SPAGNA

 

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1.​​ Evoluzione del pensiero cat.: 1945-1983. Principali iniziative di rinnovamento

a)​​ 1945-1965.​​ Fino alla guerra civile (1936) la Spagna visse una tappa cat. feconda nella linea del “movimento psicologico di → Monaco”, promosso e inculturato per opera di Daniel → Fiorente, parroco e poi per lunghi anni vescovo di Segovia (t 1971). Finita la guerra (1939) e fino al 1975 si instaurò in Spagna il cosiddetto “nazional-cattolicesimo”, la cui tesi centrale era: “Cattolicesimo e patria sono consostanziali”. La sua teologia politica ispirò il Concordato del 1953, che legittimò ufficialmente il sistema. In quel periodo, la Spagna sofferse un isolamento politico ed economico. Questo e il medievalismo religioso vigente tagliarono la comunicazione della Chiesa spagnola con le scienze sacre e umane, che seguivano il loro corso nel centro Europa. La C., non alimentata dalla rivelazione e dalla teologia rinnovata, inaridì nel​​ dottrinale​​ e nel​​ metodologico.

Ma i cambiamenti culturali interessano anche la Spagna. Già nel decennio precedente il Concilio le esperienze e i movimenti ecclesiali e pedagogici al di là dei Pirenei penetrano in Spagna per mezzo di sacerdoti e religiosi: C. Floristàn, J. M. Estepa, J. J. Rodriguez Medina, C. Sànchez Aliseda. Costoro danno origine a Istituti Pastorali a Salamanca, a traduzioni di opere di pastorale centroeuropea, a nuove riviste cat., ecc. La corrente kerygmatica tocca la C. spagnola e viene ricuperata la connessione col nuovo movimento cat. La nomina di J. M. Estepa come direttore del​​ Segretariato Nazionale di Catechesi​​ (SNC) nel 1965 assicurerà la rinascita cat. postconciliare.

b)​​ 1966-1976.​​ La celebrazione delle​​ Prime Giornate Nazionali di Studi Cat.​​ (Madrid 1966) offre l’impulso ufficiale al rinnovamento. Ispirate dalla dottrina conciliare, esse rivitalizzano la C., soprattutto nel suo contenuto, obiettivi e identità come azione della Chiesa. Lo spirito → kerygmatico impregna i “Catechismi scolastici” (Catecismos​​ Escolares,​​ 1968) e l’importante documento della Commissione Episcopale per l’Insegnamento e l’Educazione Religiosa — poi per la C. — (CEEC):​​ La Iglesia y la Educación en Espana, boy​​ (1969). La XVIII Assemblea Plenaria dei vescovi spagnoli sul tema: “L’educazione nella fede del popolo cristiano» (1973) segue la linea del DCG della Santa Sede (1971) e consacra la C. esperienziale. Nascono strumenti ufficiali, come​​ Con vosotros està​​ (per gli 11-14 anni, 1976) e la​​ Biblia para la iniciación cristiana​​ (1977), e non ufficiali, come​​ Odres nuevos​​ (per i 14-18 anni, 1976), di A. Aparisi.

Medellin (1968) interpella la coscienza europea, accettando la posta in gioco di una C.​​ liberatrice​​ dell’uomo inserito in strutture oppressive. Questa esigenza coincide con una situazione spagnola ogni giorno meno compatibile con la libertà umana ed evangelica: ne è testimone l’Assemblea congiunta Vescovi-Sacerdoti​​ (1971) e il documento​​ La Chiesa e la comunità politica​​ (1973), che segnano l’abbandono ufficiale dell’ideologia nazionalcattolica. La C. liberatrice non piacque ai vescovi, dato il forte impegno socio-politico delle prime “comunità popolari”, ma aprì la strada a numerose realizzazioni pregevoli di C., anche a livello diocesano (Madrid).

c)​​ 1977-1983.​​ La netta distinzione tra politico e religioso, operata nella Costituzione del 1978, permise alla pastorale di liberarsi da supplenze e concentrarsi nella sua missione. All’”identificazione” della C. contribuì il Sinodo del 1977 col suo atteggiamento di discernimento e convergenza, come appare nei piani triennali della CEEC 1978-1981 e 1981-1984, elaborati con la partecipazione delle basi diocesane. L’opzione di questa “nuova tappa” è la C.​​ comunitaria.​​ In ambedue i trienni l’obiettivo prioritario è “una C. a partire da, in e per la comunità cristiana”, e le linee di azione sono: il​​ carattere proprio​​ della C.; C. per l’identità cristiana;​​ verso spazi comunitari a​​ livello umano,​​ aperti alla Chiesa locale; C. come​​ processo permanente e​​ primato della C.​​ degli adulti;​​ attenzione alla​​ formazione dei catechisti.

Per approfondire l’identità della C. nell’attuale contesto spagnolo, la CEEC — con lo stimolo e la collaborazione delle diocesi — pubblica​​ La C. de la Comunidad​​ (1983). Di contenuto teologico-pratico realistico, il documento tenta di ridurre a sintesi originale gli apporti cat. degli ultimi lustri. Accentua la dimensione missionaria della C. e auspica perfino una evangelizzazione missionaria in senso stretto in Spagna: la fede degli spagnoli non può più essere supposta. Trattando invece degli​​ elementi dell’identità cristiana,​​ sottolinea prevalentemente — almeno nel suo sviluppo — quelli dogmatici, lasciando in secondo piano gli elementi morali, le responsabilità temporali e l’assunzione critica dei valori della nostra civiltà. In ogni caso, il documento sarà illuminante per il futuro, nel contesto del piano della Conferenza Episcopale Spagnola formulato in​​ La visita del Papa y el servicio a la fe de nuestro pueblo​​ (1983). Qui i vescovi dichiarano la fede obiettive prioritario a cui tendere nei prossimi anni. In questo senso, la C. di domani dovrà promuovere​​ comunità cristiane aperte all'evangelizzazione missionaria e liberatrice​​ nei diversi ambienti.

2.​​ L’IR nella scuola

a)​​ Statuto giuridico e organizzazione scolastica.​​ Fin dall’apparire della realtà scolastica, la Chiesa spagnola ha considerato l’IR un canale importante di educazione nella fede. Negli ultimi 40 anni, l’IR vive due situazioni diverse, divise dalla Costituzione del 1978 e dall’Accordo tra la S. Sede e lo Stato Spagnolo del 1979 su “Insegnamento e problemi culturali”.

— La​​ Legge Generale dell’Educazione​​ (1970), per correggere i difetti del regime educativo precedente, pretese una riforma globale, articolata e progressiva, fondata sulla libertà, l’uguaglianza, la gratuità di base e sugli ultimi ritrovati pedagogici. La Legge garantisce l’IR obbligatorio e l’azione pastorale. L’impregnazione cristiana della​​ Legge Generale dell’Educazione​​ e il consolidamento dell’IR fu dovuto, in gran parte, alla dichiarazione della CEEC​​ La​​ Iglesia y​​ la​​ Educación en España, hoy​​ (1969).​​ Ciononostante, a partire dalla transizione politica del 1975, si fa luce una istanza, che proviene dagli anni ’60, per la​​ libertà religiosa,​​ specialmente ai livelli superiore e universitario. — Questa arriva con l’Accordo del ’79. Nei centri non universitari e nelle Scuole Universitarie di Magistero (EE.UU.P.), l’IR è materia​​ ordinaria e obbligatoria​​ per tutte le scuole, ma non per​​ tutti​​ gli alunni, nel rispetto della libertà religiosa. Nei centri non universitari si eviterà la​​ discriminazione​​ di quanti non frequentano l’IR; per questo nella secondaria superiore (BUP) e Formazione Professionale (FP) viene introdotta, come alternativa, l’Etica. Nei centri universitari pubblici può esserci un IR opzionale e possono essere organizzati Centri di Studi Teologici. Il corpo docente aggiunto all’organico di ruolo viene proposto dal vescovo, tra persone competenti, e stipendiato dallo Stato. Attualmente questa rimunerazione è disuguale nei livelli materno ed elementare (Preescolar-EGB), BUP-FP e nelle EE.UU.P., perché ancora non è stata firmata l’intesa prevista. La Chiesa punta a fare dell’IR un “ministero laicale”.

b)​​ Finalità e concezioni dell’IR. Prima del Concilio,​​ l’IR si concentrava nell’esposizione della dottrina cristiana come teologia concentrata, con scopi di ortodossia e di morale applicata. Col​​ rinnovamento cat.​​ — kerygmatico e antropologico — la religione diventa​​ Formazione Religiosa​​ o​​ “C. scolastica”, in cerca della maturazione della fede integrale nell’alunno. Gruppi di insegnanti contestano questa confusione tra IR e C. Nel 1979 la CEEC, col documento chiarificatore​​ Orientaciones pastorales sobre​​ la​​ Enseñanza​​ Religiosa​​ Escolar,​​ presenta l’IR come materia​​ scolastica, ordinaria, confessionale, ecclesiale e “sintesi tra fede e cultura”. Il documento lascia però la questione aperta, e sollecita gli esperti a continuare la ricerca.

3.​​ Organizzazione della C. per le diverse categorie di persone e nei vari contesti

Dal 1935 le Commissioni e i Segretariati cat. fanno della C. una forte istituzione diocesana.

a)​​ L’attività e l’organizzazione delle diocesi consigliano, nel 1957, la creazione del SNC. Suo precipuo compito è la realizzazione del​​ Catechismo Nazionale Testo Unico​​ (19571961).​​ A partire dal 1965, col nuovo direttore e con l’appoggio della CEEC, di una équipe qualificata e altri collaboratori, il SNC stimola il rinnovamento con molteplici attività. Strutturato in 4 Dipartimenti negli anni ’70, continuerà a potenziare i Segretariati Diocesani come canali privilegiati del cambiamento.

b)​​ In tutte le diocesi funziona il Segretariato Diocesano, più o meno strutturato in dipartimenti.

— La C. degli​​ adulti​​ prende l’avvio dal movimento catecumenale preconciliare. Finito il Concilio, sorgono a Madrid le tre grandi correnti del catecumenato in Spagna: il catecumenatodiocesano”, le “comunità popolari” e le “comunità neocatecumenali”. Il “Movimento per un Mondo Migliore” suscita nella diocesi di Bilbao dei catecumenati con riferimento parrocchiale. Il SNC, specialmente dopo le giornate di studio su “Esperienze catecumenali in Spagna, oggi” (1974), promuove una seria ricerca sulla C. e sul​​ Catecumenato degli adulti,​​ in collegamento con le diocesi e regioni pastorali (Madrid, Catalogna e le Isole, Paese Basco, Murcia, Huelva, ecc.). Oggi si sente la preoccupazione di ricontattare “i lontani”.

— La C. dei​​ giovani-adolescenti​​ ha fatto strada dagli anni ’70, soprattutto attorno alla → confermazione. Quando questa viene celebrata ai 14, 16, 18 anni, è preceduta da uno o due anni di preparazione “catecumenale”. Diverse diocesi la collegano con la → pastorale giovanile (14-25 anni). Il SNC aiuterà a unificare questa diversità elaborando, con altri organismi ecclesiali, un “progetto-cornice” per la confermazione in collegamento con la pastorale della gioventù.

— La C. dei​​ preadolescenti-fanciulli​​ occupa ancora in Spagna “la parte del leone”, e assicura la continuità dopo la prima comunione. Ma è urgente offrire un piano di “C.​​ diretta​​ con i genitori” di taglio missionario. — Il​​ linguaggio totale​​ e​​ l'audiovisivo​​ sono frutto degli ultimi 15 anni. Il relativo Dipartimento del SNC e altre istituzioni hanno profuso iniziative per la creazione di audiovisivi degni, per portare il linguaggio totale alla C. e, soprattutto, per formare esperti per le diocesi.

c)​​ La C. funziona in tutte le parrocchie,​​ e si vedono i frutti dell’”opzione comunitaria”. La corresponsabilità impregna progressivamente la C. di adulti e giovani. È in via di potenziamento la formazione di catechisti per la confermazione, specialmente di adulti, d) Finalmente, sono state create le​​ Regioni Pastorali​​ di Galizia,​​ Duero,​​ Paese Basco, Catalogna e le Isole, Aragona, Madrid, Andalusia. Altre dovranno sorgere: è compito improrogabile per il SNC. Questa struttura intermedia della C. spagnola non solo si rivela pastoralmente feconda, ma è “segno” di una Chiesa più vicina all’ideale del Vaticano Il:​​ più partecipata, servizievole​​ e​​ corresponsabile.​​ È un fatto positivo la progettata vincolazione delle Regioni al SNC attraverso i relativi delegati.

Bibliografia

Actualidad​​ Catequética”: rivista del SNC, archivio vivo del movimento cat. spagnolo; A. A.​​ Bolado,​​ El experimento​​ del​​ Nacional-Catolicismo:​​ 1939-1975,​​ Madrid, 1976; A.​​ Cañizares,​​ Actualidad​​ catequética”​​ en​​ su​​ historia,​​ in “Actualidad​​ Catequética” 20 (1980) 100, 87-103;​​ Catcquesis​​ de la​​ Comunidad​​ cristiana,​​ hoy​​ (Plan trienal ’81-'84),​​ ibid. 22 (1982) 106, 33-58; CEE,​​ Programa pastoral de la CEE: La visita del Papa y el servicio a la fe de nuestro pueblo,​​ Madrid, 1983; CEEC,​​ La Catcquesis de la Comunidad,​​ Madrid, 1983; Id.,​​ La Iglesia y la Educación en España, hoy,​​ Madrid, 1969; Id.,​​ Plan de acción de la Comisión Episcopal de Enseñanza y Catcquesis para el trienio 1981-1984,​​ in​​ “Actualidad Catequética” 22 (1982) 106, 9-58; Id.,​​ Plan de acción de la Comisión Episcopal de Enseñanza y Catcquesis, Trienio 1984-1987, Catcquesis – Enseñanza religiosa escolar – Educación Católica,​​ Madrid, Fundación Santa María, 1985;​​ Documentos colectivos del Episcopado Español sobre la Formación Religiosa y Educación, 1969-1980,​​ Madrid, 1980;​​ La educación en la fe del pueblo cristiano. Líneas de acción​​ de la​​ XVIII Asamblea​​ Plenaria,​​ in​​ “Actualidad Catequética” 13 (1973) n. 63, F.1A;​​ J.​​ M. Estepa,​​ Dix années de travail catéchétique ... en Espagne,​​ nel vol. BICE,​​ Dix années ... dans le monde au Service de la​​ Formation​​ religieuse​​ de​​ l’enfance,​​ Paris,​​ Fleurus, 1960;​​ Por una formación religiosa para nuestro tiempo. Actas de las I Jornadas Nacionales de Estudios Catequéticos, 1966,​​ Madrid, Marova, 1967;​​ La Iglesia y la Enseñanza,​​ in​​ “Pastoral Misionera” 15 (1979), 1-2; J. López,​​ España, País de misión,​​ Madrid, PPC, 1979;​​ Una nueva etapa en el Movimiento Catequético​​ (Plan trienal ’78-’8T),​​ in​​ «Actualidad Catequética» 19 (1979) 92-93, 9-24;​​ Nuevos Acuerdos Iglesia-Estado,​​ in​​ «Iglesia viva» 14 (1979) n. 79;​​ Orientaciones pastorales sobre la E.R. Escolar,​​ Madrid, EDICE, 1980; V. M. Pedrosa,​​ Ochenta años de Catcquesis en la Iglesia de España,​​ in​​ “Actualidad Catequética” 20 ( 1980) 100, 45-86; L. Resines,​​ Obra y pensamiento catequético de Daniel Llórente,​​ Valladolid, 1981​​ (tesi).

Vicente M. Pedrosa Ares

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SPAGNA

SPALDING John Lancaster

 

SPALDING John Lancaster

n. a Lebanon (Kentucky) nel 1840 - m. a Peoria (Illinois) nel 1916, vescovo, pedagogista statunitense.

1. Nessun leader cattolico nell’ultimo sec. negli Stati Uniti impose il rispetto o esercitò l’influenza del vescovo S. Nato da una delle più antiche e ricche famiglie d’America, S. divenne uno dei prelati più istruiti e colti della gerarchia americana. Studiò per il sacerdozio in vari seminari americani, a Lovanio e a Roma.

2. Come vescovo, uno dei suoi scopi principali fu lo sviluppo delle scuole parrocchiali. Durante la sua amministrazione a Peoria (1877-1908), le scuole parrocchiali aumentarono di numero, passando da 12 a 70 e le iscrizioni da 2.010 a 11.360. Fu uno dei primi leader cattolici ad incoraggiare l’istruzione delle ragazze e sostenne numerose scuole superiori con personale religioso femminile. S. fu un uomo dai molti talenti. La creazione di un’università cattolica fu solo un aspetto del suo impegno nel campo dell’istruzione Brillante e dotato, poeta, colto ed erudito, scrittore di libri di religione, filosofia, sociologia e pedagogia, con le sue opere in campo pedagogico ebbe riconoscimento a livello nazionale.​​ Esse includono:​​ Education and the higher life​​ (1890);​​ Means and ends of education​​ (1895);​​ Thoughts and theories of life and education​​ (1897);​​ Religion,​​ agnosticism,​​ and education​​ (1902).​​ Il suo ruolo come educatore che lasciò un’impronta profonda nell’istruzione cattolica fu definito nel migliore dei modi da Papa Pio X: «Pochi vescovi hanno avuto una così grande influenza sull’esperienza scolastica degli individui, persino al di fuori della religione e al di fuori della confessione cattolica, quanto il vescovo S.».

Bibliografia

McCluskey N. G.,​​ Public schools and moral education,​​ New York, Columbia University Press, 1958; Ellis J. T.,​​ J.L.S.,​​ Milwaukee, 1962; Curti M.,​​ The social ideas of American educators,​​ Paterson, 1965; Viotto P., «La pedagogia dello spiritualismo nei paesi di lingua inglese», in​​ Nuove questioni di storia della pedagogia,​​ vol. III, Brescia, La Scuola, 1977, 716-719.

M. Ribotta

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SPALDING John Lancaster

SPEARMAN Charles Edward

 

SPEARMAN Charles Edward

n. a Londra nel 1863 - m. a Londra nel 1945, psicologo e statistico inglese.

Dopo le prime ricerche con Wundt (​​ pedagogia sperimentale), ha studiato a Würzburg e a Göttingen. Nel 1907 è rientrato a Londra, dove ha insegnato all’Università fino al 1931. Fin dal 1904 S. si è dedicato allo studio della struttura dell’intelligenza umana. Allo scopo, ha ripreso e sviluppato gli apporti di K. Pearson e applicato ai test mentali una tecnica di analisi statistica innovativa: l’analisi fattoriale.​​ Ne è derivata una teoria bifattoriale dell’intelligenza, secondo la quale le attività cognitive impegnano tutte un fattore generale comune (il fattore «g») e fattori di second’ordine o attitudini specifiche (fattori «s»). Il modello proposto da S. è stato sviluppato successivamente dai fattorialisti inglesi (per es.​​ ​​ Burt), che hanno messo a punto una teoria gerarchica dell’intelligenza. Ricercatori americani (come L. Thurstone) hanno opposto ad esso un modello multifattoriale delle attività intellettuali, nel quale si negava l’esistenza di un fattore generale sovraordinato. Gli studi più recenti (Gardner, 1987) tendono a valorizzare le differenze nelle strutture intellettuali che si creano nei diversi periodi storici e nelle differenti culture (teoria delle intelligenze multiple). Anche se ha subito evoluzioni, l’apporto di S. resta comunque rilevante.

Bibliografia

a) Tra le opere di S.:​​ The nature of intelligence and principles of cognition,​​ London, Macmillan, 1923;​​ The ability of man,​​ Ibid., 1927;​​ Psychology down the ages,​​ Ibid., 1937. b) Su S.:​​ Covello H. L.,​​ Los factores mentales de S. y las potencias escolásticas, Córdoba (Argentina), Universidad de Córdoba. Facultad de Filosofía. Instituto de Metafísica, 1955;​​ Collis J. M. - S. Messick - U. Schiefele​​ (Edd.),​​ Intelligence and personality, Mahwah (N.J.), Erlbaum, 2001; Harrison K. - C. R. Brand,​​ The variable importance of general intelligence («g») in the cognitive abilities of children and adolescents, in «Educational Psychology», 26 (2006)​​ 6, 751-767.​​ 

C. Coggi

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SPEARMAN Charles Edward

SPECIALE – Catechesi

 

SPECIALE (Catechesi)

Dal​​ punto di vista​​ pastorale si possono distinguere nella società certi gruppi di persone, giovani o adulti, che in una o più prospettive sono talmente diversi dalla gente comune da richiedere anche un approccio pastorale particolare. È il caso, per es., di malati cronici, pazienti psichiatrici, anziani, prigionieri, operai stranieri, militari, ecc. In un senso molto ampio la C. per ciascuno di questi gruppi può essere indicata come “C. speciale”.

Normalmente però il termine CS è riservato per caratterizzare l’azione pastorale verso diverse categorie di → handicappati, generalmente fanciulli e giovani, talvolta anche adulti. Le categorie più frequenti sono: handicappati mentali, handicappati fisici, handicappati sensoriali, emarginati sociali, persone con disturbi emotivi e psichici. Si presentano anche casi in cui diverse forme di handicap sono contemporaneamente presenti, il che ovviamente non fa che aggravare i problemi. È possibile sviluppare una CS, particolarmente adattata, per ciascuna di queste categorie di handicappati, come risposta alla specifica situazione creata dall’handicap e alla problematica ortopedagogica. In fondo si tratterà sempre dello stesso messaggio cristiano e della medesima risposta di fede da parte dell’uomo; però l’elaborazione concreta della C. dovrà avere una configurazione particolare. Spesse volte le capacità di assimilazione sono molto ostacolate, come è il caso degli handicappati mentali e sensoriali. Altre volte il problema sarà di natura relazionale, come è il caso di emarginati sociali e persone con disturbi caratteriali. Lo specifico di questa CS consisterà normalmente in alcune accentuazioni metodologiche.

Per ulteriori indicazioni, cf → handicappati fisici, → handicappati mentali, → handicappati sensoriali, con relativa bibliografia.

Marcel​​ Van​​ Walleghem

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SPECIALE – Catechesi

SPERANZA

 

SPERANZA

1)​​ Nel linguaggio quotidiano ritorna spesso il verbo “sperare»: speriamo di guarire, di trovare un lavoro, di incontrare la persona giusta, di non soccombere alla catastrofe atomica, ecc. “Per agire — scrive il catechismo​​ Non di solo pane —​​ l’uomo ha bisogno di anticipare il proprio futuro e di immaginare ciò che dovrà o potrà accadere... La riflessione sulla nostra vita quotidiana rivela già il nostro bisogno di S. per vivere, il bisogno di un futuro attraente, che diventi fonte di energia e di volontà per l’oggi” (pp. 31s). Dietro​​ le​​ S. umane fa capolino​​ la​​ S.: è la S. di una pienezza che soddisfi nel profondo le nostre aspirazioni e desideri, è S. di totalità e di integrità, di salvezza definitiva. Le religioni cercano di dare un nome a questa S. e di indicare i mezzi per conseguirla.

2)​​ La S., sottesa a tutte le S. degli uomini, è qualcosa di reale, oppure è un’illusione creata dal desiderio? E soprattutto: come la mettiamo con la morte che si presenta come la fine di ogni S.? L’uomo vive in una situazione paradossale: mentre da un lato avverte la precarietà e il pericolo di illusione soggiacente alle sue S., sente però di dover necessariamente sperare per poter vivere, allacciare delle relazioni, affrontare la sofferenza, lo scacco, ecc. “La scelta di vivere, anziché abbandonarsi alla forza della morte, testimonia la certezza, forse inconsapevole, che il cammino dell’uomo ha una meta, che il suo desiderio inquieto conoscerà alla fine un esaudimento» (Non di solo pane,​​ p. 35). All’interpretazione di coloro che ravvisano nella S. dell’uomo solo una forza cieca, illusoria e irrazionale, si può contrapporre, almeno a livello di ipotesi ugualmente plausibile, un’altra interpretazione: la S. umana, con le sue caratteristiche di infinito, di illimitato, di pienezza sovrabbondante e totalmente appagante, è la nostalgia del “totalmente altro”, è il presentimento dell’Assoluto verso il quale l’uomo, volente o nolente, aspira con tutte le sue forze.

3)​​ A questo punto possiamo parlare della S. cristiana. L’aggettivo dice che si tratta di una S. totalmente determinata dall’evento di Gesù Cristo. È proprio tale evento, che culmina nella risurrezione, a far sì che i cristiani non solo siano “lieti nella speranza” (Rm​​ 12,12), ma si differenzino da “coloro che non hanno speranza» (1 Ts​​ 4,13;​​ Ef​​ 2,12), verso i quali tuttavia devono sempre essere pronti a dare ragione della S. che è in loro (cf​​ 1 Pt​​ 3,15). La fede nel Dio di Gesù Cristo ci consente di dare un nome alla S.: “È S. di risurrezione, di vincere il potere della morte e insieme il potere del peccato, perché l’uno e l’altro potere si sostengono a vicenda; è S. di partecipazione alla condizione del Figlio che siede alla destra del Padre, di partecipare alla vita che dal Padre viene e mediante lo Spirito è comunicata; è quindi anche la S. di riconciliazione con tutte le creature, che solo il potere della morte divide e fa nemiche; è S. di nuovi cieli e nuova terra” (Non di solo pane,​​ p. 191).

4)​​ La S. cristiana ha una storia. Si innesta infatti sulla grande S. che sorregge e anima la storia di Israele quale popolo di Dio in cammino, popolo della promessa, popolo messianico. “Alla parola di Dio corrisponde la fede di Israele... alla promessa corrisponde la S. ... La fede e la S. d’Israele vanno sempre strettamente unite nella loro dimensione comune di abbandono fiducioso alla parola-promessa di Iahvè” (J. Alfaro,​​ Esistenza cristiana,​​ Roma, Univ. Greg., 19792, Pro manuscripto, 146). Il vocabolario della S. dell’AT, in gran parte comune a quello della fede, comporta diversi aspetti così sintetizzabili: “Attesa perseverante e fiduciosa di Dio fondata soltanto in Dio stesso, nella sua grazia e fedeltà” (ivi,​​ 147).

5)​​ Annunciando il regno di Dio, già operante nella sua persona, Gesù proclama il grande messaggio della S. soprattutto per i peccatori, i poveri e i sofferenti (cf le Beatitudini). Dopo la sua morte e risurrezione, la predicazione degli apostoli annuncerà che in Gesù si sono compiute le promesse dell’AT (cf Atti degli apostoli), invitando la comunità cristiana a vivere in fervente attesa del suo ritorno. Gesù Cristo è così il compimento delle promesse, e la promessa di quella salvezza piena e definitiva di cui si è potuto intravedere l’anticipo e la caparra nella risurrezione e nel dono dello Spirito Santo. È la tematica sviluppata soprattutto da san Paolo presso il quale leggiamo la bella espressione: “Cristo in voi, S. della gloria” (Col​​ 1,27). Cristo risorto, quale primizia, primogenito e caco di tutta l’umanità (cf​​ 1 Cor​​ 15,20.23;​​ Rm​​ 8,29;​​ Col​​ 1,18;​​ Ef​​ 1,10.22; ecc.), è il fondamento oggettivo della S. cristiana che è suscitata nel cuore dei credenti dal suo Spirito, il quale ci attesta che siamo figli di Dio e che avremo parte alla risurrezione (Rm​​ 5,5; 8;​​ Gal​​ 4,5-7). In tal modo “siamo stati salvati nella S.” (Rm​​ 8,24). Per san Paolo la S. è​​ fiducia​​ a causa di ciò che Dio ha compiuto in Cristo, è​​ attesa​​ della salvezza futura (Rm​​ 8,23.25; ecc.),​​ pazienza​​ e​​ perseveranza​​ nelle tribolazioni (Rm​​ 5,4-5;​​ 1 Ts​​ 1,3; ecc.). “La fiducia nella grazia di Dio in Cristo e l’attesa perseverante della salvezza futura costituiscono l’unità vitale della S.” (J. Alfaro,​​ op. cit.,​​ 153). Fede e speranza si richiamano vicendevolmente, essendo la fiducia l’elemento che le accomuna. Figura tipica della fede-speranza è Abramo il quale “credette sperando contro ogni S. (umana)” (Rm​​ 4,13). Negli scritti di san Giovanni, che sottolineano la realtà presente della salvezza (la vita eterna), e nei quali è assente (eccetto​​ 1 Gv​​ 3,3) il vocabolario della S., si trova tuttavia la realtà della S. che caratterizza questo tempo situato fra il​​ già​​ e il​​ non-ancora:​​ “Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora manifestato. Sappiamo però che quando egli si manifesterà, saremo simili a lui perché lo vedremo così come egli è” (1​​ Gv​​ 3,2).

6)​​ La S. non è un tema marginale bensì centrale della C., alla quale compete di “abilitare l’uomo alla vita teologale, vale a dire all’esercizio della fede, della S., della carità nelle quotidiane situazioni concrete” (RdC 30; cf 38 e 188). Già sant’Agostino invitava a una C. modellata secondo un crescendo per cui il destinatario “ascoltando creda, credendo speri, sperando ami” (De catechizandis rudibus,​​ 8).

Non si può dire però che lungo il corso dei secoli il tema della speranza abbia conservato nella C. quella centralità che abbiamo visto emergere dalla Bibbia. Se alcuni catechismi hanno incluso la speranza nelle loro articolazioni fondamentali (si veda quello di P. Canisio del 1558), altri, ed è il caso più frequente, hanno confinato la S. nel discorso sui Novissimi. L’insufficiente attenzione alla S. è spiegabile sulla base di diversi fattori, quali l’attenuarsi del senso escatologico del cristianesimo col prevalere del suo aspetto morale, la privatizzazione della S. rapportata alla salvezza eterna individuale, il fatto che “la teologia medioevale e postridentina, salvo rare eccezioni, ignorò la dimensione comunitaria della S.” (J. Alfaro,​​ op. cit.,​​ 170), la troppo netta distinzione tra fede e S. (anche a causa della contrapposizione alla “fede fiduciale” di Lutero), la scarsa attenzione prestata alla risurrezione e alla signoria di Cristo, l’insufficiente rapporto stabilito tra S. cristiana e S. intramondane, ecc. In connessione con questi fattori va notato l’insorgere di ideologie e di movimenti che in certo qual modo possono essere considerati come la trascrizione laica della S. cristiana (filosofie della storia, marxismo, filosofie dell’utopia e della rivoluzione, ecc.). La filosofia del nostro secolo ha conosciuto un reale interesse per la S. secondo due filoni principali, quello cristiano e quello marxista rappresentato specialmente da E. Bloch (cf G. Angelini 1977, 1508-1533).

Nel mondo odierno la fede nel progresso e nel futuro, e il principio-speranza, conoscono una stagione di declino rilevabile dall’insorgere di una “cultura del pessimismo” presente nella saggistica etico-filosofica dei nostri giorni. Ciò potrebbe costituire l’occasione per una vigorosa ripresa, con i fatti e con le azioni, della S. cristiana.

7)​​ La S. è l’elemento dinamico della vita cristiana. Se la radice è la fede, e la sostanza profonda è la carità, la S. “che attende nella pazienza di uno che corre senza pigrizia e senza stanchezza” è il dinamismo della vita cristiana protesa verso il futuro (cf H. Schlier,​​ Nun aber bleiben diese drei,​​ Einsiedeln,​​ Johannes, 1971). Ch. Péguy ha scritto poeticamente: “La fede vede solo ciò che è. La S. vede ciò che sarà. La carità ama solo ciò che è. La S. invece ama ciò che sarà... E le due grandi si affrettano solo per la piccola” (Ch. Péguy,​​ I misteri,​​ Milano, Jaca Book, 1984).

Per poter essere l’elemento dinamico della vita cristiana, la S. deve poggiare su di un solido fondamento affinché non deluda (cf​​ Rm​​ 5,5). Tale fondamento è l’amore di Dio per noi​​ manifestatoci​​ in Cristo morto e risorto (Rm​​ 8,31-38), e​​ interiorizzato​​ nei nostri cuori dallo Spirito Santo (Rm​​ 5,5). La S. riposa dunque sulla fede. Nella C. occorre tenere saldamente unite le due. “Senza la conoscenza di Cristo che si ha per la fede, la S. diventerebbe un’utopia sospesa in aria. Ma, senza la S. la fede decade diventando tiepida e poi morta” (J. Moltmann 1970, 14).

8)​​ La S. è fonte di un sano ottimismo, che non è né ingenuità acritica, né utopia volontaristica. Lo suggerisce la profonda meditazione di san Paolo (Rm​​ 8,31-38) racchiusa a mo’ di slogan in​​ Rm​​ 12,12: “Siate lieti nella S., pazienti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera”. La situazione del cristiano che spera non potrà non sembrare paradossale agli occhi del pessimista assoluto e dell’ottimista assoluto: “Il cristiano è colui che non è così attaccato al tangibile da volerlo godere sino alla morte, ed è colui che non prende le tenebre del mondo in maniera tanto seria da non osare più credere che dietro di esse brilli la luce eterna. Ma appunto solo questa speranza rende liberi” (K. Rahner,​​ Corso fondamentale sulla fede,​​ Alba, Ed. Paoline, 1977, 515).

9)​​ La S. cristiana è fiducia e attesa. Sia la fiducia che l’attesa non comandano affatto un atteggiamento di disimpegno verso i compiti storici di trasformazione del mondo al servizio dell’uomo. La S. cristiana, pur relativizzando tutte le realizzazioni umane in nome della “riserva escatologica” (J. B. Metz), è tuttavia consapevole che le energie della redenzione sono già all’opera in questo mondo, e che l’azione dell’uomo rettamente ordinata non si dissolverà nella caducità della morte. Per questo essa può assumere tutte le autentiche S. umane aprendole al futuro assoluto di Dio. Accoglienza e distacco: ecco il non facile compito della S. Si veda la prospettiva del Vaticano Il in GS (18; 21-22; 38-40; 57) e in LG (48-49).

La S. cristiana è critica verso i falsi assoluti e i poteri idolatri: essa mette in guardia il mondo dal chiudersi in autosufficienze immanentistiche e in utopie chiuse al futuro trascendente.

10)​​ Occorre liberare la S. cristiana dalla privatizzazione, ed inserirla nella dimensione comunitaria. Si veda il bel testo di​​ Ef​​ 4,4-6 e i passi della LG sulla Chiesa quale “germe validissimo di unità, di S. e di salvezza” per tutti gli uomini (1; 8; 9; 48). La Chiesa vive nella S. perché non è ancora giunta al suo traguardo: la S. la preserva dalla tentazione di identificarsi col regno di Dio.

11)​​ La S. cristiana illumina soprattutto l’enigma della sofferenza e della morte. Di fronte alla morte non c’è che una duplice alternativa: “O l’assurdo, cioè il non-senso della vita dei singoli e della storia dell’umanità, ovvero l’invocazione di quell’assoluto senso della vita, che da soli non siamo ontologicamente in grado di costruirci” (G. Piana 1979, 1512). Il Cristo Risorto e il dono dello Spirito riscattano la morte dall’assurdo e la inseriscono nella dimensione cristiana della S.: “E aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”. Ma proprio perché confrontata con la sofferenza e la morte, la S. cristiana è una “speranza crocifissa”, partecipe del carattere paradossale della croce di Cristo.

