessione teologico-pastorale di​​ tipo applicativo,​​ ispirata sicuramente dalla manualistica del tempo: essa consiste nel delimitare o richiamare dei principi e nell’applicarli​​ ai vari problemi ecclesiali.

Un altro tipo di riflessione è​​ deduttivo e insieme induttivo​​ in quanto nel suo modo di procedere prevede il richiamo a principi o a criteri attinenti una questione, l’attenzione a una determinata situazione variamente rilevata e interpretata, e infine l’indicazione di orientamenti operativi. Questo procedimento è preminente e caratteristico della​​ Gaudium et spes.

Il modo di​​ riflettere sulla situazione​​ varia secondo l’indole e le finalità dei documenti. I testi dottrinali lo fanno al fine di elaborare una dottrina aggiornata. I documenti di prevalente intonazione operativa o disciplinare lo fanno per formulare giudizi sulla situazione della religione, della Chiesa e della società, per determinare principi o criteri e per stabilire disposizioni e norme atte a orientare il rinnovamento e il dialogo ecclesiale.

I giudizi formulati sono pure differenti, secondo i criteri di volta in volta utilizzati: quelli sulla situazione intraecclesiale sono d’indole storica, esperienziale, teologico-pastorale; quelli sulla situazione delle Chiese e comunità non cattoliche sono per lo più teologici e ricavati dal messaggio biblico circa l’unità, l’apostolicità, la cattolicità e la santità della Chiesa; quelli sulla condizione socio-religiosa dei non cristiani e dei non credenti sono anch’essi teologici e riconducibili ai valori religiosi e morali proposti dalla Rivelazione cristiana.

L’analisi dei «segni dei tempi», cioè degli eventi che per la loro generalizzazione e frequenza caratterizzano un’epoca, è un modo caratteristico e qualificante con cui il Vaticano II interpreta, in una visuale teologica, determinati avvenimenti contemporanei, intraecclesiali ed estraecclesiali: essi rivelano le strade che Dio apre al cammino della Chiesa e costituiscono, per essa, altrettanti imperativi storici.

Il concilio offre senza dubbio numerosi dati che rientrano in una​​ riflessione progettuale​​ (intesa come identificazione di un insieme di mete generali e settoriali da raggiungere) e​​ strategica​​ (compresa come determinazione di un insieme di fattori necessari per passare dalla situazione data a quella desiderata). Tuttavia, non intende elaborare un progetto e una strategia pastorali in senso tecnico. Per fare ciò occorre rielaborare in modo unitario e più precisamente finalizzato il suo magistero. Anche in questo campo, l’assise ecumenica apre strade, suscita impulsi, ma non va oltre. E data la situazione della teologia pastorale degli anni ’60 non si poteva ragionevolmente attendere di più.

 

Bibliografia

Midali Mario,​​ Teologia pastorale o pratica.​​ Cammino storico di una riflessione fondante e scientifica, LAS, Roma 1985.

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TEOLOGIA PASTORALE – STORIA

TEOLOGIA PASTORALE E CATECHETICA

 

TEOLOGIA PASTORALE E CATECHETICA

Quando ci si interroga sui rapporti tra Teologia pastorale (= TP) e → Catechetica (= Ct.) si coinvolgono nella domanda due tipi differenti di problemi: quello dei rapporti tra le attività: pastorale, catechistica ed educativa (espresse anche coi termini: pastorale, catechesi ed educazione); e quello dei rapporti tra le scienze che si occupano rispettivamente di queste attività: T. pastorale, Catechetica, Pedagogia (dette anche: T. pratica, Catechetica, Scienze dell’educazione). Pur essendo coscienti dell’interdipendenza dei due problemi, qui ci occuperemo quasi esclusivamente del secondo.

