SPIRITUALITÀ GIOVANILE
Riccardo Tonelli
1. Le coordinate di un profondo cambio di prospettiva
1.1. La spiritualità come identità del cristiano
1.1.1. Cosa significa «identità»
1.1.2. Cosa significa «risignificazione»
1.1.3. E così la vita quotidiana sta al centro
1.2. Dal dualismo sacro-profano alla scoperta dell’Incarnazione
1.2.1. La spiritualità della «fuga dal mondo»
1.2.2. Il cambio radicale di prospettiva: la logica dell’Incarnazione
1.2.3. La «vita quotidiana» come grande mediazione
1.3. La sequela di Gesù come passione per la sua causa
1.3.1. Vivere in questo mondo come gente di un altro mondo
1.3.2. Per la causa di Gesù: il Regno di Dio
2. Una spiritualità della gioia di vivere
2.1. La croce è una scommessa riuscita sulla vita
2.2. Amore alla vita come «possesso» della vita
2.2.1. Possiede la vita chi la fonda in un evento donato
2.2.2. Possiede la vita chi la sa «perdere»
2.3. I segni del futuro dentro il duro ritmo nel quotidiano
3. Una festa impegnata per la vita
3.1. Quando le responsabilità sono chiare e precise
3.2. Quando ci vuole il coraggio di progettare l’inedito
3.3. La festa della vita contro il regno della morte
4. Il cristiano spera in Dio e ama la terra
Rifletto sulla spiritualità da una prospettiva particolare. La ricordo all’inizio del mio contributo perché rappresenta una scelta pregiudiziale e condizionante.
Cerco un progetto di spiritualità cristiana in cui sia restituito ai giovani di oggi la possibilità di essere pienamente di questo nostro tempo, proprio mentre confessano, nella comunità ecclesiale, la radicale signoria di Gesù su tutta la loro vita. E spero che questo progetto possa risultare significativo anche per coloro che amano la giovinezza senza età dello Spirito di Gesù.
Non mi soffermo a descrivere le diverse «scuole» né i differenti modelli di spiritualità. So che molti credenti hanno espresso in queste esperienze l’impegno affascinante di consegnare la propria vita a Dio e ai fratelli, lungo il corso della storia cristiana.
Le riconosco importanti per continuare a vivere anche oggi da uomini spirituali.
Temo però che la diffusa crisi di spiritualità sia dovuta anche al fatto che i modelli tradizionali non riescono a riconciliare in modo soddisfacente quel conflitto tra vita quotidiana e vita nello Spirito, che é alla radice di molti dei problemi attuali.
La mia ricerca è confortata da una costatazione. Sta emergendo, soprattutto a livello giovanile, una intensa domanda di spiritualità. Lo indicano molti segnali. Li citano in tanti. Qualcuno ne parla con un po’ di disappunto, perché i fatti hanno sconfessato le frettolose analisi della crisi in atto. Altri lo gridano ai quattro venti, per consolarsi e darsi ragione, come se ormai il peggio fosse passato e si stesse tranquillamente tornando ai vecchi modelli d’un tempo.
Chi legge invece in profondità questa domanda, s’accorge che essa non rappresenta la riedizione dei temi tradizionali dell’esistenza cristiana, ma li coinvolge sull’onda di problemi relativamente nuovi. Per questo si porta dentro provocazioni quasi inedite.
Dove qualcuno ha saputo raccogliere questa sfida, sono fiorite esperienze di risveglio religioso insperato. Quando invece al silenzio di chi non ha proposte si contrappone solo l’offerta, dura e sicura, di progetti che suonano lontani rispetto ai timidi segni di novità, la sete diffusa può spegnersi soltanto alle cisterne screpolate.
Il mio contributo racconta una di queste storie felici. In essa tanti hanno trovato ragioni di vita e di speranza; ci piacerebbe che l’esperienza continuasse.
1. Le coordinate di un profondo cambio di prospettiva
Dedico il primo paragrafo alla ricerca degli elementi che giustificano un profondo cambio di prospettiva nella spiritualità cristiana.
11 modello di spiritualità proposto ha senso solo se è riconosciuta corretta e urgente la prospettiva generale.
1.1. La spiritualità come identità del cristiano
Il primo elemento di novità è dato dal modo in cui viene compresa e definita la spiritualità. Nel significato tradizionale e nell’uso spontaneo di molti cristiani, la spiritualità riguarda particolari pratiche religiose e suggerisce precisi atteggiamenti da assumere. Interessa di conseguenza alcuni fortunati, più sensibili di altri nei confronti delle esigenze radicali della vita cristiana.
Questa distorsione di significato ha progressivamente relegato i temi della spiritualità al circolo ristretto degli addetti ai lavori.
Il Concilio ha chiesto invece ai cristiani il coraggio di scommettere sulla universale vocazione alla santità e, di conseguenza, sulla reale possibilità di vivere una piena spiritualità anche in situazione laicale e giovanile (LG 39-41).
Questo modo di vedere le cose sollecita a ripensare a fondo la qualità della spiritualità cristiana.
La spiritualità non è un aspetto marginale dell’esistenza cristiana: è stile di vita e autoconsapevolezza riflessa di questo stile.
Dire «spiritualità» è perciò come dire stabilizzazione di una identità personale, risignificata e organizzata attorno a Gesù Cristo e al suo messaggio, come sono testimoniati nell’attuale comunità ecclesiale.
1.1.1. Cosa significa «identità»
Tutti sanno che «identità» non è una parola del vocabolario ecclesiale. Se ne parla spesso; ma ci si aggiunge l’aggettivo «cristiana» per darle una qualifica pertinente. Identità è un termine preso a prestito dalle scienze dell’educazione. Per comprenderne il significato e la risonanza in una ricerca sulla spiritualità, ci mettiamo perciò come buoni discepoli alla loro scuola.
La letteratura sull’argomento è abbondante. Non è però sempre univoca, perché il tema è legato a precomprensioni antropologiche più generali.
Facendo un po’ di ordine e semplificando qualche posizione, possiamo immaginare l’identità come un elaboratore molto complesso di informazioni. L’ambiente esterno, gli altri, la società, le norme, le differenti culture (orientamenti, stili di vita, valori) provocano e stimolano le persone. Ciascuno codifica e organizza questi diversi stimoli in un sistema operazionale interno. Gli serve per cogliere in modo caldo la realtà, per valutarla meglio e decidere dove e come intervenire.
Attraverso l’identità ogni persona si lega così al suo mondo, in modo responsabile e critico. Tutta dalla parte del soggetto, lo delimita rispetto agli altri e lo qualifica, permettendogli di autoriconoscersi e di essere riconosciuto.
Il processo non è né meccanico né automatico. Avviene attraverso la personale capacità di confrontare gli stimoli provenienti dall’esterno con i valori che la persona ha già fatto propri.
Questi valori sono come il «filtro» verso l’esterno: funzionano come normativi delle percezioni, valutazioni e operazioni.
I valori non li recuperiamo da un deposito, terso e protetto, e neppure li ereditiamo con la nascita, come il colore dei capelli e i geni del nostro carattere. Essi sono diffusi nel nostro mondo quotidiano, con tutte le tensioni e le difficoltà di cui esso è segnato. Li assumiamo per confronto e per educazione. L’identità è quindi il frutto, in continua faticosa maturazione, dello scambio tra la storia personale di ogni individuo e i contributi culturali forniti dall’esterno, attraverso cui questa storia viene scritta e vissuta.
Questo è il dato comune ad ogni crescita in umanità. Qui si innesta la dimensione spirituale dell’esistenza.
Una persona è «uomo spirituale» quando la sua identità è «risignificata» attorno a Gesù Cristo.
Non gli basta perciò una identità stabile e ben costruita. In essa deve trovar posto il riferimento con la radice fondante l’esistenza cristiana.
1.1.2. Cosa significa «risignificazione»
«Risignificazione» è l’altra parola-chiave. Serve da corrispettivo all’identità, per collocarla dalla parte della spiritualità. Risignificare vuole dire comprendere e definire una realtà da una prospettiva diversa da quella in cui di solito viene interpretata. La lettura nuova non elimina le precedenti; e neppure si mette in conflitto con esse. Invece pretende di poter dire qualcosa di più intenso: una percezione inedita, possibile solo a chi si colloca su questa frontiera.
Nel caso delPuomo spirituale, la prospettiva è l’incontro con Gesù e la decisione di affidarsi totalmente a lui.
Questa esperienza si esprime al livello dell’identità personale; ma la riscrive in un modo originalissimo: la «risignifica».
1.1.3. E così la vita quotidiana sta al centro
Questo modo di comprendere la spiritualità, la inserisce violentemente nel fuoco dei problemi della vita quotidiana.
Il cristiano si rende conto di condividere di fatto l’esistenza di tutti. Non possiede nulla che lo autorizzi a considerarsi un estraneo o un arrivato nella mischia della vita quotidiana. Sa che le difficoltà possono essere superate solo nell’impegno e nella solidarietà. Conosce il nome concreto degli eventi, lieti o tristi, che gli attraversano l’esistenza. È davvero, fino in fondo, uomo con tutti gli altri uomini. Eppure sa di vivere nella fede in Gesù Cristo come in un altro mondo. Coerente con questa coscienza credente, compie gesti che lo sottraggono alle logiche del mondo comune. C’è in lui la percezione sofferta come di una doppia appartenenza.
Si sente cittadino di una città che deve rendere sempre più abitabile, per dimorarci con gioia e con trepidazione. E sa di essere a casa solo nella città futura.
Le due città sono così diverse, così reciprocamente lontane, così intensamente affascinanti. Non ne può abbandonare una a favore dell’altra, perché operando in questo stile tradirebbe prima di tutto sé stesso.
Certo, il problema non è nuovo: ha attraversato sempre l’esperienza dei credenti.
La novità è dettata dal modo con cui è vissuta questa tensione.
Il cristiano tradizionale esprimeva così il suo problema: perché interessarsi della vita quotidiana dal momento che è la vita eterna quella che conta? E cercava motivazioni che lo ancorassero di più alla sua terra.
Il cristiano che ha appreso nella maturazione antropologica e teologica le esigenze della autonomia e della responsabilità, è spesso spinto a capovolgere i termini della sua domanda: perché la vita eterna, se è quella quotidiana che più conta?
Se consideriamo bene le cose, è facile accorgersi che non c’è solo un cambio di prospettiva. La vita quotidiana, posta al centro, trascina con sé tematiche che sono molto lontane da quelle su cui è stata scritta per tanto tempo la spiritualità cristiana.
1.2. Dal dualismo sacro-profano alla scoperta deirincarnazione
La spiritualità cristiana è sempre radicata su un evento che la fonda e la sollecita: l’avvento di Dio nell’esistenza personale e collettiva dell’uomo. È importante comprendere bene la qualità di questo avvento, penetrando, come siamo capaci, il mistero che lo avvolge.
A questo livello si colloca il secondo cambio di prospettiva. Lo considero con attenzione, perché ci riporta alla radice della nostra esperienza di uomini salvati dall’amore di Dio in Gesù Cristo.
1.2.1. La spiritualità della «fuga dal mondo»
Per molti modelli tradizionali di spiritualità, la storia, la vita, il mondo sono collocati nella «profanità». Profano è già giudizio di valore. Significa lontano dal sacro; quindi lontano dalla salvezza di Dio.
La storia risulta così divisa in due blocchi, che si fronteggiano e si escludono a vicenda. Da una parte c’è il mondo della salvezza; dall’altra quello del peccato. Il mondo del peccato è il nostro mondo quotidiano. Il mondo della salvezza è quello che Dio attua attraverso interventi progressivi: i sacramenti, i luoghi e i tempi sacri.