12)​​ La S. è esposta a due tentazioni estreme: la presunzione, che vuole anticipare la realizzazione di quanto la S. promette, cedendo al bisogno umano di sicurezza, e la disperazione, che in pratica nega la redenzione di Cristo. Entrambe rifiutano la condizione dell’homo viator,​​ entrambe precludono l’accesso alla preghiera “che è possibile soltanto a chi veramente spera” (J. Pieper).

Bibliografia

J. Alfaro,​​ Speranza cristiana e liberazione dell’uomo,​​ Brescia, Queriniana, 1972; G. Angelini,​​ Speranza,​​ in​​ Nuovo Dizionario di Teologia,​​ Roma, Ed. Paoline, 1977, 1508-1533; P. Hoffmann – J. Pieper,​​ Speranza,​​ in​​ Dizionario di Teologia,​​ vol. III, Brescia, Queriniana, 1968, 379-389; F. Kerstiens,​​ Speranza,​​ in​​ Sacramentum Mundi,​​ vol. VII, Brescia, Morcelliana, 1977, 744-755; J. B. Metz,​​ Un credo per l’uomo d’oggi. La nostra speranza,​​ Brescia, Queriniana, 1976; J. Moltmann,​​ Teologia della speranza,​​ Brescia, Queriniana, 1970; G. Piana,​​ Speranza,​​ in​​ Nuovo Dizionario di Spiritualità,​​ Roma, Ed. Paoline, 1979, 1504-1516; J. Pieper,​​ Sulla speranza,​​ Brescia, Morcelliana, 19602.

Franco Ardusso

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SPERANZA

Cesare Bissoli

 

1. Quale speranza tra i giovani oggi?

1.1. Le domande maggiori

1.2. Giovani di fronte al futuro

1.3. Significati, motivazioni, prospettive

2. Ricomprendere la speranza cristiana. Linee interpretative

2.1. L’umanesimo della speranza

2.2. La lettura cristiana delta speranza

2.2.1. «Signore vieni a salvarci» (Sal 80,3)

2.2.2. «Gesù Cristo, speranza nostra» (I Tim 1,1)

2.3. La tradizione cristiana come consegna di speranza

3. Per una pastorale giovanile della speranza

3.1. La speranza cristiana come speranza per l’uomo

3.2. Quale uomo per la speranza cristiana?

3.3. Quale educatore per una speranza cristiana tra i giovani

4. Conclusione

 

All’inizio del secolo, Charles Péguy, in uno dei suoi poemi, fa dire a Dio: «La fede e l’amore li posso comprendere, ma la speranza! Meraviglia anche me, è straordinaria. Questa piccola speranza che non si dà aria di niente. Questa speranza bambina. Immortale».

Vi traspaiono percezione di valore, ma anche stupore di esso, fino ad un sentimento di trepidazione, quasi di ansietà, perché in certo modo la speranza, come l’atto creativo di Dio, dona presenza alle cose quando non ci sono, e si propone di offrire possibilità di vita oltre la vita. Di Abramo, patriarca e radice della religione biblica, non si dice con gioia, pari all’ammirazione come di cosa inaudita e ardita, che «ebbe speranza contro ogni speranza e divenne padre di molti popoli»​​ (Rom​​ 4,18) ? ,

Sono così raccolti in prima battuta certi connotati di questo «esistenziale» universale della speranza, che è certamente costitutivo dell’uomo, ma, come dice il poeta, anzi la fede cristiana, è condiviso da Dio, e con la fede e la carità forma la compagnia teologale del credente.

Interessarsene in un progetto di pastorale giovanile è indispensabile, proprio per chi, a causa della esiguità degli anni, deve affidare al futuro, quindi alla speranza, quello che l’esperienza non gli concede oggi. Ma insieme è tema ricco di implicanze e di interrogativi, dove si intrecciano antropologia, teologia, cultura, e si abbordano alcuni tra i nodi sostanziali della vita, con evidenti riflessi sulla crescita delle nuove generazioni, che per definizione non possono sostare e tanto meno regredire.

Per fare luce su ciò, in una prima parte esamineremo la problematica giovanile oggi nei confronti della speranza, e speranza cristiana; successivamente raccogliamo i tratti sostanziali della rivelazione biblica secondo la comprensione dei moderni, tra i quali il tema della speranza ha avuto larghissima udienza; concludiamo prospettando le linee di una proposta educativa.

 

1.​​ Quale speranza tra i giovani oggi?

«È bello, ma difficile avere speranza. Vorrei, ma non posso». È la battuta di un giovane nella posta dei lettori di una rivista, che dice emblematicamente la condizione giovanile (in occidente) sul fatto speranza: «sì, ma», dove il «ma» pare avere più chances del «sì», senza però che l’attesa possa essere esclusa.

Si può ben prevedere che l’educatore attento dovrà ripensare radicalmente la sua proposta di speranza, con delle notevoli implicazioni sul versante della concezione specifica che ne ha la religione cristiana. Ma ciò avviene a patto che si percepisca quanto il fronte del problema sia oggi complesso, dove ci si imbatte con questioni di ordine generale e con altre propriamente vissute dai giovani. A questo scopo distinguiamo i punti caldi del problema «speranza» in generale, l’atteggiamento giovanile verso di essa, l’ordine delle motivazioni e delle prospettive.

 

1.1. Le domande maggiori

Da che mondo è mondo l’uomo, in quanto esposto al divenire, è esposto al fattore «speranza». Solo che la cultura per dirlo e viverlo è notevolmente variata. Oggi, al seguito di correnti di pensiero quali la psicologia del profondo, l’esistenzialismo, le ideologie, la secolarizzazione, il fattore «speranza» si trova all’incrocio di molteplici aspetti, da cui si può ricavare una sequenza o costellazione di motivi (H. Bourgeois,​​ La speranza ora e sempre, Queriniana, Brescia 1987), che sintetizziamo, semplificandoli, così:​​ A livello esistenziale,​​ la speranza si colloca nell’area del desiderio della felicità, della realizzazione di sé, in vista del compimento delle proprie aspirazioni. La speranza è connotata da intrinseca soggettività, nel senso che non può essere recepita come speranza quella che non riguardasse desideri e bisogni personali. Si tratterà di vedere semmai se per essere tale la speranza non possa avere un referente extrasoggettivo, in quanto gli stessi bisogni possono essere oltre la pura percezione privata. O viceversa, se il riporre la forza della speranza nelle proprie capacità di risposta, non finisca con renderla precaria e ultimamente illusoria.

In secondo luogo il fattore speranza si espande e comprende l’area del tempo, in quanto spazio necessario alla speranza per realizzare il desiderio. Qui convergono le domande sul senso della storia, specificamente del futuro, del progetto come via di cammino al futuro, ma anche del progresso, ossia del valore che detiene la produzione di risposte da parte dell’uomo, ed infine sul potenziale di speranza che si può avere per superare il limite inevitabile della morte (l’al di là), e a quali condizioni.

In terzo luogo, attorno al fattore speranza, si sono venute necessariamente affacciando e confrontando proposte organiche di soluzione, le​​ ideologie,​​ a loro volta sorgente di problemi sulla loro stessa verità ed efficacia, siano forti come il marxismo o riduttive come il pensiero radicale. Le ideologie hanno il loro coefficiente di influsso e di svelamento nelle mode del costume e nella prassi di vita. E sono proprio i giovani ad esserne per tanta parte fruitori e testimoni. A suo modo, tenacemente, anche se con qualche smarrimento, la​​ Chiesa​​ ha cercato di annunciare il suo fattore speranza, alla luce dell’esperienza evangelica del Cristo risuscitato dai morti. Dal confronto ancora con i giovani, si tratterà di vedere quali effettivi titoli di credito le siano consentiti, ma insieme e soprattutto quali stimoli è chiamata ad assumere per rendere credibile il Dio della speranza alle giovani generazioni.

 

1.2. Giovani di fronte al futuro

Per dare volto concreto alla ricerca, ci riferiamo ad una delle migliori indagini esplorative dell’inizio degli anni ’80 (i cui risultati sono stati confermati da altri studi a metà del decennio):​​ Oggi credono così​​ (a cura di GC. Milanesi, LDC, Leumann-Torino, 1 vol., 1981, 107-136). Ha il pregio di rispondere al nostro quesito inglobandolo in quello più ampio e del tutto congruo se oggi i giovani italiani ritengano possibile e soprattutto accettabile un «sistema di significato», ricordando che in esso sono tematizzati i contenuti che ritroviamo nella costellazione «speranza» cui abbiamo sopra accennato. Ma ecco articolate le domande proposte e le risposte date (ricordando due tipi di campione: gli aggregati o appartenenti a gruppi e associazioni, per lo più di ispirazione cristiana, e i non aggregati, ai quali va dato il titolo di rappresentare la maggioranza dei giovani italiani):

Tra i «bisogni e desideri» più urgenti ottengono il primo posto i bisogni economici (lavoro, soldi), la realizzazione di sé, i rapporti sodali-amicali. Solo verso il 9°7o (che per i non aggregati diventa lo 0,47%) si trovano i bisogni religiosi.

Il discorso sui desideri legittima l’ulteriore domanda su «valori, obiettivi, progetti» o in sintesi su quella che viene detta «progettualità giovanile». Appare nettamente una disponibilità per quanto giova alla realizzazione dei bisogni detti sopra, quindi una preferenziale tendenza alla soggettivazione nell’area del privato. Viene d’altra parte quasi escluso sia il rifiuto di ogni progetto sia il ricorso alla irrazionalità e al nichilismo. I valori religiosi e un progetto relativo ad essi appaiono senza particolare rilievo.

Il motivo dell’«ostacolo»​​ è intrinseco al farsi di un progetto ed è tipico nel linguaggio della speranza. I giovani ricordano come primari fattori di difficoltà ed incertezza le proprie contraddizioni personali, ma anche la non sciolta comunicazione interpersonale e ostacoli di ordine sociale ed economico. Le ideologie ricevono un indice assai piccolo di difficoltà, mentre alla Chiesa non è riconosciuta nessuna capacità di ostacolo (perché probabilmente priva di influssi e irrilevante). Una aliquota più favorevole agli influssi della Chiesa per la determinazione degli ideali giovanili viene riconosciuta dai giovani aggregati.

Il fattore speranza è per sua natura collegato ad una capacità di​​ sicurezza​​ nelle inevitabili difficoltà del percorso. Non viene quindi taciuta la domanda al proposito tesa a verificare se è in atto un cambio significativo circa i motivi della fiducia nella vita e nel futuro. Ebbene le risposte portano a questi quattro risultati tra loro congiunti: la sensazione di esser nel giusto nelle proprie scelte e l’avere l’amore di una persona (quindi l’intersoggettività emotivamente grata) sono fattori securizzanti primari; la religione e Dio sono posti tra gli ultimi e a titolo sostanzialmente difensivo; si ammette non solo la bontà, ma la necessità di un cambiamento nel processo del vivere, ma alla domanda «in chi-che cosa viene riposta la speranza» del cambio, il motivo religioso diminuisce fin quasi a scomparire tra i non aggregati, che sono la maggioranza dei giovani, i quali pongono la speranza nell’uomo e generalmente in sé stessi, nel loro piano di vita, nella soluzione economica, in ogni caso sempre in ragioni immanenti alle possibilità dell’uomo; infine ad una domanda conclusiva circa l’atteggiamento verso il futuro, si ricava dalle loro risposte che «il futuro appare a questi giovani attraversato da una ipoteca di tipo irrazionale (disillusione, miracolismo, fatalismo), cui si contrappone un atteggiamento largamente volontarista, in quanto è sottolineato l’impegno personale... Si può d’altra parte ipotizzare che l’atteggiamento verso il futuro è sensibilmente correlato con le scelte e le militanze religiose e politiche e con la variabile dell’età» (p. 131 s)

 

1.3. Significati, motivazioni, prospettive

In un tentativo di sintesi che tenga conto dell’intento pastorale del nostro tema, notiamo i seguenti elementi: Non si può parlare nella fascia giovanile di rifiuto di aspirazioni, di futuro, di speranze, ma piuttosto di un forte cambio di prospettive, di atteggiamenti e di disponibilità, sia sul versante umano che su quello specificamente religioso. Il che rende quanto meno avvertita la necessità di un​​ profondo rinnovamento anche della pastorale della speranza​​ nei loro confronti, secondo un itinerario che non può limitarsi ad enunciare l’identità e il valore di questa virtù cristiana, ma deve tener conto come essa si possa inserire in un globale sistema di significato secondo le dinamiche viste sopra. L’annuncio della speranza non può disgiungersi da una cultura e pedagogia della speranza.

Certamente tra i giovani di oggi il fattore speranza è dotato di respiro corto tanto da far parlare di​​ «generazione del quotidiano»​​ (F. Garelli) nel senso di carenza di prospettive globali e di marcata accentuazione del presente sotto i segni dello sperimentalismo, del garantismo e del consumismo. Queste sono figure del vivere che indicano tanto un sentimento di precarietà verso il futuro per il rischio delle attese e la incertezza degli esiti, quanto quindi il bisogno della immediatezza della prova e del gusto, della prova che sta nella fruizione immediata del desiderio. Evidentemente qui il futuro è visto come un seno infecondo, che fa più paura che sicurezza e meno dona di quello che gli arriva dal presente, o se qualcosa riesce a donare, pare più nei termini della fortuna o di una ben calcolata previsione. Più in profondità ancora, pare che il predominio delle aspirazioni nell’area del soggettivo e del privato siano ad un tempo segno che nell’uomo stanno le possibilità di rispondere a ciò che egli va cercando e insieme, paradossalmente, che le possibilità di dare risposta siano così flebili e insicure, da dimostrare inconsapevolmente che se di futuro, di speranza, di progetto si deve parlare bisogna attingerne senso e forza da aree più che umane e più aperte al sociale perché ne sia beneficiato l’umano.

Ci si può chiedere perché questa nativa apertura al trascendente, appurabile del resto per altre esperienze di esasperato immanentismo, abbia un esito così mortificato. F. Garelli parla di quattro​​ fattori che bloccano il fattore speranza: la crisi delle idealità sociali e politiche proprie di una società complessa; la non identificazione con le mete socio-culturali dominanti che avevano esercitato una forza d’attrazione nei confronti di quanti hanno vissuto la giovinezza negli anni della ricostruzione o del boom economico; la crisi e la difficoltà di partecipazione; l’incapacità propositiva come orientamento culturale specifico di questa generazione.

A livello più strettamente religioso, è chiaro che ciò che è tipico della​​ proposta cristiana,​​ ossia il riconoscimento dell’oggettività della promessa di Dio, la sua qualità normativa, la progettualità in tempi calcolati non brevi, anzi trascendenti la stessa esperienza umana in ciò che concerne gli esiti ultimi della vita, ebbene tutto questo appare piuttosto lontano dalla sensibilità della maggioranza dei giovani.

A ciò si aggiunga simmetricamente una concezione, una diffusione e testimonianza della speranza cristiana da parte della comunità dei credenti, che presentano notevoli lacune: la concentrazione quasi esclusiva sull’al dilà (i novissimi) in termini da rischiare l’alienazione dal presente, svuotato di una sua densità; la pochezza di credibilità della speranza di singoli e gruppi cristiani incapaci di mostrare la loro destinazione verso una vita migliore; oppure, in tempi recenti, una concorrenza quasi furiosa con il mondo produttivo, tanto da volere di nuovo un tempo di cristianità, dimenticando le pressanti riserve dell’escatologia su progetti di utopia troppo terrena per avere delle chances esaurienti anche solamente terrene...

Carenza di autenticità di annuncio, assenza di testimoni della speranza, gracilità di una cultura della speranza e dell’attesa non hanno favorito il servizio delle Chiese presso gli uomini del nostro tempo, segnatamente tra la categoria giovanile.

 

2.​​ Ricomprendere la speranza cristiana.​​ Linee interpretative

È noto che il principio ermeneutico che sottostà ad ogni comprensione di altrui esperienze, a tale comprensione perviene attraverso le domande poste all’interno della propria condizione umana. Ebbene, applicato alla rivelazione cristiana, obbliga a rileggere la Bibbia e la Tradizione della Chiesa secondo angolature inedite che portano a domande come queste: quale base antropologica sottostà alla Parola di Dio sulla speranza? a quale antropologia chiama la Parola di Dio che dona speranza? per quale antropologia si impegna chi accoglie la Parola del Dio della speranza?

Saranno i tre momenti che ci permettono di sintetizzare una lettura umanistica della speranza, una considerazione del suo spessore biblico-teologico, un tracciarne le implicanze spirituali ed ascetiche avendo sempre per riferimento l’uomo (giovane) da educare secondo speranza.

 

2.1. L 'umanesimo della speranza

Tante e fini sono le analisi di questo esistenziale (G. Marcel, J. Pieper, E. Fromm) per non raccogliere, pur nel conflitto delle interpretazioni, alcuni elementi costanti del tutto congrui e confermati dalla rivelazione biblica, in quanto iscritta nel grande libro della creazione.

Dal punto di vista della psicologia evolutiva la speranza come atteggiamento ha le sue radici nella​​ fiducia di base​​ che il neonato grazie alla dedizione dei genitori può ed è chiamato a sviluppare verso gli altri e l’ambiente (E. H. Erikson). Sperare comporta perciò necessariamente a proprio fondamento una ragione per la quale una persona può interrogarsi, aprirsi, elaborare prospettive per il futuro, tirarsi fuori dalla realtà empirica e farne oggetto di critica (P. Neuenzeit). La speranza è figlia della promessa, ossia di una ragione tanto forte oggi da guidare come promessa l’avvento del domani.

D’altra parte questa apertura al futuro rende tipico dello sperare umano che la vita sia una​​ realtà positiva, che se non si può trasformare in paradiso, si può sempre rendere meno inferno, è una fiducia di fondo sulla «negazione del negativo» (P. Tillich). Ciò, prima e piuttosto che una illimitata fiducia in utopie codificate (quella dello sviluppo proclamata da E. Bloch nel suo ammirevole «Principio speranza» ha avuto una dura mortificazione dall’involuzione degli avvenimenti), comporta la presa in carico — come del resto dice l’esperienza quotidiana — che la vita si nutre di «piccole», ma indispensabili speranze, fatte di aspirazioni, attese, progettazioni, cui vanno appresso delusioni ed insuccessi. È dunque quella intesa dalla speranza una positività che si fa, che si dona in certo modo dei segni di garanzia (non è processo nel vuoto) ed insieme chiede militanza e resistenza per conseguire domani quello che è anticipato ed insieme negato oggi. La speranza non ignora l’ansia, ma non può nutrirsi di paura. Se posta soltanto o principalmene sul negativo della vita, non è umana, è disumana. È angoscia che blocca. Come vedremo, a ciò si oppone potentemente l’ultimo e supremo articolo della speranza cristiana: Credo nella vita eterna.

Annota acutamente E. Fromm che per molti speranza è volere domani ciò che c’è già oggi, il che in fondo vuol dire non dare nessuna capacità di nuovo al futuro. In realtà «sperare significa essere pronti in ogni momento a ciò che ancora non è nato e anche a non disperarsi se nulla nasce durante la nostra vita. Non vi è senso alcuno nello sperare in ciò che già esiste o in ciò che non può svilupparsi. Coloro che hanno poca speranza scelgono gli agi o la violenza; coloro che sperano ardentemente vedono e amano ogni segno di una nuova vita e sono pronti in ogni momento ad aiutare la nascita di ciò che è pronto a venire al mondo». Più che all’utopia vedremo che il cristianesimo concede credito all’escatologia in quanto figura di un​​ futuro gravido​​ di beni assoluti (il Regno) che viene incontro all’uomo che lo spera.

Altri aspetti si potrebbero evidenziare ad un​​ livello più strettamente filosofico: il desiderio, come già abbiamo visto, quale accanito sovvertitore del conseguito; lo trascendimento quasi irresistibile della speranza rispetto alle speranze; la dimensione sociale dello sperare umano, perché non si speri invano; la morte come situazione-limite della speranza...​​ (La speranza,​​ in Concilium 6 [1970] n. 9).

Ed ancora oggi, si affacciano sulla scena, sovente cariche di fascino, le filosofie e culture della speranza e della controsperanza. Kant, Hegel, Marx, Nietzsche, Bloch, Marcel, Sartre, Marcuse ripropongono con esiti diversi gli stessi binomi di sapere e sperare; presente e futuro; sforzo umano e apporto religioso (H. Bourgeois,​​ La speranza,​​ 194-220).

In una condizione giovanile dove ogni tipo di proposta, anche quella religiosa, si incontra o scontra con altre di ben altra connotazione, è segno di intelligenza pastorale il confronto critico e paziente per cogliere attraverso la diversità delle visioni, l’identità di ciascuna ed anche la sotterranea convergenza di tante su tanto.

 

2.2. La lettura cristiana della speranza

Non si tratta qui di stendere un rapporto analitico (per questo si vedano dizionari di teologia biblica e di dogmatica) quanto fissare quegli elementi che integrandosi più direttamente con il profilo umano della speranza abbiano pertinenza e plausibilità per una pastorale giovanile nell’attuale condizione. Qui ci limitiamo di preferenza alla fonte biblica, ricordando per completezza certi dati significativi della tradizione cristiana. Nella parte terza raggiungeremo l’area delle considerazioni pastorali.

Ha sempre colpito il fatto che a differenza del mondo greco, quello biblico non possiede praticamente un vocabolario della speranza. Non ne possiede i termini, ma certamente la sostanza.

Possiamo organizzarla attorno a tre nuclei: l’esperienza di Israele come rivelazione della promessa, l’esperienza di Gesù come l’inizio del compimento, l’esperienza escatologica come approdo alla visione.

 

2.2.1. «Signore, vieni a salvarci» (Sal 80,3)

E​​ nell’ Antico Testamento,​​ che usufruisce di una lunga esperienza umana, che si vede formarsi l’intreccio degli elementi che costituiscono il fattore speranza.

All’inizio stanno dei fatti, l’esodo nel tempo storico, la creazione in quello cosmico, la chiamata dei padri nel passaggio da questo a quello, che rivelano una​​ benevolenza radicale​​ (hesed) di Dio verso il popolo, il cui senso — nel sacramento dell’alleanza — viene compreso come​​ fedeltà​​ (emet)​​ (Es​​ 34,6;​​ Dt).​​ È la inconcussa fedeltà di grazia di Jahvè che costituisce il motivo assolutamente primario per non dire unico per cui Israele si apre al futuro con tanto coraggio e novità (rispetto alla concezione fatalistica e quindi ciclica della storia del mondo ambiente).

Infatti il dono di Dio si lega radicalmente ad una​​ promessa​​ secondo cui il cammino di Israele nel tempo assume la dinamica caratteristica, espressa in molti simboli, del passaggio dal meno al più: dalla steppa al giardino nella previsione profetica delle origini​​ (Gn​​ 2), dal deserto infecondo alla terra in cui scorre latte e miele nel tempo della nascita, della ri-nascita e dell’assetto messianico definitivo del popolo​​ (Gn​​ 12;​​ Dt; II Isaia).​​ Però a scanso di comprensioni magiche, la speranza biblica conosce una precisa valenza etica, in quanto la promessa del futuro migliore si fa​​ comandamento​​ di vivere verso quella direzione, anticipando nello stile di vita di giustizia, di pace e di onore di Jahvè, quello che sarà la forma ultima del mondo.

Per questa coniugazione di promessa divina e di impegno umano, la atemporale e permanente fedeltà di Dio assume figura storica, si manifesta in certo modo in frutti di vita, anche se il compimento sarà oltre le concretizzazioni, restando queste sempre sotto promessa.

Sostiamo a sottolineare come la promessa-progetto di Dio non astragga dall’uomo, in concreto dalle piccole e​​ quotidiane speranze,​​ e crisi di esse, che formano il tessuto del vivere di un popolo. Larga e stupefacente è qui la testimonianza della Bibbia sul lato umano del cammino della speranza: si spera buona salute, proprietà, serena vecchiaia, gioventù docile (Zc 8,4s); non manca d’altra parte la crisi dell’attesa, che si manifesta con il mugugno, la protesta e la paura fin dall’indomani della liberazione dal paese di schiavitù​​ (Es​​ 15-17), ma pervenendo infine alla lucida consapevolezza, portata avanti dai sapienziali, dei limiti della speranza, come della saggezza, in mani solamente umane; alla crisi si reagisce con l’ardore di una fiducia sconfinata come in certi Salmi​​ (Sal​​ 131) e l’esaltazione della speranza oltre i beni terreni verso l’aldilà​​ (Daniele, Maccabei).

Vi è una svolta in questa dinamica della speranza che vediamo svolgersi tra fedeltà di Dio che sorregge la sua promessa ed un popolo che va a cercare giorni migliori: è il​​ messianismo,​​ che non accende la speranza come fosse la prima volta, e nemmeno propone il suo esaudimento per un’ora x prevista da Dio, bensì vi apporta un salto qualitativo, per cui la fedeltà è ancor più testificata, la promessa del futuro si fa ancor più efficace, la risposta alle umane aspirazioni si mostrerà più sconvolgente, il cammino della vita sarà ancor più cammino della speranza. Una rivitalizzazione della speranza dunque. Non per nulla tutte le figure precedenti cosmiche (creazione) e storiche (liberazione) sono assunte e potenziate. Solo nel​​ NT​​ con l’avvento del Messia si potrà percepire almeno in parte l’inaudito profilo della speranza biblica. Attendiamoci nel frattempo che sotto l’urgenza delle prove (le persecuzioni e la decadenza delle istituzioni) la speranza si esalti in visionarismo apocalittico, in fuga dal mondo, in rapida e convulsa produzione di segni, in angoscia e disperazione. Conviene notare questo filone di speranza impazzita perché fa da contesto prossimo alla venuta di Gesù (cf​​ Mt​​ 24), e di tanto in tanto si ritrova all’orizzonte della storia cristiana (le sette e i movimenti escatologisti, apocalittici).

 

2.2.2. «Gesù Cristo, speranza nostra» (1 Tm 1,1)

La venuta di Gesù il Messia apporta al volto della speranza e degli elementi che la costituiscono i tratti decisivi della novità stessa di Gesù. Qui tocchiamo come fondamentali, sempre in una prospettiva pedagogica della speranza, i seguenti aspetti: il Regno come approdo della speranza e fonte di segni anticipati, l’esempio di Gesù come uomo della speranza, la risurrezione dai morti come la garanzia di ogni sperare. Ma riconosciamo che ben altre ricchezze riservano le fonti del​​ NT,​​ i Vangeli come le Lettere degli apostoli, sostando sulle quali si possono elaborare avvincenti itinerari di educazione alla speranza.​​ L ’annuncio del Regno​​ e la sua incipiente presenza riporta in primo piano quella singolare condizione di «già e non ancora» che qualifica intrinsecamente lo sperare cristiano. Come cioè il Regno in quanto promessa assoluta di Dio di costituire nel mondo (dell’uomo) la sua divina signoria, riporta la categoria del futuro come categoria di salvezza. Ciò determina alcune dialettiche tipiche:

— sperare nella piena realizzazione della vita e dei suoi più profondi desideri non solo è consentito, ma è comandato, è l’imperativo della fede che guarda al traguardo e quindi si atteggia a speranza: chi avrà resistito sino alla fine sarà salvo​​ (Lc​​ 21,19);

— che sia dell’ordine della salvezza tale futuro, e non esposto ad una ambiguità di esiti, come avviene con gli dei pagani, ne dà segno Gesù di Nazaret, producendo delle spie della via del Regno che sono i miracoli, i segni della speranza, che nascono dalla speranza (cf​​ Mt​​ 9,2.22; 15,28) e la nutrono, in quanto anticipazioni precarie, ma significative di quello che Dio farà nel suo giorno. Sicché il domani positivo assoluto, senza reali e forti irruzioni di positività nell’oggi si altererebbe in una speranza disperata;

— e d’altra parte il bloccare il Regno nel miracolo, il messianismo nei segni dei tempi, non trova consenziente Gesù (cf​​ Mc​​ 9,5-6;​​ At​​ 1,6-7) che vi pone una riserva critica, perché conoscendo egli «quello che c’è in ogni uomo»​​ (Gv​​ 2,25) propone sponde di eternità, spossessandolo da illusori riempimenti (cf​​ Lc​​ 12,13-21), per additargli compimenti smisurati su misura di Dio stesso​​ (1 Cor​​ 2,9);

— è doveroso infine ricordare che la speranza cristiana è necessariamente religiosa, secondo quindi una qualificazione spirituale ed etica che colloca i propri umani obiettivi, contenuti e metodi in orizzonte evangelico.

Ma perché questo del Regno non rimanga soltanto un manifesto della speranza,​​ Gesù si propone come modello​​ di essa, uomo della speranza. È difficile cogliere l’animus di Cristo al proposito in termini psico-evolutivi. Ma possiamo almeno registrare — per un approfondimento — le caratteristiche di una vita nella speranza come lui le ha praticate: un certo stile di accogliere e capire la vita come non assurda; la produzione di speranza per la gente, di cui pure condivide le speranze quotidiane; ma insieme l’assunzione di una speranza critica, evitando di farsi garante di forme di speranze manifestamente illusorie; la resistenza nel momento della prova suprema, testimonianza probante di una speranza matura​​ (Eb​​ 5,7-9) (H. Bourgeois,​​ La speranza,​​ 13-38).

Alla condotta nella speranza che ne fa un modello, Gesù apporta assai di più, propone un fatto che lo rende​​ garante e fondamento: la risurrezione dai morti.​​ È un evento che è stato subito compreso non solo come premio per Gesù, ma, come dice Pietro, «mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti», Dio «ci ha rigenerati per una speranza viva» (1​​ Pt 1, 3; cf​​ 1 Cor​​ 15). È facile intuirne il perché: nella risurrezione il Regno esprime in certo modo la sua potenza attuale, ed insieme la solidità del compimento futuro; toccando il momento nero dell’esistenza, il meno aperto alla speranza, quello del male e della morte, viene indicata la serietà profonda, umanissima e vittoriosa dell’intervento di Dio; quindi nella risurrezione di Gesù si ricapitola e si rilancia, ma ormai come chi vive la grande vigilia della fine, la speranza biblica.

 

2.3. La tradizione cristiana come consegna di speranza

È tale la rilevanza teologica (cioè dal punto di vista di Dio) ed esistenziale del fattore speranza da definire il cristiano come «colui che ha speranza» (cf​​ 1 Ts​​ 4,13). Gli effetti postbiblici sono stati immensi. Ne ricordiamo alcuni livelli di notevole rilevanza anche pastorale:

— l’espressione orante: esempio la liturgia dei defunti; la veglia pasquale...;

— la riflessione teologica, spirituale ed ascetica, relative al mondo di là (novissimi), ma anche manifestando le decisive conseguenze dell’impegno umano nella storia. È apparso tutto un filone di ricerca intorno alle «teologie della speranza» di cui, l’opera ad es. di

J. Moltmann entra di diritto nella biblioteca dell’operatore pastorale. E non senza rapporto con la visione cristiana si sono venute delineando filosofie e movimenti della speranza, intorno al motivo in particolare delle «utopie» (v. sopra 2.1);

— le forme dell’arte e del costume: dal Purgatorio di Dante, agli affreschi dell’«ultimo giudizio e della gloria» di tanti nostri artisti, alle forme di pellegrinaggio tuttora vigenti... Nell’attuale crogiolo interpretativo del fattore speranza, con segni non nascosti di delusione radicale, ma anche con non disprezzabili tensioni per un modo nuovo di guardare al futuro, sarebbe un vero peccato non confrontarci con il cammino della speranza di una tradizione cristiana ormai bimillenaria.

 

3.​​ Per una pastorale giovanile della speranza

Non è facile inquadrare una volta per tutte la traduzione pastorale della visione cristiana di speranza. La complessità della situazione descritta nella prima parte ed insieme la qualità ultimamente misterica del dato cristiano della seconda parte (senza fede non si può avere speranza, e l’esercizio di questa ha né più né meno le stesse valenze ed esigenze di quello della fede) obbligano a non affidarsi a delle ricette, ma a compiere scelte di campo da rendere operative nella prassi. È quanto intendiamo ora appuntare.

 

3.1. La speranza cristiana come speranza per l’uomo

Riassumiamo​​ i tratti distintivi della speranza cristiana​​ vedendone i riflessi antropologici. Sono tre:

— i contenuti di essa corrispondono alle più elementari attese umane di realizzazione della vita (verità, giustizia, pace, festa...), per cui il modo cristiano di pensare speranza appare del tutto congruo alle aspirazioni profonde del desiderio;

— si nutrono di un imperativo, quello per cui l’uomo è chiamato a muoversi nella direzione di ciò che è promesso (fare la giustizia, la verità, pace, la festa...) sicché la speranza non appare fattore di alienazione, ed anzi coniuga il cammino della speranza con preciso impegno morale;

— superano d’altra parte ogni pur necessaria prestazione umana ed ogni pur ammissibile adempimento, per cui la speranza non è conquista, ma puro dono trascendente che scaturisce dalla fedeltà dell’amore di Dio per l’uomo.

Di questo quadro astratto si rende​​ protagonista storico, Gesù di Nazaret, in quanto compimento e promessa insieme: compimento di antiche promesse, e promessa di definitivi compimenti entro un piano rivelato da Dio. La Bibbia con la sua testimonianza storica e il suo linguaggio è necessario punto di riferimento per una proposta genuina.

La speranza appare come​​ la fede che cammina: si muove tra una promessa solenne di vita da parte di Dio, significata credibilmente in Gesù, ed un approdo futuro oltre il tempo. Necessariamente la vita viene conformata come progetto, un buttarsi avanti, nella linea del pellegrinaggio secondo​​ Eb​​ 11, ma permettendo allo Spirito di far fiorire quegli anticipi del domani che sono le speranze che si attuano già oggi. Sicché la vita è «mantenere inflessibilmente la professione della speranza»​​ (Eb​​ 10,23).

Entra nella​​ spiritualità della speranza​​ il sì incondizionato alla promessa di Dio, il coraggio paziente e perseverante che non cede allo scoraggiamento e alle tribolazioni, la rinuncia ad ogni forma di autosufficienza e di sicurezza, un tono di interiore ottimismo perché «nonostante tutto, il Dio di Gesù Cristo avrà l’ultima parola». Motto della speranza credente è «nulla è impossibile a Dio»​​ (Lc​​ 1,37), come lo dimostra la vicenda di Gesù crocifisso, quella di Maria dal cuore trafitto​​ (Lc​​ 2,35), e la via crucis della Chiesa nel tempo (Apocalisse).

Fa parte infine della speranza cristiana una​​ moralità attiva​​ che ha i suoi specifici luoghi di riflessione e di impegno intorno a tre nodi: vivere la storia, la politica, il futuro in chiave di speranza cristiana.

 

3.2. Quale uomo per la speranza cristiana?

I tratti che all’inizio abbiamo colto e che individuano il modo dei giovani di guardare al futuro, sembra che non lascino speranza per educare alla... speranza. Ciò accentua paradossalmente ancora di più la qualità biblica secondo cui tanto più si spera, quanto più appare difficile ciò che si spera (sperare contro ogni speranza), ma evidentemente mette anche più scopertamente in luce il drammatico disavanzo tra la proposta della fede-speranza e le deboli spalle degli uomini del nostro tempo.

Sperare ed educare alla speranza è​​ una scommessa​​ come è proprio della fede in momenti cruciali.

Senza voler discendere ad itinerari specifici, ricordiamo prima di tutto i tre compiti di una trasmissione della speranza tra i giovani:

—​​ evangelizzare la speranza,​​ ossia annunciare in tempo opportuno il profilo tanto umano quanto trascendente dello sperare secondo Gesù Cristo. È un’operazione di purificazione che tanto demistifica figure tradizionali (magiche e fataliste di futuro, provvidenza, speranza...) altrettanto fa conoscere ed apprezzare il sostanziale umanesimo realistico ed incoraggiante della speranza evangelica;

—​​ coltivare una cultura della speranza,​​ ossia aiutare a ritrovare pazientemente la struttura «speranziale» dell’essere uomo come dato primordiale (la dinamica del desiderio e dell’azione) (v. A. Rizzi,​​ Messianismo nella vita quotidiana,​​ Marietti, Torino 1981); intravvedere le soluzioni più significative nella storia del pensiero e del costume, e quindi le ragioni della difficoltà di sperare (progettare...) di oggi (la duplice, opposta simbolica di speranza «Abramo ed Ulisse»); individuare testimoni della speranza nella storia, secondo diverse espressioni culturali;

—​​ educare alla speranza,​​ come primario contributo ad essere uomini integrali. Qui entra un tirocinio formativo alla speranza, senza di cui le sole idee rimangono tali.

Iniziare alla speranza in maniera educativa

— non è concepibile altra via che non voglia cadere in forme di irrazionalità entusiastica ed effimera (tarlo numero uno dello sperare cristiano oggi) — significa impostare un​​ insieme coerente di pratiche​​ di cui qui ci limitiamo a mettere un indice:

— dare plausibilità al futuro come possibilità positiva per l’uomo; non averne angoscia, paura, noia o farne ricami fantastici;

— fare esperienze di futuro, ponendo un rapporto tra presente e futuro a proposito di un progetto e vederne gli esiti;

— fare esperienze di futuro secondo la speranza umana cristianamente ispirata;

— fare esperienza di dare ragioni della propria speranza;

— fare esperienza di creare spazi di futuro e di speranza per altri.

Il processo si può fare considerando l’inverso per sottoporlo a riflessione critica, ossia come il non fare il cammino ora prospettato, quindi vivere speranze a respiro corto e del tutto immanenti, aprogettuali, comporta il sacrificio di enormi chances di umanità a livello personale e collettivo.

 

3.3. Quale educatore per una speranza cristiana tra i giovani

«Rendete conto della speranza che è in voi» (7​​ Pt​​ 3,15) esorta Pietro, che possiamo tradurre in «fate l’atto di carità che è condividere la vostra speranza». In questo l’operatore pastorale si sa impegnato in prima persona, come di fronte ad una scommessa che vuole come prima condizione che lui stesso sia uomo di speranza cristiana, trasparente e credibile, convinto che far rifiorire la speranza è generare il respiro della vita. Concretamente questo penetrante atto di carità che è dare speranza si nutre di competenza evangelica, culturale, pedagogica, di cui tante cose sono state già dette. Non basta il buon esempio: occorre la parola che faccia capire.

Ma ancora la speranza si dà producendola, con un effettivo esercizio di amicizia e solidarietà incoraggiante, per cui il giovane attraverso la fiducia nell’educatore, si gioca sulla sua parola; mentre invece, qualora tale amicizia mancasse o fosse aridamente intellettuale o addirittura pervasa da scetticismo e delusione, la sfiducia nel domani si aggrava nella considerazione che il domani del suo educatore è tanto carico di sfiducia.

 

4.​​ Conclusione

In quel manifesto della speranza cristiana che è la​​ Gaudium et Spes​​ viene detto: «Legittimamente si può pensare che il futuro dell’umanità sia riposto nelle mani di coloro che sono capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza» (GS​​ 31). È la figura della sfida e della scommessa più volte tornata sotto la penna. Ma sorretta in un educatore cristiano da una lunga e gloriosa eredità di famiglia, antica quanto il padre Abramo.

Ancora Charles Péguy con cui abbiamo iniziato: «La fede che prediligo, dice Dio, è la speranza».

 

Bibliografia

Bourgeois H.,​​ La speranza ora e sempre,​​ Queriniana, Brescia 1987; Moltmann J.,​​ Teologia della speranza,​​ Queriniana, Brescia 1972; Piana G. - C. Fiore,​​ Una speranza per l’uomo,​​ LDC, Leumann-Torino 1973; Rizzi A.,​​ Messianismo nella vita quotidiana,​​ Marietti, Torino 1981;​​ La speranza,​​ in Concilium 6 (1970), fascicolo 9.

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SPERANZA

SPERIMENTAZIONE

 

SPERIMENTAZIONE

Il termine è dal lat.​​ experior​​ (sperimento, metto alla prova) e indica i metodi usati per studiare e verificare costrutti e risultati educativi.

1. Tale metodologia collega esperienza ed esperimento (Bertoldi, 1976), esplicitando più razionalmente controlli e procedimenti (Calonghi, 1977), con soluzioni più sicure ed economiche di problemi educativi (per es. sull’apprendimento). Gli obiettivi della s., definiti formalmente e operativamente, sono controllabili attraverso condotte (indicatori) osservabili. Le ipotesi della s., coerenti con gli obiettivi, sono maturate e formulate secondo contenuti, metodi, strutture (ivi), dalla scoperta (problem finding),​​ alla soluzione del problema (problem solving), coinvolgendo lo sperimentatore con creatività, intelligenza, capacità critica (Boncori, 1995).

2. Applicazioni educative e scolastiche sono dirette a migliorare la conoscenza e la soluzione dei problemi riguardanti, ad es., il profitto scolastico e accademico, la dispersione, ecc. (Boncori, 1992). L’interazione produttiva tra operatori, insegnanti e ricercatori migliora la s. Una metodologia sperimentale funzionale e valida per l’educazione e la scuola è rappresentata dall’osservazione pedagogica (Boncori, 1994; 1997; Coggi, 1989), basata sulla descrizione delle caratteristiche istituzionali, scolastiche, ambientali (socio-culturali, familiari), personali. Il processo osservativo incorre in errori comuni (per es.:​​ effetto alone,​​ conoscenza per​​ stereotipi,​​ ecc.), con distorsioni sistematiche riguardanti la validità e l’attendibilità della rilevazione e, conseguentemente, l’efficacia degli interventi (Boncori, 1994, 2000). Tali problemi sono controllati dalla consapevolezza di chi osserva (doti personali) e da metodologie strutturate: le​​ Guide di osservazione​​ (Boncori, 1997), ad​​ es., rilevano e programmano interventi sugli alunni attraverso la predisposizione di unità di osservazione, obiettivi (comuni, specifici), indicatori e descrittori comportamentali, fino ad una sintesi in un profilo finale che sintetizza le diverse variabili considerate. Il metodo sperimentale è usato anche per osservare e valutare il comportamento degli insegnanti (Boncori, 2000), con metodologie strutturate, rilevazione di dati, colloquio (Montgomery, 1999).​​ La validazione sperimentale fonda la validità dell’intera metodologia.

3. L’esperimento​​ può conferire validità alle conoscenze e agli interventi educativi, e richiede una strutturazione della situazione, mantenendo costanti tutti i fattori eccetto quello sperimentale, sulla cui azione si vuole ricercare. Va deciso su quali soggetti (popolazione, campione) operare: una​​ s. campionaria, ad es.,​​ è​​ basata su un «numero limitato di individui, oggetti o eventi, la cui osservazione consente di trarre delle conclusioni o inferenze estendibili all’intera popolazione o universo da cui il campione è stato tratto» (De Landsheere, 1973). L’estensione dei risultati all’intera popolazione (validità esterna) dipende da limiti metodologici connessi con il campione e le misure. Le fasi​​ classiche​​ della s. includono la maturazione dell’ipotesi e la definizione del problema (attraverso ricerche ed esperienza), la formulazione sperimentale dell’ipotesi in termini di variabili rilevabili e misurabili, la definizione e descrizione della popolazione e / o del campione, la scelta degli strumenti per l’acquisizione dei dati, la rilevazione e l’elaborazione dei dati, il commento dei risultati, le conclusioni a cui si è giunti sul problema iniziale e le successive ricerche e ipotesi previste per ulteriori e migliori soluzioni​​ (Bieger, Gerlach, 1996; Evans, 1968; Wiersma, 1995).

4. Lo schema di base dell’esperimento (Laeng, 1992) confronta i cambiamenti tra una situazione iniziale e una finale, dopo l’applicazione di un fattore sperimentale. Ad es., nel disegno sperimentale​​ con un gruppo,​​ c’è una situazione iniziale, misurata con una prova iniziale; viene applicato il fattore​​ ordinario​​ e quello​​ sperimentale, con effetti misurati distintamente in una situazione finale. Questo disegno di s. ha limiti consistenti soprattutto perché non può valutare in modo distinto il peso della maturazione e dell’apprendimento dei soggetti nel corso dell’esperimento (Calonghi, 1977). Un disegno sperimentale con due gruppi permette un controllo più distinto e preciso del fattore sperimentale. Ad es., per verificare se alcuni esercizi per sviluppare la capacità critica sono efficaci (Boncori, 1995) in alunni di scuola media, e disponendo di due gruppi-classe presi a caso, o sperimentalmente equivalenti, si può procedere come segue: si dividono gli alunni, o le due classi, in due raggruppamenti casuali (A - sperimentale, B -​​ di controllo). Dopo un test iniziale e valido di capacità critica (Boncori, 1989) al gruppo A e B, si propone solo al gruppo A un​​ trattamento​​ educativo (T), per es. con schede valide di esercizio critico (Boncori, 1995). Il gruppo B​​ segue solo la scuola ordinaria. Alla fine del​​ trattamento, si valuta nuovamente (con la prova usata all’inizio o forme parallele) la capacità critica per gli alunni del gruppo A e del gruppo B. Differenze statisticamente significative nei due gruppi alla fine della s. indicheranno l’efficacia degli esercizi svolti sulla capacità critica. Graficamente, questo disegno sperimentale si esprime come segue:​​ 

Gruppo A (sperimentale):  C 01  T  02​​ 

Gruppo B (di controllo):  C  03 ​​  04

5. Disegni sperimentali con più gruppi, controllano meglio i diversi fattori attivi nella s., con conseguenti migliori analisi e soluzione dei problemi (Calonghi, 1977; Laeng, 1992). Connesse con la validità e l’attendibilità della s. sono le problematiche sulla misurazione, l’elaborazione dei dati, l’uso di test statistici idonei (Kerlinger, 1964; Boncori, 1993, 2006), per valutare le indicazioni sperimentali e le ipotesi formulate, con stima probabilistica dell’errore (p≤.01-.05). La presentazione dei risultati dà agli interessati (ricercatori, insegnanti, ecc.) una sintesi dell’intero procedimento, per interventi educativi più produttivi e ulteriori ipotesi di s. Tra gli strumenti usati nella raccolta dei dati c’è il cosiddetto​​ portfolio, «una raccolta mirata del lavoro dello studente, in un certo periodo di tempo, che ci mostra dettagliatamente e con evidenza i suoi sforzi, progressi o profitto in una certa area» (Smith, 1997). Le ricerche ne documentano la validità sperimentale purché basata sull’uso di procedure rigorose per la strutturazione metodologica e la rilevazione dei dati, con risultati significativi e correlazionali (Smith, Tillema, 1998) su​​ manager​​ aziendali, presidi, apprendimento scolastico della lingua scritta, lettura, matematica, programmi per superdotati (Boncori, 2000).

Bibliografia

Kerlinger F. N.,​​ Foundations of behavioral​​ research,​​ New York, Holt, Rinehart and Winston, 1964; Calonghi L.,​​ La scelta del campione,​​ Roma, UPS, 1973; De Landsheere G.,​​ Introduzione alla ricerca in educazione,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1973; Bertoldi F.,​​ S.,​​ Brescia, La Scuola, 1976; Coggi C.,​​ L’osservazione sistematica e i docenti di scuola media,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 36 (1989) 915-934; Boncori G.,​​ Test di pensiero critico «Caccia all’errore 12»,​​ Roma, Kappa, 1989; Id., «Rendimento», in M. Laeng (Ed.),​​ Enciclopedia pedagogica, vol. V, Brescia, La Scuola, 1992, 9948-9961; Boncori L.,​​ Teoria e tecniche dei test, Torino, Bollati Boringhieri, 1993; Boncori G.,​​ Guida all’osservazione pedagogica,​​ Brescia, La Scuola, 1994; Id.,​​ Educare la capacità critica,​​ Roma, CRISP, 1995; Id., «Le guide di osservazione in pedagogia», in C. Nanni (Ed.),​​ La ricerca pedagogico-didattica - Problemi,​​ acquisizioni e prospettive, Roma, LAS, 1997, 231-244; Montgomery D.,​​ Positive teacher appraisal through classroom observation, London, Fulton, 1999; Boncori G.,​​ L’osservazione sistematica in pedagogia: un metodo per la ricerca e la pratica educative, in «Studium Educationis» (2000) 2, 248-260; Boncori L.,​​ I test in psicologia. Fondamenti teorici e applicazioni, Bologna, Il Mulino, 2006.

G. Boncori

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SPERIMENTAZIONE

SPIRITO

 

SPIRITO

È un termine dai molti significati. Ne può essere conferma perfino il vocabolario della lingua italiana dello Zingarelli. Alla voce s. vi troviamo tra l’altro: «principio immateriale attivo, spesso considerato immortale o di origine divina, che si manifesta come vita e coscienza», «anima, principio di vita individuale», «manifestazione ed essenza della divinità», «essenza personificata», «vivacità d’ingegno, intelligenza briosa». Ne derivano alcuni precisi modi di espressione: avere molto s., nutrire lo s., credere negli s.

1. Lungo la storia del pensiero filosofico-religioso ci sono stati diversi ambiti e modi di intendere il vocabolo s. A partire dalla filosofia greco-latina, esso si trova in tutte le epoche della storia della filosofia. È pure presente nella filosofia orientale. Il suo significato sarebbe da ricercare attraverso il greco​​ nous,​​ il latino​​ mens​​ o​​ ingenium​​ nonché​​ spiritus.​​ Per i filosofi, il termine s. ha un significato particolare quando indica la vita dell’intelligenza e della volontà dell’uomo (= lo s. dell’uomo). Lo s., quindi, è una realtà che si coglie prima di tutto sul piano antropologico e fa pensare all’interiorità dell’uomo. Lo s. dice la capacità di riflessione su se stesso e di​​ ​​ libertà, nonché la capacità di apertura all’assoluto. Grazie allo s., l’uomo può agire come soggetto.​​ 

2. Questa è la ragione per cui lo s. è anche una realtà teologica. Pur limitandosi al suo significato religioso-spirituale, il termine conosce diversi usi: «uomo spirituale» in opposizione all’uomo carnale, «lo s. del mondo» e «lo S. di Dio», «mondo spirituale», «autori spirituali», «potere spirituale della chiesa» in opposizione al potere temporale dello Stato, ecc. Nella Bibbia, la realtà designata con il nome di s. è molto complessa. È a partire dall’AT che essa risulta una realtà concreta, come per es. alito, soffio, vento o, come nel Salmo 104,29-30, l’alito vivificante che Dio infonde negli esseri viventi, oppure il principio di una vita morale qualitativamente migliore, come in Ezechiele 36,26: «porrò il mio s. dentro di voi».​​ Nel NT, il vocabolo s., oltre ad essere frequente acquista un carattere sempre più forte. Da una parte risulta elemento della struttura trascendentale dell’uomo che lo rende​​ capax Dei​​ e dall’altra è il dono che Dio dà perché l’uomo progredisca sul piano spirituale. È interessante, a questo riguardo, il linguaggio di s. Paolo. Nella 1 Ts 5,23, per es., troviamo un’elencazione di «s.,​​ anima e corpo»​​ che non intende indicare parti costitutive dell’uomo. Lo s., in questo contesto, non è una terza componente accanto al corpo e all’anima, ma è un principio di qualificazione. Esso si esprime e si manifesta attraverso la psiche ed il corpo, qualificandoli a misura del loro progressivo dominio. Lo scopo del cammino ascetico, infatti, è quello di rendere il corpo e l’anima trasparenti e sottomessi allo spirituale. S. Paolo mette in costante dialettica lo s. e la carne. La carne indica ogni attività umana, puramente naturale, che si limita ai beni della vita terrena; lo s., invece, indica ogni attività umana che si dedica ai beni della vita futura. È così che l’Apostolo arriva a poter parlare dell’uomo spirituale (pneumatikós)​​ e distinguendo tra l’uomo naturale e quello spirituale, egli indica in quest’ultimo la presenza dello S. di Dio.

3. Dato questo fondamento biblico, la teologia parla dell’inabitazione dello S. santo in tutti gli uomini che possiedono la grazia e la carità, dei doni dello S. santo, delle mozioni dello S. santo. Lo S. santo unisce l’uomo a Cristo e in Cristo lo unisce al Padre. Si tratta di una relazione dinamica che coinvolge tutto l’essere dell’uomo. «L’uomo naturale però non comprende le cose dello S. di Dio; esse sono follia per lui,​​ e non è capace di intenderle,​​ perché se ne può giudicare solo per mezzo dello S.»​​ (1 Cor 2, 14). L’esperienza spirituale cristiana significa, in questo caso, entrare sempre più profondamente nel mistero di Dio: «È in te la sorgente della vita,​​ alla tua luce vediamo la luce»​​ (Sal 36,10). Nella teologia si parla perfino dei «sensi spirituali», sottolineando la concretezza della relazione dell’uomo con Dio ma, prima ancora, il coinvolgimento di tutta la persona, sensi compresi, nell’esperienza di Dio.

Bibliografia

Ryle G.,​​ Lo s. come comportamento,​​ Torino, Einaudi, 1955; Ancilli E. et al.,​​ L’uomo nella vita spirituale,​​ Roma, Pontificio Istituto di Spiritualità del Teresianum, 1974;​​ De Carvalho M. J. jr.,​​ La formation de la pensée humaine. La dynamique ontologique de l’esprit. Genèse de la pensée,​​ Neuchâtel, La Baconnière, 1974; Forest A.,​​ Essai sur les formes du lien spirituel,​​ Paris, Beauchesne, 1981; Lazorthes G.,​​ Le Cerveau et l’Esprit,​​ Paris, Flammarion, 1982; Boracco P. L. - B. Secondin (Edd.),​​ L’uomo spirituale,​​ Milano, Istituto Propaganda Libraria, 1986.

J. Struś

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SPIRITO

SPIRITO SANTO

 

SPIRITO SANTO

1.​​ Necessità e difficoltà​​ di un discorso sullo S.S. Non si tratta soltanto del posto e del ruolo dello S.S. dentro la vita trinitaria; il riemergere del problema del “Filioque” nel dibattito ecumenico ha reso attuale anche questa riflessione (che però va trattata nell’ambito della teologia della → Trinità).

Urge piuttosto il problema concreto del fenomeno dei movimenti carismatici e del risveglio dell’attenzione alla dimensione “pneumatologica” di tutta la vita cristiana e di tutta la Chiesa, contro un precedente eccesso di attenzione alle strutture istituzionali. I risvegli “spirituali” sono fenomeno costante; e stanno a indicare che, non solo all’interno della Trinità, ma anche nelle manifestazioni storiche lo S.S. non ha un “volto” definito una volta per tutte, è sempre originale, è sempre imprevedibile, sempre da cercare e scoprire, sempre da verificare; rappresenta per così dire la libertà e la novità di Dio. Il rischio che la Chiesa ha sempre combattuto è di pensare tale “novità” quasi necessariamente in termini di “miracolo” e di “straordinarietà”. Si tenga presente quanto richiama la​​ Eumen gentium​​ al n. 12 dove introduce esplicitamente il tema dei carismi: “Vanno valorizzati soprattutto i carismi ordinari, comuni e di tutti; non si deve riporre troppa fiducia nei carismi straordinari”. Il “discernimento” della presenza e dell’azione dello S. diventa perciò problema centrale.

2.​​ Lo S. è S. di Cristo, e​​ perciò opera anzitutto​​ dentro​​ i canali istituzionali. Per “istituzioni” qui si intende tutto ciò che, derivando da Cristo (e proprio in quanto Gesù storico, e perciò anche in veste di “istitutore”, di “iniziatore”), ha forma fissa e regolare, in tutti i vari settori, per poter rendere disponibile a tutti e per sempre i doni di salvezza; istituzione, quindi, non in termini negativi di fissità e staticità formalistica, ma in termini di stabilità e perennità a servizio di tutti e ciascuno e per la comunione o unità. Ebbene: in questo sensoistituzioni” sono anche la Bibbia (parola ormai fissata e codificata), i dogmi o dottrina autorevolmente promulgata, la liturgia o rito, e perciò anche il magistero dei Pastori; e non solo le strutture della gerarchia nella Chiesa.

La pastorale, e specialmente la C., devono quindi tener conto di ciò che da sempre la teologia e il Magistero hanno considerato il​​ particolare ruolo dello S.​​ all’interno delle “istituzioni” sopra ricordate. Sarebbe grave omissione anche solo non evidenziarlo a sufficienza; ed oggi tutte le Chiese riconoscono che finora siamo stati al di sotto della sufficienza. Quanto alla​​ Bibbia,​​ pertanto, è assolutamente necessario sottolineare il momento “ispirazione”, sia per quanto si riferisce agli autori dei libri sacri, sia per quanto attiene a noi lettori e interpreti; anche se 1’”ispirazione” nei due casi non è qualcosa di univoco. Così pure:​​ Concili​​ e →​​ Magistero​​ hanno particolare valore in quanto fruiscono di una speciale “assistenza” dello S.S. Ma, seguendo la dottrina ricuperata dalla​​ Dei Verbum​​ (n. 5), si dovrebbe soprattutto insistere sull’azione dello S.​​ nell’atto e nel processo di → fede​​ di ciascun credente: già il “credere” è dinamismo soprannaturale, non quindi frutto di sola intelligenza (tanto meno di convincimento maturo per logica di stringente dimostrazione apologetica), né di sola libertà, bensì dono dello S., e cioè del “lumen fidei” che dà occhi adeguati per incontrare la → Rivelazione e cuore disponibile per accoglierla.

La DV pone l’attenzione anche sulla intrinseca insufficienza della stessa fede, in quanto per vivere e svilupparsi essa deve attingere da ulteriori “doni dello S.” (che però sono offerti ad ogni credente): intelletto, scienza, sapienza, ecc.; doni che maturano il cosiddetto “sensus fidei”, ossia la capacità di fare passi nel cammino della fede, sia a livello di penetrazione sapienziale nella verità, sia a livello di verifica concreta nella prassi. Questo dono del “sensus fidei” (come a dire: fede attrezzata di sensi, per introdursi nell’universo della Parola di Dio) è condizione di → maturità e di età adulta del cristiano; proprio per questo, interessa la C. e la pedagogia cristiana; e da ciò si potrà passare poi a valorizzare il “consenso nella fede” per costruire una Chiesa adulta. Si è sempre detto che il ciclo si conclude con la “redditio symboli”; il cristiano resterebbe minorenne se dovesse solo “ricevere”, senza capacità di “dare”.

3.​​ Lo​​ S.​​ però ha un campo più vasto di azione;​​ agisce anche fuori​​ delle “istituzioni”. Si potrebbero schematicamente indicare le seguenti quattro tappe storiche, per qualificare l’attenzione crescente allo S., lasciando da parte la stagione privilegiata dei primi secoli (o dei Padri), quando vivere cristianamente, anche sul fronte dei Pastori, voleva dire vivere “nello S.” e “dello S.”, più che di forme e di strutture separanti. Nel primo millennio il fiorire del monacheSimo ha fatto sottolineare l’importanza dei cristiani che si incamminano su sentieri di perfezione, e cioè degli “spirituali”;​​ introducendo una forte attenzione al discernimento dello S. che lavora dentro le anime; discernimento delle “ispirazioni”, ossia “degli spiriti”. Dal medioevo in poi la Chiesa ha dovuto far fronte sempre più spesso alla novità di “rivelazioni private”, soprattutto quando queste rivendicano interesse per tutta la Chiesa (si pensi alle rivelazioni di santa Brigida, di cui dovette interessarsi perfino il Concilio di Costanza; e poi a quelle di santa Margherita M. Alacoque; di Lourdes, di Fatima...). Ma negli ultimi tempi incontriamo altre due stagioni ancora più decisive: anzitutto la riscoperta delle​​ vocazioni​​ apostoliche dei​​ laici,​​ per una Chiesa tutta carismatica e ministeriale; e poi l’attenzione alla storia generale, anche oltre i confini della Chiesa, e perciò ai “segni dei tempi”, ossia ai dinamismi entro i quali passa l’azione dello S. nell’umanità intera. L’orizzonte si è allargato: lo S. opera in tutti,​​ dentro la Chiesa anzitutto, e​​ perciò si deve fare attenzione al “consenso di fede” quale organo di verità, e, a certe condizioni, anche di infallibilità; in ogni caso la comunione deve tornare ad essere la categoria fondamentale della Chiesa, e perciò impegnare alla comunicazione, alla partecipazione. Ma lo S. parla alla Chiesa​​ anche da fuori,​​ attraverso i popoli, le culture, i movimenti, le sfide e le risorse dei vari tempi.

4.​​ Diventa, perciò, sempre più importante il problema del​​ discernimento dello S.;​​ e soprattutto dei​​ criteri​​ sulla base dei quali operarlo. A questo proposito vanno indicati i seguenti criteri principali.

— Anzitutto-.​​ Gesù Cristo e i segni visibili della sua presenza nella storia restano​​ la forma​​ su cui tutto misurare. Lo S. è S. di Cristo; S. e Cristo sono in legame inscindibile. Predicazione e C., oggi, devono insistere su questo punto capitale. Anche senza assumere norma dal “Filioque”, che accentuerebbe il legame dello S. con Cristo (appunto in quanto lo S. procede anche dal Figlio e non solo dal Padre), si deve sottolineare che lo S. ha sempre operato, nella storia, “per​​ il Cristo”: nell’AT (e nelle religioni non cristiane e nelle culture, in quanto rappresentano una “preparazione al Vangelo”) lo S. ha operato in vista di Cristo; il NT ci presenta Gesù come “capolavoro” dello S.; e l’era della Chiesa viene ancora di più compresa come “tempo dello S.”, in quanto in essa lo S. continua a creare il “nuovo corpo di Cristo”. Lo S., dunque, non può fare qualcosa che in qualche modo non sia armonizzabile con la “forma di Cristo”; in particolare con​​ l’incarnazione​​ e col​​ mistero pasquale-.​​ segno dello S. è ciò che aiuta a realizzare o perfezionare l’unione tra uomo e Dio, l’entrare di Dio nell’uomo e dell’uomo in Dio (incarnazione), e nel segno della Croce, ossia di un morire che significhi donarsi totalmente e consumarsi all’insegna dell’amore gratuito e universale, per un risorgere a vita più elevata, ossia per una comunione e una fraternità che siano ricapitolative di tutto e tutti (mistero pasquale).

— Poi:​​ segno dello S. è tutto ciò che, al tempo stesso e con uguale passione, fa promuovere sia la​​ diversità​​ che​​ l’unità,​​ ossia tanto la ricchezza dei vari doni e valori quanto la loro armonizzazione. Criterio, questo, più facile a dirsi che a realizzarsi, in quanto l’istinto porta normalmente alla unilateralità: ad assolutizzare cioè fino all’idolatria o l’individualismo e le singolarità, oppure l’uniformità livellante e imperialistica.

— Perciò​​ bisogna valorizzare anche criteri più umili e più concreti: la​​ mutua verifica,​​ che porta anche al​​ controllo​​ reciproco, alla reciproca​​ correzione fraterna,​​ alla​​ emulazione​​ che promuove in ciascuno lo sviluppo dei propri doni in un clima di​​ simpatia verso tutti.​​ Questo processo implica, perciò, una mentalità di “mutua dipendenza”; per cui ciascuno porta il peso di tutti gli altri, si sottomette a tutti, sia per dare che per ricevere. È in questa logica che va collocata anche l’obbedienza ai superiori e ai Pastori.

5.​​ C. e pedagogia​​ devono, pertanto, esprimere “servizio allo S.”. Soprattutto per formare “adulti”. Già a livello dei fanciulli ci si deve porre in umile servizio allo S., perché questi dona anche ai piccoli 1’”intuito” di fede; e si deve realmente contare su tale “capacità” superiore. A livello di adolescenti e giovani si deve tener conto del dono dello S. che induce coinvolgimento, adesione di volontà, per una scoperta di vocazioni. Ma è soprattutto il credente adulto che deve essere introdotto nei segreti dello S.; perché favorisca in sé il dinamismo del “senso della fede”, si apra ai doni dello S. che alimentano e fanno progredire la fede; e giunga a vivere nella Chiesa da vero “partecipe”, per contribuire al cammino comunitario nel “consenso della fede”, e così la comunità in cui vive sia adeguata a scoprire, leggere e discernere i segni dei tempi in vista della missione.

Bibliografia

Vedere voci attinenti nei Dizionari teologici (in particolare quelli di spiritualità, biblico, di liturgia e di ecumenismo), e voci che richiamano altre tematiche circa la storia, i segni dei tempi, il discernimento dello Spirito; importanti i volumi in collaborazione (specie per ascoltare prospettive di confessioni cristiane diverse, oltre i cattolici):​​ L'esperienza dello Spirito,​​ Brescia, Queriniana, 1974 (vol. in onore di E. Schillebeeckx);​​ L'Esprit Saint,​​ Bruxelles, 1978;​​ La riscoperta dello Spirito,​​ Milano,​​ .Taca​​ Book, 1977;​​ Spirito Santo e storia,​​ Roma, AVE, 1977. ,

S. Bulgakov,​​ Il​​ Paráclito,​​ Bologna, EDB, 1971; Y. Congar,​​ -Credo nello Spirito Santo,​​ 3 vol., Brescia, Queriniana, 1981-1983 (monumentale trilogia);​​ Credo in Spiritum Sanctum,​​ 2 vol., Città del Vaticano, LEV, 1983; W. Kasper – G. Sauter,​​ La Chiesa luogo dello Spirito,​​ Brescia, Queriniana, 1980; E. Lanne (ed.),​​ Lo Spirito Santo e la Chiesa,​​ Roma, AVE, 1970; H.​​ Mühlen,​​ Una Myslica Persona,​​ Roma, Città Nuova, 1968.

Luigi Sartori

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SPIRITO SANTO

Angelo Amato

 

1. La riscoperta dello Spirito

2. I movimenti carismatici

3. La realtà dello Spirito Santo

3.1. Lo Spirito Santo, persona trinitaria

3.2. Lo Spirito nell’evento Cristo

3.3. Lo Spirito Santo e Maria

3.4. Lo Spirito Santo e la chiesa

4. Criteri pastorali della vita nello Spirito

4.1. Dinamismo trinitario

4.2. Testimonianza cristologica

4.3. Vissuto ecclesiologico-mariano

 

1.​​ La riscoperta dello spirito

«Credo nello Spirito Santo» è un dato primario della nostra professione di fede e del nostro vissuto ecclesiale. Il Dio cristiano è il Dio della comunione trinitaria. Dio Padre, Figlio e Spirito Santo non è speculazione gnostica, ma esperienza profonda di ogni cristiano battezzato nel nome della santissima Trinità. Dopo il Vaticano II c’è stata una vera riscoperta dello Spirito Santo sia come «Signore e datore di vita», sia come orizzonte ultimo del nostro comprendere teologico e del nostro agire ecclesiale. Lo Spirito Santo è infatti il mistagogo, il maestro che introduce nella verità e nell’esperienza del mistero salvifico di Gesù Cristo. La costituzione dogmatica sulla chiesa (LG) e quella pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo (GS) sono due trattazioni esemplari di questa nuova prospettiva pneumatologica, nella considerazione del mistero della chiesa in sé stessa e della sua missione nella storia e nel mondo. L’accresciuta attenzione pneumatologica ha avuto nella stagione del postconcilio una pronta accoglienza soprattutto in ambienti e movimenti giovanili, la cui esperienza di rinnovamento nello Spirito ha provocato un salutare risveglio nella spiritualità e nell’apostolato.

 

2.​​ I movimenti carismatici

Premettiamo subito che in ambienti non cattolici, soprattutto nordamericani, sono stati sempre vivi gruppi e movimenti carismatici o pentecostali caratterizzati dal cosiddetto «battesimo nello Spirito» ricevuto mediante l’imposizione delle mani e sperimentato con il dono del «parlare in lingue». Nella sua guida a questi movimenti (1983), Charles Edwin Jones cita più di quattrocento gruppi, mentre in una più recente rassegna bibliografica Watson E. Mills ci consegna una documentata sintesi delle varie teorie concernenti l’origine e il significato di questi movimenti (W. E. Mills,​​ Charismatic Religion in Modera Research,​​ Macon [Georgia], Mercer University Press 1985). Alcuni di questi gruppi, con l’accento sulla presenza dello Spirito e dei suoi carismi nell’esperienza cristiana quotidiana, hanno certamente influito sul movimento carismatico cattolico, storicamente iniziato da alcuni docenti e studenti della Duquesne University di Pittsburgh (Pennsylvania) nel 1967, e poi allargatosi all’Università di Notre Dame (Indiana), agli studenti cattolici della Michigan State University e ad altri campus. L’origine fu, quindi, l’urgenza pastorale di una esperienza e testimonianza cristiana che, sul modello delle prime comunità cristiane, fosse sotto la potente azione rinnovatrice dello Spirito del Cristo risorto. Dopo poco più che vent’anni di storia del movimento carismatico cattolico, possiamo sintetizzare alcuni elementi perenni del rinnovamento nello Spirito particolarmente adatti a una pastorale giovanile: 1. la Scrittura come fonte viva e penetrante di ispirazione e di comprensione dell’esistenza cristiana; 2. l’intelligenza ecclesiale della Scrittura, non lasciata all’arbitrio individuale bensì alla viva tradizione della Chiesa; 3. il battesimo dello Spirito inteso come una reviviscenza esistenziale della nuova vita in Cristo iniziata col battesimo e nutrita con gli altri sacramenti; 4. l’attenzione a far combaciare l’entusiasmante annuncio del Cristo con una prassi cristiana altrettanto convinta e vitale; 5. lo sforzo di misurare la carica sentimentale di ogni persona e comunità mediante la verità del vangelo di Gesù Cristo; 6. la partecipazione attiva alla preghiera e all’azione apostolica come sperimentazione concreta dell’azione dello Spirito oggi con la molteplicità e la ricchezza dei suoi doni sui singoli e sulle comunità. Questo articolato orizzonte pneumatologico dà una ferma convinzione personale e una innegabile aggressività missionaria per una vita spirituale «ad alto voltaggio».

La dinamica esperienza carismatica, regolata dalla parola di Dio e vissuta nell’ambito e in armonia con la comunità ecclesiale, è stata sostenuta e nutrita da importanti contributi teologici (cf le opere di H. Muhlen, H. U. von Balthasar, K. Rahner, Y. Congar, D. Bertetto, F. Lambiasi) e magisteriali. Il rinnovamento pneumatologico suggerito dal magistero pastorale di Paolo VI ha avuto poi una sua sintesi esemplare nelPenciclica sullo Spirito Santo «Dominum et vivificantem» (18 maggio 1986) di Giovanni Paolo IL L’accento della presenza dello Spirito nella chiesa racchiude anche una innegabile carica ecumenica, soprattutto nel dialogo con le chiese orientali e nella comune invocazione all’unità. Se il primo millennio dell’era cristiana si concluse con il primo grande scisma — paradossalmente anche a causa di una disputa pneumatologica (la celebre questione del «Filioque») —, il secondo millennio potrebbe concludersi con una riconciliazione ecclesiale come opera dello Spirito, principio di unità e di comunione nella chiesa. Testimonianze di questa tensione verso l’unità sono stati, ad esempio, alcuni convegni nazionali e internazionali di studio in occasione dell’anniversario del secondo concilio ecumenico, il Costantinopolitano I del 381 (cf il congresso internazionale di pneumatologia tenutosi nella Città del Vaticano nel marzo del 1982).

 

3.​​ La realtà dello spirito santo

 

3.1. Lo Spirito Santo, persona trinitaria

Pur adombrato nell’Antico Testamento, la realtà dello Spirito Santo viene compiutamente svelata nel mistero dell’incarnazione, evento trinitario per eccellenza. L’incarnazione, infatti, è l’evento dell’autorivelazione di Dio come comunione trinitaria «in sé» e «per noi»: «E quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli. E che voi siete figli di Dio ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!» (Gal 4,4-6). In questa splendida sintesi san Paolo presenta l’impegno personale del Padre, del Figlio e dello Spirito nell’incarnazione salvifica. La nostra adozione a figli del Padre, oltre che opera del Cristo, è frutto dell’inabitazione dello Spirito in noi, nel quale è possibile l’invocazione adorante del Padre. L’incarnazione è quindi iniziativa del Padre che invia il Figlio, atto di obbedienza e impegno personale del Figlio che viene inviato, e cooperazione dello Spirito Santo.

 

3.2. Lo Spirito nell'evento Cristo

L’inizio dell’esistenza terrena di Gesù è opera dello Spirito (Mt 1,20; Le 1,35), così come l’inizio della sua missione, al battesimo nel Giordano, quando scese su di lui lo Spirito Santo (Lc 3,21 ; Mt 3,16; Me 1,10) e il Padre si compiacque nel suo Figlio prediletto. È nello Spirito Santo che viene operata e rivelata l’origine di Gesù, la sua identità di Figlio di Dio e la sua attività messianica (Lc 1,16-30; Mt 13,54-58; Me 6,1-6). Anche gli eventi gloriosi della risurrezione, ascensione, Pentecoste sono sotto il segno dello Spirito: «Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire» (At 2,33). La presenza dello Spirito in Gesù è una realtà permanente, non temporanea.

E una realtà intrinseca al suo essere e al suo agire, in stretta relazione con la sua condizione di Figlio. Gesù viene definito non solo in riferimento al Padre, ma anche in riferimento allo Spirito (Lc 1,35; 3,22).

A sua volta lo Spirito viene definito sia dal suo rapporto con il Padre, da cui procede (Gv 14,16.26; 15,26), sia dalla sua relazione con il Figlio, da cui è mandato (Gv 15,26; 16,7) e di cui rammenta gli insegnamenti (Gv 16,1314; 14,26; 15,26; 16,14). Per questo viene chiamato «Spirito del Figlio» (Gal 4,6), «Spirito di Cristo» (Rm 8,10; Fil 1,19), «Spirito di Gesù» (cf 2 Ts 2,8).

 

3.3. Lo Spirito Santo e Maria

L’affermazione del simbolo niceno-costantinopolitano: «si è incarnato dallo Spirito Santo e da Maria Vergine e si è fatto uomo», introduce nella realtà trinitaria del mistero dell’incarnazione del Verbo la persona di Maria: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo figlio, nato da donna» (Gal

4,4). Da questo antichissimo testo paolino si ricava che il Figlio, oltre alla generazione eterna dal Padre, riceve una nascita temporale da una donna. 1 testi evangelici (Mt 1,18.20; Le 1,35) ci informano sulle specialissime modalità di questa nascita verginale ad opera dello Spirito Santo: «quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo» (Mt 1,20). Ad opera dello Spirito, creatore e vivificatore (cf Gn 1,2; 2,7), in Maria si attua una nuova creazione: Maria è la terra che Dio feconda con il suo Spirito, perché doni il Salvatore. Tommaso d’Aquino espone le ragioni dell’attribuzione allo Spirito Santo della concezione verginale del Verbo. Anzitutto lo Spirito Santo è l’amore del Padre e del Figlio; ed è stato proprio l’amore di Dio il motivo ispiratore dell’incarnazione. La grazia inoltre è un dono celeste che viene attribuito allo Spirito Santo; ora anche l’incarnazione è un dono di Dio. Il terzo motivo è dato dal fatto che colui che nacque dalla Vergine era Santo e Figlio di Dio; la santità e la figliolanza divina sono opera dello Spirito Santo (STh III q.32 a.l).

La relazione Maria-Spirito Santo ha avuto nel postconcilio un’attenzione privilegiata. Definita come la «redenta in modo sublime» (LG 53) e «tempio dello Spirito Santo»​​ (ivi),​​ Maria è stata vista, ad esempio, come «trasparenza dello Spirito Santo» (X. Pikaza), come «volto materno di Dio» (L. Boff), come «anamnesi ed epiclesi dello Spirito Santo» (F. Lambiasi). H. Muhlen evidenzia il particolare rapporto di Maria con lo Spirito Santo sia nella sua immacolata concezione e cioè nella totalità del suo essere plasmato dallo Spirito Santo (LG 56) fin dall’inizio della sua esistenza terrena (funzione personologica), sia nella concezione verginale di Gesù, come libero atto di cooperazione di Maria alla redenzione (funzione personale). Tra il «panàghion» (tuttosanto) e la «panaghia» (tuttasanta) D. Bertetto vede una particolare sinergia dello Spirito in Maria, che in tutta la sua vita condusse un’esistenza profondamente pneumatica, oltre che cristologica.

 

3.4. Lo Spirito Santo e la chiesa

La chiesa, costituita da Gesù con la chiamata dei discepoli, l’istituzione dei sacramenti e il primato di Pietro, a Pentecoste riceve dallo Spirito il soffio vitale della sua espansione universale. Anche la chiesa è sotto il segno dello Spirito non solo all’inizio della sua missione ma in tutto il suo pellegrinare storico. È lo Spirito che la edifica (Ef 2,22), la arricchisce dei suoi doni (1 Cor 12,7-11), unificandola in un solo corpo in Cristo (Ef 4,4;

I Cor 12,8s; Rm 12,6s; Gal 3,28). Lo Spirito «co-istituisce» la chiesa (Congar), animandola e rendendola una, santa, cattolica, apostolica. Lo Spirito cioè è principio di comunione, di missione e di santità. La chiesa è il luogo della continua Pentecoste dello Spirito nella storia mediante l’annuncio della parola, mediante l’azione liturgico-sacramentaria, mediante la sua missione di carità.

II concilio ci offre una splendida sintesi di questa animazione pneumatica della chiesa: «Lo Spirito [...] guida la chiesa verso tutta intera la verità (cf Gv 16,13), la unifica nella comunione e nel servizio, la provvede di diversi doni gerarchici e carismatici, coi quali la dirige, la abbellisce dei suoi frutti (cf Ef 4,11-12; 1 Cor 12,4, Gal 5,22). Con la forza del vangelo fa ringiovanire la chiesa, continuamente la rinnova e la conduce alla perfetta unione con il suo sposo. Poiché lo Spirito e la sposa dicono al Signore Gesù: Vieni! (cf Ap 22,17)» (LG 4). Nello Spirito la chiesa diventa la madre dei fedeli soprattutto attraverso i sacramenti, che sono momenti privilegiati dell’incontro salvifico dell’umanità con lo Spirito del Cristo risorto lungo le principali tappe del suo terreno pellegrinare.

 

4.​​ Criteri pastorali della vita nello spirito

Come nell’annuncio cristologico, anche nell’annuncio dello Spirito Santo i criteri pastorali non sono suggeriti dall’esterno, ma sono ricavati dalla realtà stessa dello Spirito e dalla sua azione nella chiesa e nel mondo. Si possono sostanzialmente ridurre a tre le principali linee di progettazione pastorale della pneumatologia: lo Spirito è infatti dinamismo divino trinitario nel cosmo e nella storia (1) e vita di unione con Cristo (2) nella chiesa con e come Maria (3). La pastorale pneumatologica ha quindi una triplice dimensione: trinitaria, cristologica, ecclesiologico-mariana. Non si tratta di aspetti irrelati, ma in intrinseca continuità e in reciproco arricchimento.

 

4.1. Dinamismo trinitario

Lo Spirito è soffio e potenza di vita trinitaria nella storia. Essendo comunione e dono d’amore del Padre e del Figlio, egli è dono di vita divina nei fedeli battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Il sostegno dell’opera apostolica e della santificazione della chiesa e dei cristiani nella storia è dono dall’alto, è vissuto divino comunicatoci dallo Spirito. La vita nello Spirito è quindi anzitutto vita trinitaria. Lo Spirito non è solo ricordo o invocazione di vita, ma il «signore e datore di vita». È nello Spirito che si attua sia il circuito di eterna comunione d’amore delle persone trinitarie, sia l’esperienza della partecipazione delle creature alla vita divina. È nello Spirito che l’uomo può chiamare Dio «Padre». Il suo dono è la comunione dell’umanità con Dio. Come nell’incarnazione lo Spirito ha plasmato una carne umana per il Figlio di Dio, così nella santificazione egli offre all’umanità il soffio della vita trinitaria. Il primo criterio di pastorale pneumatologica è quindi l’esperienza profonda della vita dello Spirito nella storia personale e comunitaria dell’umanità.

 

4.2. Testimonianza cristologica

Questa comunione trinitaria è concretamente segnata dall’incontro personale del fedele con Cristo e dalla sua assimilazione a lui. È questo il compito del consolatore, inviato dal Padre nel nome di Gesù per «insegnare ogni cosa» e «ricordare tutto ciò» che Gesù ha detto (cf Gv 14,26). Egli rende testimonianza a Gesù e alla sua verità: «Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve l’annunzierà» (Gv 16,13-14).

L’influsso dello Spirito nel cristiano è duplice: illuminare la conoscenza e la fede in Cristo (cf 1 Gv 3,23) e rafforzare la testimonianza vitale di questa fede cristologica. «Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato [...]. E da questo conosciamo che dimora in noi: dallo Spirito che ci ha dato» (1 Gv 3,23.24). È per il dono dello Spirito che Cristo rimane in noi e noi in lui. È nello Spirito che si attua la nostra comunione col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo (cf 1 Gv 1,3). Vita pneumatica è concretamente vita di comunione con Cristo. Vita pneumatica è vissuto e testimonianza cristologica: è immersione nel mistero salvifico della redenzione cristiana. Lo Spirito Santo è fonte dell’autentica crescita nella vita cristiana.

 

4.3. Vissuto ecclesiologico-mariano

La vita trinitaria di intimità con Cristo viene concretamente donata ed esperimentata nell’ambito della sacramentalità ecclesiale. È la chiesa che attraverso il battesimo, l’eucaristia e gli altri sacramenti diventa la madre feconda dei fedeli alla vita divina nello Spirito del Cristo risorto. Edificata dallo Spirito (Ef 2,22) e vivificata dai suoi doni (1 Cor 12,711), la chiesa nutre i suoi figli con i doni spirituali di vita e di santità, di amore e di unità, di verità e di libertà. Nel nostro cammino terreno, la vita nello Spirito è concretamente vita ecclesiale, in cui lo Spirito è il maestro interiore di ortodossia e di ortoprassi, di preghiera e di testimonianza, di conversione personale e di dedizione comunitaria. È nella chiesa che la pedagogia sacramentale plasma quegli abiti virtuosi che a poco a poco maturano spiritualmente il cristiano, che diventa cosi uomo spirituale, adorno dei doni (cf Is 11,1 -2) e dei frutti dello Spirito: giustizia, pace, gioia, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé (cf Rm 14,17; Gal 5,22; Ef 5,9; 2 Cor 6,6-7; 1 Tm 6,11).

Lo Spirito è quindi nella chiesa fonte di missione e di apostolato, di purificazione e di santificazione. In questa sua condizione pneumatica la chiesa trova in Maria il suo modello e la sua madre. La relazione chiesa-Maria non è estrinseca né solo devozionale, ma intrinseca ed essenziale. Dice Paolo VI nella «Marialis cultus»: «Maria è la Vergine madre [...] costituita da Dio quale tipo e modello della vergine-chiesa, la quale diventa anch’essa madre, perché con la predicazione e il battesimo genera a vita nuova e immortale i figli, concepiti per opera dello Spirito e nati da Dio» (MC 19). A ragione Giovanni Paolo II considera la Pentecoste come il prolungamento della maternità di Maria nella maternità della chiesa (cf RH 22). La maternità spirituale della chiesa è intrinsecamente associata alla maternità di Maria: entrambe donano al mondo il Cristo salvatore nella potenza dello Spirito Santo. Per questo la santità di Maria si riverbera sulla santità della chiesa. Allo stesso modo la santità di Maria e della chiesa è l’orizzonte e il grembo della santificazione dei fedeli.

Come Maria e la chiesa, anche i cristiani vivono la loro vita di fede, di speranza e di carità nello Spirito del Cristo risorto. Come Maria e la chiesa, anche i cristiani sono plasmati dallo Spirito (pneumatoplasti), diventando portatori dello Spirito e dei suoi doni (pneumatofori) e trasparenza e immagine dello Spirito nel mondo (pneumatoformi). Come Maria, la chiesa guidata dallo Spirito si fa chiesa-madre dell’umanità, chiesa-famiglia dell’umanità, chiesa-servizio all’umanità. È in questa profonda dimensione ecclesiologico-mariana che l’apostolato cristiano trova la sua norma e la sua esplicitazione vitale. Dire lo Spirito oggi è vivere la vita divina trinitaria in unione col mistero salvifico di Cristo nella chiesa, con Maria e come Maria in impegnato servizio di liberazione dell’umanità nella storia.

 

Bibliografia

Amato A.,​​ Lo Spirito Santo e Maria nella ricerca teologica odierna delle varie confessioni cristiane in Occidente,​​ in Maria e lo Spirito Santo,​​ Ed. Dehoniane-Marianum, Bologna-Roma 1984, p. 9-103; Congar Y.,​​ Credo nello Spirito Santo,​​ Queriniana, Brescia 1981-83;​​ Credo in Spiritimi Sanctum. Atti del congresso teologico internazionale di pneumatologia, Città del Vaticano 1983; Felici S. (a cura),​​ Spirito Santo e catechesi patristica,​​ LAS, Roma 1983; Lambiasi F.,​​ Lo Spirito Santo: mistero e presenza. Per una sintesi di pneumatologia,​​ Ed. Dehoniane, Bologna 1987; Triacca A. M.,​​ Presenza e azione dello Spirito Santo nell’assemblea liturgica,​​ in «Ephemerides Liturgicae» 99 (1985) p. 349-383;​​ La presenza e l’azione dello Spirito Santo nella celebrazione dei sacramenti,​​ in «Liturgia» 19 (1985) p. 26-62 (rassegna bibliografica).

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SPIRITUALITÀ

 

SPIRITUALITÀ

1.​​ La S. non va interpretata falsamente come “puro spirito”, in senso anticorporeo e antisensitivo. La S. riguarda tutto l’uomo, “con il corpo e la vita”, come dice l’AT. La S. significa essere mossi dallo Spirito di Dio (Rm​​ 8,14: “Qui spiritu Dei aguntur, ipsi sunt filii Dei”). Il contrario della S. è il peccato,​​ per il quale Paolo usa come sinonimo “sarx” = carne, espressione che è praticamente impossibile rendere correttamente nelle traduzioni moderne.

La conduzione dello Spirito riguarda in primo luogo l’uomo come partner in dialogo con Dio. Il singolo uomo è chiamato alla fede. Accogliendo il dono della fede, il suo “cuore” viene riempito dall’amore di Dio. La S. trova il suo compimento nella mistica. L’unione con Dio, nella prospettiva biblica, è espressa anzitutto nel singolare: “Et ego semper tecum, tennisti manum dexteram meam” (Sai​​ 73,23); “Non più io vivo, ma Cristo vive in me...”. Criticare la S. personale bollandola come individualismo tardo borghese è in contraddizione con la testimonianza e la preghiera biblica.

Occorre parlare di S. anche al plurale: “Beati vol...” (Lc​​ 6,20ss); “Voi in me ed io in voi” (Gv​​ 14,20). Il plurale in questi casi prende il suo pieno significato nel circolo di coloro che si conoscono e si amano. Soltanto in senso analogico può esserci allusione alle istituzioni e alle organizzazioni di massa.

S. indica quindi ogni movimento dello Spirito nel singolo e nella comunità dei credenti, che ha, dalla parte dell’uomo, la caratteristica di lasciarsi condurre da Dio, verso il quale ci si pone nell’atteggiamento di vigilanza e di recettività. S. significa quindi diventare vuoti di sé per essere riempiti dallo Spirito di Cristo e di Dio.

2.​​ Sia sul piano formale che materiale la S. è rilevante per la C. Sul piano formale come → S. dell’insegnante di religione e → S. del catechista, e anche come S. della C. stessa. Sul piano materiale, perché la C. consiste appunto nell’apprendimento della S. o nell’iniziazione alla S.

a)​​ La C. deve essere un processo mosso dallo Spirito di Dio. È ovvio che ciò non si può provocare attraverso una qualche tecnica didattica, poiché non esiste una tecnica della S. È però possibile demolire ostacoli e creare condizioni favorevoli. A questo fine è richiesta anzitutto la​​ autenticità​​ (M. J. Langeveld in riferimento a Ph. Lersch). La testimonianza del catechista deve essere “autentica”, nel senso che deve esprimere ciò di cui è convinto e che con grande umiltà cerca di realizzare. Nella C. ognuno può esprimere la propria convinzione; anche una convinzione scomoda è permessa. L’autenticità richiede un​​ linguaggio semplice,​​ libero da pathos e da intenti manipolatori. Infine anche il​​ silenzio​​ deve avere una collocazione legittima nella C., affinché la testimonianza di Dio possa essere assimilata nella interiorità. Tale silenzio è richiesto dopo aver ascoltato la narrazione (cf → didattica biblica; → linguaggio biblico). Il silenzio entra anche come pausa in una preghiera comunitaria. È pure richiesto quando si medita su una immagine o quando è stato usato un mezzo audiovisivo, prima di iniziare una discussione sul tema. La S. si fa anche conoscere nella C. come​​ trasparenza-,​​ il colloquio del catechista con i catecumeni è​​ aperto​​ al “significato” che si affaccia nell’esistenza del singolo e nel comune impegno per la giustizia e l’amore,​​ aperto​​ a Dio il quale vuol servirsi di noi per realizzare tutto ciò. La​​ S. e l’etica​​ sono​​ inseparabilmente collegate​​ tra loro. La S. nella C. presuppone già l’abbandono di una vita peccaminosa (in forza dell’amore, con il quale ci accettiamo gli uni gli altri come amici) e mira alla purezza del cuore e dello spirito. E poiché la S. è ricollegata con l’agire, verso il quale spinge lo Spirito, la C. non dovrà limitarsi al solo aspetto dell’insegnamento-apprendimento, ma dovrà essere continuata in una​​ prassi comunitaria.

b)​​ La stessa S. è contenuto permanente di C., per il fatto che la C. sviluppa la fede, dà testimonianza della speranza, e si realizza in forza dell’amore e sulla base dell’amore che dobbiamo mostrare e donare tra noi, alle famiglie, agli amici e al mondo intero.

Per realizzare lo sviluppo della fede in prospettiva spirituale occorre piuttosto il linguaggio dossologico, il “confiteri” nel senso dei Salmi, il narrare delle grandi azioni di Dio e dei suoi miracoli (Lc​​ 1,49), il testimoniare la risurrezione di Cristo (At​​ 1,22), e non tanto l’inculcare dogmi e norme. Una C. spirituale non è priva di sensitività (è piuttosto piena di immagini e di simboli), e non è arazionale. Essa è riferita a una gnosis (1 Cor​​ 1,5), che trascende la conoscenza naturale, pur utilizzando le sue possibilità.

Anche la S. nel senso ristretto del termine diventa contenuto della C., nella misura in cui si dà testimonianza, si spiega e si sperimenta ciò che costituisce specificamente la S. del cristiano: perfetta vigilanza, piena attenzione nell’ascolto e nel guardare verso Dio, preghiera e meditazione, ricevere i sacramenti e celebrare l’eucaristia. Però la C. non deve affatto limitarsi a parlare in forma apolitica del solo aldilà. La testimonianza sulla morte, che ciascuno di noi deve affrontare, e sulla fine del mondo non dispensa dal dovere di promuovere e di garantire personalmente, attraverso atti di amore e di solidarietà verso i poveri e gli oppressi, tutta la giustizia che è nel potere del cristiano. Infatti, è anche vero, e bisogna darne testimonianza, che il Regno di Dio è già realtà “in mezzo a noi» (Le. 17,21), e ciò non soltanto nella forma della Chiesa, ma in tutti gli “uomini della sua grazia” (Le 2,14: “hominibus bonae voluntatis”).

Bibliografia

Periture sainte et spiritualità,​​ in​​ Dictionnaire de Spiritualité,​​ 4,1, Paris, Beauchesne, 1960, 128-278; E. Feifel et al. (ed.),​​ Handbuch der Religionspädagogik,​​ 3, Zürich, Benziger, 1975, Teil 7:​​ Religionspädagogik der Sakramente, des Gottesdienstes und der Spiritualität;​​ G. Stachel,​​ Erfahrung interpretieren,​​ Zürich, Benziger, 1982, 185-236; J. A. van der​​ Ven,​​ Kritische godsdienstdidactiek,​​ Kämpen, J. H. Kok, 1982.

Cf → S.​​ del catechista;​​ S.​​ dell’insegnante di religione.

Günter Stachel

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SPIRITUALITÀ

Il termine, relativamente nuovo, viene adoperato in riferimento a diversi contesti e ambiti della vita religiosa dell’uomo. Si dice s. cristiana ma pure cattolica, protestante, ortodossa, nonché dei laici, dei religiosi, e anche del lavoro, dello sport, del tempo libero. Il vocabolo, non essendo ristretto all’ambito esclusivamente cristiano viene applicato ancora alle altre religioni: s. buddhista, ebraica, musulmana, shintoista.

1. Nel senso specifico cristiano, il termine s. ci orienta allo Spirito santo nella concreta situazione storica di credenti in Gesù Cristo. La parola s. subentra in gran parte a quelle di «ascetica e mistica» prese insieme. Ne risulta che la s. costituisce, in quanto riflessione teologica, una scienza teologica cristiana che si interessa del vissuto cristiano sostenuto dallo Spirito santo nella sua esistenza e nel suo cammino verso la perfezione nella storia. Il discorso sulla s. tiene conto di molteplici agganci tra l’esistenza cristiana e il mistero cristiano. Perciò la s. cristiana è fondamentalmente, allo stesso tempo, una s. cristologica, perché si ispira soprattutto alla figura di Cristo, una s. pneumatologica, perché è lo Spirito santo colui che produce nel cuore del credente in Gesù la filiazione divina e i frutti di ogni santificazione, una s. biblica, perché al centro della vita dei credenti si trova la parola di Dio che fa prendere coscienza dell’iniziativa gratuita dell’amore del Padre per tutti gli uomini, una s. ecclesiale, perché il luogo di nascita e di crescita dell’uomo in Cristo per mezzo dello Spirito santo è la comunità dei discepoli, una s. sacramentale, perché i sacramenti sono la celebrazione dei misteri della vita di Cristo per noi.

2. Benché tale vissuto abbia origine con i sacramenti dell’iniziazione cristiana: battesimo, cresima, eucaristia, non si può ignorare l’importanza della Parola di Dio che suscita e orienta verso una graduale esperienza di vita spirituale ogni credente in Gesù. Di fatto, la s. cristiana ubbidisce alla legge della gradualità, soggetta alla progressione del tempo, all’impegno e alla fedeltà dell’uomo, partendo dalla situazione e dallo stato reale in cui egli si trova. Un secondo aspetto è il contributo che la crescita cristiana dà alla maturazione umana. Una pedagogia seria della fede e una introduzione al mistero cristiano, intesa come mistagogia, sono sempre a sostegno sia di una profonda s., sia del mutuo rapporto tra la​​ ​​ maturazione umana e la crescita cristiana. La s. cristiana, in quanto esperienza di vita spirituale nella storia, assieme ai principi forniti dalla teologia, comprende anche tutta la ricchezza delle molteplici esperienze suscitate dalla grazia. Ne risulta l’importante compito che ha da svolgere la storia della s.: stabilire la certezza storica dei fatti, liberandoli dai dubbi e dalle leggende, determinandone con precisione il tempo, il luogo, la successione, i rapporti vicendevoli; offrire una vasta raccolta di esperienze certe, vissute da persone di ogni ceto, di ogni tempo, di ogni luogo, da cui si possono ricavare metodi da seguire e modelli da imitare; presentare, attraverso lo svolgersi del tempo, testimoni e testimonianze del sentimento e del pensiero della Chiesa a riguardo della perfezione cristiana. Contano, in questo senso, la canonizzazione dei santi, il valore teologico delle vite e degli scritti dei santi e, in genere, degli autori spirituali, l’approvazione degli Ordini e delle Congregazioni religiose. Non essendoci un tipo di fede valido per tutti i tempi né un ideale di santità sovratemporale, e dato il carattere innovatore e provvisorio della s., sono possibili sempre nuovi stili di s. con inevitabili nuovi rischi.

3. Considerando i vari tipi di religione presenti nel mondo, notiamo tra essi una sostanziale differenza, che va da un formale rapporto con il divino a una vera comunione di fede, amore, speranza. Ne consegue il tipo di s. Tra i tipi di religione si possono distinguere:​​ una via religiosa,​​ che si esprime nella organizzazione dei rapporti degli uomini con il divino;​​ una via di sapienza​​ che, partendo dall’insegnamento dei grandi saggi, propone degli itinerari e delle tecniche per conseguire la liberazione e una comunione con il tutto;​​ una via di fede​​ che, partendo da un rapporto più personale di fede, si abbandona a un essere divino considerato persona.

Bibliografia

Calati B. - B. Secondin - T. P. Zecca (Edd.),​​ S. Fisionomia e compiti,​​ Roma, LAS, 1981; Rondet M. - C. Viard,​​ La crescita spirituale. Tappe,​​ criteri di verifica,​​ strumenti,​​ Bologna, Dehoniane, 1989; Moioli G.,​​ L’esperienza spirituale, Milano, Glossa, 1992; Bernard Ch. A. (Ed.),​​ La s. come teologia.​​ Simposio organizzato dall’Istituto di S. dell’Università Gregoriana, Roma 25-28 aprile 1991, Cinisello Balsamo (MI), Paoline, 1993; 147-167;​​ Carmelitani Scalzi,​​ La teologia spirituale.​​ Atti del Congresso internazionale OCD,​​ Roma 24-29 aprile 2000, Roma, OCD / Teresianum, 2001;​​ Cazzulani​​ G.,​​ Quelli che amano conoscono Dio.​​ La teologia della s.​​ cristiana di Giovanni Moioli (1931-1984). Prefazione di B. Secondin, Roma, Pubblicazione del Pont. Seminario Lombardo, 2002;​​ García C.,​​ Teología espiritual contemporánea.​​ Corrientes y perspectivas,​​ Burgos, Monte Carmelo, 2002;​​ Mirabella​​ P.,​​ Agire nello Spirito.​​ Sull’esperienza morale della vita spirituale, Assisi, Cittadella, 2003; Pellerey M., «S. e educazione», in C. Semeraro (Ed.),​​ La​​ s.​​ salesiana in un mondo che cambia, Caltanissetta / Roma, Sciascia Editore, 2003, 75-97.

J. Struś

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SPIRITUALITÀ

SPIRITUALITÀ DEL CATECHISTA

 

SPIRITUALITÀ DEL CATECHISTA

Adempiere nella comunità un → ministero, che, per sua origine, è sempre un dono dello Spirito alla Chiesa, comporta l’esigenza di una forte S. (cf EM 67; RdC 189). Si tratta di una qualificazione della S. di base che caratterizza la vita di ogni battezzato. Tutti i documenti ecclesiali sono attenti a delineare la fisionomia spirituale e apostolica del catechista, suggerendo qualità ascetiche, virtù, atteggiamenti interiori, indispensabili per rendere credibile la sua opera.

La EN presenta la dimensione ecclesiale della S. del catechista, chiamato ad adempiere il servizio della Parola in comunione profonda con la Chiesa, in cui opera lo Spirito, “agente principale dell’evangelizzazione” (EN 75). In questa prospettiva si tracciano gli atteggiamenti interiori degli operatori dell’evangelizzazione: la docilità e la preghiera incessante allo Spirito (EN 75), la testimonianza e la santità della vita, l’amore all’eucaristia, la carità verso tutti, il distacco e la rinuncia (EN 76), la ricerca sincera e disinteressata della verità (EN 77), il fervore dei santi e la gioia (EN 80).

Il RdC delinea la figura apostolica e spirituale del catechista, a partire dalla triplice funzione che egli adempie nella comunità come testimone, insegnante, educatore della fede (cf RdC 185-188), con particolare riferimento al dinamismo relazionale che lo unisce in modo profondo all’amore del Padre, al mistero della salvezza operata da Cristo e all’azione dello Spirito nella Chiesa. Il DCG enumera le condizioni spirituali, richieste dalla missione del catechista: “Un’intensa vita sacramentale e spirituale, la familiarità con la preghiera, una profonda ammirazione per la grandezza del messaggio cristiano ... atteggiamento di carità, di umiltà e di prudenza” (n. 114). La CT evidenzia nel catechista la S. del discepolo, che si pone alla scuola del Maestro (cf n. 6), ne è il “portavoce” (ivi), vive in profonda comunione con lui (cf CT 9), mettendosi in sintonia con le ispirazioni dello Spirito, Maestro interiore, da cui si lascia guidare (cf CT 72), per trasmettere il mistero di Cristo con gioia (cf CT 56), con “zelo ardente e generoso” (CT 66), con entusiasmo e con coraggio (cf CT 62). Nella nota della CEI​​ La formazione dei Catechisti​​ (FdC) si specifica che la S. del catechista “si alimenta attraverso la meditazione personale e comunitaria della Parola di Dio, un’intensa vita liturgico-sacramentale...” (n. 18). Ciò non significa una fuga dalla professionalità, perché quanto il catechista compie contribuisce “in qualche modo ad arricchire la vita spirituale, suscitare l’invocazione e la fede, aprire l’animo a più generose prospettive d’impegno” (FdC 29).

Alcuni catecheti hanno cercato di approfondire la S. del catechista, indicando vari atteggiamenti operativi: “L’amore per il regno di Dio ... l’amore disinteressato e zelante per i bambini” (J. Jungmann 1956, 60), “l’amore soprannaturale per le anime ... una profonda carità, uno spirito apostolico e uno zelo ardente, ... lo spirito di preghiera, ... un grande spirito di abnegazione e di confidenza in Dio” (N. Fournier 1963, 156). Questo autore sottolinea l’importanza di “coltivare una S. in situazione” e invita il catechista a sentirsi “strumento per illuminare la fede”, a esercitare “una autentica paternità spirituale”, a vivere “in contatto intimo, personale e vivente con il Signore”, ad essere fedele “alla grazia del proprio stato” (ibid.,​​ 165-171). J. Colomb propone una S. “funzionale”, desunta e richiesta dal ministero della Parola, che si articola attorno alle virtù teologali. Egli descrive il modo specifico con cui il catechista è chiamato a credere, a sperare e ad esercitare la carità in rapporto al messaggio da trasmettere e ai destinatari (J. Colomb 1970, 745-766).

A. Wyler nel delineare la personalità dell’educatore cristiano mette in luce la situazione paradossale tra il fine cui tende il catechista (l’educazione alla fede) e il suo ruolo umano personale e strumentale, che lo colloca in una situazione di lotta spirituale di fronte alla propria impotenza; impotenza che si supera nel contare su Dio solo, nel coltivare la fiducia in lui, nello sviluppare uno sguardo spirituale, che si nutre di preghiera, di impegno, di invisibile apertura a Dio e di amore (A. Wyler 1980, 84-118).

G. Gatti traccia alcuni appunti per una S. del ministero cat. attorno ai seguenti nodi relazionali, che il catechista in modo preferenziale è chiamato a vivere: il rapporto personale con Gesù Cristo: Maestro e Signore; la comunione vitale con la Chiesa: comunità evangelizzante, celebrante e​​ testimoniante;​​ il religioso e fedele ascolto della Parola; la condivisione dell’esperienza interiore del profeta (G. Gatti 1979, 17-49). C. Bissoli, dopo un’analisi approfondita, sintetizza la S. del catechista attorno ad alcuni poli di relazione, da cui è possibile desumere gli atteggiamenti spirituali personali e comunitari degli educatori della fede. Sono: la Parola di Dio, che si personalizza nel mistero di Cristo; la Chiesa in cui si esercita il servizio della Parola in comunione ministeriale; l’attenzione ai destinatari nella loro realtà esistenziale e culturale; lo Spirito Santo, che rende attuale ed efficace la proposta cristiana (C. Bissoli 1982, 60-64).

La S. del catechista è quindi da intendere come una dimensione permanente, che investe in modo organico, unitario e coerente la sua persona, presiede e anima i diversi momenti del suo agire, coinvolgendo le scelte pedagogiche e metodologiche, promuovendo una sintesi tra la sua vita e la fede, il suo essere e il suo agire, così da rendere più trasparente e credibile la propria esperienza cristiana nella comunità.

Bibliografia

C. Bissoli,​​ La formazione spirituale del catechista,​​ nel vol.​​ Formare i catechisti in Italia negli anni ottanta,​​ Leumann-Torino, LDC, 1982, 55-64; J.​​ CoLOMB,​​ Al servizio della fede,​​ vol. Il, ivi, 1970,​​ 721744;​​ N. Fournier,​​ Le esigenze attuali della catechesi,​​ Brescia, La Scuola, 1963, 165-171; G. Gatti,​​ Catechisti nuovi nello Spirito,​​ Leumann-Torino, LDC, 1979; J. A. Jungmann,​​ Catechetica,​​ Alba, Ed. Paoline, 1956, 55-65; G. Medica,​​ La spiritualità dei catechisti,​​ nel vol.​​ Dal documento di base ai nuovi catechismi alla catechesi viva,​​ Leumann-Torino, LDC, 1973, 355-390; A. Wyler,​​ Il catechistaeducatore”,​​ Bologna, EDB, 1980.

Gaetano Gatti

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