1.​​ La nascita della TP come disciplina universitaria avvenne alla fine del sec. XVIII nei territori dell’impero asburgico, e faceva parte di un piano di riforma degli studi teologici, redatto da S.​​ Rautenstrauch​​ e approvato dall’imperatrice Maria Teresa nel 1774. Nel programma del 1777 concernente l’insegnamento della TP, questa disciplina comprende tre parti, la prima delle quali ha per oggetto l’insegnamento religioso​​ o​​ C., per cui è proprio a questa data che si fa risalire generalmente la nascita della Ct. come trattazione scientifica e non come semplice precettistica. Secondo alcuni però sarebbe stato → J. B. Hirscher il vero fondatore della Ct. come scienza indipendente, con l’opera dal titolo: “Catechetica... trattata in tutta la sua estensione», che è del 1831. In ogni modo, è stato certamente Hirscher a concepire la Ct. non solo come teoria dell’IR, ma anche come “pastorale giovanile”, nella quale la dimensione educativa in senso cristiano era dominante. Pertanto TP e Ct. nascono e si affermano come discipline teologiche “pratiche”, il cui scopo è quello di applicare le verità cristiane alle situazioni concrete della vita e di formare i pastori d’anime; inoltre nella Ct. è sempre presente la dimensione educativa.

Nella II metà del XIX sec. la Ct. cattolica, mentre si impoverisce sempre più di contenuto teologico, in compenso si arricchisce maggiormente di prospettive psicologiche e pedagogiche. La stessa cosa avverrà per la Ct. evangelica, ma in modo più massiccio. Tra la fine del secolo scorso e i primi decenni del nostro secolo, la Ct. cade sempre più sotto la tutela delle scienze psico-pedagogiche ed è soggetta a un vero processo di “pedagogizzazione”, dando origine nei paesi di lingua tedesca a una nuova disciplina: la​​ Religionspàdagogik.​​ E così coesisteranno a livello accademico tre discipline, di cui due di natura sicuramente teologica: la TP e la Ct., e una dallo statuto epistemologico non ben definito: la Religionspàdagogik. Quest’ultima (generalmente concepita come distinta dalla Ct.) veniva considerata come una scienza intermedia tra la T. e la pedagogia; J. Gbttler, però, ne faceva un ramo della “Scienza cristiana dell’educazione”.

Nel periodo tra le due guerre mondiali la Religionspàdagogik cadde fortemente in discredito in ambiente evangelico per opera della corrente barthiana; in campo cattolico invece continuò ad essere coltivata, però il suo statuto epistemologico divenne quanto mai fluttuante: c’era chi la concepiva come “pedagogia teologica”, distinta dalla Ct., quest’ultima vista come una specie di “didattica teologica” (R. Peil); altri la pensavano come una “pedagogia filosofica”, diversa dalla Ct., concepita invece come “pedagogia teologica” (G. Grunwald).

A partire dagli anni ’60, ma soprattutto dopo il Concilio Vaticano II, il problema dello statuto epistemologico della Religionspadagogik, della Ct. e della TP, come pure quello dei loro rapporti con le scienze dell’educazione, è stato ripensato dagli studiosi cattolici ed evangelici in un clima ecumenico profondamente rinnovato, tenendo inoltre presenti i nuovi orientamenti emersi nella concezione della T. (la svolta antropologica) e delle scienze dell’educazione.

Opere significative, apparse in questi ultimi anni, sono da considerarsi:​​ YHandbuch der Pastoraltheologie​​ in 4 volumi (1964-1969) e la poligrafia dal titolo:​​ Praktische Theologie beute​​ (1974) per la TP; il monumentale​​ Handbuch der Jugendseelsorge,​​ iniziato nel 1965 e non ancora ultimato, di W. Jentsch e la​​ Pastorale giovanile​​ (1982) di R. Tonelli; e infine le opere di H. Schilling (1969), di E. Alberich (1982) e di U. Hemel (1984) nonché i tre eccellenti volumi​​ àeWHandbuch der Religionspadagogik​​ (1973-1975) per la Ct. e la Pedagogia della Religione (cf bibl.).

2.​​ Ad un primo sguardo si ha l’impressione che di cammino se ne sia fatto molto: