SOCIALIZZAZIONE

 

SOCIALIZZAZIONE

L’elemento specifico e caratterizzante di ogni​​ ​​ società umana è la presenza della​​ ​​ cultura. Essa trasforma l’individualità biologica in individualità sociale, non per via ereditaria e meccanicistica, ma con un’azione intenzionale dei soggetti sociali che predispongono un ambiente e mettono in atto un processo di trasmissione di valori e di comportamenti, definito processo di s.​​ 

1.​​ Dalla natura alla cultura: l’apporto delle scienze sociali.​​ Gli animali sono guidati da un’eredità genetica, l’uomo oltre che da questo, soprattutto da un patrimonio di elementi culturali frutto di apprendimento diretto. Se quindi la cultura è il contenuto della conoscenza, la s. è​​ il processo​​ mediante cui essa viene appresa dall’individuo, che da essere esclusivamente biologico diventa membro di un determinato gruppo sociale e quindi capace di occuparvi precise posizioni. Tale processo però non è né deterministico, né automatico, né orientato al semplice e passivo conformistico​​ adattamento​​ della persona alla società. Vi è sempre infatti una dinamica intrinseca legata alla particolare natura dell’uomo, che per la sua razionalità e libertà è capace di protagonismo e di inserimento​​ critico​​ nella vita sociale. Per le sue molteplici dimensioni la s. è quindi​​ oggetto di studio di diverse scienze sociali,​​ come l’antropologia, la psicologia, la storia. La​​ storia​​ ne analizza le pratiche educative sviluppatesi lungo i secoli attraverso lo studio dei vari tipi di «cultura dell’infanzia» e della sua immagine nelle diverse epoche (Ariès, Duby, Le Goff). La​​ sociologia​​ (sociologia dell’educazione) ne studia i condizionamenti sociali relativi al doppio versante della società e della persona. L’accentuazione di uno dei due aspetti caratterizza quindi anche le contrapposte prospettive teoriche: quella struttural-funzionalista (​​ Parsons) e conflittualista (​​ Scuola di Francoforte) sul versante della società, quella interazionista ed evolutiva (Stryker, Gecas) sul versante della formazione dell’identità e dell’evoluzione personale.

2.​​ Concetti e definizioni.​​ Sotto il profilo sociologico, il processo di s. è stato oggetto di numerosi studi, ricerche, interpretazioni teoriche e quindi di altrettante definizioni (Sturman). Secondo L. Gallino le diverse teorie della s. si possono utilmente raggruppare in​​ tre categorie:​​ a)​​ Le teorie che la definiscono come apprendimento di ruoli,​​ così da rendere possibile un comportamento conforme alle norme dominanti in una società o in una parte di essa, nella supposizione che ciò sia gratificante anche per l’individuo (ed è la posizione di​​ ​​ Durkheim, di Parsons e del funzionalismo). b)​​ Le teorie che la definiscono come riduzione,​​ specificazione e canalizzazione delle infinite potenzialità umane​​ ad un campo più ristretto e preciso di prestazioni. c)​​ Le teorie che la definiscono come capacità di stimolare l’attività personale del socializzando​​ verso la realizzazione di un proprio modello di comportamento sociale rilevante e coerente con certe attese di ruolo. In conclusione, costitutivo del concetto di s. è la sua natura di legame fondamentale tra la cultura di un gruppo e i suoi membri attraverso un processo di apprendimento, che si svolge a diversi livelli a seconda delle agenzie di s., che ne fanno da soggetto e da contesto. Non è un processo deterministico, per la possibile resistenza alle norme che il soggetto può manifestare, lasciando perciò spazio a comportamenti anche devianti in una dinamica che si esprime tra adattamento, conformità alle norme sociali ed enfasi sullo sviluppo autonomo, distinto e autoassertivo dell’individuo.

3.​​ La s. come apprendimento di ruoli.​​ Poiché la s. è un processo di apprendimento di norme e di ruoli, è indispensabile per conoscerne la natura fare ricorso alle teorie che ne approfondiscono i costitutivi essenziali. In sintesi le possiamo indicare nelle cinque seguenti: a)​​ La teoria del rinforzo sociale,​​ sviluppata da​​ ​​ Thorndike, Guthrie,​​ ​​ Eysenck,​​ ​​ Skinner, si riferisce fondamentalmente alle premesse del comportamentismo e attribuisce al soggetto un ruolo essenzialmente passivo. b)​​ La teoria dell’imitazione della condotta e / o dell’identificazione con la persona​​ (Whiting e Winch), secondo cui l’apprendimento delle norme avviene mediante l’osservazione e per riproduzione interiore di un modello legittimato da vari fattori, come dal potere sociale, dal prestigio, dalla ricchezza, dalle qualità umane, dalla familiarità, dall’affetto. Il modello percepito nella sua globalità risponde a sua volta a bisogni di significato, di stima, di affetto, di appartenenza del socializzando stesso. c)​​ La teoria psicoanalitica:​​ soprattutto in​​ ​​ Freud, per il quale si apprende quando si accetta il principio della realtà come correttivo del principio del piacere e come canalizzazione delle energie dell’Io, secondo le esigenze del Super-Io. La s. è considerata quindi lo strumento principale per il controllo e per 1’organizzazione della società. d)​​ La teoria dello sviluppo cognitivo:​​ elaborata soprattutto da​​ ​​ Piaget, da​​ ​​ Lewin e dagli psicologi della​​ ​​ Gestalt, attribuisce al soggetto l’attività di simbolizzazione e di integrazione delle rappresentazioni mentali in un prioritario quadro complessivo di significati, che si viene formando progressivamente nelle diverse fasi dello sviluppo cognitivo del bambino. e)​​ La teoria dell’interazionismo simbolico:​​ sviluppata tra il 1930 e il 1960 da Cooley, Mead, Gerth, Wright Mills e dalla scuola di Chicago. L’assunto di base è che l’uomo costruisce attivamente la realtà sociale («la realtà come costruzione sociale» di Berger e Kellner) e l’immagine di sé, trasmessagli dagli​​ altri significativi​​ (le persone importanti per il soggetto) in una dinamica interattiva sul cui sfondo rimangono gli​​ altri generici.​​ Non tutte le teorie psicologiche dell’apprendimento sottolineano la funzione attiva del soggetto nel processo di s. Alcune infatti lo considerano sostanzialmente «passivo», sulla linea di molte affermazioni della sociologia positivista e neo-positivista, che però è giustamente criticata dall’interazionismo simbolico e dalle sociologie critiche, che tendono ad evidenziare la dimensione proattiva del soggetto. Considerare infine la​​ s. come apprendimento​​ significa quindi presupporre sempre un «insegnamento» o la «trasmissione» di qualcosa in modo sia formale che informale.

4.​​ Forme e tipi di s.​​ Nella prospettiva più sopra analizzata, la s. accompagna tutte le diverse fasi della vita. Però è possibile individuarne qualcuna particolarmente critica, in cui essa riveste maggiore importanza, come nell’infanzia e nell’adolescenza. Un ulteriore criterio di classificazione viene generalmente ricavato a partire dagli effetti della società complessa e cioè della differenziazione sociale e della specificazione settoriale, in termini sia di specializzazione o​​ segmentazione dei contenuti​​ sia per​​ ambiti delle agenzie educative.​​ Nel primo caso si tratta allora di s. politica, di s. religiosa, di s. morale, di s. alla pace, di s. alla legalità, di s. alla solidarietà, di s. all’interculturalità, di s. alla mondialità, ecc. Nel secondo caso si parla di s. familiare, s. scolastica, s. parrocchiale, s. di gruppo o associativa, s. massmediale. La letteratura distingue infine tra​​ s. primaria,​​ s. secondaria,​​ e​​ s. terziaria.​​ a) Si definisce​​ s. primaria,​​ la s. che viene impartita ad un soggetto che si inserisce per la prima volta in una società. È dunque sinonimo di s. di base e si riferisce all’interiorizzazione dei valori fondamentali, generalmente costitutivi della personalità e più resistenti al cambiamento. Per alcuni antropologi culturali il termine è sinonimo di «inculturazione»​​ cioè di interiorizzazione di una «prima» cultura, a cui altre potranno aggiungersi in seguito. b)​​ S. secondaria​​ è quella che completa e modifica la precedente. Viene impartita generalmente non nella famiglia ma nelle istituzioni della società come la scuola, la chiesa e i vari tipi di gruppi (dal gruppo dei pari a quelli dell’associazionismo formale, ai vari movimenti e istituzioni). Essa consiste nell’interiorizzazione dei diversi ruoli ed ambiti esistenziali, ciascuno dei quali assicura la divisione del lavoro nella società. Per alcuni la s. secondaria inizierebbe con l’adolescenza, però oggi nella società moderna il bambino trova già una serie di stimoli perfino dalla scuola materna che vengono a sovrapporsi a quelli della famiglia, così da diventare essi stessi fonte di s. anche primaria. È così che i confini tra le due si configurano incerti e problematici, tanto da suggerire l’ipotesi che il rapporto reciproco si stia modificando, nel senso di una forte contrazione della s. primaria, a vantaggio di quella secondaria, e ciò a causa della pluralità e differenziazione dei ruoli sociali che l’individuo è chiamato a ricoprire, oltre che a motivo della sovraesposizione massiccia ai mezzi di comunicazione sociale cui ogni persona è sottoposta. In ogni caso la s. primaria termina quando anche l’«altro generalizzato» si è fissato nella coscienza individuale. In questa prospettiva diventa più difficile parlare di s. primaria e / o secondaria in termini di tempi e di fasi. c) Oggi più che nel passato, le più frequenti situazioni di disagio giovanile e i vari processi di disadattamento chiamano in causa un terzo tipo di s., quella che viene definita​​ terziaria.​​ È un processo di ri-s., tipico dei soggetti che hanno subito un processo di de-s. o che comunque non hanno raggiunto livelli soddisfacenti di s. (ipo-s.). Si può forse definirla anche come «educazione correttiva» (Edel e Hellner), come «educazione di reinserimento degli a-sociali» (Sack e Harbordt), come «recupero della de-s.» (Rossner).

5.​​ Modelli correnti di s.​​ Sono derivati da specifici quadri teorici, che sinteticamente si possono individuare in tre diversi tipi (Besozzi). a)​​ Il​​ modello integrazionista o funzionalista.​​ La s. è considerata come un processo volto all’integrazione del soggetto nel gruppo sociale di appartenenza, con una accentuazione della sua dimensione​​ funzionale e normativo-coercitiva​​ sul versante della società e di quella​​ adattativa​​ sul versante del soggetto. Tale modello pone l’accento sul ruolo e la​​ conformità​​ ad esso, perché avviene attraverso il processo della​​ trasmissione​​ di un patrimonio consolidato e condiviso di valori, di norme, e di conoscenze. Le agenzie di s. operano secondo una linea di​​ continuità,​​ pur nella specificità, gradualità e coerenza dei compiti. b)​​ Il​​ modello conflittualista.​​ Assume il conflitto e la lotta per il dominio sociale come categorie fondamentali di descrizione dei rapporti societari. Suo presupposto è l’ideale emancipatorio della persona contro ogni forma di condizionamento e di riproduzione sociale (Althusser e Bowles) o culturale (Bourdieu e Passeron). Un ulteriore sviluppo di queste teorie è dato dalla​​ teoria della resistenza​​ (Giroux e Apple), che tenta di superare il determinismo insito nelle analisi dei condizionamenti sociali e culturali. c)​​ Il modello comunicazionale.​​ Nasce dalla sfiducia rispetto ai valori ultimi, per cui la s. è un processo cognitivo di costruzione del sapere e degli stessi orientamenti di valore sulla base delle diverse contingenze sociali. Ciò che spinge all’agire non è tanto l’imposizione e la norma quanto il creare e lo scoprire nuove motivazioni.

6.​​ Problemi aperti.​​ Il modello della s.​​ come comunicazione​​ valorizza il soggetto in termini di percorso individuale, di esplorazione, di progettualità, di ricerca e di negoziazione, ma lascia sul campo una serie di interrogativi, che riguardano prima di tutto la sua generale «debolezza» e flessibilità. Ciò comporta il rischio di iposocializzazione, di narcisismo e di fragilità dell’io. In secondo luogo viene enfatizzata l’«eterodirezionalità», dove l’obiettivo non è più il conseguimento dell’interiorizzazione dei fini, ma la cura delle relazioni sociali. In terzo luogo, nello spirito assai diffuso della flessibilità non è risolta l’aporia della relazione tra dualità e reciprocità dell’individuo e della società, tra soggettività / oggettività e socialità. È tutta da esplorare la possibilità di fondare solidarietà e identità sociale, su basi puramente comunicative. Infine rimane aperto il problema di fonte illuministica, se sia sufficiente «conoscere» per «essere​​ socialmente e individualmente», se cioè sia sufficiente possedere una o più mappe cognitive per governare adeguatamente il proprio percorso di vita, o non piuttosto sia necessario possedere anche delle capacità, attitudini, virtù personali che (oltre alla conoscenza) permettono il raggiungimento di certi obiettivi e non soltanto un adeguamento alle contingenze del momento. Si profila quindi in alternativa l’ipotesi di un​​ modello di s. a carattere relazionale,​​ dove la s. non è più intesa come controllo sociale, né come comunicazione «tout court», ma inverata nella relazione sociale (Donati) sulla base di contenuti che sono gli orientamenti e stili di vita, i progetti e i valori.

Bibliografia

Zimmer J. M. - S. J. Witnov, «Socialization», in R. Th. Murray,​​ The encyclopedia of human development and education. Theory,​​ research,​​ and studies,​​ Oxford, Pergamon Press, 1990, 397-404; 1863-1871; Sturman A., «Socialization», in T. Husen - T. Neville (Edd.),​​ The International encyclopedia of education,​​ vol. 10, Ibid., 1994, 5586-5591; Morcellini M.,​​ Passaggio al futuro.​​ La s. nell’età dei mass media,​​ Milano, Angeli, 1994; Ghisleni M. - R. Moscati,​​ Che cos’è la s., Roma, Carocci, 2001; Scanagatta S.,​​ S. e capitale umano, Padova, CEDAM, 2002; Dubar C.,​​ La s. Come si costruisce l’identità sociale, Bologna, Il Mulino, 2004; Cesareo V. (Ed.)​​ Ricomporre la vita. Gli adulti giovani in Italia, Roma, Carocci, 2005; Colombo M. (Ed.),​​ Educazione e mutamento. Valori,​​ pratiche e attori in un’epoca di trasformazioni, Catania, Bonanno, 2005; Donati P. P. - I. Colozzi (Edd.),​​ Capitale sociale delle famiglie e processi di s.,​​ Milano, Angeli, 2006; Donati P. P. (Ed.),​​ Sociologia. Una introduzione allo studio della società, Padova, CEDAM, 2006.​​ 

R. Mion

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SOCIALIZZAZIONE

SOCIALIZZAZIONE RELIGIOSA

 

SOCIALIZZAZIONE RELIGIOSA

1.​​ Socializzazione ed educazione.​​ I due concetti si possono distinguere adeguatamente anche se nella pratica essi si trovano spesso presenti in misura diversa nello stesso intervento formativo ed hanno un rapporto reciproco necessario.

Per S. in generale si può intendere un processo di trasmissione della cultura, che ha come scopo fondamentale quello di riprodurre il sistema sociale che lo gestisce, cioè i suoi valori, la sua stratificazione e i rapporti di potere; la S. tende a ottenere il consenso, la conformità e l’adattamento dei socializzandi e si serve di meccanismi in gran parte automatici, anche se è lungamente dimostrato che il socializzando non riceve passivamente il messaggio culturale, ma reagisce agli stimoli esterni in modo relativamente originale e creativo, interiorizzandoli selettivamente.

L’educazione è invece un processo che, pur presupponendo un minimo di S. adattante, se ne distingue per più aspetti: è un’azione intenzionale che attraverso la proposta (non la trasmissione) di un sistema di significato per la vita (legittimata da una coerente testimonianza di vita) mira a risvegliare/liberare nell’educando una libera/autonoma/creativa capacità di autoprogettazione e autorealizzazione alla luce dei valori obiettivamente ricercati e riconosciuti. Il processo educativo utilizza e valorizza i contenuti culturali trasmessi per S., sussumendoli e trasformandoli criticamente in un nuovo progetto di vita.

2.​​ Esperienza di fede, S., educazione.​​ Ci possiamo chiedere in che misura i processi di S.-educazione sono rapportati globalmente all’esperienza religiosa e all’esperienza di fede e in che modo specificamente l’educazione si differenzia dalla S. rispetto all’esperienza di fede.

a)​​ Ogni esperienza di fede presuppone e ingloba certi atteggiamenti di fondo,​​ tipici di qualsiasi esperienza religiosa, ma​​ non necessariamente​​ è condizionata dalle “ierofanie” storicamente derivate e mutevoli, espressioni dell’esperienza religiosa stessa. In altre parole, l’esperienza di fede presuppone una serie di processi mentali (affettivi, sentimentali, motivazionali, ecc.), riducibili in buona sostanza alla capacità di esercitare un comportamento simbolico, cioè di risalire al significato e al valore, partendo da una presa di coscienza della situazione. Tale comportamento sembra suscettibile di educazione. Viceversa le ierofanie, cioè le manifestazioni del sacro presenti nell’universo mentale del credente, come pure nel suo comportamento esterno, sono un prodotto culturale che per natura sua è suscettibile di trasmissione mediante processi di S. In questa ipotesi è compresa l’idea che l’esperienza di fede è compossibile con diversi sistemi ierofanici (cioè con diverse religiosità), ma non indipendentemente da un qualsiasi sistema ierofanico.

Di fatto nella tradizione cristiano-cattolica la formazione religiosa consiste anzitutto in una S. religiosa che è in grado di trasmettere le cristallizzazioni religiose (cioè la religiosità, le ierofanie) della precedente generazione di credenti; e solo in un secondo tempo (o in seconda istanza) è anche iniziazione alla fede, cioè educazione alle opzioni religiose, che presuppone un’accettazione (libera e critica) di contenuti, di credenze, di riti, ecc. trasmessi.

Da questa descrizione sintetica degli interventi socializzanti-educanti si possono enucleare alcuni problemi inerenti all’esistenza di sfasature, incoerenze e difficoltà entro il sistema fede-religiosità. Anzitutto va tenuto presente che le ierofanie tradizionali, per effetto dei processi di istituzionalizzazione, possono presentarsi dotate di un alto grado di ideologizzazione, possono cioè rivelarsi come un sistema culturale chiuso e separato, non più collegato a nessuna esperienza religiosa attuale, e perciò costituire un ostacolo notevole all’esperienza della fede. In altre parole, si può verificare una frattura consistente tra ierofanie provenienti dalla tradizione ed esigenze attuali dell’esperienza di fede.

D’altra parte si può anche verificare il fatto di una frattura tra processo di formazione delle ierofanie a livello di esperienza religiosa ed esigenze dell’esperienza di fede. Il fatto è che l’esperienza metafisica (pre-religiosa), cioè il bisogno di ricollegarsi vitalmente alla totalità e alla trascendenza, prende oggi strade molto diverse da quelle tradizionali indicate dalle R. storiche; le ierofanie che ne derivano non sembrano soddisfare a prima vista le esigenze espressive della fede cristiana. In altre parole, il veicolo culturale dell’esperienza religiosa di base si manifesta incapace di sostenere i contenuti tipici dell’esperienza di fede. Il caso sembra piuttosto frequente tra coloro che, dopo aver rifiutato un’esperienza religiosa inquadrata nell’ambito delle R. storiche, perseguono una certa ricerca di valore entro esperienze radicalmente laiche, che per altro rinviano a loro proprie ritualizzazioni o ierofanie. Il partito, il profitto, il successo, il sesso possono assurgere a livello di ierofania inconsueta con cui l’esperienza di fede deve necessariamente fare i conti.

Ciò provoca una certa sfasatura che ridonda a danno dell’esperienza di fede, che ne risulta impedita, perché di fatto tali ierofanie non sono che sostituti funzionali della R., simboli decaduti che non rinviano necessariamente a un oggetto trascendente, né sono capaci di rispondere alle domande utili e che l’uomo si pone.

b) Quanto alle forme di religiosità derivate dall’esperienza di fede, va detto che anch’esse sono oggetto di istituzionalizzazione rapida, che ne condiziona la possibilità di trasmissione. Ciò che viene trasmesso da una generazione all’altra non è certo la fede (che in sé non è suscettibile di trasferimenti di questo tipo), ma piuttosto sono le forme culturalmente rilevanti che rappresentano il precipitato storico dell’esperienza religiosa di una certa generazione. L’educazione (o iniziazione) alla fede, che è propriamente il processo che permette di far maturare un’autentica esperienza cristiana, deve essere perciò rinnovata ad ogni generazione, anzi ad ogni individuo, sia pure nell’ambito di una continuità culturale che ne è la condizione essenziale.

L’esperienza di fede non nasce dalla trasmissione impositiva di una cultura religiosa cristiana, ma dalla proposta di riassunzione critica, libera e personale dei contenuti essenziali di tale cultura religiosa. E, ancora, il credente non è necessariamente e solo colui che si conforma alla cultura religiosa trasmessagli dalla precedente generazione per socializzazione, ma colui che ne coglie selettivamente gli elementi capaci di dare alla sua personale ricerca di trascendenza e di totalità un significato pieno. Cosicché si può dire che mentre la​​ continuità​​ con il passato è assicurata materialmente dal contenuto trasmesso, essa è resa​​ effettivamente presente​​ dalla testimonianza degli educatori che lo ripresentano non come dato culturale, ma come ragione di vita e di impegno.

L’importanza della distinzione adottata si verifica soprattutto nell’analisi della domanda religiosa dei giovani; molti di essi infatti rifiutano una R. ridotta a eredità culturale, per tendere a una piena esperienza di fede, pur senza rifiutare le conseguenze culturali derivanti da tale opzione matura; accettano cioè una religiosità capace di esprimere anche in forme culturali nuove l’esperienza di fede, ma non una fede ridotta alla ripetizione rigida di un comportamento religioso consegnatoci dalla tradizione.

Un ultimo cenno va fatto in rapporto alla​​ posizione dell’istituzione ecclesiastica di fronte ai processi di S.-educazione.​​ Essa infatti si trova a dover gestire contemporaneamente, vivendone l’ambivalenza, sia i processi di S. che sono finalizzati a ottenere un consenso conformizzante e ad assicurare nel tempo e nello spazio la continuità e la uniformità del comportamento religioso, sia i processi di educazione religiosa mediante i quali la Chiesa mira a una specifica iniziazione delle nuove generazioni. In questo modo essa indottrina ed educa allo stesso tempo, apparendo conservatrice e innovatrice, difensiva e aperta, dogmatica e flessibile con le stesse persone. Certamente essa non può venir meno a nessuno dei due ruoli, se intende conservare la sua funzione di custode del messaggio religioso, ma deve pagare l’ambivalenza con un alto prezzo di credibilità, specialmente tra quegli strati di popolazione che non accettano in nessun modo un sia pur indiretto legame con pratiche di manipolazione. La questione è importante per risolvere l’interrogativo riguardante l’appartenenza ecclesiale, dal momento che non sembrano più sufficienti i criteri di una aggregazione meramente giuridica per assicurare un’effettiva partecipazione alla vita dei gruppi religiosi. La distinzione tra S. ed educazione religiosa ci fa capire come la prima non possa dare origine se non ad una partecipazione limitata ed estrinseca (ridotta nel tempo — fino all’adolescenza — e nello spazio — limitatamente a gesti o contenuti genericamente religiosi —), mentre la seconda è quella che rende efficaci i motivi di una partecipazione effettiva e duratura.

I processi educativi costituiscono dunque un momento di cerniera tra molti punti nodali del comportamento religioso, assicurando al sistema il massimo di funzionalità interna ed esterna, favorendo il superamento della rigidità istituzionale e costituendo anche l’antidoto contro i rischi di una mortificante ipersocializzazione delle nuove generazioni.

3.​​ SR ed educazione religiosa in una fase di transizione.​​ Le considerazioni fin qui fatte vanno ulteriormente inquadrate entro le variabili storiche e socio-culturali che caratterizzano la nostra epoca, perché effettivamente i processi di S.-educazione variano notevolmente in rapporto a diverse condizioni ambientali.

In una società a struttura semplice​​ i processi di inculturazione sembrano avvenire secondo modalità lineari che rispecchiano la gerarchizzazione delle istituzioni e dei correlativi sistemi di significato. Ci troviamo di fronte ad una società dotata di una cultura sufficientemente organica e unitaria, ben identificabile e perciò facilmente trasmissibile. Non esistono situazioni di conflitto radicale tra agenzie di S., e il contenuto stesso della cultura è diffuso in modo uniforme nelle diverse esperienze sociali attraverso cui i nuovi nati si inseriscono gradualmente nella società. La S., in assenza di consistenti stimoli al cambio (cioè in assenza di gruppi devianti), raggiunge facilmente lo scopo dell’adattamento del soggetto in quanto il meccanismo del consenso viene facilmente posto in essere dalla presenza di controlli sociali capillari.

Le agenzie di S., tra l’altro, non sono caratterizzate da un alto grado di specializzazione, perché tutte, partecipando alla medesima cultura in modo piuttosto diretto e continuo, sono in grado di trasmetterla per diffusione. In questo contesto il processo tipicamente educativo è gestito capillarmente dalle agenzie che socializzano (famiglia, corporazione, vicinato, parrocchia, clan, ecc.), le quali sono generalmente costituite da piccoli gruppi, altamente funzionali rispetto alle relazioni a faccia a faccia.

Per quanto riguarda i valori religiosi, occorre aggiungere che nel contesto europeo per lunghi secoli essi hanno rappresentato in un certo senso il vertice e l’asse della cultura (sia pure con molte sfumature e accentuazioni); ciò ha contribuito a facilitare da una parte la loro trasmissione, in quanto contenuto centrale e socialmente rilevante della cultura, ma ha anche contribuito a sminuire l’importanza della dimensione specificamente educativa, poiché in una società ad alto consenso sui valori non si esigono specifiche opzioni consapevoli e critiche rispetto ai contenuti dei messaggi culturali. Oltre a ciò si deve dire che questa situazione porta quasi insensibilmente a formalizzare il consenso e a ritualizzare le appartenenze, dando origine ad una crescente spaccatura tra comportamento reale e comportamento ideale.

In altre parole, si corre il rischio di separare religiosità da fede, ed esperienza (religiosa) da comportamento religioso. La situazione è molto diversa se prendiamo come punto di riferimento​​ una società a struttura complessa,​​ animata cioè dai processi di divisione del lavoro sociale, tipici delle società ad alto sviluppo scientifico, tecnologico, industriale. In questo contesto i processi di S. rispecchiano il pluralismo strutturale e culturale che si è venuto instaurando per effetto delle condizioni nuove sopra accennate. Le agenzie di S. vengono moltiplicate; accanto alle tradizionali fonti di emissione di messaggi culturali, altre ne vengono a sorgere, portatrici di nuovi “sistemi di significato” più o meno totalizzanti e più o meno capaci di ottenere il consenso in base al potere di cui sono dotate le agenzie che li diffondono. In questa situazione di competitività e di conflitto il carattere prevalentemente socializzante di questi interventi è pressoché specifico; ogni agenzia cerca di captare il consenso e di rendere credibile il proprio messaggio mediante le tecniche più raffinate della comunicazione. Una delle caratteristiche nuove è poi rappresentata dal fatto che in questo contesto le antiche agenzie di socializzazione (prevalentemente microstrutturate) entrano in crisi, sopraffatte dalla efficienza, dal potere e dalla onnipresenza delle nuove (scuola, associazioni, partiti, sindacati, fabbriche, ecc.). Ciò sembra costituire una consistente perdita di qualità educativa, in quanto viene a mancare l’insieme di condizioni che permettevano appunto di esercitare un’azione non solamente

socializzante. Il nuovo modo di trasmettere la cultura si presenta certamente più ricco di occasioni di partecipazione, ma non per questo si trasforma automaticamente in una opportunità educativa; la partecipazione culturale può diventare partecipazione subordinata (e non protagonista), favorendo la massificazione del processo e quindi la più rapida cristallizzazione dei contenuti culturali. Per questi motivi, in assenza di una più esigente dimensione educativa dentro le pratiche socializzanti, la cultura può diventare ideologica e perciò servire piuttosto alla manipolazione di gruppi e persone, anziché alla loro progressiva emancipazione.

Per quanto riguarda il problema religioso, si possono richiamare alcune tipiche situazioni prodotte dalla nuova realtà sociale. In questo contesto va notato anzitutto che viene meno per l’istituzione ecclesiastica la possibilità di continuare ad esercitare il ruolo di centralità (in alcuni casi di egemonia) fin qui svolto. E di conseguenza viene meno il supporto di legittimazione fin qui prestato ai valori religiosi presenti nella cultura. Questo processo complesso (equivalente per molti aspetti a quello della secolarizzazione) ha degli effetti immediati e diretti sui processi di socializzazione religiosa. Infatti, anche quando i valori religiosi non siano confinati o emarginati nella sfera della più assoluta privatizzazione, essi sono destinati a entrare in competizione o conflitto con gli altri sistemi di significato presenti sulla scena sociale; sistemi che per di più sono sostenuti da ben altre legittimazioni. A ciò si aggiunge che le abituali agenzie di S. religiosa, per di più appartenenti all’area del privato, entrano in crisi per obsolescenza e per mancanza di spazio vitale (crescente irrilevanza, perdita di funzioni, assenza di prospettive). Il risultato sembra essere complessivamente ravvisabile in una progressiva (anche se non irreversibile) contrazione della socializzazione religiosa; il che fa mancare a molte persone (per lo più in giovane età) gli stimoli che servivano a mantenere la continuità culturale-religiosa. Abbiamo già detto quanto ciò sia importante nel condizionare la stessa possibilità di esperienza religiosa (di esperienza di fede) che si vede costretta a cercare nuove vie, diverse da quelle tradizionali.

La crisi di SR comporta anche una certa crisi dell’educazione religiosa, dato che i due momenti del processo erano nella precedente situazione socio-culturale strettamente connessi. Ci si può interrogare a questo punto quali siano i fattori che possono intervenire a cambiare il quadro descritto.

Credo che la risposta vada cercata, tra le altre cose, nei​​ fenomeni di comportamento collettivo,​​ che sono stati recentemente assunti come paradigma esplicativo di alcuni macroscopici casi di cambio sociale. Secondo Smelser, ripreso in Italia da Alberoni, e in Francia da Touraine, i fenomeni di comportamento collettivo si verificano nell’ambito di società caratterizzate da alti livelli di cristallizzazione e formalizzazione dei comportamenti; ove cioè le strutture e le culture obbediscono a processi di consistente istituzionalizzazione. Il comportamento collettivo è fatto proprio da gruppi, strati o aggregati che reagiscono a tale situazione, proponendo una radicale revisione dei valori esistenti (al limite chiedendone la scomparsa totale), insieme alla completa fluidificazione della struttura che permetta la ricerca di una nuova proposta di valore, che inizialmente ha le caratteristiche del massimalismo utopico. Si tratta, secondo Alberoni, di un moto pendolare tra istituzione (momento di massima rigidità) e movimento (momento di massima fluidità) che assicura ai sistemi sociali la possibilità di superare i punti morti nel loro processo di sviluppo.

Relativamente all’esperienza religiosa, si può forse dire che il periodo conciliare ha rappresentato in qualche modo un momento tipico di de-istituzionalizzazione, capace di mettere in crisi la prassi socializzatrice, di tentare il ricupero dei contenuti del messaggio trasmesso e innovare la trasmissione del messaggio stesso attraverso l’immissione di consistenti interventi specificamente educativi. Questa fase di transizione registra necessariamente una notevole confusione di ruoli all’interno delle agenzie di socializzazione (e tra i ruoli da esse esercitate), ma costituisce il passaggio necessario verso una nuova sistemazione della cultura religiosa.

Ma al di là di quanto può offrire lo schema interpretativo fornito dalla teoria del comportamento collettivo, si possono anche richiamare gli spunti offerti dal rinnovato interesse per i piccoli gruppi. La dimensione comunitaria, contrapposta a quella associativa, viene ricuperata come ambito dell’educativo e come correttivo delle spinte socializzatrici di massa. Non si tratta esattamente di “strutture del privato” ma piuttosto di “strutture private a valenza pubblica” che giocano un ruolo di mediazione rispetto ai due momenti del processo formativo. La famiglia, il gruppo, la comunità riescono (o sembrano riuscire) a ricostruire le condizioni ottimali perché il messaggio culturale, in questo caso religioso, possa essere non solo socializzato, ma anche interiorizzato attraverso le modalità educative. Ovviamente ciò implica un minimo di funzionalità delle stesse agenzie e una loro organica relazione con il resto della struttura sociale.

