SPIRITO

 

SPIRITO

È un termine dai molti significati. Ne può essere conferma perfino il vocabolario della lingua italiana dello Zingarelli. Alla voce s. vi troviamo tra l’altro: «principio immateriale attivo, spesso considerato immortale o di origine divina, che si manifesta come vita e coscienza», «anima, principio di vita individuale», «manifestazione ed essenza della divinità», «essenza personificata», «vivacità d’ingegno, intelligenza briosa». Ne derivano alcuni precisi modi di espressione: avere molto s., nutrire lo s., credere negli s.

1. Lungo la storia del pensiero filosofico-religioso ci sono stati diversi ambiti e modi di intendere il vocabolo s. A partire dalla filosofia greco-latina, esso si trova in tutte le epoche della storia della filosofia. È pure presente nella filosofia orientale. Il suo significato sarebbe da ricercare attraverso il greco​​ nous,​​ il latino​​ mens​​ o​​ ingenium​​ nonché​​ spiritus.​​ Per i filosofi, il termine s. ha un significato particolare quando indica la vita dell’intelligenza e della volontà dell’uomo (= lo s. dell’uomo). Lo s., quindi, è una realtà che si coglie prima di tutto sul piano antropologico e fa pensare all’interiorità dell’uomo. Lo s. dice la capacità di riflessione su se stesso e di​​ ​​ libertà, nonché la capacità di apertura all’assoluto. Grazie allo s., l’uomo può agire come soggetto.​​ 

2. Questa è la ragione per cui lo s. è anche una realtà teologica. Pur limitandosi al suo significato religioso-spirituale, il termine conosce diversi usi: «uomo spirituale» in opposizione all’uomo carnale, «lo s. del mondo» e «lo S. di Dio», «mondo spirituale», «autori spirituali», «potere spirituale della chiesa» in opposizione al potere temporale dello Stato, ecc. Nella Bibbia, la realtà designata con il nome di s. è molto complessa. È a partire dall’AT che essa risulta una realtà concreta, come per es. alito, soffio, vento o, come nel Salmo 104,29-30, l’alito vivificante che Dio infonde negli esseri viventi, oppure il principio di una vita morale qualitativamente migliore, come in Ezechiele 36,26: «porrò il mio s. dentro di voi».​​ Nel NT, il vocabolo s., oltre ad essere frequente acquista un carattere sempre più forte. Da una parte risulta elemento della struttura trascendentale dell’uomo che lo rende​​ capax Dei​​ e dall’altra è il dono che Dio dà perché l’uomo progredisca sul piano spirituale. È interessante, a questo riguardo, il linguaggio di s. Paolo. Nella 1 Ts 5,23, per es., troviamo un’elencazione di «s.,​​ anima e corpo»​​ che non intende indicare parti costitutive dell’uomo. Lo s., in questo contesto, non è una terza componente accanto al corpo e all’anima, ma è un principio di qualificazione. Esso si esprime e si manifesta attraverso la psiche ed il corpo, qualificandoli a misura del loro progressivo dominio. Lo scopo del cammino ascetico, infatti, è quello di rendere il corpo e l’anima trasparenti e sottomessi allo spirituale. S. Paolo mette in costante dialettica lo s. e la carne. La carne indica ogni attività umana, puramente naturale, che si limita ai beni della vita terrena; lo s., invece, indica ogni attività umana che si dedica ai beni della vita futura. È così che l’Apostolo arriva a poter parlare dell’uomo spirituale (pneumatikós)​​ e distinguendo tra l’uomo naturale e quello spirituale, egli indica in quest’ultimo la presenza dello S. di Dio.

3. Dato questo fondamento biblico, la teologia parla dell’inabitazione dello S. santo in tutti gli uomini che possiedono la grazia e la carità, dei doni dello S. santo, delle mozioni dello S. santo. Lo S. santo unisce l’uomo a Cristo e in Cristo lo unisce al Padre. Si tratta di una relazione dinamica che coinvolge tutto l’essere dell’uomo. «L’uomo naturale però non comprende le cose dello S. di Dio; esse sono follia per lui,​​ e non è capace di intenderle,​​ perché se ne può giudicare solo per mezzo dello S.»​​ (1 Cor 2, 14). L’esperienza spirituale cristiana significa, in questo caso, entrare sempre più profondamente nel mistero di Dio: «È in te la sorgente della vita,​​ alla tua luce vediamo la luce»​​ (Sal 36,10). Nella teologia si parla perfino dei «sensi spirituali», sottolineando la concretezza della relazione dell’uomo con Dio ma, prima ancora, il coinvolgimento di tutta la persona, sensi compresi, nell’esperienza di Dio.

Bibliografia

Ryle G.,​​ Lo s. come comportamento,​​ Torino, Einaudi, 1955; Ancilli E. et al.,​​ L’uomo nella vita spirituale,​​ Roma, Pontificio Istituto di Spiritualità del Teresianum, 1974;​​ De Carvalho M. J. jr.,​​ La formation de la pensée humaine. La dynamique ontologique de l’esprit. Genèse de la pensée,​​ Neuchâtel, La Baconnière, 1974; Forest A.,​​ Essai sur les formes du lien spirituel,​​ Paris, Beauchesne, 1981; Lazorthes G.,​​ Le Cerveau et l’Esprit,​​ Paris, Flammarion, 1982; Boracco P. L. - B. Secondin (Edd.),​​ L’uomo spirituale,​​ Milano, Istituto Propaganda Libraria, 1986.

J. Struś

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SPIRITO

SPIRITO SANTO

 

SPIRITO SANTO

1.​​ Necessità e difficoltà​​ di un discorso sullo S.S. Non si tratta soltanto del posto e del ruolo dello S.S. dentro la vita trinitaria; il riemergere del problema del “Filioque” nel dibattito ecumenico ha reso attuale anche questa riflessione (che però va trattata nell’ambito della teologia della → Trinità).

Urge piuttosto il problema concreto del fenomeno dei movimenti carismatici e del risveglio dell’attenzione alla dimensione “pneumatologica” di tutta la vita cristiana e di tutta la Chiesa, contro un precedente eccesso di attenzione alle strutture istituzionali. I risvegli “spirituali” sono fenomeno costante; e stanno a indicare che, non solo all’interno della Trinità, ma anche nelle manifestazioni storiche lo S.S. non ha un “volto” definito una volta per tutte, è sempre originale, è sempre imprevedibile, sempre da cercare e scoprire, sempre da verificare; rappresenta per così dire la libertà e la novità di Dio. Il rischio che la Chiesa ha sempre combattuto è di pensare tale “novità” quasi necessariamente in termini di “miracolo” e di “straordinarietà”. Si tenga presente quanto richiama la​​ Eumen gentium​​ al n. 12 dove introduce esplicitamente il tema dei carismi: “Vanno valorizzati soprattutto i carismi ordinari, comuni e di tutti; non si deve riporre troppa fiducia nei carismi straordinari”. Il “discernimento” della presenza e dell’azione dello S. diventa perciò problema centrale.

2.​​ Lo S. è S. di Cristo, e​​ perciò opera anzitutto​​ dentro​​ i canali istituzionali. Per “istituzioni” qui si intende tutto ciò che, derivando da Cristo (e proprio in quanto Gesù storico, e perciò anche in veste di “istitutore”, di “iniziatore”), ha forma fissa e regolare, in tutti i vari settori, per poter rendere disponibile a tutti e per sempre i doni di salvezza; istituzione, quindi, non in termini negativi di fissità e staticità formalistica, ma in termini di stabilità e perennità a servizio di tutti e ciascuno e per la comunione o unità. Ebbene: in questo sensoistituzioni” sono anche la Bibbia (parola ormai fissata e codificata), i dogmi o dottrina autorevolmente promulgata, la liturgia o rito, e perciò anche il magistero dei Pastori; e non solo le strutture della gerarchia nella Chiesa.

La pastorale, e specialmente la C., devono quindi tener conto di ciò che da sempre la teologia e il Magistero hanno considerato il​​ particolare ruolo dello S.​​ all’interno delle “istituzioni” sopra ricordate. Sarebbe grave omissione anche solo non evidenziarlo a sufficienza; ed oggi tutte le Chiese riconoscono che finora siamo stati al di sotto della sufficienza. Quanto alla​​ Bibbia,​​ pertanto, è assolutamente necessario sottolineare il momento “ispirazione”, sia per quanto si riferisce agli autori dei libri sacri, sia per quanto attiene a noi lettori e interpreti; anche se 1’”ispirazione” nei due casi non è qualcosa di univoco. Così pure:​​ Concili​​ e →​​ Magistero​​ hanno particolare valore in quanto fruiscono di una speciale “assistenza” dello S.S. Ma, seguendo la dottrina ricuperata dalla​​ Dei Verbum​​ (n. 5), si dovrebbe soprattutto insistere sull’azione dello S.​​ nell’atto e nel processo di → fede​​ di ciascun credente: già il “credere” è dinamismo soprannaturale, non quindi frutto di sola intelligenza (tanto meno di convincimento maturo per logica di stringente dimostrazione apologetica), né di sola libertà, bensì dono dello S., e cioè del “lumen fidei” che dà occhi adeguati per incontrare la → Rivelazione e cuore disponibile per accoglierla.

La DV pone l’attenzione anche sulla intrinseca insufficienza della stessa fede, in quanto per vivere e svilupparsi essa deve attingere da ulteriori “doni dello S.” (che però sono offerti ad ogni credente): intelletto, scienza, sapienza, ecc.; doni che maturano il cosiddetto “sensus fidei”, ossia la capacità di fare passi nel cammino della fede, sia a livello di penetrazione sapienziale nella verità, sia a livello di verifica concreta nella prassi. Questo dono del “sensus fidei” (come a dire: fede attrezzata di sensi, per introdursi nell’universo della Parola di Dio) è condizione di → maturità e di età adulta del cristiano; proprio per questo, interessa la C. e la pedagogia cristiana; e da ciò si potrà passare poi a valorizzare il “consenso nella fede” per costruire una Chiesa adulta. Si è sempre detto che il ciclo si conclude con la “redditio symboli”; il cristiano resterebbe minorenne se dovesse solo “ricevere”, senza capacità di “dare”.

3.​​ Lo​​ S.​​ però ha un campo più vasto di azione;​​ agisce anche fuori​​ delle “istituzioni”. Si potrebbero schematicamente indicare le seguenti quattro tappe storiche, per qualificare l’attenzione crescente allo S., lasciando da parte la stagione privilegiata dei primi secoli (o dei Padri), quando vivere cristianamente, anche sul fronte dei Pastori, voleva dire vivere “nello S.” e “dello S.”, più che di forme e di strutture separanti. Nel primo millennio il fiorire del monacheSimo ha fatto sottolineare l’importanza dei cristiani che si incamminano su sentieri di perfezione, e cioè degli “spirituali”;​​ introducendo una forte attenzione al discernimento dello S. che lavora dentro le anime; discernimento delle “ispirazioni”, ossia “degli spiriti”. Dal medioevo in poi la Chiesa ha dovuto far fronte sempre più spesso alla novità di “rivelazioni private”, soprattutto quando queste rivendicano interesse per tutta la Chiesa (si pensi alle rivelazioni di santa Brigida, di cui dovette interessarsi perfino il Concilio di Costanza; e poi a quelle di santa Margherita M. Alacoque; di Lourdes, di Fatima...). Ma negli ultimi tempi incontriamo altre due stagioni ancora più decisive: anzitutto la riscoperta delle​​ vocazioni​​ apostoliche dei​​ laici,​​ per una Chiesa tutta carismatica e ministeriale; e poi l’attenzione alla storia generale, anche oltre i confini della Chiesa, e perciò ai “segni dei tempi”, ossia ai dinamismi entro i quali passa l’azione dello S. nell’umanità intera. L’orizzonte si è allargato: lo S. opera in tutti,​​ dentro la Chiesa anzitutto, e​​ perciò si deve fare attenzione al “consenso di fede” quale organo di verità, e, a certe condizioni, anche di infallibilità; in ogni caso la comunione deve tornare ad essere la categoria fondamentale della Chiesa, e perciò impegnare alla comunicazione, alla partecipazione. Ma lo S. parla alla Chiesa​​ anche da fuori,​​ attraverso i popoli, le culture, i movimenti, le sfide e le risorse dei vari tempi.

4.​​ Diventa, perciò, sempre più importante il problema del​​ discernimento dello S.;​​ e soprattutto dei​​ criteri​​ sulla base dei quali operarlo. A questo proposito vanno indicati i seguenti criteri principali.

— Anzitutto-.​​ Gesù Cristo e i segni visibili della sua presenza nella storia restano​​ la forma​​ su cui tutto misurare. Lo S. è S. di Cristo; S. e Cristo sono in legame inscindibile. Predicazione e C., oggi, devono insistere su questo punto capitale. Anche senza assumere norma dal “Filioque”, che accentuerebbe il legame dello S. con Cristo (appunto in quanto lo S. procede anche dal Figlio e non solo dal Padre), si deve sottolineare che lo S. ha sempre operato, nella storia, “per​​ il Cristo”: nell’AT (e nelle religioni non cristiane e nelle culture, in quanto rappresentano una “preparazione al Vangelo”) lo S. ha operato in vista di Cristo; il NT ci presenta Gesù come “capolavoro” dello S.; e l’era della Chiesa viene ancora di più compresa come “tempo dello S.”, in quanto in essa lo S. continua a creare il “nuovo corpo di Cristo”. Lo S., dunque, non può fare qualcosa che in qualche modo non sia armonizzabile con la “forma di Cristo”; in particolare con​​ l’incarnazione​​ e col​​ mistero pasquale-.​​ segno dello S. è ciò che aiuta a realizzare o perfezionare l’unione tra uomo e Dio, l’entrare di Dio nell’uomo e dell’uomo in Dio (incarnazione), e nel segno della Croce, ossia di un morire che significhi donarsi totalmente e consumarsi all’insegna dell’amore gratuito e universale, per un risorgere a vita più elevata, ossia per una comunione e una fraternità che siano ricapitolative di tutto e tutti (mistero pasquale).

— Poi:​​ segno dello S. è tutto ciò che, al tempo stesso e con uguale passione, fa promuovere sia la​​ diversità​​ che​​ l’unità,​​ ossia tanto la ricchezza dei vari doni e valori quanto la loro armonizzazione. Criterio, questo, più facile a dirsi che a realizzarsi, in quanto l’istinto porta normalmente alla unilateralità: ad assolutizzare cioè fino all’idolatria o l’individualismo e le singolarità, oppure l’uniformità livellante e imperialistica.

— Perciò​​ bisogna valorizzare anche criteri più umili e più concreti: la​​ mutua verifica,​​ che porta anche al​​ controllo​​ reciproco, alla reciproca​​ correzione fraterna,​​ alla​​ emulazione​​ che promuove in ciascuno lo sviluppo dei propri doni in un clima di​​ simpatia verso tutti.​​ Questo processo implica, perciò, una mentalità di “mutua dipendenza”; per cui ciascuno porta il peso di tutti gli altri, si sottomette a tutti, sia per dare che per ricevere. È in questa logica che va collocata anche l’obbedienza ai superiori e ai Pastori.

5.​​ C. e pedagogia​​ devono, pertanto, esprimere “servizio allo S.”. Soprattutto per formare “adulti”. Già a livello dei fanciulli ci si deve porre in umile servizio allo S., perché questi dona anche ai piccoli 1’”intuito” di fede; e si deve realmente contare su tale “capacità” superiore. A livello di adolescenti e giovani si deve tener conto del dono dello S. che induce coinvolgimento, adesione di volontà, per una scoperta di vocazioni. Ma è soprattutto il credente adulto che deve essere introdotto nei segreti dello S.; perché favorisca in sé il dinamismo del “senso della fede”, si apra ai doni dello S. che alimentano e fanno progredire la fede; e giunga a vivere nella Chiesa da vero “partecipe”, per contribuire al cammino comunitario nel “consenso della fede”, e così la comunità in cui vive sia adeguata a scoprire, leggere e discernere i segni dei tempi in vista della missione.

Bibliografia

Vedere voci attinenti nei Dizionari teologici (in particolare quelli di spiritualità, biblico, di liturgia e di ecumenismo), e voci che richiamano altre tematiche circa la storia, i segni dei tempi, il discernimento dello Spirito; importanti i volumi in collaborazione (specie per ascoltare prospettive di confessioni cristiane diverse, oltre i cattolici):​​ L'esperienza dello Spirito,​​ Brescia, Queriniana, 1974 (vol. in onore di E. Schillebeeckx);​​ L'Esprit Saint,​​ Bruxelles, 1978;​​ La riscoperta dello Spirito,​​ Milano,​​ .Taca​​ Book, 1977;​​ Spirito Santo e storia,​​ Roma, AVE, 1977. ,

S. Bulgakov,​​ Il​​ Paráclito,​​ Bologna, EDB, 1971; Y. Congar,​​ -Credo nello Spirito Santo,​​ 3 vol., Brescia, Queriniana, 1981-1983 (monumentale trilogia);​​ Credo in Spiritum Sanctum,​​ 2 vol., Città del Vaticano, LEV, 1983; W. Kasper – G. Sauter,​​ La Chiesa luogo dello Spirito,​​ Brescia, Queriniana, 1980; E. Lanne (ed.),​​ Lo Spirito Santo e la Chiesa,​​ Roma, AVE, 1970; H.​​ Mühlen,​​ Una Myslica Persona,​​ Roma, Città Nuova, 1968.

Luigi Sartori

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SPIRITO SANTO

Angelo Amato

 

1. La riscoperta dello Spirito

2. I movimenti carismatici

3. La realtà dello Spirito Santo

3.1. Lo Spirito Santo, persona trinitaria

3.2. Lo Spirito nell’evento Cristo

3.3. Lo Spirito Santo e Maria

3.4. Lo Spirito Santo e la chiesa

4. Criteri pastorali della vita nello Spirito

4.1. Dinamismo trinitario

4.2. Testimonianza cristologica

4.3. Vissuto ecclesiologico-mariano

 

1.​​ La riscoperta dello spirito

«Credo nello Spirito Santo» è un dato primario della nostra professione di fede e del nostro vissuto ecclesiale. Il Dio cristiano è il Dio della comunione trinitaria. Dio Padre, Figlio e Spirito Santo non è speculazione gnostica, ma esperienza profonda di ogni cristiano battezzato nel nome della santissima Trinità. Dopo il Vaticano II c’è stata una vera riscoperta dello Spirito Santo sia come «Signore e datore di vita», sia come orizzonte ultimo del nostro comprendere teologico e del nostro agire ecclesiale. Lo Spirito Santo è infatti il mistagogo, il maestro che introduce nella verità e nell’esperienza del mistero salvifico di Gesù Cristo. La costituzione dogmatica sulla chiesa (LG) e quella pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo (GS) sono due trattazioni esemplari di questa nuova prospettiva pneumatologica, nella considerazione del mistero della chiesa in sé stessa e della sua missione nella storia e nel mondo. L’accresciuta attenzione pneumatologica ha avuto nella stagione del postconcilio una pronta accoglienza soprattutto in ambienti e movimenti giovanili, la cui esperienza di rinnovamento nello Spirito ha provocato un salutare risveglio nella spiritualità e nell’apostolato.

 

2.​​ I movimenti carismatici

Premettiamo subito che in ambienti non cattolici, soprattutto nordamericani, sono stati sempre vivi gruppi e movimenti carismatici o pentecostali caratterizzati dal cosiddetto «battesimo nello Spirito» ricevuto mediante l’imposizione delle mani e sperimentato con il dono del «parlare in lingue». Nella sua guida a questi movimenti (1983), Charles Edwin Jones cita più di quattrocento gruppi, mentre in una più recente rassegna bibliografica Watson E. Mills ci consegna una documentata sintesi delle varie teorie concernenti l’origine e il significato di questi movimenti (W. E. Mills,​​ Charismatic Religion in Modera Research,​​ Macon [Georgia], Mercer University Press 1985). Alcuni di questi gruppi, con l’accento sulla presenza dello Spirito e dei suoi carismi nell’esperienza cristiana quotidiana, hanno certamente influito sul movimento carismatico cattolico, storicamente iniziato da alcuni docenti e studenti della Duquesne University di Pittsburgh (Pennsylvania) nel 1967, e poi allargatosi all’Università di Notre Dame (Indiana), agli studenti cattolici della Michigan State University e ad altri campus. L’origine fu, quindi, l’urgenza pastorale di una esperienza e testimonianza cristiana che, sul modello delle prime comunità cristiane, fosse sotto la potente azione rinnovatrice dello Spirito del Cristo risorto. Dopo poco più che vent’anni di storia del movimento carismatico cattolico, possiamo sintetizzare alcuni elementi perenni del rinnovamento nello Spirito particolarmente adatti a una pastorale giovanile: 1. la Scrittura come fonte viva e penetrante di ispirazione e di comprensione dell’esistenza cristiana; 2. l’intelligenza ecclesiale della Scrittura, non lasciata all’arbitrio individuale bensì alla viva tradizione della Chiesa; 3. il battesimo dello Spirito inteso come una reviviscenza esistenziale della nuova vita in Cristo iniziata col battesimo e nutrita con gli altri sacramenti; 4. l’attenzione a far combaciare l’entusiasmante annuncio del Cristo con una prassi cristiana altrettanto convinta e vitale; 5. lo sforzo di misurare la carica sentimentale di ogni persona e comunità mediante la verità del vangelo di Gesù Cristo; 6. la partecipazione attiva alla preghiera e all’azione apostolica come sperimentazione concreta dell’azione dello Spirito oggi con la molteplicità e la ricchezza dei suoi doni sui singoli e sulle comunità. Questo articolato orizzonte pneumatologico dà una ferma convinzione personale e una innegabile aggressività missionaria per una vita spirituale «ad alto voltaggio».

La dinamica esperienza carismatica, regolata dalla parola di Dio e vissuta nell’ambito e in armonia con la comunità ecclesiale, è stata sostenuta e nutrita da importanti contributi teologici (cf le opere di H. Muhlen, H. U. von Balthasar, K. Rahner, Y. Congar, D. Bertetto, F. Lambiasi) e magisteriali. Il rinnovamento pneumatologico suggerito dal magistero pastorale di Paolo VI ha avuto poi una sua sintesi esemplare nelPenciclica sullo Spirito Santo «Dominum et vivificantem» (18 maggio 1986) di Giovanni Paolo IL L’accento della presenza dello Spirito nella chiesa racchiude anche una innegabile carica ecumenica, soprattutto nel dialogo con le chiese orientali e nella comune invocazione all’unità. Se il primo millennio dell’era cristiana si concluse con il primo grande scisma — paradossalmente anche a causa di una disputa pneumatologica (la celebre questione del «Filioque») —, il secondo millennio potrebbe concludersi con una riconciliazione ecclesiale come opera dello Spirito, principio di unità e di comunione nella chiesa. Testimonianze di questa tensione verso l’unità sono stati, ad esempio, alcuni convegni nazionali e internazionali di studio in occasione dell’anniversario del secondo concilio ecumenico, il Costantinopolitano I del 381 (cf il congresso internazionale di pneumatologia tenutosi nella Città del Vaticano nel marzo del 1982).

 

3.​​ La realtà dello spirito santo

 

3.1. Lo Spirito Santo, persona trinitaria

Pur adombrato nell’Antico Testamento, la realtà dello Spirito Santo viene compiutamente svelata nel mistero dell’incarnazione, evento trinitario per eccellenza. L’incarnazione, infatti, è l’evento dell’autorivelazione di Dio come comunione trinitaria «in sé» e «per noi»: «E quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli. E che voi siete figli di Dio ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!» (Gal 4,4-6). In questa splendida sintesi san Paolo presenta l’impegno personale del Padre, del Figlio e dello Spirito nell’incarnazione salvifica. La nostra adozione a figli del Padre, oltre che opera del Cristo, è frutto dell’inabitazione dello Spirito in noi, nel quale è possibile l’invocazione adorante del Padre. L’incarnazione è quindi iniziativa del Padre che invia il Figlio, atto di obbedienza e impegno personale del Figlio che viene inviato, e cooperazione dello Spirito Santo.

 

3.2. Lo Spirito nell'evento Cristo

L’inizio dell’esistenza terrena di Gesù è opera dello Spirito (Mt 1,20; Le 1,35), così come l’inizio della sua missione, al battesimo nel Giordano, quando scese su di lui lo Spirito Santo (Lc 3,21 ; Mt 3,16; Me 1,10) e il Padre si compiacque nel suo Figlio prediletto. È nello Spirito Santo che viene operata e rivelata l’origine di Gesù, la sua identità di Figlio di Dio e la sua attività messianica (Lc 1,16-30; Mt 13,54-58; Me 6,1-6). Anche gli eventi gloriosi della risurrezione, ascensione, Pentecoste sono sotto il segno dello Spirito: «Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire» (At 2,33). La presenza dello Spirito in Gesù è una realtà permanente, non temporanea.

E una realtà intrinseca al suo essere e al suo agire, in stretta relazione con la sua condizione di Figlio. Gesù viene definito non solo in riferimento al Padre, ma anche in riferimento allo Spirito (Lc 1,35; 3,22).

A sua volta lo Spirito viene definito sia dal suo rapporto con il Padre, da cui procede (Gv 14,16.26; 15,26), sia dalla sua relazione con il Figlio, da cui è mandato (Gv 15,26; 16,7) e di cui rammenta gli insegnamenti (Gv 16,1314; 14,26; 15,26; 16,14). Per questo viene chiamato «Spirito del Figlio» (Gal 4,6), «Spirito di Cristo» (Rm 8,10; Fil 1,19), «Spirito di Gesù» (cf 2 Ts 2,8).

 

3.3. Lo Spirito Santo e Maria

L’affermazione del simbolo niceno-costantinopolitano: «si è incarnato dallo Spirito Santo e da Maria Vergine e si è fatto uomo», introduce nella realtà trinitaria del mistero dell’incarnazione del Verbo la persona di Maria: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo figlio, nato da donna» (Gal

4,4). Da questo antichissimo testo paolino si ricava che il Figlio, oltre alla generazione eterna dal Padre, riceve una nascita temporale da una donna. 1 testi evangelici (Mt 1,18.20; Le 1,35) ci informano sulle specialissime modalità di questa nascita verginale ad opera dello Spirito Santo: «quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo» (Mt 1,20). Ad opera dello Spirito, creatore e vivificatore (cf Gn 1,2; 2,7), in Maria si attua una nuova creazione: Maria è la terra che Dio feconda con il suo Spirito, perché doni il Salvatore. Tommaso d’Aquino espone le ragioni dell’attribuzione allo Spirito Santo della concezione verginale del Verbo. Anzitutto lo Spirito Santo è l’amore del Padre e del Figlio; ed è stato proprio l’amore di Dio il motivo ispiratore dell’incarnazione. La grazia inoltre è un dono celeste che viene attribuito allo Spirito Santo; ora anche l’incarnazione è un dono di Dio. Il terzo motivo è dato dal fatto che colui che nacque dalla Vergine era Santo e Figlio di Dio; la santità e la figliolanza divina sono opera dello Spirito Santo (STh III q.32 a.l).

La relazione Maria-Spirito Santo ha avuto nel postconcilio un’attenzione privilegiata. Definita come la «redenta in modo sublime» (LG 53) e «tempio dello Spirito Santo»​​ (ivi),​​ Maria è stata vista, ad esempio, come «trasparenza dello Spirito Santo» (X. Pikaza), come «volto materno di Dio» (L. Boff), come «anamnesi ed epiclesi dello Spirito Santo» (F. Lambiasi). H. Muhlen evidenzia il particolare rapporto di Maria con lo Spirito Santo sia nella sua immacolata concezione e cioè nella totalità del suo essere plasmato dallo Spirito Santo (LG 56) fin dall’inizio della sua esistenza terrena (funzione personologica), sia nella concezione verginale di Gesù, come libero atto di cooperazione di Maria alla redenzione (funzione personale). Tra il «panàghion» (tuttosanto) e la «panaghia» (tuttasanta) D. Bertetto vede una particolare sinergia dello Spirito in Maria, che in tutta la sua vita condusse un’esistenza profondamente pneumatica, oltre che cristologica.

 

3.4. Lo Spirito Santo e la chiesa

La chiesa, costituita da Gesù con la chiamata dei discepoli, l’istituzione dei sacramenti e il primato di Pietro, a Pentecoste riceve dallo Spirito il soffio vitale della sua espansione universale. Anche la chiesa è sotto il segno dello Spirito non solo all’inizio della sua missione ma in tutto il suo pellegrinare storico. È lo Spirito che la edifica (Ef 2,22), la arricchisce dei suoi doni (1 Cor 12,7-11), unificandola in un solo corpo in Cristo (Ef 4,4;

I Cor 12,8s; Rm 12,6s; Gal 3,28). Lo Spirito «co-istituisce» la chiesa (Congar), animandola e rendendola una, santa, cattolica, apostolica. Lo Spirito cioè è principio di comunione, di missione e di santità. La chiesa è il luogo della continua Pentecoste dello Spirito nella storia mediante l’annuncio della parola, mediante l’azione liturgico-sacramentaria, mediante la sua missione di carità.

II concilio ci offre una splendida sintesi di questa animazione pneumatica della chiesa: «Lo Spirito [...] guida la chiesa verso tutta intera la verità (cf Gv 16,13), la unifica nella comunione e nel servizio, la provvede di diversi doni gerarchici e carismatici, coi quali la dirige, la abbellisce dei suoi frutti (cf Ef 4,11-12; 1 Cor 12,4, Gal 5,22). Con la forza del vangelo fa ringiovanire la chiesa, continuamente la rinnova e la conduce alla perfetta unione con il suo sposo. Poiché lo Spirito e la sposa dicono al Signore Gesù: Vieni! (cf Ap 22,17)» (LG 4). Nello Spirito la chiesa diventa la madre dei fedeli soprattutto attraverso i sacramenti, che sono momenti privilegiati dell’incontro salvifico dell’umanità con lo Spirito del Cristo risorto lungo le principali tappe del suo terreno pellegrinare.

 

4.​​ Criteri pastorali della vita nello spirito

Come nell’annuncio cristologico, anche nell’annuncio dello Spirito Santo i criteri pastorali non sono suggeriti dall’esterno, ma sono ricavati dalla realtà stessa dello Spirito e dalla sua azione nella chiesa e nel mondo. Si possono sostanzialmente ridurre a tre le principali linee di progettazione pastorale della pneumatologia: lo Spirito è infatti dinamismo divino trinitario nel cosmo e nella storia (1) e vita di unione con Cristo (2) nella chiesa con e come Maria (3). La pastorale pneumatologica ha quindi una triplice dimensione: trinitaria, cristologica, ecclesiologico-mariana. Non si tratta di aspetti irrelati, ma in intrinseca continuità e in reciproco arricchimento.

 

4.1. Dinamismo trinitario

Lo Spirito è soffio e potenza di vita trinitaria nella storia. Essendo comunione e dono d’amore del Padre e del Figlio, egli è dono di vita divina nei fedeli battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Il sostegno dell’opera apostolica e della santificazione della chiesa e dei cristiani nella storia è dono dall’alto, è vissuto divino comunicatoci dallo Spirito. La vita nello Spirito è quindi anzitutto vita trinitaria. Lo Spirito non è solo ricordo o invocazione di vita, ma il «signore e datore di vita». È nello Spirito che si attua sia il circuito di eterna comunione d’amore delle persone trinitarie, sia l’esperienza della partecipazione delle creature alla vita divina. È nello Spirito che l’uomo può chiamare Dio «Padre». Il suo dono è la comunione dell’umanità con Dio. Come nell’incarnazione lo Spirito ha plasmato una carne umana per il Figlio di Dio, così nella santificazione egli offre all’umanità il soffio della vita trinitaria. Il primo criterio di pastorale pneumatologica è quindi l’esperienza profonda della vita dello Spirito nella storia personale e comunitaria dell’umanità.

 

4.2. Testimonianza cristologica

Questa comunione trinitaria è concretamente segnata dall’incontro personale del fedele con Cristo e dalla sua assimilazione a lui. È questo il compito del consolatore, inviato dal Padre nel nome di Gesù per «insegnare ogni cosa» e «ricordare tutto ciò» che Gesù ha detto (cf Gv 14,26). Egli rende testimonianza a Gesù e alla sua verità: «Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve l’annunzierà» (Gv 16,13-14).

L’influsso dello Spirito nel cristiano è duplice: illuminare la conoscenza e la fede in Cristo (cf 1 Gv 3,23) e rafforzare la testimonianza vitale di questa fede cristologica. «Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato [...]. E da questo conosciamo che dimora in noi: dallo Spirito che ci ha dato» (1 Gv 3,23.24). È per il dono dello Spirito che Cristo rimane in noi e noi in lui. È nello Spirito che si attua la nostra comunione col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo (cf 1 Gv 1,3). Vita pneumatica è concretamente vita di comunione con Cristo. Vita pneumatica è vissuto e testimonianza cristologica: è immersione nel mistero salvifico della redenzione cristiana. Lo Spirito Santo è fonte dell’autentica crescita nella vita cristiana.

 

4.3. Vissuto ecclesiologico-mariano

La vita trinitaria di intimità con Cristo viene concretamente donata ed esperimentata nell’ambito della sacramentalità ecclesiale. È la chiesa che attraverso il battesimo, l’eucaristia e gli altri sacramenti diventa la madre feconda dei fedeli alla vita divina nello Spirito del Cristo risorto. Edificata dallo Spirito (Ef 2,22) e vivificata dai suoi doni (1 Cor 12,711), la chiesa nutre i suoi figli con i doni spirituali di vita e di santità, di amore e di unità, di verità e di libertà. Nel nostro cammino terreno, la vita nello Spirito è concretamente vita ecclesiale, in cui lo Spirito è il maestro interiore di ortodossia e di ortoprassi, di preghiera e di testimonianza, di conversione personale e di dedizione comunitaria. È nella chiesa che la pedagogia sacramentale plasma quegli abiti virtuosi che a poco a poco maturano spiritualmente il cristiano, che diventa cosi uomo spirituale, adorno dei doni (cf Is 11,1 -2) e dei frutti dello Spirito: giustizia, pace, gioia, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé (cf Rm 14,17; Gal 5,22; Ef 5,9; 2 Cor 6,6-7; 1 Tm 6,11).

Lo Spirito è quindi nella chiesa fonte di missione e di apostolato, di purificazione e di santificazione. In questa sua condizione pneumatica la chiesa trova in Maria il suo modello e la sua madre. La relazione chiesa-Maria non è estrinseca né solo devozionale, ma intrinseca ed essenziale. Dice Paolo VI nella «Marialis cultus»: «Maria è la Vergine madre [...] costituita da Dio quale tipo e modello della vergine-chiesa, la quale diventa anch’essa madre, perché con la predicazione e il battesimo genera a vita nuova e immortale i figli, concepiti per opera dello Spirito e nati da Dio» (MC 19). A ragione Giovanni Paolo II considera la Pentecoste come il prolungamento della maternità di Maria nella maternità della chiesa (cf RH 22). La maternità spirituale della chiesa è intrinsecamente associata alla maternità di Maria: entrambe donano al mondo il Cristo salvatore nella potenza dello Spirito Santo. Per questo la santità di Maria si riverbera sulla santità della chiesa. Allo stesso modo la santità di Maria e della chiesa è l’orizzonte e il grembo della santificazione dei fedeli.

Come Maria e la chiesa, anche i cristiani vivono la loro vita di fede, di speranza e di carità nello Spirito del Cristo risorto. Come Maria e la chiesa, anche i cristiani sono plasmati dallo Spirito (pneumatoplasti), diventando portatori dello Spirito e dei suoi doni (pneumatofori) e trasparenza e immagine dello Spirito nel mondo (pneumatoformi). Come Maria, la chiesa guidata dallo Spirito si fa chiesa-madre dell’umanità, chiesa-famiglia dell’umanità, chiesa-servizio all’umanità. È in questa profonda dimensione ecclesiologico-mariana che l’apostolato cristiano trova la sua norma e la sua esplicitazione vitale. Dire lo Spirito oggi è vivere la vita divina trinitaria in unione col mistero salvifico di Cristo nella chiesa, con Maria e come Maria in impegnato servizio di liberazione dell’umanità nella storia.

 

Bibliografia

Amato A.,​​ Lo Spirito Santo e Maria nella ricerca teologica odierna delle varie confessioni cristiane in Occidente,​​ in Maria e lo Spirito Santo,​​ Ed. Dehoniane-Marianum, Bologna-Roma 1984, p. 9-103; Congar Y.,​​ Credo nello Spirito Santo,​​ Queriniana, Brescia 1981-83;​​ Credo in Spiritimi Sanctum. Atti del congresso teologico internazionale di pneumatologia, Città del Vaticano 1983; Felici S. (a cura),​​ Spirito Santo e catechesi patristica,​​ LAS, Roma 1983; Lambiasi F.,​​ Lo Spirito Santo: mistero e presenza. Per una sintesi di pneumatologia,​​ Ed. Dehoniane, Bologna 1987; Triacca A. M.,​​ Presenza e azione dello Spirito Santo nell’assemblea liturgica,​​ in «Ephemerides Liturgicae» 99 (1985) p. 349-383;​​ La presenza e l’azione dello Spirito Santo nella celebrazione dei sacramenti,​​ in «Liturgia» 19 (1985) p. 26-62 (rassegna bibliografica).

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SPIRITO SANTO

SPIRITUALITÀ

 

SPIRITUALITÀ

1.​​ La S. non va interpretata falsamente come “puro spirito”, in senso anticorporeo e antisensitivo. La S. riguarda tutto l’uomo, “con il corpo e la vita”, come dice l’AT. La S. significa essere mossi dallo Spirito di Dio (Rm​​ 8,14: “Qui spiritu Dei aguntur, ipsi sunt filii Dei”). Il contrario della S. è il peccato,​​ per il quale Paolo usa come sinonimo “sarx” = carne, espressione che è praticamente impossibile rendere correttamente nelle traduzioni moderne.

La conduzione dello Spirito riguarda in primo luogo l’uomo come partner in dialogo con Dio. Il singolo uomo è chiamato alla fede. Accogliendo il dono della fede, il suo “cuore” viene riempito dall’amore di Dio. La S. trova il suo compimento nella mistica. L’unione con Dio, nella prospettiva biblica, è espressa anzitutto nel singolare: “Et ego semper tecum, tennisti manum dexteram meam” (Sai​​ 73,23); “Non più io vivo, ma Cristo vive in me...”. Criticare la S. personale bollandola come individualismo tardo borghese è in contraddizione con la testimonianza e la preghiera biblica.

Occorre parlare di S. anche al plurale: “Beati vol...” (Lc​​ 6,20ss); “Voi in me ed io in voi” (Gv​​ 14,20). Il plurale in questi casi prende il suo pieno significato nel circolo di coloro che si conoscono e si amano. Soltanto in senso analogico può esserci allusione alle istituzioni e alle organizzazioni di massa.

S. indica quindi ogni movimento dello Spirito nel singolo e nella comunità dei credenti, che ha, dalla parte dell’uomo, la caratteristica di lasciarsi condurre da Dio, verso il quale ci si pone nell’atteggiamento di vigilanza e di recettività. S. significa quindi diventare vuoti di sé per essere riempiti dallo Spirito di Cristo e di Dio.

2.​​ Sia sul piano formale che materiale la S. è rilevante per la C. Sul piano formale come → S. dell’insegnante di religione e → S. del catechista, e anche come S. della C. stessa. Sul piano materiale, perché la C. consiste appunto nell’apprendimento della S. o nell’iniziazione alla S.

a)​​ La C. deve essere un processo mosso dallo Spirito di Dio. È ovvio che ciò non si può provocare attraverso una qualche tecnica didattica, poiché non esiste una tecnica della S. È però possibile demolire ostacoli e creare condizioni favorevoli. A questo fine è richiesta anzitutto la​​ autenticità​​ (M. J. Langeveld in riferimento a Ph. Lersch). La testimonianza del catechista deve essere “autentica”, nel senso che deve esprimere ciò di cui è convinto e che con grande umiltà cerca di realizzare. Nella C. ognuno può esprimere la propria convinzione; anche una convinzione scomoda è permessa. L’autenticità richiede un​​ linguaggio semplice,​​ libero da pathos e da intenti manipolatori. Infine anche il​​ silenzio​​ deve avere una collocazione legittima nella C., affinché la testimonianza di Dio possa essere assimilata nella interiorità. Tale silenzio è richiesto dopo aver ascoltato la narrazione (cf → didattica biblica; → linguaggio biblico). Il silenzio entra anche come pausa in una preghiera comunitaria. È pure richiesto quando si medita su una immagine o quando è stato usato un mezzo audiovisivo, prima di iniziare una discussione sul tema. La S. si fa anche conoscere nella C. come​​ trasparenza-,​​ il colloquio del catechista con i catecumeni è​​ aperto​​ al “significato” che si affaccia nell’esistenza del singolo e nel comune impegno per la giustizia e l’amore,​​ aperto​​ a Dio il quale vuol servirsi di noi per realizzare tutto ciò. La​​ S. e l’etica​​ sono​​ inseparabilmente collegate​​ tra loro. La S. nella C. presuppone già l’abbandono di una vita peccaminosa (in forza dell’amore, con il quale ci accettiamo gli uni gli altri come amici) e mira alla purezza del cuore e dello spirito. E poiché la S. è ricollegata con l’agire, verso il quale spinge lo Spirito, la C. non dovrà limitarsi al solo aspetto dell’insegnamento-apprendimento, ma dovrà essere continuata in una​​ prassi comunitaria.

b)​​ La stessa S. è contenuto permanente di C., per il fatto che la C. sviluppa la fede, dà testimonianza della speranza, e si realizza in forza dell’amore e sulla base dell’amore che dobbiamo mostrare e donare tra noi, alle famiglie, agli amici e al mondo intero.

Per realizzare lo sviluppo della fede in prospettiva spirituale occorre piuttosto il linguaggio dossologico, il “confiteri” nel senso dei Salmi, il narrare delle grandi azioni di Dio e dei suoi miracoli (Lc​​ 1,49), il testimoniare la risurrezione di Cristo (At​​ 1,22), e non tanto l’inculcare dogmi e norme. Una C. spirituale non è priva di sensitività (è piuttosto piena di immagini e di simboli), e non è arazionale. Essa è riferita a una gnosis (1 Cor​​ 1,5), che trascende la conoscenza naturale, pur utilizzando le sue possibilità.

Anche la S. nel senso ristretto del termine diventa contenuto della C., nella misura in cui si dà testimonianza, si spiega e si sperimenta ciò che costituisce specificamente la S. del cristiano: perfetta vigilanza, piena attenzione nell’ascolto e nel guardare verso Dio, preghiera e meditazione, ricevere i sacramenti e celebrare l’eucaristia. Però la C. non deve affatto limitarsi a parlare in forma apolitica del solo aldilà. La testimonianza sulla morte, che ciascuno di noi deve affrontare, e sulla fine del mondo non dispensa dal dovere di promuovere e di garantire personalmente, attraverso atti di amore e di solidarietà verso i poveri e gli oppressi, tutta la giustizia che è nel potere del cristiano. Infatti, è anche vero, e bisogna darne testimonianza, che il Regno di Dio è già realtà “in mezzo a noi» (Le. 17,21), e ciò non soltanto nella forma della Chiesa, ma in tutti gli “uomini della sua grazia” (Le 2,14: “hominibus bonae voluntatis”).

Bibliografia

Periture sainte et spiritualità,​​ in​​ Dictionnaire de Spiritualité,​​ 4,1, Paris, Beauchesne, 1960, 128-278; E. Feifel et al. (ed.),​​ Handbuch der Religionspädagogik,​​ 3, Zürich, Benziger, 1975, Teil 7:​​ Religionspädagogik der Sakramente, des Gottesdienstes und der Spiritualität;​​ G. Stachel,​​ Erfahrung interpretieren,​​ Zürich, Benziger, 1982, 185-236; J. A. van der​​ Ven,​​ Kritische godsdienstdidactiek,​​ Kämpen, J. H. Kok, 1982.

Cf → S.​​ del catechista;​​ S.​​ dell’insegnante di religione.

Günter Stachel

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SPIRITUALITÀ

Il termine, relativamente nuovo, viene adoperato in riferimento a diversi contesti e ambiti della vita religiosa dell’uomo. Si dice s. cristiana ma pure cattolica, protestante, ortodossa, nonché dei laici, dei religiosi, e anche del lavoro, dello sport, del tempo libero. Il vocabolo, non essendo ristretto all’ambito esclusivamente cristiano viene applicato ancora alle altre religioni: s. buddhista, ebraica, musulmana, shintoista.

1. Nel senso specifico cristiano, il termine s. ci orienta allo Spirito santo nella concreta situazione storica di credenti in Gesù Cristo. La parola s. subentra in gran parte a quelle di «ascetica e mistica» prese insieme. Ne risulta che la s. costituisce, in quanto riflessione teologica, una scienza teologica cristiana che si interessa del vissuto cristiano sostenuto dallo Spirito santo nella sua esistenza e nel suo cammino verso la perfezione nella storia. Il discorso sulla s. tiene conto di molteplici agganci tra l’esistenza cristiana e il mistero cristiano. Perciò la s. cristiana è fondamentalmente, allo stesso tempo, una s. cristologica, perché si ispira soprattutto alla figura di Cristo, una s. pneumatologica, perché è lo Spirito santo colui che produce nel cuore del credente in Gesù la filiazione divina e i frutti di ogni santificazione, una s. biblica, perché al centro della vita dei credenti si trova la parola di Dio che fa prendere coscienza dell’iniziativa gratuita dell’amore del Padre per tutti gli uomini, una s. ecclesiale, perché il luogo di nascita e di crescita dell’uomo in Cristo per mezzo dello Spirito santo è la comunità dei discepoli, una s. sacramentale, perché i sacramenti sono la celebrazione dei misteri della vita di Cristo per noi.

2. Benché tale vissuto abbia origine con i sacramenti dell’iniziazione cristiana: battesimo, cresima, eucaristia, non si può ignorare l’importanza della Parola di Dio che suscita e orienta verso una graduale esperienza di vita spirituale ogni credente in Gesù. Di fatto, la s. cristiana ubbidisce alla legge della gradualità, soggetta alla progressione del tempo, all’impegno e alla fedeltà dell’uomo, partendo dalla situazione e dallo stato reale in cui egli si trova. Un secondo aspetto è il contributo che la crescita cristiana dà alla maturazione umana. Una pedagogia seria della fede e una introduzione al mistero cristiano, intesa come mistagogia, sono sempre a sostegno sia di una profonda s., sia del mutuo rapporto tra la​​ ​​ maturazione umana e la crescita cristiana. La s. cristiana, in quanto esperienza di vita spirituale nella storia, assieme ai principi forniti dalla teologia, comprende anche tutta la ricchezza delle molteplici esperienze suscitate dalla grazia. Ne risulta l’importante compito che ha da svolgere la storia della s.: stabilire la certezza storica dei fatti, liberandoli dai dubbi e dalle leggende, determinandone con precisione il tempo, il luogo, la successione, i rapporti vicendevoli; offrire una vasta raccolta di esperienze certe, vissute da persone di ogni ceto, di ogni tempo, di ogni luogo, da cui si possono ricavare metodi da seguire e modelli da imitare; presentare, attraverso lo svolgersi del tempo, testimoni e testimonianze del sentimento e del pensiero della Chiesa a riguardo della perfezione cristiana. Contano, in questo senso, la canonizzazione dei santi, il valore teologico delle vite e degli scritti dei santi e, in genere, degli autori spirituali, l’approvazione degli Ordini e delle Congregazioni religiose. Non essendoci un tipo di fede valido per tutti i tempi né un ideale di santità sovratemporale, e dato il carattere innovatore e provvisorio della s., sono possibili sempre nuovi stili di s. con inevitabili nuovi rischi.

3. Considerando i vari tipi di religione presenti nel mondo, notiamo tra essi una sostanziale differenza, che va da un formale rapporto con il divino a una vera comunione di fede, amore, speranza. Ne consegue il tipo di s. Tra i tipi di religione si possono distinguere:​​ una via religiosa,​​ che si esprime nella organizzazione dei rapporti degli uomini con il divino;​​ una via di sapienza​​ che, partendo dall’insegnamento dei grandi saggi, propone degli itinerari e delle tecniche per conseguire la liberazione e una comunione con il tutto;​​ una via di fede​​ che, partendo da un rapporto più personale di fede, si abbandona a un essere divino considerato persona.

Bibliografia

Calati B. - B. Secondin - T. P. Zecca (Edd.),​​ S. Fisionomia e compiti,​​ Roma, LAS, 1981; Rondet M. - C. Viard,​​ La crescita spirituale. Tappe,​​ criteri di verifica,​​ strumenti,​​ Bologna, Dehoniane, 1989; Moioli G.,​​ L’esperienza spirituale, Milano, Glossa, 1992; Bernard Ch. A. (Ed.),​​ La s. come teologia.​​ Simposio organizzato dall’Istituto di S. dell’Università Gregoriana, Roma 25-28 aprile 1991, Cinisello Balsamo (MI), Paoline, 1993; 147-167;​​ Carmelitani Scalzi,​​ La teologia spirituale.​​ Atti del Congresso internazionale OCD,​​ Roma 24-29 aprile 2000, Roma, OCD / Teresianum, 2001;​​ Cazzulani​​ G.,​​ Quelli che amano conoscono Dio.​​ La teologia della s.​​ cristiana di Giovanni Moioli (1931-1984). Prefazione di B. Secondin, Roma, Pubblicazione del Pont. Seminario Lombardo, 2002;​​ García C.,​​ Teología espiritual contemporánea.​​ Corrientes y perspectivas,​​ Burgos, Monte Carmelo, 2002;​​ Mirabella​​ P.,​​ Agire nello Spirito.​​ Sull’esperienza morale della vita spirituale, Assisi, Cittadella, 2003; Pellerey M., «S. e educazione», in C. Semeraro (Ed.),​​ La​​ s.​​ salesiana in un mondo che cambia, Caltanissetta / Roma, Sciascia Editore, 2003, 75-97.

J. Struś

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SPIRITUALITÀ

SPIRITUALITÀ DEL CATECHISTA

 

SPIRITUALITÀ DEL CATECHISTA

Adempiere nella comunità un → ministero, che, per sua origine, è sempre un dono dello Spirito alla Chiesa, comporta l’esigenza di una forte S. (cf EM 67; RdC 189). Si tratta di una qualificazione della S. di base che caratterizza la vita di ogni battezzato. Tutti i documenti ecclesiali sono attenti a delineare la fisionomia spirituale e apostolica del catechista, suggerendo qualità ascetiche, virtù, atteggiamenti interiori, indispensabili per rendere credibile la sua opera.

La EN presenta la dimensione ecclesiale della S. del catechista, chiamato ad adempiere il servizio della Parola in comunione profonda con la Chiesa, in cui opera lo Spirito, “agente principale dell’evangelizzazione” (EN 75). In questa prospettiva si tracciano gli atteggiamenti interiori degli operatori dell’evangelizzazione: la docilità e la preghiera incessante allo Spirito (EN 75), la testimonianza e la santità della vita, l’amore all’eucaristia, la carità verso tutti, il distacco e la rinuncia (EN 76), la ricerca sincera e disinteressata della verità (EN 77), il fervore dei santi e la gioia (EN 80).

Il RdC delinea la figura apostolica e spirituale del catechista, a partire dalla triplice funzione che egli adempie nella comunità come testimone, insegnante, educatore della fede (cf RdC 185-188), con particolare riferimento al dinamismo relazionale che lo unisce in modo profondo all’amore del Padre, al mistero della salvezza operata da Cristo e all’azione dello Spirito nella Chiesa. Il DCG enumera le condizioni spirituali, richieste dalla missione del catechista: “Un’intensa vita sacramentale e spirituale, la familiarità con la preghiera, una profonda ammirazione per la grandezza del messaggio cristiano ... atteggiamento di carità, di umiltà e di prudenza” (n. 114). La CT evidenzia nel catechista la S. del discepolo, che si pone alla scuola del Maestro (cf n. 6), ne è il “portavoce” (ivi), vive in profonda comunione con lui (cf CT 9), mettendosi in sintonia con le ispirazioni dello Spirito, Maestro interiore, da cui si lascia guidare (cf CT 72), per trasmettere il mistero di Cristo con gioia (cf CT 56), con “zelo ardente e generoso” (CT 66), con entusiasmo e con coraggio (cf CT 62). Nella nota della CEI​​ La formazione dei Catechisti​​ (FdC) si specifica che la S. del catechista “si alimenta attraverso la meditazione personale e comunitaria della Parola di Dio, un’intensa vita liturgico-sacramentale...” (n. 18). Ciò non significa una fuga dalla professionalità, perché quanto il catechista compie contribuisce “in qualche modo ad arricchire la vita spirituale, suscitare l’invocazione e la fede, aprire l’animo a più generose prospettive d’impegno” (FdC 29).

Alcuni catecheti hanno cercato di approfondire la S. del catechista, indicando vari atteggiamenti operativi: “L’amore per il regno di Dio ... l’amore disinteressato e zelante per i bambini” (J. Jungmann 1956, 60), “l’amore soprannaturale per le anime ... una profonda carità, uno spirito apostolico e uno zelo ardente, ... lo spirito di preghiera, ... un grande spirito di abnegazione e di confidenza in Dio” (N. Fournier 1963, 156). Questo autore sottolinea l’importanza di “coltivare una S. in situazione” e invita il catechista a sentirsi “strumento per illuminare la fede”, a esercitare “una autentica paternità spirituale”, a vivere “in contatto intimo, personale e vivente con il Signore”, ad essere fedele “alla grazia del proprio stato” (ibid.,​​ 165-171). J. Colomb propone una S. “funzionale”, desunta e richiesta dal ministero della Parola, che si articola attorno alle virtù teologali. Egli descrive il modo specifico con cui il catechista è chiamato a credere, a sperare e ad esercitare la carità in rapporto al messaggio da trasmettere e ai destinatari (J. Colomb 1970, 745-766).

A. Wyler nel delineare la personalità dell’educatore cristiano mette in luce la situazione paradossale tra il fine cui tende il catechista (l’educazione alla fede) e il suo ruolo umano personale e strumentale, che lo colloca in una situazione di lotta spirituale di fronte alla propria impotenza; impotenza che si supera nel contare su Dio solo, nel coltivare la fiducia in lui, nello sviluppare uno sguardo spirituale, che si nutre di preghiera, di impegno, di invisibile apertura a Dio e di amore (A. Wyler 1980, 84-118).

G. Gatti traccia alcuni appunti per una S. del ministero cat. attorno ai seguenti nodi relazionali, che il catechista in modo preferenziale è chiamato a vivere: il rapporto personale con Gesù Cristo: Maestro e Signore; la comunione vitale con la Chiesa: comunità evangelizzante, celebrante e​​ testimoniante;​​ il religioso e fedele ascolto della Parola; la condivisione dell’esperienza interiore del profeta (G. Gatti 1979, 17-49). C. Bissoli, dopo un’analisi approfondita, sintetizza la S. del catechista attorno ad alcuni poli di relazione, da cui è possibile desumere gli atteggiamenti spirituali personali e comunitari degli educatori della fede. Sono: la Parola di Dio, che si personalizza nel mistero di Cristo; la Chiesa in cui si esercita il servizio della Parola in comunione ministeriale; l’attenzione ai destinatari nella loro realtà esistenziale e culturale; lo Spirito Santo, che rende attuale ed efficace la proposta cristiana (C. Bissoli 1982, 60-64).

La S. del catechista è quindi da intendere come una dimensione permanente, che investe in modo organico, unitario e coerente la sua persona, presiede e anima i diversi momenti del suo agire, coinvolgendo le scelte pedagogiche e metodologiche, promuovendo una sintesi tra la sua vita e la fede, il suo essere e il suo agire, così da rendere più trasparente e credibile la propria esperienza cristiana nella comunità.

Bibliografia

C. Bissoli,​​ La formazione spirituale del catechista,​​ nel vol.​​ Formare i catechisti in Italia negli anni ottanta,​​ Leumann-Torino, LDC, 1982, 55-64; J.​​ CoLOMB,​​ Al servizio della fede,​​ vol. Il, ivi, 1970,​​ 721744;​​ N. Fournier,​​ Le esigenze attuali della catechesi,​​ Brescia, La Scuola, 1963, 165-171; G. Gatti,​​ Catechisti nuovi nello Spirito,​​ Leumann-Torino, LDC, 1979; J. A. Jungmann,​​ Catechetica,​​ Alba, Ed. Paoline, 1956, 55-65; G. Medica,​​ La spiritualità dei catechisti,​​ nel vol.​​ Dal documento di base ai nuovi catechismi alla catechesi viva,​​ Leumann-Torino, LDC, 1973, 355-390; A. Wyler,​​ Il catechistaeducatore”,​​ Bologna, EDB, 1980.

Gaetano Gatti

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SPIRITUALITÀ DEL CATECHISTA

SPIRITUALITÀ DELL’INSEGNANTE DI RELIGIONE

 

SPIRITUALITÀ DELL’INSEGNANTE DI RELIGIONE

1.​​ Rinnovata attenzione alla S. dell’insegnante di religione.​​ Negli anni ’70 i problemi dell’IR erano polarizzati soprattutto dalla dimensione esperienziale, dagli obiettivi, dai contenuti centrali e dai problemi didattici. Gli anni ’80 attribuiscono grande importanza alla dimensione spirituale dell’IR. Ora questa dimensione spirituale è strettamente legata alla personalità dell’insegnante di religione (IdR), alla sua S.

Per S. s’intende l’ispirazione cristiana che anima l’atteggiamento del singolo e del gruppo nei confronti di Dio e della venuta del suo Regno di giustizia. La S. riguarda il cristianesimo in quanto vissuto nello Spirito e per mezzo dello Spirito di Gesù Cristo. Ogni S. è però situata dal punto di vista storico e socio-culturale. Oggi la S. o la vita spirituale deve dimostrarsi viva nel contesto di una società pluralistica, industrializzata, secolarizzata e borghese (occidentale). La particolare S. degli insegnanti di religione, che sono in misura progressiva laici (sposati), deve agganciarsi strettamente all’esercizio del servizio di IR nell’attuale contesto socio-culturale della scuola.

Il successo dell’IR indubbiamente dipende in notevole misura dalla personalità o dalla S. dell’insegnante. Non si deve però dimenticare che la crisi dell’IR negli ultimi decenni non è dovuta soltanto all’insegnante, ma anche a cause strutturali, che trascendono la persona dell’insegnante, in particolare la crisi della religione stessa e della Chiesa istituzionale nella società secolarizzata.

Il profilo spirituale dell’IdR (nella scuola secondaria) può essere tracciato in diverse direzioni. Abbiamo optato per una descrizione che segue la falsariga delle relazioni in cui l’IdR si trova inserito nell’esercizio del suo servizio.

2.​​ Aspetti della S. dell’insegnante di religione.

a)​​ Incontro insegnante-allievi.​​ Si desidera che l’insegnante impartisca il proprio insegnamento “a motivo degli allievi”, vale a dire in vista del loro bene e della loro umanizzazione. In questo dovrebbe imitare Gesù, morto e risorto “propter nos homines et propter nostram salutem”, per noi uomini e per la nostra salvezza. Di conseguenza cercherà di apprezzare gli allievi in quanto persone, come soggetti che hanno le radici nel comune Dio Creatore. Non li tratterà come oggetti del proprio interesse scientifico o della propria missione. L’insegnante cercherà di comprendere gli allievi dall’interno e di accettarli. Accettare però non significa approvare tutto. Quindi la solidarietà con gli allievi sarà una solidarietà critica.

Un aspetto importante e relativamente nuovo nel contatto dialogico con gli allievi consiste nell’atteggiamento di attento ascolto delle loro possibilità, difficoltà e impossibilità sul terreno della fede. L’IR diventa anche in misura crescente un dialogo con l’ateismo che si manifesta nel gruppo della classe.

Da un IdR gli allievi hanno il diritto di aspettarsi che metta al centro l’iniziazione al problema di Dio — problema che nell’esperienza non si può evitare — e alla realtà stessa del Dio vivente. In questo appunto consiste il suo “servizio” agli allievi, un servizio compiuto autorevolmente ma senza alcuna invadenza. La “qualité de présence” è determinante in questo servizio.

In genere gli allievi, in modo particolare quelli dei cicli superiori, rifiutano la scuola di religione in cui vengano trattati come terreno di caccia a beneficio della religione cristiana. Si possono evitare molti spiacevoli equivoci fornendo chiari patti circa le finalità e l’impostazione della materia scolasticareligione”. A confronto con le finalità della C. parrocchiale, l’IR ha finalità reali ma limitate. La funzione dell’IdR non è tanto quella di “suscitare la fede”, quanto quella di “giustificare la fede”.

b)​​ L’incontro dell’insegnante di religione con la tradizione ebraica e cristiana.​​ L’identità dell’insegnante è in larga misura determinata dal contenuto della materia insegnata. L’IdR rappresenta l’approccio alla realtà dal punto di vista credente-teologico. L’insegnante di storia, per es., studia la medesima realtà dal punto di vista storico. Anche se in linea generale l’IdR non è un teologo di professione, egli è tuttavia teologo, o almeno un esperto in teologia pratica. La sua identità e la sua autorità professionale dipendono in larga misura dalla competenza sul piano della teologia pratica. Ciò che vale in genere per l’insegnante di musica, di letteratura, di geografia, vale ugualmente per l’IdR: da un lato è indispensabile che egli apprezzi la sua materia, anzi vi trovi gioia; da un altro deve desiderare molto che anche gli allievi, che cerca di formare, stimino, anzi godano questa materia. Ciò significa, in concreto, che l’IdR deve essere sufficientemente impegnato con tutta la sua esistenza verso la fede evangelica.

L’IdR è comunque un “insegnante”. Insegnare non è la stessa cosa che annunciare. Si rimane perciò un po’ sorpresi constatando che oggi si insiste apertamente sul fatto che l’IdR deve essere un “testimone”. EN (n. 41) afferma: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni”. Non dobbiamo però dimenticare che l’IR è generalmente una testimonianza “mediata e indiretta”; fa soprattutto appello alla testimonianza di terzi, vale a dire di testimoni biblici o di testimoni appartenenti alla storia della Chiesa. Tale forma di testimonianza presuppone che colui che la trasmette si tenga personalmente a distanza, in disparte, disimpegnandosi in qualche modo, affinché gli stessi testi biblici possano sviluppare tutta la loro forza di testimonianza. L’insegnante che nella scuola deve parlare “su” Dio, dovrebbe, durante la preparazione della sua lezione, parlare “con” Dio.

c)​​ L’insegnante di religione come “catecheta”. L’IdR non è soltanto un esperto in teologia, è anche esperto in relazioni umane e in didattica della religione. In sintesi, egli è “catecheta” scolastico. L’IdR porta la diretta responsabilità “in loco”, vale a dire nella​​ sua​​ classe, per l’appropriata trasmissione della fede cristiana, che tenga conto della situazione di partenza degli allievi. Oggi l’IdR deve avere una grande pazienza. Spesso dovrà “ritardare la professione di fede” (A. Gesché): non deve pretendere che l’allievo faccia la professione di fede prima che sia giunto a ciò che essa ha realmente da dire, e per cui richiede tempo: il tempo per farsi conoscere; il tempo per crescere verso di essa. Quindi assai spesso l’IdR dovrà trattenersi a lungo nel terreno preparatorio alla fede, in particolare nell’esplorazione di quei problemi fondamentali dell’uomo che ci riguardano incondizionatamente.

Accanto alla pazienza, anche la disponibilità al dialogo deve essere una caratteristica importante della S. dell’IdR. L’IR contemporaneo non può evitare un costante dialogo con persone di diversa fede, cioè con persone appartenenti ad altre religioni, ad altre visioni della vita, ad altre gerarchie di valori. È importante che queste persone di diversa fede possano farsi sentire direttamente. Il dialogo non è però un’impresa disimpegnata: anche la nostra fede viene interpellata nella sua ricerca della verità definitiva.

d)​​ L’insegnante di religione e la comunità scolastica/ecclesiale.​​ L’IdR agisce in nome della comunità scolastica. Nello stesso tempo agisce in nome della comunità ecclesiale. Insieme con gli insegnanti delle altre materie egli è corresponsabile della realizzazione di una buona scuola (o scuola cristiana) inserita in una prospettiva di liberazione. Egli cerca di promuovere l’ethos della verità e dei valori; cerca di far sì che l’esigenza di rendimento, la concorrenza reciproca, il sistema del compenso, la tecnocrazia, ecc. — che in modo così vistoso caratterizzano l’attuale convivenza sociale — non rendano disumana l’organizzazione dell’insegnamento. La sua fede cristiana gli richiede anche una particolare attenzione per gli allievi che sono più lenti nell’apprendimento, o provengono da famiglie disunite, e per i giovani con particolari problemi di carattere.

L’IdR si sente anche in stretto collegamento con la comunità ecclesiale. La Chiesa è l’ambito privilegiato in cui il messaggio biblico — contenuto centrale della sua attività didattica — viene trasmesso fino ad oggi. L’amore per la Chiesa non esclude che ci possa essere anche una distanza critica nei suoi confronti. Non deve però mai perdere di vista quanto sia rilevante il fatto che il dialogo tra moltissimi giovani e la comunità ecclesiale si può realizzare ormai unicamente nel quadro dell’IR scolastico. Questo incontro con i giovani richiede però una impostazione dialogica: libera offerta da parte della Chiesa ai giovani; possibilità per i giovani di rivolgere domande critiche alla Chiesa. Attualmente l’IdR nella scuola deve avere molta forza morale e una grande resistenza. La sua professione è piena di tensioni. Molti genitori e sacerdoti delle parrocchie nutrono attese utopistiche nei confronti dell’IR. Un numero crescente di allievi è notevolmente indifferente verso la religione e la Chiesa; gli esperti in didattica dell’IR difendono posizioni contrastanti per ciò che riguarda la legittimazione e il contenuto dell’IR come materia scolastica, il che causa grande incertezza in molti insegnanti. Idee teologiche e scelte pedagogiche spesse volte non trovano la strada per andare d’accordo... L’IdR dovrà imparare a vivere in forma costruttiva con tutte queste tensioni. La croce e la risurrezione devono restare unite anche nella vita dell’IdR.

Bibliografia

1.​​ Libri e articoli

Die Deutsche Bischöfe – Kommission für Erziehung und Schule,​​ Zum Berufsbild und Selbstverständnis des Religionslehrers,​​ 22.6.1983; A. Exeler,​​ Der Religionslehrer als Zeuge,​​ in “Katechetische Blätter» 106 (1981) 1, 3-14;​​ Formare​​ i​​ catechisti​​ in Italia​​ negli anni​​ ’SO,​​ Leumann-Torino, LDC, 1983; H. G. Heimbrock (ed.),​​ Religionslehrer – Person und Beruf,​​ Göttingen, Vandenhoeck-Ruprecht, 1982; J. Le Du,​​ Cette​​ impossible​​ pédagogie.​​ L’éducateur​​ chrétien confronte​​ à sa​​ propre​​ mort par l’action​​ pédagogique,​​ Paris, Fayard-Mame, 1971; C. Sarnataro,​​ Insegnanti di religione tra incarico e scelta professionale,​​ in “Religione e Scuola” 7 (1979) 235-240; B.​​ Schach,​​ Der Religionslehrer im Rollenkonflikt.​​ Eine religionspädagogische Untersuchung, München, Kosel, 1980; H. S. Silberberg,​​ Von Beruf Religionslehrer.​​ Oder: Die Herausforderung von Identität, Spiritualität und Sachkompetenz, Düsseldorf, Patmos, 1982.

2.​​ Numeri​​ tematici di riviste

Het getuigenis in de catechese,​​ in “Tijdschrift voor Catechese” 8 (1978) n. 3;​​ Over getuigen en katecheten,​​ in «Verbum» 41 (1974) n. 12;​​ Over katecheten en theologie,​​ ibid. 48 (1981) n. 5;​​ Der Religionslehrer,​​ in «Katechetische Blätter» 103 (1978) n. 2-3.

Jef Bulckens

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SPIRITUALITÀ DELL’INSEGNANTE DI RELIGIONE

SPIRITUALITÀ GIOVANILE

SPIRITUALITÀ GIOVANILE

Riccardo Tonelli

 

1. Le coordinate di un profondo cambio di prospettiva

1.1. La spiritualità come identità del cristiano

1.1.1. Cosa significa «identità»

1.1.2. Cosa significa «risignificazione»

1.1.3. E così la vita quotidiana sta al centro

1.2. Dal dualismo sacro-profano alla scoperta dell’Incarnazione

1.2.1. La spiritualità della «fuga dal mondo»

1.2.2. Il cambio radicale di prospettiva: la logica dell’Incarnazione

1.2.3. La «vita quotidiana» come grande mediazione

1.3. La sequela di Gesù come passione per la sua causa

1.3.1. Vivere in questo mondo come gente di un altro mondo

1.3.2. Per la causa di Gesù: il Regno di Dio

2. Una spiritualità della gioia di vivere

2.1. La croce è una scommessa riuscita sulla vita

2.2. Amore alla vita come «possesso» della vita

2.2.1. Possiede la vita chi la fonda in un evento donato

2.2.2. Possiede la vita chi la sa «perdere»

2.3. I segni del futuro dentro il duro ritmo nel quotidiano

3. Una festa impegnata per la vita

3.1. Quando le responsabilità sono chiare e precise

3.2. Quando ci vuole il coraggio di progettare l’inedito

3.3. La festa della vita contro il regno della morte

4. Il cristiano spera in Dio e ama la terra

 

Rifletto sulla spiritualità da una prospettiva particolare. La ricordo all’inizio del mio contributo perché rappresenta una scelta pregiudiziale e condizionante.

Cerco un progetto di spiritualità cristiana in cui sia restituito ai giovani di oggi la possibilità di essere pienamente di questo nostro tempo, proprio mentre confessano, nella comunità ecclesiale, la radicale signoria di Gesù su tutta la loro vita. E spero che questo progetto possa risultare significativo anche per coloro che amano la giovinezza senza età dello Spirito di Gesù.

Non mi soffermo a descrivere le diverse «scuole» né i differenti modelli di spiritualità. So che molti credenti hanno espresso in queste esperienze l’impegno affascinante di consegnare la propria vita a Dio e ai fratelli, lungo il corso della storia cristiana.

Le riconosco importanti per continuare a vivere anche oggi da uomini spirituali.

Temo però che la diffusa crisi di spiritualità sia dovuta anche al fatto che i modelli tradizionali non riescono a riconciliare in modo soddisfacente quel conflitto tra vita quotidiana e vita nello Spirito, che é alla radice di molti dei problemi attuali.

La mia ricerca è confortata da una costatazione. Sta emergendo, soprattutto a livello giovanile, una intensa domanda di spiritualità. Lo indicano molti segnali. Li citano in tanti. Qualcuno ne parla con un po’ di disappunto, perché i fatti hanno sconfessato le frettolose analisi della crisi in atto. Altri lo gridano ai quattro venti, per consolarsi e darsi ragione, come se ormai il peggio fosse passato e si stesse tranquillamente tornando ai vecchi modelli d’un tempo.

Chi legge invece in profondità questa domanda, s’accorge che essa non rappresenta la riedizione dei temi tradizionali dell’esistenza cristiana, ma li coinvolge sull’onda di problemi relativamente nuovi. Per questo si porta dentro provocazioni quasi inedite.

Dove qualcuno ha saputo raccogliere questa sfida, sono fiorite esperienze di risveglio religioso insperato. Quando invece al silenzio di chi non ha proposte si contrappone solo l’offerta, dura e sicura, di progetti che suonano lontani rispetto ai timidi segni di novità, la sete diffusa può spegnersi soltanto alle cisterne screpolate.

Il mio contributo racconta una di queste storie felici. In essa tanti hanno trovato ragioni di vita e di speranza; ci piacerebbe che l’esperienza continuasse.

 

1.​​ Le coordinate​​ di un profondo cambio​​ di prospettiva

Dedico il primo paragrafo alla ricerca degli elementi che giustificano un profondo cambio di prospettiva nella spiritualità cristiana.

11 modello di spiritualità proposto ha senso solo se è riconosciuta corretta e urgente la prospettiva generale.

 

1.1. La spiritualità come identità del cristiano

Il primo elemento di novità è dato dal modo in cui viene compresa e definita la spiritualità. Nel significato tradizionale e nell’uso spontaneo di molti cristiani, la spiritualità riguarda particolari pratiche religiose e suggerisce precisi atteggiamenti da assumere. Interessa di conseguenza alcuni fortunati, più sensibili di altri nei confronti delle esigenze radicali della vita cristiana.

Questa distorsione di significato ha progressivamente relegato i temi della spiritualità al circolo ristretto degli addetti ai lavori.

Il Concilio ha chiesto invece ai cristiani il coraggio di scommettere sulla universale vocazione alla santità e, di conseguenza, sulla reale possibilità di vivere una piena spiritualità anche in situazione laicale e giovanile​​ (LG​​ 39-41).

Questo modo di vedere le cose sollecita a ripensare a fondo la qualità della spiritualità cristiana.

La spiritualità non è un aspetto marginale dell’esistenza cristiana: è stile di vita e autoconsapevolezza riflessa di questo stile.

Dire «spiritualità» è perciò come dire stabilizzazione di una identità personale, risignificata e organizzata attorno a Gesù Cristo e al suo messaggio, come sono testimoniati nell’attuale comunità ecclesiale.

 

1.1.1. Cosa significa «identità»

Tutti sanno che «identità» non è una parola del vocabolario ecclesiale. Se ne parla spesso; ma ci si aggiunge l’aggettivo «cristiana» per darle una qualifica pertinente. Identità è un termine preso a prestito dalle scienze dell’educazione. Per comprenderne il significato e la risonanza in una ricerca sulla spiritualità, ci mettiamo perciò come buoni discepoli alla loro scuola.

La letteratura sull’argomento è abbondante. Non è però sempre univoca, perché il tema è legato a precomprensioni antropologiche più generali.

Facendo un po’ di ordine e semplificando qualche posizione, possiamo immaginare l’identità come un elaboratore molto complesso di informazioni. L’ambiente esterno, gli altri, la società, le norme, le differenti culture (orientamenti, stili di vita, valori) provocano e stimolano le persone. Ciascuno codifica e organizza questi diversi stimoli in un sistema operazionale interno. Gli serve per cogliere in modo caldo la realtà, per valutarla meglio e decidere dove e come intervenire.

Attraverso l’identità ogni persona si lega così al suo mondo, in modo responsabile e critico. Tutta dalla parte del soggetto, lo delimita rispetto agli altri e lo qualifica, permettendogli di autoriconoscersi e di essere riconosciuto.

Il processo non è né meccanico né automatico. Avviene attraverso la personale capacità di confrontare gli stimoli provenienti dall’esterno con i valori che la persona ha già fatto propri.

Questi valori sono come il «filtro» verso l’esterno: funzionano come normativi delle percezioni, valutazioni e operazioni.

I valori non li recuperiamo da un deposito, terso e protetto, e neppure li ereditiamo con la nascita, come il colore dei capelli e i geni del nostro carattere. Essi sono diffusi nel nostro mondo quotidiano, con tutte le tensioni e le difficoltà di cui esso è segnato. Li assumiamo per confronto e per educazione. L’identità è quindi il frutto, in continua faticosa maturazione, dello scambio tra la storia personale di ogni individuo e i contributi culturali forniti dall’esterno, attraverso cui questa storia viene scritta e vissuta.

Questo è il dato comune ad ogni crescita in umanità. Qui si innesta la dimensione spirituale dell’esistenza.

Una persona è «uomo spirituale» quando la sua identità è «risignificata» attorno a Gesù Cristo.

Non gli basta perciò una identità stabile e ben costruita. In essa deve trovar posto il riferimento con la radice fondante l’esistenza cristiana.

 

1.1.2. Cosa significa «risignificazione»

«Risignificazione» è l’altra parola-chiave. Serve da corrispettivo all’identità, per collocarla dalla parte della spiritualità. Risignificare vuole dire comprendere e definire una realtà da una prospettiva diversa da quella in cui di solito viene interpretata. La lettura nuova non elimina le precedenti; e neppure si mette in conflitto con esse. Invece pretende di poter dire qualcosa di più intenso: una percezione inedita, possibile solo a chi si colloca su questa frontiera.

Nel caso delPuomo spirituale, la prospettiva è l’incontro con Gesù e la decisione di affidarsi totalmente a lui.

Questa esperienza si esprime al livello dell’identità personale; ma la riscrive in un modo originalissimo: la «risignifica».

 

1.1.3. E così la vita quotidiana sta al centro

Questo modo di comprendere la spiritualità, la inserisce violentemente nel fuoco dei problemi della vita quotidiana.

Il cristiano si rende conto di condividere di fatto l’esistenza di tutti. Non possiede nulla che lo autorizzi a considerarsi un estraneo o un arrivato nella mischia della vita quotidiana. Sa che le difficoltà possono essere superate solo nell’impegno e nella solidarietà. Conosce il nome concreto degli eventi, lieti o tristi, che gli attraversano l’esistenza. È davvero, fino in fondo, uomo con tutti gli altri uomini. Eppure sa di vivere nella fede in Gesù Cristo come in un altro mondo. Coerente con questa coscienza credente, compie gesti che lo sottraggono alle logiche del mondo comune. C’è in lui la percezione sofferta come di una doppia appartenenza.

Si sente cittadino di una città che deve rendere sempre più abitabile, per dimorarci con gioia e con trepidazione. E sa di essere a casa solo nella città futura.

Le due città sono così diverse, così reciprocamente lontane, così intensamente affascinanti. Non ne può abbandonare una a favore dell’altra, perché operando in questo stile tradirebbe prima di tutto sé stesso.

Certo, il problema non è nuovo: ha attraversato sempre l’esperienza dei credenti.

La novità è dettata dal modo con cui è vissuta questa tensione.

Il cristiano tradizionale esprimeva così il suo problema: perché interessarsi della vita quotidiana dal momento che è la vita eterna quella che conta? E cercava motivazioni che lo ancorassero di più alla sua terra.

Il cristiano che ha appreso nella maturazione antropologica e teologica le esigenze della autonomia e della responsabilità, è spesso spinto a capovolgere i termini della sua domanda: perché la vita eterna, se è quella quotidiana che più conta?

Se consideriamo bene le cose, è facile accorgersi che non c’è solo un cambio di prospettiva. La vita quotidiana, posta al centro, trascina con sé tematiche che sono molto lontane da quelle su cui è stata scritta per tanto tempo la spiritualità cristiana.

 

1.2. Dal dualismo sacro-profano alla scoperta deirincarnazione

La spiritualità cristiana è sempre radicata su un evento che la fonda e la sollecita: l’avvento di Dio nell’esistenza personale e collettiva dell’uomo. È importante comprendere bene la qualità di questo avvento, penetrando, come siamo capaci, il mistero che lo avvolge.

A questo livello si colloca il secondo cambio di prospettiva. Lo considero con attenzione, perché ci riporta alla radice della nostra esperienza di uomini salvati dall’amore di Dio in Gesù Cristo.

 

1.2.1. La spiritualità della «fuga dal mondo»

Per molti modelli tradizionali di spiritualità, la storia, la vita, il mondo sono collocati nella «profanità». Profano è già giudizio di valore. Significa lontano dal sacro; quindi lontano dalla salvezza di Dio.

La storia risulta così divisa in due blocchi, che si fronteggiano e si escludono a vicenda. Da una parte c’è il mondo della salvezza; dall’altra quello del peccato. Il mondo del peccato è il nostro mondo quotidiano. Il mondo della salvezza è quello che Dio attua attraverso interventi progressivi: i sacramenti, i luoghi e i tempi sacri.

L’uomo spirituale fa una scelta coraggiosa. Abbandona il mondo profano che lo disturba nella sua esistenza spirituale e lo tiene lontano dalla salvezza, e accede progressivamente al sacro. Riscatta così il profano, immergendosi nel sacro.

I cristiani migliori sono quelli che hanno il coraggio delle decisioni coerenti fino alla radicalità. Se la vita è la continua lotta tra sacro e profano, i più impegnati fuggono quasi totalmente il profano e consegnano la loro esistenza al sacro.

I monaci compiono questo salto di qualità in forma istituzionale.

Si separano fisicamente dal mondo profano. Abitano in un luogo diverso da quello degli altri uomini. Hanno ritmi di vita e occupazioni originali. Essi sono i veri cristiani.

Il loro modo di vivere, di esprimersi, di operare rappresenta la spiritualità cristiana nella sua forma più realizzata.

Purtroppo, molti cristiani non possono permettersi il salto di qualità che distingue i monaci. Sono costretti a fare quotidianamente i conti con il profano. La loro casa è vicina a quella degli altri uomini. Hanno impegni e responsabilità comuni a tutti.

Se non possono fuggire fisicamente dal mondo profano, devono almeno tentare l’operazione affettiva. Possono fare spiritualmente quello che non riescono a realizzare fisicamente.

La spiritualità diventa così un invito alla «fuga dal mondo». Per non pronunciare valutazioni troppo frettolose, è importante comprendere bene la logica sottostante a questo orientamento pratico. La «fuga dal mondo» non è la qualità della spiritualità cristiana; è solo la sua condizione, espressa in negativo. La qualità è invece la ricerca appassionata di Dio, il desiderio di «salire» a lui.

L’uomo è assetato di Dio: è stato costruito così dal suo creatore.

Questo desiderio d’infinito costituisce l’uomo stesso nella sua struttura più intima: rappresenta la sua origine e la sua destinazione. In questo ritorno a casa, il mondo, le cose, la struttura stessa dell’uomo fanno da ostacolo. Sono una pallida ombra di Dio, che spesso distrae e allontana da quello che più conta, nella sua fragile vanità.

 

1.2.2. Il cambio radicale di prospettiva: la logica dell’Incarnazione

La riscoperta conciliare dell’evento dell’Incarnazione ha aiutato i cristiani a superare la distinzione rigida tra mondo di Dio e mondo dell’uomo. Ha restituito all’uomo la consapevolezza di una solidarietà insperata con il suo Dio.

È vero che il mondo di Dio e quello dell’uomo sembrano lontani e incomunicabili. Questa però non è l’ultima parola. La parola decisiva è invece Gesù di Nazaret. In lui, nella verità più piena e definitiva, Dio e l’uomo sono diventati ormai radicalmente «vicini». Sono così intimamente vicini da essere in Gesù una realtà personale, unica e irrepetibile.

Il padre del ragazzo fuggito di casa per ubriacarsi di libertà, ha atteso con ansia il ritorno del figlio. L’ha atteso sulla soglia della sua casa. L’ha accolto in un lungo abbraccio, appena ha bussato alla porta. Il Dio di Gesù ha fatto di più: ha abbandonato gli splendori della sua gloria per mettersi alla trepida ricerca dell’uomo. Si è fatto suo compagno di cammino, lungo le strade tortuose del suo mondo e della sua storia, per aiutarlo a tornare a casa.

L’Incarnazione ha capovolto quindi le prospettive: la discesa di Dio nella casa dell’uomo precede e fonda ogni suo desiderio di risalire verso Dio.

 

1.2.3. La «vita quotidiana» come grande mediazione

A chi comprende la realtà in questo modo, viene spontaneo chiedersi quale sia in concreto questa mediazione, che rende Dio vicino e presente?

La mediazione fondamentale è Gesù di Nazaret, nella grazia della sua umanità. È infatti Gesù di Nazaret, quell’uomo che ha un tempo e una storia, una casa, degli amici e dei nemici, l’evento dove Dio si è fatto volto e parola e dove l’umanità è stata trascinata alle sue capacità espressive più impensabili, fino a risultare parola e volto del Dio ineffabile.

La mediazione è quindi l’umanità dell’uomo. In modo sovrano e inimitabile lo diciamo per Gesù di Nazaret. In lui e nella distanza di realizzazione che ci separa da lui, lo diciamo, con gioia trepidante, di ogni uomo, di ciascuno di noi.

L’umanità dell’uomo non è un insieme di eventi fisici, aggregati più o meno casualmente, né è solo una catena di reazioni chimiche. Non è neppure un intreccio confuso di azioni, distese nel tempo senza reciproco collegamento. Se così fosse, la «mediazione» non potrebbe essere considerata come dono da riconoscere e da accogliere nella responsabilità. Si tratterebbe di qualcosa da considerare come estraneo rispetto alla libertà e responsabilità personale dell’uomo. Risulterebbe solo un dato fisiologico, prezioso finché si vuole, ma che sfugge alla responsabilità creativa dell’uomo, come il nascere e il morire. Questa mediazione è invece una trama di esperienze, profondamente e reciprocamente collegate, di cui possiamo affermare la irrinunciabile paternità personale. È la «vita quotidiana»: l’insieme delle esperienze che l’uomo produce, entrando in relazione con gli altri, nella storia di tutti.

Distesa a frammenti nel tempo, la vita quotidiana è un evento unico e articolato: una trama, tessuta giorno dopo giorno, in cui diciamo chi siamo e come ci sogniamo.

La vita, nella sua quotidianità, è la piccola nostra mediazione, che ci immerge nella grande mediazione di Gesù. Questa vita è il luogo dove Dio si fa presente ad ogni uomo, di una presenza tanto intima e profonda da essere più presente a me di me stesso.

Nella nostra vita quotidiana viviamo nello Spirito. Siamo uomini spirituali se sappiamo riconoscere questa presenza e l’accogliamo nella responsabilità.

 

1.3. La sequela di Gesù come passione per la sua causa

11 cristiano che contempla stupito le cose meravigliose che Dio ha compiuto per lui in Gesù Cristo, si chiede, con crescente passione: quale risposta può esprimere adeguatamente il suo profondo desiderio di Dio e la sua gratitudine nel vedersi tanto incredibilmente amato?

La spiritualità tradizionale indica, a chiari segni, l’esigenza di «corrispondere» a tanto amore, attraverso una vita vissuta come espressione di amore. Questa risposta si intreccia generalmente su tre elementi: un modello teologico di esistenza cristiana, l’impegno etico per «meritare» rincontro con Dio, la mistica contemplativa.

Una meditazione più attenta delle fonti della nostra esperienza cristiana propone invece un movimento personale che sta prima degli elementi ricordati, li fonda e, in parte almeno, li ridimensiona. La risposta dell’uomo a Dio non può percorrere il sentiero presuntuoso di un patto bilaterale, come se all’amore di Dio, davvero incredibile, potessimo dar riscontro aumentando la qualità del nostro impegno.

La risposta dell’uomo è la fede, accogliente e obbediente: l’accoglienza dell’amore di Dio come fondazione della propria esistenza e l’obbedienza nella propria vita alla «ragione» di questo amore.