L’uomo spirituale fa una scelta coraggiosa. Abbandona il mondo profano che lo disturba nella sua esistenza spirituale e lo tiene lontano dalla salvezza, e accede progressivamente al sacro. Riscatta così il profano, immergendosi nel sacro.
I cristiani migliori sono quelli che hanno il coraggio delle decisioni coerenti fino alla radicalità. Se la vita è la continua lotta tra sacro e profano, i più impegnati fuggono quasi totalmente il profano e consegnano la loro esistenza al sacro.
I monaci compiono questo salto di qualità in forma istituzionale.
Si separano fisicamente dal mondo profano. Abitano in un luogo diverso da quello degli altri uomini. Hanno ritmi di vita e occupazioni originali. Essi sono i veri cristiani.
Il loro modo di vivere, di esprimersi, di operare rappresenta la spiritualità cristiana nella sua forma più realizzata.
Purtroppo, molti cristiani non possono permettersi il salto di qualità che distingue i monaci. Sono costretti a fare quotidianamente i conti con il profano. La loro casa è vicina a quella degli altri uomini. Hanno impegni e responsabilità comuni a tutti.
Se non possono fuggire fisicamente dal mondo profano, devono almeno tentare l’operazione affettiva. Possono fare spiritualmente quello che non riescono a realizzare fisicamente.
La spiritualità diventa così un invito alla «fuga dal mondo». Per non pronunciare valutazioni troppo frettolose, è importante comprendere bene la logica sottostante a questo orientamento pratico. La «fuga dal mondo» non è la qualità della spiritualità cristiana; è solo la sua condizione, espressa in negativo. La qualità è invece la ricerca appassionata di Dio, il desiderio di «salire» a lui.
L’uomo è assetato di Dio: è stato costruito così dal suo creatore.
Questo desiderio d’infinito costituisce l’uomo stesso nella sua struttura più intima: rappresenta la sua origine e la sua destinazione. In questo ritorno a casa, il mondo, le cose, la struttura stessa dell’uomo fanno da ostacolo. Sono una pallida ombra di Dio, che spesso distrae e allontana da quello che più conta, nella sua fragile vanità.
1.2.2. Il cambio radicale di prospettiva: la logica dell’Incarnazione
La riscoperta conciliare dell’evento dell’Incarnazione ha aiutato i cristiani a superare la distinzione rigida tra mondo di Dio e mondo dell’uomo. Ha restituito all’uomo la consapevolezza di una solidarietà insperata con il suo Dio.
È vero che il mondo di Dio e quello dell’uomo sembrano lontani e incomunicabili. Questa però non è l’ultima parola. La parola decisiva è invece Gesù di Nazaret. In lui, nella verità più piena e definitiva, Dio e l’uomo sono diventati ormai radicalmente «vicini». Sono così intimamente vicini da essere in Gesù una realtà personale, unica e irrepetibile.
Il padre del ragazzo fuggito di casa per ubriacarsi di libertà, ha atteso con ansia il ritorno del figlio. L’ha atteso sulla soglia della sua casa. L’ha accolto in un lungo abbraccio, appena ha bussato alla porta. Il Dio di Gesù ha fatto di più: ha abbandonato gli splendori della sua gloria per mettersi alla trepida ricerca dell’uomo. Si è fatto suo compagno di cammino, lungo le strade tortuose del suo mondo e della sua storia, per aiutarlo a tornare a casa.
L’Incarnazione ha capovolto quindi le prospettive: la discesa di Dio nella casa dell’uomo precede e fonda ogni suo desiderio di risalire verso Dio.
1.2.3. La «vita quotidiana» come grande mediazione
A chi comprende la realtà in questo modo, viene spontaneo chiedersi quale sia in concreto questa mediazione, che rende Dio vicino e presente?
La mediazione fondamentale è Gesù di Nazaret, nella grazia della sua umanità. È infatti Gesù di Nazaret, quell’uomo che ha un tempo e una storia, una casa, degli amici e dei nemici, l’evento dove Dio si è fatto volto e parola e dove l’umanità è stata trascinata alle sue capacità espressive più impensabili, fino a risultare parola e volto del Dio ineffabile.
La mediazione è quindi l’umanità dell’uomo. In modo sovrano e inimitabile lo diciamo per Gesù di Nazaret. In lui e nella distanza di realizzazione che ci separa da lui, lo diciamo, con gioia trepidante, di ogni uomo, di ciascuno di noi.
L’umanità dell’uomo non è un insieme di eventi fisici, aggregati più o meno casualmente, né è solo una catena di reazioni chimiche. Non è neppure un intreccio confuso di azioni, distese nel tempo senza reciproco collegamento. Se così fosse, la «mediazione» non potrebbe essere considerata come dono da riconoscere e da accogliere nella responsabilità. Si tratterebbe di qualcosa da considerare come estraneo rispetto alla libertà e responsabilità personale dell’uomo. Risulterebbe solo un dato fisiologico, prezioso finché si vuole, ma che sfugge alla responsabilità creativa dell’uomo, come il nascere e il morire. Questa mediazione è invece una trama di esperienze, profondamente e reciprocamente collegate, di cui possiamo affermare la irrinunciabile paternità personale. È la «vita quotidiana»: l’insieme delle esperienze che l’uomo produce, entrando in relazione con gli altri, nella storia di tutti.
Distesa a frammenti nel tempo, la vita quotidiana è un evento unico e articolato: una trama, tessuta giorno dopo giorno, in cui diciamo chi siamo e come ci sogniamo.
La vita, nella sua quotidianità, è la piccola nostra mediazione, che ci immerge nella grande mediazione di Gesù. Questa vita è il luogo dove Dio si fa presente ad ogni uomo, di una presenza tanto intima e profonda da essere più presente a me di me stesso.
Nella nostra vita quotidiana viviamo nello Spirito. Siamo uomini spirituali se sappiamo riconoscere questa presenza e l’accogliamo nella responsabilità.
1.3. La sequela di Gesù come passione per la sua causa
11 cristiano che contempla stupito le cose meravigliose che Dio ha compiuto per lui in Gesù Cristo, si chiede, con crescente passione: quale risposta può esprimere adeguatamente il suo profondo desiderio di Dio e la sua gratitudine nel vedersi tanto incredibilmente amato?
La spiritualità tradizionale indica, a chiari segni, l’esigenza di «corrispondere» a tanto amore, attraverso una vita vissuta come espressione di amore. Questa risposta si intreccia generalmente su tre elementi: un modello teologico di esistenza cristiana, l’impegno etico per «meritare» rincontro con Dio, la mistica contemplativa.
Una meditazione più attenta delle fonti della nostra esperienza cristiana propone invece un movimento personale che sta prima degli elementi ricordati, li fonda e, in parte almeno, li ridimensiona. La risposta dell’uomo a Dio non può percorrere il sentiero presuntuoso di un patto bilaterale, come se all’amore di Dio, davvero incredibile, potessimo dar riscontro aumentando la qualità del nostro impegno.
La risposta dell’uomo è la fede, accogliente e obbediente: l’accoglienza dell’amore di Dio come fondazione della propria esistenza e l’obbedienza nella propria vita alla «ragione» di questo amore.
1.3.1. Vivere in questo mondo come gente di un altro mondo
La fede nel Dio dell’avvento esige il coraggio di uscire completamente da sé per andare verso lui: un esodo, senza pentimenti e senza ritorni, che è, nello stesso tempo, accoglienza di un invito che viene dall’oscurità e dal silenzio, e assenso alle parole della Sua verità. Tutto questo però senza fuggire dall’esistenza quotidiana, senza rinunciare alla fatica di sperimentare, produrre e ricercare, in compagnia con tutti, il senso che essa si porta dentro.
La fede non si interessa infatti di alcuni temi e problemi tutti suoi, che si aggiungono a quelli che già pervadono resistenza quotidiana. E non è certamente solo l’adesione intellettuale ad alcune informazioni. Oggetto della fede è invece l’esistenza concreta e quotidiana, la storia profana, che è storia e avventura di tutti e luogo dove si affaccia l’avventura salvifica dell’amore di Dio.
Vive di fede colui che legge l’esistenza quotidiana dalla prospettiva del mistero che essa si porta dentro. Questo mistero è collocato oltre la nostra scienza e sapienza. Non lo vediamo e non possiamo manipolarlo. Lo possiamo solo invocare e sperare. Eppure lo possediamo già, tanto intensamente da riuscire ad utilizzarlo come chiave di interpretazione e di decisione delle vicende in cui ci sentiamo protagonisti e responsabili. Leggendo la realtà con uno sguardo che giunge fino al mistero, il cristiano accoglie l’amore di Dio come fondamento della propria esistenza.
In ogni gesto della sua vita si ritrova di fronte ad una alternativa drammatica: comprendere le cose solo alla luce di quello che riesce a decifrare, nell’esercizio sapiente della sua ricerca; oppure riconoscere che la loro verità è più profonda e più intima, le pervade tutte dal mistero di una presenza che confessa in un gioco appassionato di fantasia, di rischio calcolato, di esperienza di amore.
Di fronte all’alternativa tra consegnare a Dio la ricerca della propria sicurezza o assumersene personalmente il carico, nella fede il cristiano sceglie di affidarsi totalmente a Dio, anche quando nutre il sospetto doloroso che ad attenderlo, invece di braccia accoglienti, ci siano soltanto nude rocce.
Vivere nella fede non è quindi accettare qualcosa, ma accettare Qualcuno, rinunciare ad abitare noi stessi in un geloso possesso, per lasciarsi abitare da Dio.
1.3.2. Per la causa di Gesù: il Regno di Dio
L’incontro con Dio non è prima di tutto un rapporto affettivo; e neppure è solo la consegna totale di sé a lui. È soprattutto la condivisione di una causa. La fede si fa obbedienza al progetto di Dio, manifestato nella vita di Gesù.
Di questo progetto Gesù ha parlato con toni diversi.
L’evangelo riporta spesso la formula originale di «Regno di Dio». Il Regno di Dio è la causa di Gesù. L’incontro con Dio è misurato quindi sulla condivisione appassionata del Regno di Dio.
Questa è la prospettiva nuova e originale su cui si esprime la qualità dell’esistenza cristiana e, di conseguenza, della spiritualità. Vivere nella sequela è prima di tutto condividere appassionatamente la causa di Gesù. Un notevole impegno di ricostruzione investe la spiritualità cristiana, per affrancarla da troppe sedimentazioni devozionistiche che hanno progressivamente sfuocato la sua dimensione centrale.
Cosa sia «Regno di Dio» ce lo dice Gesù stesso. Quando i discepoli di Giovanni gli hanno chiesto le credenziali, per rassicurare la fede del loro maestro, condannato a morte dalla tracotante malvagità di Erode, Gesù risponde senza mezzi termini: «Andate a raccontare quel che udite e vedete: i ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono risanati, i sordi odono, i morti risorgono e la salvezza viene annunciata ai poveri. Beato chi non perderà la fede in me» (Mt 11,2-6). Per parlare di sé Gesù parla della sua causa e dei fatti che sta compiendo per realizzarla. Ed è un impegno tutto sbilanciato dalla parte della promozione della vita. Qui dentro nasce una autentica esperienza di fede: «beato chi non perderà la fede in me», ricorda Gesù. Regno di Dio è riconoscimento della sovranità di Dio su ogni uomo e su tutta la storia, fino a confessare che solo in Dio è possibile possedere vita e felicità. Questo Dio, però, di cui proclamiamo la signoria assoluta, è tutto per l’uomo. Egli vuole un futuro significativo per l’uomo. Fa della vita e della felicità dell’uomo la sua «gloria».
L’uomo lo riconosce Signore quando si impegna a promuovere la vita e la speranza: in questo egli assicura la «gloria» del suo Dio. Consapevole che i suoi problemi sono il «problema» di Dio stesso, il credente consegna a lui la sua fame di vita e di speranza. Questo è il Regno di Dio.
La conclusione è immediata e concretissima: condividere la sua passione, per rispondere alla chiamata di Dio, connota la promozione della vita e il consolidamento della speranza per ogni uomo, nel nome e per la «gloria» di Dio.
2. Una spiritualità della gioia di vivere
La spiritualità cristiana, compresa così, non produce una rottura pregiudiziale tra l’essere nella storia quotidiana e la sequela di Gesù. Al contrario, quando la scriviamo in un confronto disponibile con i modelli culturali e le esigenze più mature di questo nostro tempo, possiamo persino progettare una spiritualità dell’amore alla vita, come alternativa, corretta e matura, alla spiritualità della fuga dal mondo.
Molti cristiani sono giunti oggi a questa conclusione, aprendo una svolta epocale nella storia della spiritualità cristiana.
Lo so che ci sono obiezioni serie contro questa prospettiva. Non mette in crisi il ricordo dei grandi santi che hanno vissuto una spiritualità fortemente centrata sulla rinuncia e sul sacrificio, in una «vita dura» programmata e ricercata con cura puntigliosa. La loro provocazione risulta superabile in un’attenta procedura a carattere ermeneutico.
La contestazione viene proprio da quella passione per il Regno di Dio su cui il cristiano verifica la personale risposta a Dio che in Gesù Cristo chiama a vivere da figli suoi, e lo stile di una esistenza nello Spirito.
Il Regno è dono che ci costituisce nella novità di vita: da accogliere e da celebrare. La festa inesauribile del cristiano è il riconoscimento della signoria di Dio sull’esistente.
Esso è, nello stesso tempo, costruzione lenta e progressiva, consegnata alla dura fatica dell’uomo, nella conversione personale e nell’impegno di trasformazione sociale. Richiede la disponibilità a «perdere» la propria vita, perché la vita sia piena e abbondante in tutti. Nel centro dell’esistenza cristiana sta perciò la croce di Gesù. La croce è per la vita e la felicità dell’uomo; lo è però come morte, ricercata e accolta, perché «il chicco di frumento ha la vita solo quando la perde totalmente» (Gv 12,23).
Possiamo ricercare una spiritualità della gioia di vivere o dobbiamo progettare una frettolosa inversione di tendenza?
I cristiani hanno spesso trattato male la croce di Gesù, accumulando su di essa abusi antropologici e teologici... ma anche questo nostro tempo sta tradendo ampiamente le esigenze della vita. È urgente ricomprendere a fondo cosa è «vita» e cosa è «croce», in un confronto reciproco.
2.1. La croce è una scommessa riuscita sulla vita
Gesù di Nazaret è la scommessa di Dio sulla vita, il segno sconvolgente della sua passione. La sua croce non può esprimere la sconfessione del suo progetto. L’evento centrale dell’esistenza di Gesù è sicuramente il gesto più grande (anche se un po’ misterioso, come sono tutti i gesti grandi) di amore alla vita. Gesù non muore sulla croce per denigrare l’amore alla vita, come purtroppo un certo modello di spiritualità tentava di far credere. Gesù muore per testimoniare la serietà con la quale va vissuta, la radicalità con cui va assunto l’impegno di promuovere e di rispettare la vita di ogni uomo.
La croce di Gesù è la testimonianza dell’amore alla vita trascinato fino alle estreme conseguenze.
Basta rileggere la parabola dei vigniaiuoli ribelli. Gesù stesso l’ha raccontata per dare le sue credenziali (Lc 20,9-19).
Il padrone della vigna, quando costata che gli hanno malmenato servi e soldati, «scommette» che le cose cambieranno perché «manda suo figlio».
Nel figlio, consegnato inesorabilmente alla morte, il padrone della vigna scommette per la vita contro la morte, perché dichiara la vittoria sicura della vita sulla morte. Lotta per la vita perché è certo della sua vittoria, nella vita data per amore fino alla morte.
2.2. Amore alla vita come «possesso» della vita
La croce di Gesù rivela all’uomo la verità della vita perché gli manifesta il progetto di Dio sulla vita.
L’amore alla vita è un fatto spontaneo e naturale, quasi biologico. Può indicare correttamente la qualità dell’esistenza cristiana solo quando si esprime in un esigente e maturo «possesso» della vita.
Il possesso della vita richiede un movimento personale di riappropriazione riflessa, libera e responsabile. In esso entrano in gioco soprattutto gli atteggiamenti, motivati e consapevoli, del soggetto, e le intenzioni che generano i suoi bisogni e i suoi desideri.
2.2.1. Possiede la vita chi la fonda in un evento donato
L’uomo che vuole possedere la propria vita è posto di fronte ad una alternativa radicale. Può farsi volontà di sé stesso, impennandosi in una volontà di potenza, di autoaffermazione, in una pretesa di autosufficienza. Oppure può scoprire che la ragione decisiva della propria esistenza e il fondamento della propria felicità è in un oltre da invocare e da accogliere.
Questa è l’esperienza che si apre ogni giorno sulla nostra appassionata ricerca di senso: il grido presuntuoso della conquista o le mani alzate nell’invocazione e nell’accoglienza. Gesù ci ha raccontato, in una storia concreta, questo modo differente di essere uomini. «Una volta c’erano due uomini: uno era fariseo e l’altro era esattore delle tasse. Un giorno salirono al tempio per pregare. Il fariseo se ne stava in piedi e pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché io non sono come gli altri uomini: ladri, imbroglioni, adulteri, lo sono diverso anche da quell’esattore delle tasse. lo digiuno due volte alla settimana e offro al tempio la decima parte di quello che guadagno”.
L’agente delle tasse invece si fermò indietro e non voleva neppure alzare lo sguardo al cielo. Anzi si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me: sono un povero peccatore!”.
Vi assicuro che l’esattore delle tasse tornò a casa perdonato; l’altro invece no. Perché chi si esalta sarà abbassato; chi invece si abbassa sarà innalzato» (Lc 18,9-14).
Il fariseo e l’esattore delle tasse esprimono due esperienze molto diverse in cui realizzare il possesso della vita.
Il fariseo batte la strada dell’impegno, duro e presuntuoso. Vuole poter guardare Dio negli occhi, quasi alla pari. E gioca la sua esistenza in questo sforzo disperato. È convinto finalmente di esserci riuscito. La sua preghiera è un inno alla potenza della sua buona volontà. Prega per dire a sé e a Dio che non ha ormai più nessun bisogno di pregare. Grida con arroganza la sua autosufficienza.
Il pubblicano, invece, si trova a fare i conti ancora con il limite che segna la sua vita. Come molti di noi, sa di procedere ira entusiasmi e incertezze, in un progetto sognato e mai realizzato. Si scopre capace di perseguire una qualità diversa di vita, anche se costata di restare ancora prigioniero di molti tradimenti.
Questo condizionamento attraversa inesorabilmente ogni esistenza. Esso è come il limite costitutivo dell’uomo, l’esito invalicabile della vita stessa. Il pubblicano vive, in modo riflesso e consapevole, l’esperienza della sua finitudine.
Dal profondo della sua verità, sofferta e scoperta, alza al Signore il grido della sua vita. Riconosce di poterlo pregare non perché ha raggiunto la perfezione, ma perché ne ha un desiderio sconfinato.
Il suo sogno è tanto coraggioso che lo inchioda impietosamente alla sua debolezza e al suo tradimento. Si consegna così a Dio, certo di poter vivere in lui, se diventa capace di confessarlo il Signore della sua vita. Verso il suo Dio alza le braccia, per lasciarsi afferrare da lui.
Riconsegna così a Dio la quotidiana ricerca di fondamento e lo riscopre come la ragione decisiva della propria vita in un profondo atteggiamento di creaturalità.
La finitudine porta l’amore alla vita oltre il confine angusto della propria storia, verso l’accoglienza di un dono insperato e profondamente sognato. Così la vita è finalmente e pienamente «posseduta».
2.2.2. Possiede la vita chi la sa «perdere»
In questo movimento ritorna il significato decisivo della croce. Non ci rivela solamente la passione vittoriosa di Dio per la vita. Ci rivela che possiede la propria vita solo chi la sa perdere nel mistero di Dio, accettando di consegnare a lui il nostro insaziato desiderio di vita e di felicità.
Di lui possiamo fidarci incondizionatamente: il nostro è un Dio fedele. Ma è un Dio imprevedibile e misterioso. Non possiamo presumere di rinchiuderlo dentro i nostri modelli, né di catturarlo negli schemi delle nostre logiche. Non possiamo spiegargli di quale vita abbiamo desiderio; né gli possiamo raccomandare i tempi della nostra felicità. Confrontato con la sua fame di vita e di felicità, l’uomo si ritrova, povero e fiducioso, nelle mani di Dio.
Vita e felicità sono tanto dono di Dio che ci raggiungono nelle condizioni più disperate, quando sembra che ormai non ci sia più nulla da fare.
Questa impotenza è la nostra quotidiana croce. La croce che ha portato Gesù, in una solidarietà totale con la debolezza dell’uomo. La croce che tanti nostri fratelli sono costretti a trascinare, perché ad altri uomini torna più comodo che le cose procedano così, nell’oppressione, nello sfruttamento, nell’emarginazione, nella feroce privazione di ogni possibilità di vivere e di sperare. In tutte queste croci, in modo sovrano, Dio ci restituisce vita e felicità.
Nella rivelazione della forza della croce in ordine alla vita, Dio manifesta l’uomo a sé stesso. Gli rivela anche il senso profondo di quegli eventi, di cui la croce è il caso estremo, pieni di tanto sapore di assurdità che qualcuno ha persino tentato di utilizzare la croce di Gesù per far accedere all’umano ciò che tutti gli uomini vivono spontaneamente come disumano.
2.3. I segni del futuro dentro il duro ritmo del quotidiano
Ogni giorno, siamo assaliti dalla voglia di unirci al canto degli esuli in terra di Babilonia: «Come cantare i canti del Signore in terra straniera?» (Sal 136).
Per resistere a questa tentazione, abbiamo bisogno di «segni». Solo facendo esperienza, nel segno, che la terra straniera è la nostra terra, riusciamo a cantare i canti del Signore in questa nostra terra, proprio mentre sogniamo, cantando, la casa del Padre.
La festa è la «cifra», il segno più espressivo di una spiritualità della gioia di vivere. La mettiamo al centro, come manifestazione autentica e credente dell’amore alla vita. Nella festa il cristiano non sfugge il presente e neppure lo dimentica per qualche momento. Riempie invece il presente di uno stile diverso di vita per viverci meglio, con più libertà e con maggiore responsabilità. Condivide con tutti il ritmo duro del presente; scopre i segni del futuro tra le pieghe opache del tempo della dura necessità. Per questo crede alla speranza: sogna un presente diverso e si impegna a realizzarlo.
Non ha bisogno di ricercare e di programmare momenti di vita dura: ogni presente ne è già fin troppo pieno.
Non li sfugge però; e neppure li teme. Non vive il tempo della festa e quello del dolore come la scansione inesorabile di un tempo che fluisce con continui ritorni. Vive la festa anche nella vita dura, perché solo così può riempire questi momenti tristi della speranza che viene dal futuro. E vive la lotta, la fatica, la sofferenza anche nel tempo della festa, perché sa che solo a casa la sua festa sarà piena. Anche nel centro della festa, la «vita dura» segna il cristiano che vuole lottare con Gesù per il Regno di Dio.
Ci sono sacche di resistenza, dentro e fuori di noi, da controllare e da sconfiggere. E questo richiede il coraggio della morte.
Solo chi trascina il suo amore alla vita fino alla croce, può costruire veramente vita piena e completa, per sé e per gli altri.
Gesù davvero insegna.
1 momenti tristi che attraversano la nostra vita (dolore, sofferenza, abbandono, malattia, fallimento, morte...) sono il segno — che brucia ogni giorno sulla nostra esperienza — che la strada verso la pienezza di vita è ancora lunga e la meta è ancora lontana. E sono, nello stesso tempo, come frecce che indicano lo stato provvisorio della nostra esistenza. Ci riportano inesorabilmente al contatto con la nostra finitudine.
Soffriamo e moriamo perché siamo gente non ancora arrivata a casa. Ci pensa la vita stessa a ricordarcelo, quando ammaliati dalla casa che abbiamo costruito con le nostre mani, ci dimentichiamo che è solo una tenda, perché la nostra vera casa è più avanti, nell’oltre radioso della casa del Padre. Qualche volta ce lo ricorda impietosamente resistenza stessa.
Qualche volta decidiamo noi stessi di farne esperienza. E così ci stacchiamo un po’ dalle cose belle che riempiono la nostra esistenza. Non lo facciamo per disprezzo e neppure per quella strana concezione di «mortificazione», che vorrebbe anticipare nel gioco quell’evento triste della cui verità abbiamo una paura terribile. Lo facciamo per scelta motivata e riflessa: la serietà e la consistenza dei «beni penultimi» non può farci dimenticare la loro provvisorietà e relatività rispetto a quelli definitivi.
Smettiamo, per qualche momento, di goderli, per riconoscerci pellegrini in cammino verso esperienze più grandi.
La vera «mortificazione» del cristiano è la capacità di entrare dentro le cose, in una continua ascesi del profondo, per cogliere la loro dimensione di verità. Una spiritualità della gioia di vivere ha bisogno di veri «monaci delle cose»: gente capace di traforare il quotidiano, superando il suo fascino e la sua opacità. Spesso ci impegniamo a lunghi e faticosi esercizi al rallentatore, per diventare veramente capaci di una piena «contemplazione del quotidiano».
L’atto supremo della «vita dura» del cristiano è determinato dalla capacità di perdonare, fino a costruire riconciliazione dove prima c’era lotta e divisione. Il perdono non è il gesto sciocco di chi chiude gli occhi di fronte al male per il timore di restarne troppo coinvolto o quello pericoloso di chi giustifica tutto, per rimandare la resa dei conti ai tempi che verranno. Il perdono del cristiano è invece un gesto di profonda lucidità, consapevole che chi fa il male è meno uomo di chi lo subisce: un gesto che vuole spezzare l’incantesimo del male, rompendone la logica ferrea. Il cristiano perdona per inchiodare il malvagio al suo peccato, spalancandogli le braccia nell’accoglienza. Il perdono è l’avventura della croce di Gesù: il gesto, lucido e coraggioso, che denuncia il male, lotta per il suo superamento, riconoscendo nella speranza che la croce è vittoria sicura della vita sulla morte.
3. Una festa impegnata per la vita
Festa e croce sono come le due facce di una stessa passione per il Regno di Dio. Il Regno di Dio va costruito con un impegno serio e progressivo: la vita non è ancora esplosa in tutta la sua pienezza e non è ancora vita in tutti e per tutti. Questa fatica è vissuta però nella certezza che il Regno è già in mezzo a noi, come un piccolo seme che cresce in un albero grande.
La festa è per il cristiano la confessione della potenza di Dio che opera in Gesù Cristo nella storia personale e collettiva.
Possiamo testimoniare che Dio ha fatto già nuove tutte le cose, in Gesù consegnato alla croce perché la vita trionfi, solo se riconosciamo i segni di questa immensa novità, anche nel groviglio dei segni di morte e se ci impegniamo, nella dura fatica della lotta, a far nascere vita dove regna ancora la morte. Per dire questo in modo concreto, immagino tre situazioni diverse. Sulla loro risonanza è possibile prevedere differenti modelli di intervento. Nei primi due, il cristiano esprime il suo impegno in piena compagnia con tutti gli uomini che credono alla vita. Nel terzo, si ritrova inesorabilmente un solitario, nella solitudine della croce del suo Signore. Ciascun livello richiede un modo diverso di coniugare croce e festa, impegno duro e capacità di sognare.
3.1. Quando le responsabililà sono chiare e precise
Esistono situazioni di male e di morte che dipendono chiaramente dalla malvagità degli uomini e dalla violenza esercitata dalle strutture che essi hanno costruito. Non riusciamo però ad essere giudici imparziali, perché sappiamo di essere immersi in una solidarietà così profonda che quando chiamiamo per nome i responsabili di questi tradimenti, siamo sempre costretti a pronunciare, almeno sottovoce, anche il nostro nome.
In questi casi, stare dalla parte della vita significa conversione e lotta. Per affermare la vita contro la morte, dobbiamo coraggiosamente lottare contro tutti quelli che fanno della morte la loro bandiera. Dobbiamo però assicurare una continua «conversione», personale e collettiva. Solo uomini fatti nuovi, in una trasformazione radicale, possono nella verità impegnarsi per la vittoria della vita. Lotta e conversione si esprimono in una vicinanza amorevole e appassionata con chi soffre ed è oppresso. In questo gesto di inesauribile libertà, il cristiano testimonia che ogni uomo è capace di giocare tutto di sé per la sua vita, se è restituito alla gioia di vivere e al coraggio di sperare.
3.2. Quando ti vuole il coraggio di progettare l’inedito
Ci sono poi delle situazioni di male e di morte in cui riesce difficile identificare le responsabilità o appare complicato programmare gli interventi necessari. Mille segnali inducano a cogliere innegabili responsabilità. Gesti e voci coraggiose fanno intravedere vie di uscita. Resta però l’impressione di ritrovarsi come in un labirinto intricato. Le responsabilità sfumano come nebbie al sole e gli interventi sono sempre rimandati, per ragioni superiori. In questi casi stare dalla parte della vita richiede al cristiano il coraggio delle previsioni a lungo termine e la tenacia che sollecita alle inversioni di rotta. La prassi di liberazione diventa impegno politico e culturale, come indispensabile condizione per permettere al bene di esprimersi pienamente e alla vita di vincere progressivamente sulla morte.
A questo livello, l’impegno per la vita risulta come una scommessa impegnata: affonda sulla serietà e competenza dell’impegno, ma procede sul rischio che le cose possono cambiare, se tutti ci mettiamo a cercare alternative.
La festa, che è capacità di sognare, spinge a cercare il nuovo e l’inedito come alternativa praticabile e convincente rispetto alle dure «regole del gioco», nelle cui maglie restano sempre prigionieri i più deboli e i più poveri.
3.3. La festa della vita contro il regno della morte
Esistono situazioni di male e di morte le cui responsabilità non dipendono da nessuna cattiva volontà. Sono il limite invalicabile della nostra esistenza: siamo consegnati inesorabilmente a questa morte proprio perché siamo immersi nella vita.
In questo caso, di fronte al male che appare ineliminabile dalla esistenza delle singole persone, il cristiano testimonia nella sua speranza un progetto di salvezza che è vita, perché è libertà di portare questo male, senza esserne schiacciati, in piena solidarietà con la croce di Gesù. Come Gesù, abbandonato dagli amici nella solitudine dell’orto degli ulivi, oppresso dalle feroci prospettive che si addensano sul suo capo, soffre la disperazione del limite invalicabile in cui è prigioniera la sua esistenza. Ma guarda avanti, verso la luce senza tramonto.
Nel piccolo, l’ha già superato tante volte questo confine. Gode della compagnia di amici che hanno già vinto la morte: il Crocifisso risorto, Maria, i grandi martiri della fede, dell’amore all’uomo, della libertà.
Con loro, nella speranza, il cristiano «convive» con la morte e con la sofferenza, nell’attesa dell’appuntamento con il Regno, nei cieli nuovi e nella nuova terra, in cui ogni lacrima sarà finalmente e definitivamente asciugata.
A questo livello l’impegno del cristiano è solo la festa: la piccola festa della libertà e della vita che anticipa la grande festa della casa del Padre. La festa è lo straordinario evangelo della vittoria definitiva della vita sulla morte, anche quando ci sentiamo immersi nel greve sapore della morte quotidiana.
4. Il cristiano spera in Dio e ama la terra
Non siamo cristiani solo perché ci impegnarne in una prassi promozionale e liberatrice e neppure perché raccontiamo la storia di Gesù per la vita degli uomini.
Siamo cristiani davvero «solo se ci decidiamo ad adorare Dio nella sua assolutezza; solo se cerchiamo di amarlo con un ardire in apparenza del tutto sproporzionato alle nostre forze; se ammutoliti, capitoliamo di fronte alla sua incomprensibilità e accettiamo tale capitolazione della conoscenza e della vita come l’evento della massima libertà e della salvezza eterna» (K. Rahner).
Riconosciamo Dio radicalmente diverso da tutte le altre realtà che fanno la nostra terra. Non è uno dei tanti nostri interlocutori. E neppure è quell’ultima risorsa che serve a pareggiare i bilanci in situazione di crisi. Solo lui è la realtà vera. Di fronte a lui diventa irreale tutto quello che consideriamo come realtà salda e consistente.
Egli è il grande «sogno di futuro», mistero incomprensibile e sempre presente, che tutto sorregge e orienta, proprio mentre tutto relativizza.
Ci dà la parola. E ci sprofonda nel silenzio, dove le parole non bastano più.
Veniamo da una radice che non abbiamo seminato; pellegriniamo lungo una strada che sfocia nell’incomprensibile libertà di Dio; siamo protesi tra cielo e terra e non abbiamo né il diritto né la possibilità dì rinunciare a nessuno dei due dati. Non sappiamo neppure, in modo assolutamente certo, come la nostra libertà stia concretamente orientandosi nel gioco della nostra esistenza.
L’esistenza del cristiano è perciò un salto nell’abisso sconfinato di Dio. La sua speranza risulta praticabile e sensata solo mediante quel fondamento che non possiamo comprendere né manipolare.
Per questo, il cristiano vive il suo smarrimento quotidiano come un passo obbligato per avvicinarsi al santo mistero di Dio. Cammina verso la solitudine inesorabile della morte, confessando, con speranza trepidante, la certezza di poter affrontare questo mistero di solitudine nell’abbraccio di Dio. Quando si abbandona al suo Dio, il cristiano non si getta mai alle spalle la vita di tutti i giorni. Supera la sua vita per consegnarsi al mistero che la sovrasta; e la prende continuamente con sé nel movimento della sua speranza.
Spera in Dio e ama la sua terra. Appassionato della vita, la vuole piena e abbondante per tutti.
È impegnato in prima linea nel compito, duro ed esaltante, di dare un senso alle vicende della storia quotidiana, per renderla dimora, accogliente e abitabile, per tutti gli uomini. Ha però una grande, insaziabile nostalgia di casa. Gli cresce dentro, tutte le volte che riesce ad anticipare «come in uno specchio» quell’incontro «a faccia a faccia» con Dio, la ragione decisiva della sua esistenza.
La nostalgia dell’incontro con Dio spinge a ricercare momenti di contemplazione gratuita. Costringe a dare un posto rilevante nella vita ai segni che esprimono, in modo più evocativo, questa sconvolgente «presenza». Il cristiano vive nell’oggi, tutto proteso verso Poltre della casa del Padre, in nome di quell’appuntamento con il Regno, unico approdo di perfezione piena e definitiva, quando l’incontro con Dio in Gesù Cristo per lo Spirito, superati i veli della sacramentalità, esploderà in tutta la sua luminosità.
Bibliografia
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