Bibliografia

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Giancarlo Milanesi

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SOCIALIZZAZIONE RELIGIOSA

SOCIETÀ

SOCIETÀ

Enrico Chiavacci

 

1. Società e fatto sociale

1.1. Una fitta rete di società diverse

1.2. Il meccanismo regolatore dei rapporti

2. I condizionamenti sociali​​ 

3. Il singolo e la società

3.1. Originalità e conformità

3.2. Due osservazioni

4. L'annuncio evangelico sul sociale

4.1. Verso concreti impegni

4.2. La relazione al prossimo come valore assoluto

5. Società e storia in «Gaudium et spes»

6. Il compito della pastorale

7. Dovere di fedeltà e dovere di contestazione

7.1. Prima considerazione

7.2. Seconda considerazione

7.3. Terza considerazione

 

1.​​ Società e fatto sociale

La guida alla vita in società è elemento fondamentale della pastorale giovanile. Vi è sempre un periodo, fra l’adolescenza e la gioventù (fra 13 e 18 anni) in cui il singolo comincia a autoporsi di fronte agli altri, cioè a prendere coscienza di sé come qualcosa di pensabile in sé e nettamente distinto dall’ambiente umano circostante. Questo inizio dell’autocoscienza è anche inizio di vera vita morale: il contrapporsi duro del ragazzo a tutto ciò che è realtà ambientale umana va letto come un fatto fisiologico, non patologico.

Ciò che il ragazzo subiva senza accorgersene, ora è sentito come imposizione dall’esterno contro cui affermare sé stesso: genitori, pastori, professori, autorità di ogni specie sono gli elementi normali con i quali inizia un processo di contraddizione. Solo ponendosi in contradditorio con essi il ragazzo comincia a scoprire sé stesso e la propria autonomia: da un punto di vista pastorale, si ha qui l’inizio della scoperta di una vocazione personale e irripetibile, e perciò l’avvio di un processo di discernimento (cf Rm 12,2 e Fil 1,9: in greco «dokimazein», comprendere attraverso un processo) che è, per la teologia morale odierna, la base della vita morale, la via irrinunciabile della risposta personale alla chiamata di Dio.

Molti autori ritengono che questo momento sia inquadrabile in un processo psicologico di graduale acquisizione e trasformazione dell’idea di bene morale, processo psicologico che sarebbe da considerare universale (valido cioè per ogni cultura e ogni epoca) e schematizzabile in una precisa serie di passaggi o gradini (Mclntire, Habermas, Apel, Kohlberg). L’ipotesi, e soprattutto le schematizzazioni proposte, sono discutibili, ma sono doverosa conoscenza per l’operatore pastorale, conoscenza per la quale rinviamo agli Autori indicati. Resta comunque un fatto indiscutibile: fino all’età sopra indicata il bambino non percepisce il vivere in società come qualcosa di subito, e forse neppure di avvertito. Gradualmente sorge l’avvertenza e la consapevolezza della società come esterna a sé, e con ciò della propria personalità e vocazione individuale.

Tutto ciò è sempre mediato dalla realtà sociale — in questo momento non ci interessa​​ quale​​ essa sia: interessa​​ che​​ essa c’è — e perciò questa realtà sociale va compresa e studiata in profondo. In particolare non si può parlare di «società» senza distinguere fra vari significati che tale termine può indicare: la mancata distinzione di significato è oggi causa di innumerevoli equivoci, e indizio di confusione mentale. Ciò vale in specie per gli operatori della pastorale: nella tradizione del pensiero sociale cristiano la molteplice valenza semantica di termini quali «società» o «sociale» non sempre è sufficientemente avvertita.

 

1.1. Una fitta rete di società diverse

La prima cosa da capire è che nessuno è membro di qualsivoglia società (famiglia, stato, impresa, chiesa, etc.) senza essere al tempo stesso parte di una rete molto fitta di società diverse. La definizione consueta di società nei manuali di filosofia sociale cristiana suona: «unione di più persone, per un fine comune, sotto una certa legge (o regole di comportamento) e un’autorità». Questo tipo di definizione non rende conto della complessità del​​ fatto sociale,​​ in cui una singola società è sempre inevitabilmente inserita. A fini solo pratici (la teoria è più complessa), il termine «società» può essere usato 1) per indicare una singola società; 2) per indicare tutto il complesso di singole società in cui un singolo si trova implicato (p. es. nell’espressione «la società violenta»); 3) per indicare la società che, in teoria, coordina al bene comune l’attività di tutte le altre società, e cioè lo stato (meglio: la società civile). Ma nella realtà ciascuna di queste «società» è condizionata dalle altre, e a sua volta le condiziona. Occorre perciò studiare il fatto sociale nel suo complesso, per poter comprendere la funzione che ciascuna società svolge al suo interno, e anche all’interno della coscienza dei singoli esseri umani che vivono inevitabilmente​​ dentro​​ una realtà sociale complessa.

 

1.2. Il meccanismo regolatore dei rapporti

La seconda cosa da capire è dunque il meccanismo che lega fra di loro le varie forme di vita associata. A questo scopo si consideri l’enorme massa di dati che un bambino riceve passivamente e registra in memoria: questa ricezione passiva di dati avviene anche prima della nascita, durante la vita intrauterina, attraverso le sensazioni ricevute dalla madre. Questa massa di dati, che viene recepita passivamente fino al momento in cui vi è coscienza critica (più o meno a partire dalla preadolescenza), resta nella memoria e può venire richiamata in qualunque momento da qualunque stimolo esterno, e genera risposte automatiche. Ma questa massa di dati non è la somma di tanti dati che arrivano in memoria per caso: è un sistema che ha una sua coerenza. È ciò che potrebbe propriamente chiamarsi la realtà o il fatto sociale, se visto come fatto oggettivo; e potrebbe chiamarsi condizionamento sociale (o culturale), se visto come fatto interno al singolo che inevitabilmente organizza la propria esistenza all’interno di una realtà sociale data.

 

2.​​ I condizionamenti sociali

Se esaminiamo più da vicino quello che abbiamo chiamato il complesso di dati, è facile vedere come esso si organizzi in strutture: la prima e la più importante di esse è il linguaggio. Imparare a parlare in un modo piuttosto che in un altro non è solo indicare il «pane» con «pain» o «bread»: è invece imparare a connettere sensazioni e idee in un modo o in un altro. Il linguaggio determina il modo di pensare e di argomentare; non esistendo un linguaggio assoluto, nascere entro una realtà sociale comporta un condizionamento a cui nessuno può sfuggire. Lo stesso dicasi della struttura «famiglia»: chi fa parte della famiglia e con quali ruoli; quali sono le funzioni della famiglia; quali rapporti fra famiglie sono permessi o proibiti, e altre simili questioni sono stabilite dal momento storico della cultura o subcultura in cui si vive. Il bambino impara (mette in memoria) tutto questo fin dai primi istanti di vita, osservando e ascoltando (e toccando) le persone che lo circondano e le loro relazioni reciproche. Non esiste un modello di famiglia assoluto, e nasce perciò un ulteriore condizionamento. Lo stesso argomento può ripetersi per le strutture produttive, abitative, educazionali, politiche, religiose, etc.

I dati non sono dunque casuali: sono strutture complesse, accettate e riconosciute valide da tutto un gruppo (un’area culturale, un’etnia, uno stato nazionale etc.): esse condizionano le risposte del singolo, ma contemporaneamente rendono possibile una vita di relazione e di cooperazione organizzata. Il condizionamento sociale, in questo senso, non è negativo, né è puro determinismo di risposte umane. È un limite all’arco di tutte le scelte possibili, ed è la base di una convivenza organizzata, cioè del fatto sociale stesso. Né il sociale in genere, né alcuna singola società sarebbe pensabile senza questo tipo di condizionamenti.

Occorre però fare un altro passo: tutte le strutture non sono indipendenti fra di loro, né potrebbero esserlo. La struttura familiare interagisce necessariamente con quella educazionale, ma anche con quella abitativa e quella produttiva (in alcune epoche e culture essa è identica con la struttura produttiva): un cambiamento in una struttura, comunque causato, genera cambiamenti in molte o tutte le altre strutture. Il complesso di dati, organizzato in strutture, è perciò anche un complesso di strutture fra loro funzionali o almeno compatibili: potremmo chiamare questa struttura di secondo grado (struttura di strutture) col termine «sistema». Il fatto sociale è un sistema assai complesso che genera in ogni individuo dei «modelli»; e questi modelli governano e limitano la sua capacità di risposta a stimoli esterni, in modo tale che la risposta corrisponda alle attese del gruppo. Il fatto stesso che io scriva una voce per un dizionario e che vi sia richiesta del dizionario e della voce, è qualcosa che ha senso nel nostro gruppo nella nostra epoca; sarebbe stato impensabile in altra epoca, lo sarebbe ancor oggi in ambiti diversi dalla cultura occidentale.

Infine, e siamo all’ultimo passo nella nostra analisi del fatto sociale, questa coerenza interna al sistema, e che in diversa misura è necessaria a ogni sistema, si organizza all’interno della mentalità del singolo; e si organizza in modelli di risposta ad attese o stimoli. Di norma si indicano tre modelli — cognitivo, operativo, valutativo — da cui nascono i comportamenti interni ed esterni di ogni individuo di uno stesso gruppo. Alcuni psicologi (Kardiner, Linton) hanno indicato questa attitudine comune come «personalità di base». Seguendo Freud, quest’insieme organizzato di dati recepiti all’interno del singolo dall’ambiente sociale potrebbe chiamarsi «superego».

Così, quando si parla di «società», nel senso di una singola società, non si dovrà mai dimenticare che ogni società nasce e si determina all’interno di un fatto sociale già dato, e dovrà di norma essere compatibile o funzionale ad esso; né potrà — in prima approssimazione — essere altrimenti, dato che i suoi singoli membri si muovono all’interno della stessa personalità di base e delle stesse strutture oggettive. Di norma, abbiamo detto: vedremo fra breve che vi sono di fatto, ed è importantissimo che vi siano, eccezioni. Resta però fermo che nessuna singola società è studiabile in sé stessa, senza tener conto del quadro globale della realtà sociale in cui è inserita.

E questo vale anche per la Chiesa, come società visibile. Anch’essa è condizionata dalla realtà sociale in cui vive: la ripartizione di ruoli, il rapporto con altre società, il modo stesso di concepire la vita associata, e altre cose ancora (per es. la funzione del «segno» e della «parola» nella liturgia) sono sempre in qualche modo derivate dal, e compatibili col, fatto sociale nella sua globalità. Ciò deve far riflettere sull’importanza e relativa autonomia che la chiesa locale deve assumere, e contemporaneamente sul ruolo di garanzia dell’unità nella diversità che in futuro sempre più incomberà sulla funzione petrina.

 

3.​​ Il singolo e la società

Nessun singolo dunque sfugge a condizionamenti sociali che riguardano praticamente tutte le aree della sua attività scegliente. Si potrebbe pensare che, per la pace e il buon ordine di un gruppo, sia desiderabile che ciascun singolo dia sempre, nei suoi comportamenti, le risposte previste e attese dal gruppo. Anzi, inconsapevolmente, tutti gli amanti dell’ordine e della funzionalità di un gruppo — e in specie di uno stato o di una chiesa — aspirano a tale totale prevedibilità.​​ Ciò è un gravissimo errore.

E un​​ errore di fatto: ogni gruppo conosce al suo interno una evoluzione di strutture e di modelli. La storia di un gruppo, come quella dell’umanità, è variazione continua. Di dove dunque proviene questa variazione, se il fatto sociale, con i suoi modelli, tende a riprodursi in ogni generazione successiva? Ma ciò è anche un​​ errore teologico:​​ ogni essere umano, nella visione cristiana, è unico e irripetibile, creato e amato da Dio nella sua singolarità, e chiamato da Dio a dare una sua risposta alla sua personale vocazione. Esiste dunque, di fatto, la possibilità di un’originalità del singolo: ciò in concreto vuol dire la possibilità di dare risposte comportamentali non prevedibili, e quindi la possibilità di una critica sociale. Ma esiste anche il dovere morale personale di saper guardare criticamente i modelli proposti, e il dovere morale sociale di ampliare gli spazi di originalità per i singoli all’interno di una realtà sociale data.

 

3.1. Originalità e conformità

La possibilità di un porsi originale del singolo di fronte alle attese del gruppo può avere diverse spiegazioni, non necessariamente alternative. Ne accenniamo solo qualcuna, a titolo di esempio. Il cervello umano è ancora qualcosa di misterioso. Non è giustificato ritenere che la memoria sia un semplice stoccaggio di dati in aree cerebrali fisse e uguali per tutti: i circuiti cerebrali (neurali) sono complessi e spesso polivalenti; ma gli stessi dati bruti sono o possono esser connessi fra di loro in molti modi che per ora, e per molto tempo, resteranno sconosciuti. Inoltre nessun singolo si comporta mai in modo perfettamente logico (nella logica che ha appreso il gruppo): in particolare esiste il fenomeno dell’emozione, in cui il singolo crea una sua risposta non prevista dal sistema; ed esiste soprattutto una diversa sensibilità di fronte ai bisogni.

Questo è un punto della massima importanza: l’esperienza di un bisogno non soddisfatto dal sistema porta a comportamenti non integrabili nel sistema, e soprattutto porta alla convinzione di una insufficienza del sistema. Una cultura, e più in piccolo una certa realtà sociale, è capace di rispondere mediamente ai bisogni fondamentali dei singoli; ma vi è sempre un certo numero di singoli che non è soddisfatto di questa risposta media. Una situazione simile a questa si ha quando un singolo si trova a scegliere in una condizione non prevista dal sistema. Un computer in tale caso non risponde, ma il singolo essere umano in qualche modo deve rispondere, e deve crearsi la sua risposta.

Se ora consideriamo il termine «cultura» come l’attività con cui l’essere umano coltiva sé stesso (cf GS n. 53), possiamo ritenere che ciò avvenga in un primo momento in forma passiva: il singolo riceve dati dall’ambiente sociale in cui è inserito; in un secondo momento invece in forma attiva: il singolo reagisce originalmente e da fruitore diviene produttore di cultura. Questa distinzione, e questa concezione della vita del singolo in società, è centrale per lo studio del sociale in genere, e in specie per ogni approccio pastorale in tale materia. La distinzione è presentata chiaramente dal Concilio Vaticano II, nel capitolo sulla cultura di​​ Gaudium et spes​​ (nn. 53ss.), a cui sia la teologia morale, sia la pastorale hanno prestato finora scarsa attenzione. Il momento moralmente e teologicamente rilevante è certo il momento attivo della cultura; ma esso sarebbe impossibile senza il supporto del momento passivo.

Possiamo dunque concludere che ogni uomo vive entro un condizionamento culturale che è inevitabile e anzi necessario; ma anche che ogni uomo ha la capacità di porsi originalmente di fronte all’ambiente sociale in cui è inserito, e quindi di esser soggetto di critica sociale. Questa capacità varia in conseguenza della varietà degli individui, ma varia anche — e soprattutto — in conseguenza del sistema: il sistema può lasciare o aprire spazi per l’espressione originale del singolo, e può invece cercare di chiudere tali spazi. Noi riteniamo che la realtà sociale in cui viviamo, nell’Europa e nell’Italia degli anni ’80, tenda sostanzialmente a chiudere spazi, mentre tensioni anche forti di piccole minoranze tendono ad aprire spazi.

 

3.2. Due osservazioni

Non possiamo dimostrare qui questa nostra tesi. Ci limitiamo a due osservazioni. La prima riguarda il criterio valutativo generale tipico della nostra cultura odierna: quello che è stato più volte denunciato come il primato dell’avere sull’essere. In termini psicoanalitici è il principio di realtà identificato nel binomio produzione-prestazione. La ricerca dell’avere è un bene in sé: una persona vale tanto quanto è capace di produrre, o di avere successo economico. La vita associata è concepita come lotta fra individui singoli o gruppi che cercano ciascuno il successo (economico) a spese di altri. Si onora il vincente o l’emergente in questa lotta; si considera irrilevante e discriminabile chi non vuole emergere e soprattutto chi non può emergere (si pensi all’handicappato o all’ex-carcerato). Questo criterio valutativo diviene sempre più comune: ciascuno per sopravvivere, per essere accettato dalla società, deve accettare questo criterio, cioè questo modello valutativo di «vita buona». Se questo modello cadesse, cadrebbe anche il potere di chi controlla i meccanismi dell’economia. Così avviene che il potere difende sé stesso cercando di mantenere o imporre questo modello.

La seconda osservazione è conseguenza della prima: dalla scoperta della tecnologia dei semiconduttori (l’epoca del silicio) si è improvvisamente e spaventosamente accresciuta la possibilità di comunicazione di massa. Questa, e non più la casa o la scuola, è la struttura educativa di base: un bambino di 12 anni ne ha passati almeno 3 davanti al televisore. Dato però che tali strumenti sono controllati, direttamente o indirettamente, dal potere economico, essi sono usati esclusivamente a scopo di convenienza economica del potere. Così quei modelli di «vita buona» che sono funzionali al potere economico tendono a chiudere sempre più gli spazi di cultura attiva — sempre pericolosi per ogni sorta di potere — e a distruggere identità culturali diverse da quella occidentale, così da costituire un vero colonialismo culturale. La omologazione dei modelli, e quindi la fine della cultura attiva, è ormai un’impresa in atto a livello planetario.

Questa situazione tragica, da pochi vista con chiarezza, impone al cristiano una reazione decisa in due direzioni. La​​ prima direzione​​ è il rifiuto del modello proposto: comunque si voglia pensare in concreto la solidarietà — il vivere per gli altri — il modello intorno a cui oggi si tenta di omologare l’intera famiglia umana è direttamente opposto a qualunque concetto di solidarietà. La​​ seconda direzione​​ è il rifiuto di strutture che mirano alla chiusura di spazi di originalità e di critica, all’adeguamento pragmatistico all’esistente, alla perdita di ogni tensione o impegno nella modificazione delle strutture esistenti.

Dal punto di vista della pastorale giovanile, emerge immediatamente la necessità e l’urgenza di attivare, fin dalla preadolescenza, il momento critico: si deve educare a vivere in società, ma si deve educare contemporaneamente a vivere in proprio, cioè a non lasciarsi vivere, a sapersi porre criticamente di fronte ai modelli recepiti. L’educazione all’obiezione è parte integrante dell’educazione morale: l’ultimo gradino del cammino morale è sempre necessariamente, e oggi più che nel passato,​​ post-convenzionale.

 

4.​​ L’annuncio evangelico sul sociale

Ma non avrebbe alcun senso criticare qualcosa, se non esistesse un metro su cui quella cosa può esser misurata. Come posso criticare il modello individualistico-economicistico se non affermo il primato della solidarietà e della condivisione? Come posso criticare lo spegnimento di ogni cultura attiva, se non affermo la dignità di ogni essere umano nel suo esser libero e autodeterminantesi? Ma la doppia affermazione ora accennata — come qualunque metro o valore supremo per 1’esistenza umana — deve essere enunciata e motivabile a noi stessi e agli altri. Una critica sociale è pura velleità se non è proposta e ricerca di consenso intorno a modelli alternativi.

 

4.1. Verso concreti impegni

Per la pastorale giovanile è da ricordare che i giovanissimi sono ancora legati al concreto: parlare loro di modelli o di senso dell’esistenza è vano, se non si esprime questo in termini di impegno concreto (ecologia, pacifismo, condivisione economica, sostegno e rispetto del debole etc.). Ma l’impegno concreto vale solo se gradualmente diviene comprensione di un impegno globale, e attitudine critica verso i modelli proposti e i loro veicoli. Agire in piccolo per pensare in grande è la nostra proposta per una pastorale giovanile nell’area della vita associata. E perciò fin dall’infanzia occorre, nei modi che la pedagogia indicherà opportuni, ancorare la vita e la coscienza della persona a valori e a modelli di comportamento e di valutazione che rispondano all’annuncio cristiano sulla realtà sociale.

 

4.2. La relazione al prossimo come valore assoluto

È opinione comune che nella Scrittura il tema del sociale sia trattato solo indirettamente (le virtù sociali), e che un pensiero sociale cristiano sia nato con la​​ Rerum novarum​​ nel 1891. Sono errate tutte e due le opinioni. Mentre non possiamo fare qui la storia del pensiero sociale cristiano dai Padri ai nostri giorni, è necessario un cenno sintetico dell’annuncio biblico sul sociale, e del salto qualitativo operato dalla​​ Gaudium et spes.

Già nell’AT la pace è la perfezione di un universo complesso, secondo un progetto del Creatore; la perfezione nell’ambito del complesso sistema delle relazioni inter-umane è la santità stessa di Dio, che — attraverso le grandi gesta di salvezza per il suo popolo — si manifesta come benevolenza, misericordia, perdono, sostegno del debole e dell’oppresso. La giustizia di Dio è in pratica sinonimo di tutto questo: «anche tu eri straniero in Egitto, e io ti ho liberato: così ora vai, e libera lo straniero». E appunto frutto di​​ questa​​ giustizia sarà la pace (Is 32,15-17). La santità di Dio vive nel popolo attraverso la sua capacità di rispecchiare al suo interno questa giustizia: la fede e l’adesione alla chiamata di Dio si deve tradurre in giustizia, in difesa del povero e dell’oppresso, senza di che non si può dire di «conoscere» Dio (Ger 22,3-9; 15-16). L’abbandono della giustizia è abbandono di Dio.

Nel NT il Signore si presenta precisamente come il re-messia annunciato dai profeti, e assume su di sé il compito di essere operatore di pace, di essere il portatore di questa giustizia (Lc 4,16-21; Mt 5,3-12). Ma il Signore annuncia qualcosa di più: Dio eterno e assoluto si manifesta in lui come puro dono di sé, come​​ assoluto di relazione,​​ sia al suo interno nella dinamica trinitaria, sia verso l’umanità intera (e non più il solo popolo eletto). Così il Figlio dell’uomo è venuto per servire e non per essere servito (Mt 20,28); così Pietro, che non ragiona secondo Dio (in una logica di servizio), ma secondo gli uomini (in una logica di potere e prestigio), è chiamato «Satana» (Mt 17,21-23); così è nel lavare i piedi del prossimo che noi saremo fedeli al comandamento nuovo (Gv 12,12-15).

Ciò che al cristiano si presenta nel Vangelo come​​ valore assoluto,​​ sul quale, ed esclusivamente sul quale, sarà giudicato, è la relazione al prossimo vissuta come servizio, solidarietà, condivisione: con questo tema Matteo apre il primo discorso pubblico di Gesù (Mt 5: le beatitudini e le antinomie) e chiude l’ultimo (Mt 25: il giudizio finale). In questa luce va capita la rilevanza evangelica del tema della pace come dono del Risorto e come compito per la comunità nascente dallo Spirito (Gv 20,19-22). Essere operatori di pace è dunque un dovere morale coessenziale a tutto l’annuncio evangelico. È il momento relazionale, e perciò inevitabilmente la logica con cui si vive la realtà sociale, il luogo di verifica della fede e dell’adesione al Signore. Crediamo che si possa riassumere tale logica della convivenza, che l’annuncio cristiano propone come compito per il credente e come traguardo per ogni forma di vita associata, in due principi ben precisi (v. il nostro​​ Teologia Morale​​ v.​​ Il),​​ e cioè:

— l’impegno contro ogni stato di cose oppressivo;

— l’impegno per una fraternità (solidarietà e corresponsabilità) universale.

 

5.​​ Società e storia in «gaudium et spes»

La percezione precisa della società e della storia come oggetto proprio della riflessione teologica e dell’attività missionaria (pastorale) della Chiesa è maturata assai lentamente, con alti e bassi che qui non possiamo descrivere, ed è giunta a maturazione con la GS: ivi, con tutta l’autorità magisteriale di un Concilio ecumenico, si dichiara questa più profonda comprensione del mistero della Chiesa e della sua missione (« mysterio Ecclesiae penitius investigato»: GS 2), si amplia il concetto stesso di salvezza dall’ambito della salvezza della singola anima alla salvezza dell’umanità e della sua storia («Ecclesia... tamquam fermentum et veluti anima societatis humanae in Christo renovandae et in familiam Dei transformandae exsistit»: GS 40), si afferma il progetto divino di fare del mondo uno «spatium verae fraternitatis» (GS 37).