 

1.3.1. Vivere in questo mondo come gente di un altro mondo

La fede nel Dio dell’avvento esige il coraggio di uscire completamente da sé per andare verso lui: un esodo, senza pentimenti e senza ritorni, che è, nello stesso tempo, accoglienza di un invito che viene dall’oscurità e dal silenzio, e assenso alle parole della Sua verità. Tutto questo però senza fuggire dall’esistenza quotidiana, senza rinunciare alla fatica di sperimentare, produrre e ricercare, in compagnia con tutti, il senso che essa si porta dentro.

La fede non si interessa infatti di alcuni temi e problemi tutti suoi, che si aggiungono a quelli che già pervadono resistenza quotidiana. E non è certamente solo l’adesione intellettuale ad alcune informazioni. Oggetto della fede è invece l’esistenza concreta e quotidiana, la storia profana, che è storia e avventura di tutti e luogo dove si affaccia l’avventura salvifica dell’amore di Dio.

Vive di fede colui che legge l’esistenza quotidiana dalla prospettiva del mistero che essa si porta dentro. Questo mistero è collocato oltre la nostra scienza e sapienza. Non lo vediamo e non possiamo manipolarlo. Lo possiamo solo invocare e sperare. Eppure lo possediamo già, tanto intensamente da riuscire ad utilizzarlo come chiave di interpretazione e di decisione delle vicende in cui ci sentiamo protagonisti e responsabili. Leggendo la realtà con uno sguardo che giunge fino al mistero, il cristiano accoglie l’amore di Dio come fondamento della propria esistenza.

In ogni gesto della sua vita si ritrova di fronte ad una alternativa drammatica: comprendere le cose solo alla luce di quello che riesce a decifrare, nell’esercizio sapiente della sua ricerca; oppure riconoscere che la loro verità è più profonda e più intima, le pervade tutte dal mistero di una presenza che confessa in un gioco appassionato di fantasia, di rischio calcolato, di esperienza di amore.

Di fronte all’alternativa tra consegnare a Dio la ricerca della propria sicurezza o assumersene personalmente il carico, nella fede il cristiano sceglie di affidarsi totalmente a Dio, anche quando nutre il sospetto doloroso che ad attenderlo, invece di braccia accoglienti, ci siano soltanto nude rocce.

Vivere nella fede non è quindi accettare qualcosa, ma accettare Qualcuno, rinunciare ad abitare noi stessi in un geloso possesso, per lasciarsi abitare da Dio.

 

1.3.2. Per la causa di Gesù: il Regno di Dio

L’incontro con Dio non è prima di tutto un rapporto affettivo; e neppure è solo la consegna totale di sé a lui. È soprattutto la condivisione di una causa. La fede si fa obbedienza al progetto di Dio, manifestato nella vita di Gesù.

Di questo progetto Gesù ha parlato con toni diversi.

L’evangelo riporta spesso la formula originale di «Regno di Dio». Il Regno di Dio è la causa di Gesù. L’incontro con Dio è misurato quindi sulla condivisione appassionata del Regno di Dio.

Questa è la prospettiva nuova e originale su cui si esprime la qualità dell’esistenza cristiana e, di conseguenza, della spiritualità. Vivere nella sequela è prima di tutto condividere appassionatamente la causa di Gesù. Un notevole impegno di ricostruzione investe la spiritualità cristiana, per affrancarla da troppe sedimentazioni devozionistiche che hanno progressivamente sfuocato la sua dimensione centrale.

Cosa sia «Regno di Dio» ce lo dice Gesù stesso. Quando i discepoli di Giovanni gli hanno chiesto le credenziali, per rassicurare la fede del loro maestro, condannato a morte dalla tracotante malvagità di Erode, Gesù risponde senza mezzi termini: «Andate a raccontare quel che udite e vedete: i ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono risanati, i sordi odono, i morti risorgono e la salvezza viene annunciata ai poveri. Beato chi non perderà la fede in me»​​ (Mt​​ 11,2-6). Per parlare di sé Gesù parla della sua causa e dei fatti che sta compiendo per realizzarla. Ed è un impegno tutto sbilanciato dalla parte della promozione della vita. Qui dentro nasce una autentica esperienza di fede: «beato chi non perderà la fede in me», ricorda Gesù. Regno di Dio è riconoscimento della sovranità di Dio su ogni uomo e su tutta la storia, fino a confessare che solo in Dio è possibile possedere vita e felicità. Questo Dio, però, di cui proclamiamo la signoria assoluta, è tutto per l’uomo. Egli vuole un futuro significativo per l’uomo. Fa della vita e della felicità dell’uomo la sua «gloria».

L’uomo lo riconosce Signore quando si impegna a promuovere la vita e la speranza: in questo egli assicura la «gloria» del suo Dio. Consapevole che i suoi problemi sono il «problema» di Dio stesso, il credente consegna a lui la sua fame di vita e di speranza. Questo è il Regno di Dio.

La conclusione è immediata e concretissima: condividere la sua passione, per rispondere alla chiamata di Dio, connota la promozione della vita e il consolidamento della speranza per ogni uomo, nel nome e per la «gloria» di Dio.

 

2.​​ Una spiritualità della gioia di vivere

La spiritualità cristiana, compresa così, non produce una rottura pregiudiziale tra l’essere nella storia quotidiana e la sequela di Gesù. Al contrario, quando la scriviamo in un confronto disponibile con i modelli culturali e le esigenze più mature di questo nostro tempo, possiamo persino progettare una spiritualità dell’amore alla vita, come alternativa, corretta e matura, alla spiritualità della fuga dal mondo.

Molti cristiani sono giunti oggi a questa conclusione, aprendo una svolta epocale nella storia della spiritualità cristiana.

Lo so che ci sono obiezioni serie contro questa prospettiva. Non mette in crisi il ricordo dei grandi santi che hanno vissuto una spiritualità fortemente centrata sulla rinuncia e sul sacrificio, in una «vita dura» programmata e ricercata con cura puntigliosa. La loro provocazione risulta superabile in un’attenta procedura a carattere ermeneutico.

La contestazione viene proprio da quella passione per il Regno di Dio su cui il cristiano verifica la personale risposta a Dio che in Gesù Cristo chiama a vivere da figli suoi, e lo stile di una esistenza nello Spirito.

Il Regno è dono che ci costituisce nella novità di vita: da accogliere e da celebrare. La festa inesauribile del cristiano è il riconoscimento della signoria di Dio sull’esistente.

Esso è, nello stesso tempo, costruzione lenta e progressiva, consegnata alla dura fatica dell’uomo, nella conversione personale e nell’impegno di trasformazione sociale. Richiede la disponibilità a «perdere» la propria vita, perché la vita sia piena e abbondante in tutti. Nel centro dell’esistenza cristiana sta perciò la croce di Gesù. La croce è per la vita e la felicità dell’uomo; lo è però come morte, ricercata e accolta, perché «il chicco di frumento ha la vita solo quando la perde totalmente» (Gv 12,23).

Possiamo ricercare una spiritualità della gioia di vivere o dobbiamo progettare una frettolosa inversione di tendenza?

I cristiani hanno spesso trattato male la croce di Gesù, accumulando su di essa abusi antropologici e teologici... ma anche questo nostro tempo sta tradendo ampiamente le esigenze della vita. È urgente ricomprendere a fondo cosa è «vita» e cosa è «croce», in un confronto reciproco.

 

2.1. La croce è una scommessa riuscita sulla vita

Gesù di Nazaret è la scommessa di Dio sulla vita, il segno sconvolgente della sua passione. La sua croce non può esprimere la sconfessione del suo progetto. L’evento centrale dell’esistenza di Gesù è sicuramente il gesto più grande (anche se un po’ misterioso, come sono tutti i gesti grandi) di amore alla vita. Gesù non muore sulla croce per denigrare l’amore alla vita, come purtroppo un certo modello di spiritualità tentava di far credere. Gesù muore per testimoniare la serietà con la quale va vissuta, la radicalità con cui va assunto l’impegno di promuovere e di rispettare la vita di ogni uomo.

La croce di Gesù è la testimonianza dell’amore alla vita trascinato fino alle estreme conseguenze.

Basta rileggere la parabola dei vigniaiuoli ribelli. Gesù stesso l’ha raccontata per dare le sue credenziali​​ (Lc​​ 20,9-19).

Il padrone della vigna, quando costata che gli hanno malmenato servi e soldati, «scommette» che le cose cambieranno perché «manda suo figlio».

Nel figlio, consegnato inesorabilmente alla morte, il padrone della vigna scommette per la vita contro la morte, perché dichiara la vittoria sicura della vita sulla morte. Lotta per la vita perché è certo della sua vittoria, nella vita data per amore fino alla morte.

 

2.2. Amore alla vita come «possesso» della vita

La croce di Gesù rivela all’uomo la verità della vita perché gli manifesta il progetto di Dio sulla vita.

L’amore alla vita è un fatto spontaneo e naturale, quasi biologico. Può indicare correttamente la qualità dell’esistenza cristiana solo quando si esprime in un esigente e maturo «possesso» della vita.

Il possesso della vita richiede un movimento personale di riappropriazione riflessa, libera e responsabile. In esso entrano in gioco soprattutto gli atteggiamenti, motivati e consapevoli, del soggetto, e le intenzioni che generano i suoi bisogni e i suoi desideri.

 

2.2.1. Possiede la vita chi la fonda in un evento donato

L’uomo che vuole possedere la propria vita è posto di fronte ad una alternativa radicale. Può farsi volontà di sé stesso, impennandosi in una volontà di potenza, di autoaffermazione, in una pretesa di autosufficienza. Oppure può scoprire che la ragione decisiva della propria esistenza e il fondamento della propria felicità è in un oltre da invocare e da accogliere.

Questa è l’esperienza che si apre ogni giorno sulla nostra appassionata ricerca di senso: il grido presuntuoso della conquista o le mani alzate nell’invocazione e nell’accoglienza. Gesù ci ha raccontato, in una storia concreta, questo modo differente di essere uomini. «Una volta c’erano due uomini: uno era fariseo e l’altro era esattore delle tasse. Un giorno salirono al tempio per pregare. Il fariseo se ne stava in piedi e pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché io non sono come gli altri uomini: ladri, imbroglioni, adulteri, lo sono diverso anche da quell’esattore delle tasse. lo digiuno due volte alla settimana e offro al tempio la decima parte di quello che guadagno”.

L’agente delle tasse invece si fermò indietro e non voleva neppure alzare lo sguardo al cielo. Anzi si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me: sono un povero peccatore!”.

Vi assicuro che l’esattore delle tasse tornò a casa perdonato; l’altro invece no. Perché chi si esalta sarà abbassato; chi invece si abbassa sarà innalzato»​​ (Lc​​ 18,9-14).

Il fariseo e l’esattore delle tasse esprimono due esperienze molto diverse in cui realizzare il possesso della vita.

Il fariseo batte la strada dell’impegno, duro e presuntuoso. Vuole poter guardare Dio negli occhi, quasi alla pari. E gioca la sua esistenza in questo sforzo disperato. È convinto finalmente di esserci riuscito. La sua preghiera è un inno alla potenza della sua buona volontà. Prega per dire a sé e a Dio che non ha ormai più nessun bisogno di pregare. Grida con arroganza la sua autosufficienza.

Il pubblicano, invece, si trova a fare i conti ancora con il limite che segna la sua vita. Come molti di noi, sa di procedere ira entusiasmi e incertezze, in un progetto sognato e mai realizzato. Si scopre capace di perseguire una qualità diversa di vita, anche se costata di restare ancora prigioniero di molti tradimenti.

Questo condizionamento attraversa inesorabilmente ogni esistenza. Esso è come il limite costitutivo dell’uomo, l’esito invalicabile della vita stessa. Il pubblicano vive, in modo riflesso e consapevole, l’esperienza della sua finitudine.

Dal profondo della sua verità, sofferta e scoperta, alza al Signore il grido della sua vita. Riconosce di poterlo pregare non perché ha raggiunto la perfezione, ma perché ne ha un desiderio sconfinato.

Il suo sogno è tanto coraggioso che lo inchioda impietosamente alla sua debolezza e al suo tradimento. Si consegna così a Dio, certo di poter vivere in lui, se diventa capace di confessarlo il Signore della sua vita. Verso il suo Dio alza le braccia, per lasciarsi afferrare da lui.

Riconsegna così a Dio la quotidiana ricerca di fondamento e lo riscopre come la ragione decisiva della propria vita in un profondo atteggiamento di creaturalità.

La finitudine porta l’amore alla vita oltre il confine angusto della propria storia, verso l’accoglienza di un dono insperato e profondamente sognato. Così la vita è finalmente e pienamente «posseduta».

 

2.2.2. Possiede la vita chi la sa «perdere»

In questo movimento ritorna il significato decisivo della croce. Non ci rivela solamente la passione vittoriosa di Dio per la vita. Ci rivela che possiede la propria vita solo chi la sa perdere nel mistero di Dio, accettando di consegnare a lui il nostro insaziato desiderio di vita e di felicità.

Di lui possiamo fidarci incondizionatamente: il nostro è un Dio fedele. Ma è un Dio imprevedibile e misterioso. Non possiamo presumere di rinchiuderlo dentro i nostri modelli, né di catturarlo negli schemi delle nostre logiche. Non possiamo spiegargli di quale vita abbiamo desiderio; né gli possiamo raccomandare i tempi della nostra felicità. Confrontato con la sua fame di vita e di felicità, l’uomo si ritrova, povero e fiducioso, nelle mani di Dio.

Vita e felicità sono tanto dono di Dio che ci raggiungono nelle condizioni più disperate, quando sembra che ormai non ci sia più nulla da fare.

Questa impotenza è la nostra quotidiana croce. La croce che ha portato Gesù, in una solidarietà totale con la debolezza dell’uomo. La croce che tanti nostri fratelli sono costretti a trascinare, perché ad altri uomini torna più comodo che le cose procedano così, nell’oppressione, nello sfruttamento, nell’emarginazione, nella feroce privazione di ogni possibilità di vivere e di sperare. In tutte queste croci, in modo sovrano, Dio ci restituisce vita e felicità.

Nella rivelazione della forza della croce in ordine alla vita, Dio manifesta l’uomo a sé stesso. Gli rivela anche il senso profondo di quegli eventi, di cui la croce è il caso estremo, pieni di tanto sapore di assurdità che qualcuno ha persino tentato di utilizzare la croce di Gesù per far accedere all’umano ciò che tutti gli uomini vivono spontaneamente come disumano.

 

2.3. I segni del futuro dentro il duro ritmo del quotidiano

Ogni giorno, siamo assaliti dalla voglia di unirci al canto degli esuli in terra di Babilonia: «Come cantare i canti del Signore in terra straniera?»​​ (Sal​​ 136).

Per resistere a questa tentazione, abbiamo bisogno di «segni». Solo facendo esperienza, nel segno, che la terra straniera è la nostra terra, riusciamo a cantare i canti del Signore in questa nostra terra, proprio mentre sogniamo, cantando, la casa del Padre.

La festa è la «cifra», il segno più espressivo di una spiritualità della gioia di vivere. La mettiamo al centro, come manifestazione autentica e credente dell’amore alla vita. Nella festa il cristiano non sfugge il presente e neppure lo dimentica per qualche momento. Riempie invece il presente di uno stile diverso di vita per viverci meglio, con più libertà e con maggiore responsabilità. Condivide con tutti il ritmo duro del presente; scopre i segni del futuro tra le pieghe opache del tempo della dura necessità. Per questo crede alla speranza: sogna un presente diverso e si impegna a realizzarlo.

Non ha bisogno di ricercare e di programmare momenti di vita dura: ogni presente ne è già fin troppo pieno.

Non li sfugge però; e neppure li teme. Non vive il tempo della festa e quello del dolore come la scansione inesorabile di un tempo che fluisce con continui ritorni. Vive la festa anche nella vita dura, perché solo così può riempire questi momenti tristi della speranza che viene dal futuro. E vive la lotta, la fatica, la sofferenza anche nel tempo della festa, perché sa che solo a casa la sua festa sarà piena. Anche nel centro della festa, la «vita dura» segna il cristiano che vuole lottare con Gesù per il Regno di Dio.

Ci sono sacche di resistenza, dentro e fuori di noi, da controllare e da sconfiggere. E questo richiede il coraggio della morte.

Solo chi trascina il suo amore alla vita fino alla croce, può costruire veramente vita piena e completa, per sé e per gli altri.

Gesù davvero insegna.

1 momenti tristi che attraversano la nostra vita (dolore, sofferenza, abbandono, malattia, fallimento, morte...) sono il segno — che brucia ogni giorno sulla nostra esperienza — che la strada verso la pienezza di vita è ancora lunga e la meta è ancora lontana. E sono, nello stesso tempo, come frecce che indicano lo stato provvisorio della nostra esistenza. Ci riportano inesorabilmente al contatto con la nostra finitudine.

Soffriamo e moriamo perché siamo gente non ancora arrivata a casa. Ci pensa la vita stessa a ricordarcelo, quando ammaliati dalla casa che abbiamo costruito con le nostre mani, ci dimentichiamo che è solo una tenda, perché la nostra vera casa è più avanti, nell’oltre radioso della casa del Padre. Qualche volta ce lo ricorda impietosamente resistenza stessa.

Qualche volta decidiamo noi stessi di farne esperienza. E così ci stacchiamo un po’ dalle cose belle che riempiono la nostra esistenza. Non lo facciamo per disprezzo e neppure per quella strana concezione di «mortificazione», che vorrebbe anticipare nel gioco quell’evento triste della cui verità abbiamo una paura terribile. Lo facciamo per scelta motivata e riflessa: la serietà e la consistenza dei «beni penultimi» non può farci dimenticare la loro provvisorietà e relatività rispetto a quelli definitivi.

Smettiamo, per qualche momento, di goderli, per riconoscerci pellegrini in cammino verso esperienze più grandi.

La vera «mortificazione» del cristiano è la capacità di entrare dentro le cose, in una continua ascesi del profondo, per cogliere la loro dimensione di verità. Una spiritualità della gioia di vivere ha bisogno di veri «monaci delle cose»: gente capace di traforare il quotidiano, superando il suo fascino e la sua opacità. Spesso ci impegniamo a lunghi e faticosi esercizi al rallentatore, per diventare veramente capaci di una piena «contemplazione del quotidiano».

L’atto supremo della «vita dura» del cristiano è determinato dalla capacità di perdonare, fino a costruire riconciliazione dove prima c’era lotta e divisione. Il perdono non è il gesto sciocco di chi chiude gli occhi di fronte al male per il timore di restarne troppo coinvolto o quello pericoloso di chi giustifica tutto, per rimandare la resa dei conti ai tempi che verranno. Il perdono del cristiano è invece un gesto di profonda lucidità, consapevole che chi fa il male è meno uomo di chi lo subisce: un gesto che vuole spezzare l’incantesimo del male, rompendone la logica ferrea. Il cristiano perdona per inchiodare il malvagio al suo peccato, spalancandogli le braccia nell’accoglienza. Il perdono è l’avventura della croce di Gesù: il gesto, lucido e coraggioso, che denuncia il male, lotta per il suo superamento, riconoscendo nella speranza che la croce è vittoria sicura della vita sulla morte.

 

3.​​ Una festa impegnata per la vita

Festa e croce sono come le due facce di una stessa passione per il Regno di Dio. Il Regno di Dio va costruito con un impegno serio e progressivo: la vita non è ancora esplosa in tutta la sua pienezza e non è ancora vita in tutti e per tutti. Questa fatica è vissuta però nella certezza che il Regno è già in mezzo a noi, come un piccolo seme che cresce in un albero grande.

La festa è per il cristiano la confessione della potenza di Dio che opera in Gesù Cristo nella storia personale e collettiva.

Possiamo testimoniare che Dio ha fatto già nuove tutte le cose, in Gesù consegnato alla croce perché la vita trionfi, solo se riconosciamo i segni di questa immensa novità, anche nel groviglio dei segni di morte e se ci impegniamo, nella dura fatica della lotta, a far nascere vita dove regna ancora la morte. Per dire questo in modo concreto, immagino tre situazioni diverse. Sulla loro risonanza è possibile prevedere differenti modelli di intervento. Nei primi due, il cristiano esprime il suo impegno in piena compagnia con tutti gli uomini che credono alla vita. Nel terzo, si ritrova inesorabilmente un solitario, nella solitudine della croce del suo Signore. Ciascun livello richiede un modo diverso di coniugare croce e festa, impegno duro e capacità di sognare.

 

3.1. Quando le responsabililà sono chiare e precise

Esistono situazioni di male e di morte che dipendono chiaramente dalla malvagità degli uomini e dalla violenza esercitata dalle strutture che essi hanno costruito. Non riusciamo però ad essere giudici imparziali, perché sappiamo di essere immersi in una solidarietà così profonda che quando chiamiamo per nome i responsabili di questi tradimenti, siamo sempre costretti a pronunciare, almeno sottovoce, anche il nostro nome.

In questi casi, stare dalla parte della vita significa conversione e lotta. Per affermare la vita contro la morte, dobbiamo coraggiosamente lottare contro tutti quelli che fanno della morte la loro bandiera. Dobbiamo però assicurare una continua «conversione», personale e collettiva. Solo uomini fatti nuovi, in una trasformazione radicale, possono nella verità impegnarsi per la vittoria della vita. Lotta e conversione si esprimono in una vicinanza amorevole e appassionata con chi soffre ed è oppresso. In questo gesto di inesauribile libertà, il cristiano testimonia che ogni uomo è capace di giocare tutto di sé per la sua vita, se è restituito alla gioia di vivere e al coraggio di sperare.

 

3.2. Quando ti vuole il coraggio di progettare l’inedito

Ci sono poi delle situazioni di male e di morte in cui riesce difficile identificare le responsabilità o appare complicato programmare gli interventi necessari. Mille segnali inducano a cogliere innegabili responsabilità. Gesti e voci coraggiose fanno intravedere vie di uscita. Resta però l’impressione di ritrovarsi come in un labirinto intricato. Le responsabilità sfumano come nebbie al sole e gli interventi sono sempre rimandati, per ragioni superiori. In questi casi stare dalla parte della vita richiede al cristiano il coraggio delle previsioni a lungo termine e la tenacia che sollecita alle inversioni di rotta. La prassi di liberazione diventa impegno politico e culturale, come indispensabile condizione per permettere al bene di esprimersi pienamente e alla vita di vincere progressivamente sulla morte.

A questo livello, l’impegno per la vita risulta come una scommessa impegnata: affonda sulla serietà e competenza dell’impegno, ma procede sul rischio che le cose possono cambiare, se tutti ci mettiamo a cercare alternative.

La festa, che è capacità di sognare, spinge a cercare il nuovo e l’inedito come alternativa praticabile e convincente rispetto alle dure «regole del gioco», nelle cui maglie restano sempre prigionieri i più deboli e i più poveri.

 

3.3. La festa della vita contro il regno della morte

Esistono situazioni di male e di morte le cui responsabilità non dipendono da nessuna cattiva volontà. Sono il limite invalicabile della nostra esistenza: siamo consegnati inesorabilmente a questa morte proprio perché siamo immersi nella vita.

In questo caso, di fronte al male che appare ineliminabile dalla esistenza delle singole persone, il cristiano testimonia nella sua speranza un progetto di salvezza che è vita, perché è libertà di portare questo male, senza esserne schiacciati, in piena solidarietà con la croce di Gesù. Come Gesù, abbandonato dagli amici nella solitudine dell’orto degli ulivi, oppresso dalle feroci prospettive che si addensano sul suo capo, soffre la disperazione del limite invalicabile in cui è prigioniera la sua esistenza. Ma guarda avanti, verso la luce senza tramonto.

Nel piccolo, l’ha già superato tante volte questo confine. Gode della compagnia di amici che hanno già vinto la morte: il Crocifisso risorto, Maria, i grandi martiri della fede, dell’amore all’uomo, della libertà.

Con loro, nella speranza, il cristiano «convive» con la morte e con la sofferenza, nell’attesa dell’appuntamento con il Regno, nei cieli nuovi e nella nuova terra, in cui ogni lacrima sarà finalmente e definitivamente asciugata.

A questo livello l’impegno del cristiano è solo la festa: la piccola festa della libertà e della vita che anticipa la grande festa della casa del Padre. La festa è lo straordinario evangelo della vittoria definitiva della vita sulla morte, anche quando ci sentiamo immersi nel greve sapore della morte quotidiana.

 

4.​​ Il cristiano spera in Dio e ama la terra

Non siamo cristiani solo perché ci impegnarne in una prassi promozionale e liberatrice e neppure perché raccontiamo la storia di Gesù per la vita degli uomini.

Siamo cristiani davvero «solo se ci decidiamo ad adorare Dio nella sua assolutezza; solo se cerchiamo di amarlo con un ardire in apparenza del tutto sproporzionato alle nostre forze; se ammutoliti, capitoliamo di fronte alla sua incomprensibilità e accettiamo tale capitolazione della conoscenza e della vita come l’evento della massima libertà e della salvezza eterna» (K. Rahner).

Riconosciamo Dio radicalmente diverso da tutte le altre realtà che fanno la nostra terra. Non è uno dei tanti nostri interlocutori. E neppure è quell’ultima risorsa che serve a pareggiare i bilanci in situazione di crisi. Solo lui è la realtà vera. Di fronte a lui diventa irreale tutto quello che consideriamo come realtà salda e consistente.

Egli è il grande «sogno di futuro», mistero incomprensibile e sempre presente, che tutto sorregge e orienta, proprio mentre tutto relativizza.

Ci dà la parola. E ci sprofonda nel silenzio, dove le parole non bastano più.

Veniamo da una radice che non abbiamo seminato; pellegriniamo lungo una strada che sfocia nell’incomprensibile libertà di Dio; siamo protesi tra cielo e terra e non abbiamo né il diritto né la possibilità dì rinunciare a nessuno dei due dati. Non sappiamo neppure, in modo assolutamente certo, come la nostra libertà stia concretamente orientandosi nel gioco della nostra esistenza.

L’esistenza del cristiano è perciò un salto nell’abisso sconfinato di Dio. La sua speranza risulta praticabile e sensata solo mediante quel fondamento che non possiamo comprendere né manipolare.

Per questo, il cristiano vive il suo smarrimento quotidiano come un passo obbligato per avvicinarsi al santo mistero di Dio. Cammina verso la solitudine inesorabile della morte, confessando, con speranza trepidante, la certezza di poter affrontare questo mistero di solitudine nell’abbraccio di Dio. Quando si abbandona al suo Dio, il cristiano non si getta mai alle spalle la vita di tutti i giorni. Supera la sua vita per consegnarsi al mistero che la sovrasta; e la prende continuamente con sé nel movimento della sua speranza.

Spera in Dio e ama la sua terra. Appassionato della vita, la vuole piena e abbondante per tutti.

È impegnato in prima linea nel compito, duro ed esaltante, di dare un senso alle vicende della storia quotidiana, per renderla dimora, accogliente e abitabile, per tutti gli uomini. Ha però una grande, insaziabile nostalgia di casa. Gli cresce dentro, tutte le volte che riesce ad anticipare «come in uno specchio» quell’incontro «a faccia a faccia» con Dio, la ragione decisiva della sua esistenza.

La nostalgia dell’incontro con Dio spinge a ricercare momenti di contemplazione gratuita. Costringe a dare un posto rilevante nella vita ai segni che esprimono, in modo più evocativo, questa sconvolgente «presenza». Il cristiano vive nell’oggi, tutto proteso verso Poltre della casa del Padre, in nome di quell’appuntamento con il Regno, unico approdo di perfezione piena e definitiva, quando l’incontro con Dio in Gesù Cristo per lo Spirito, superati i veli della sacramentalità, esploderà in tutta la sua luminosità.

 

Bibliografia

Ancilli E. (ed.),​​ Le grandi scuole della spiritualità cristiana, Edizioni O. R., Milano 1984; Coffele Gf. – R. Tonelli (edd.),​​ Verso una spiritualità laicale e giovanile, LAS, Roma 1989; De Fiores S.,​​ Spiritualità contemporanea, in Nuovo dizionario di spiritualità, Edizioni Paoline, Roma 1979, 1516-1543; Goffi T. - B. Secondin (edd.),​​ Problemi e prospettive di spiritualità, Queriniana, Brescia 1983; Helewa G. - E. Ancilli,​​ La spiritualità cristiana. Fondamenti biblici e sintesi storica, Edizioni O. R., Milano 1987; Holotik G.,​​ Pour une spiritualità catholique selon Vatican II, in Nouvelle revue théologique, 107 (1985) 838-852; ib. 109 (1987) 66-77; Rahner K.,​​ Teologia dall’esperienza dello Spirito. Nuovi saggi VI, Edizioni Paoline, Roma 1978; Rizzi A.,​​ Dio in cerca dell’uomo. Rifare la spiritualità, Edizioni Paoline, Torino 1987; Tonelli R.,​​ Una spiritualità per la vita quotidiana, LDC, Leumann 1987.

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SPIRITUALITÀ GIOVANILE
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