La storia dell’umanità intera ha un senso e un traguardo: il Signore non è solo il traguardo per la singola anima, ma per la storia stessa, per l’intera vicenda della famiglia umana («Dominus finis est humanae historiae»: GS 45). Accompagnare la vicenda umana verso questo traguardo, additare la direzione segnata una volta per sempre dalla Parola, sono compito essenziale della Chiesa. E perciò la riflessione sulla realtà sociale come essa storicamente si presenta, e l’annuncio critico della Parola su questa realtà alla luce dei due principi enunciati al termine del precedente paragrafo, sono compito ineludibile della teologia morale e della pastorale.

Ma la GS ci insegna anche qualcosa di più: questa fatica di annunciare la Parola eterna sull’oggi storico — il che non è altro che la «pastorale» in senso rigoroso — deve orientarsi su due poli: il Vangelo e l’esperienza umana. Il Concilio dice questo esplicitamente: all’inizio della seconda parte del documento, cioè della parte applicativa, si dichiara che occorre muoversi «sub luce evangelii et humanae experientiae» (GS 46).

Questa esperienza umana ha sostanzialmente due facce. Vi è una esperienza immediata di eventi, di sofferenze, di esigenze, di aspirazioni (sono questi i segni dei tempi): senza un attento discernimento di queste grida di bisogno e di liberazione non si può neppure comprendere quale sia il progetto divino per noi, Chiesa di oggi. E vi è un’esperienza riflessa che, per il nostro ambito, è costituita dalla riflessione umana sul fatto sociale: sia come studio della realtà esistente, sia come studio dei modelli ad essa soggiacenti, sia come proposta di linee di modificazione e di strumenti adeguati per effettuare tali modificazioni, sia infine, e soprattutto, come sforzo di comprensione di realtà sociali organizzate al di fuori degli schemi e delle tradizioni culturali tipiche dell’Occidente (l’etnocentrismo è finito, ma solo nei manuali di antropologia culturale; non certo nella mentalità occidentale, cristiani ed istituzioni ecclesiastiche comprese).

Gli studi sul fatto sociale sono oggi numerosi e ricchi di indicazioni. È dovere della Chiesa, e in specie dei pastori e dei teologi (GS 44), ascoltare queste voci. Solo cercando di comprendere al meglio quali siano i meccanismi della realtà sociale la Chiesa potrà adempiere al meglio il suo compito di fermento e lievito della società umana. È questa una grande lezione del Concilio: una lezione di umiltà e di logica dell’incarnazione. Questo infatti è il punto rilevante per la pastorale: annunciare una parola eterna in un quadro storico concreto, costituito di dati di fatto e di sforzo di comprensione scientifica di questi dati. Sia il dato, sia la comprensione del dato, sono provvisori: cambiano costantemente, e richiedono uno sforzo costante. Qui non abbiamo nessuna certezza di fede: abbiamo solo — ma non è poco — la ragione e l’onestà intellettuale del ricercatore. La fede illuminerà questa conoscenza, facendoci vedere come — all’interno di tale conoscenza (e non ne abbiamo altra) — il faticoso cammino dell’umanità possa essere avviato sulla via del Vangelo; come cioè il dominio dell’uomo sull’uomo si manifesti oggi, quali forme rivesta, da quali strutture (politiche, economiche, mediali etc.) sia mantenuto, quali modelli o condizionamenti lo giustifichino. Su tale base di conoscenza è possibile studiare le vie concretamente praticabili di liberazione dell’oppresso, e portare su questa realtà di oppressione un annuncio evangelico che non sia solo velleità o enunciazione generica, ma denuncia precisa di modelli e di strutture, e proposta di logiche di convivenza e di impegno nel sociale e nel politico. Proclamare solennemente o enfaticamente che il lavoro è a servizio dell’uomo è certo dire qualcosa di evangelico, ma non è annuncio del Vangelo nell’oggi della storia: occorre domandarsi perché oggi il lavoro non sia al servizio dell’uomo, perché agli economisti e ai finanzieri odierni il lavoro appaia solo come fattore della produzione, quale variazione nella concezione stessa dell’attività economica e nelle strutture economiche sia oggi condizione necessaria perché il lavoro non sia asservimento dell’uomo etc.

Su questa linea di tentativo di lettura di una tragica realtà sociale planetaria, e di annuncio​​ su questa realtà,​​ si sono mosse le tre grandi encicliche sociali post-conciliari:​​ Populorum progressio, Laborem exercens​​ e​​ Sollicitudo rei socialis.​​ Anche se in esse l’analisi della situazione è discutibile o non sufficientemente elaborata, queste tre encicliche segnano una strada ben precisa per la Chiesa di oggi e la sua missione pastorale. E questa missione passa ineluttabilmente per lo studio e la modificazione della complessa realtà sociale in cui si muove oggi la famiglia umana.

 

6.​​ Il compito della pastorale

Quando dunque la pastorale si accosta al termine generico di «società», essa è immediatamente coinvolta nel duplice compito di:

— studio accurato della realtà sociale nel suo complesso, delle principali strutture in cui si articola, dei modelli che induce nella mente degli uomini che in essa si muovono: e in ciò si impone il ricorso a quanto di più significativo le varie scienze dell’uomo e della società oggi offrano;

critica sociale e impegno nella modificazione di strutture e di modelli alla luce della Parola: e in ciò si impone il ricorso all’impegno attivo nel sociale, sia a livello teorico sia a livello pratico; si impone inoltre la ricerca di un annuncio morale «profetico», mirante cioè a modificare modelli e attitudini mentali ormai accolti acriticamente e inconsapevolmente come veri in eterno (basta pensare all’idea di «stato sovrano» o di «proprietà privata» o di «marito capo della famiglia»).

La pastorale deve dunque imporre un impegno e proporre linee di assolvimento di tale impegno. A ogni cristiano incombe​​ il dovere morale di impegno nella storia,​​ perché la famiglia umana possa camminare verso il suo traguardo: è questa un’acquisizione irreversibile del Concilio. Solo all’interno di questa comprensione globale della missione della Chiesa potranno poi essere affrontati i singoli problemi legati all’idea generale e generica di «società».

Il modo con cui questo impegno può essere assolto non è dato una volta per tutte, dal momento che è legato a un preciso momento della storia dell’umanità; né è lo stesso per tutti i cristiani, che vivono in sistemi sociali e tradizioni culturali diversi. Ma anche all’interno di un singolo gruppo omogeneo in un preciso momento (p. es. la Chiesa italiana di oggi), la scelta del modo dell’impegno è sempre in qualche misura scelta di opportunità: essa infatti si basa non solo su dati di fede, ma anche su dati di fatto, la cui lettura ed interpretazione non può essere in genere univoca; si basa inoltre su valutazioni di opportunità — di efficacia di mezzi al fine — che in ultima istanza sono frutto di esperienza e di discernimento personale. Sarà utile, e talora necessario, un discernimento da parte della Chiesa locale: ma esso potrà servire solo come orientamento per le scelte del singolo, non come prescrizione morale.

 

7.​​ Dovere di fedeltà e dovere di contestazione

Stabilito che per il cristiano qualunque discorso o studio o scelta che verta sul «sociale» — comunque concretamente configurato nel singolo caso — è sempre un problema di impegno e di moralità, è bene tenere presenti tre considerazioni.

 

7.1. Prima considerazione

Ogni essere umano vive entro una realtà sociale complessa che gli si presenta, in un primo momento, come un dato. Non sarebbe possibile alcuna vita di relazione stabile al di fuori di tale quadro. All’interno di esso, l’altro si aspetta da me certi comportamenti in certe situazioni, e conta su tali comportamenti (le leggi civili o penali di uno stato ne sono un importante esempio): il servizio della carità deve dunque cominciare dalla fedeltà alla società in cui io sono inserito e dall’osservanza delle regole in essa vigenti. Il primo e più ovvio dovere nei confronti delle società in cui uno è collocato (famiglia, stato, chiese, gruppi etnici, scuole, etc.) è il dovere di affidabilità, o — con un ottimo termine in uso nell’etica anglosassone — di lealtà. Nasce qui un problema gravissimo, e scarsamente considerato dall’etica sociale cristiana: il problema della priorità nel campo delle diverse lealtà. Un padre testimonierà il falso per salvare il figlio? Il cittadino disobbedirà allo stato per il bene comune della famiglia umana? Non è questo il luogo per discutere queste e altre simili questioni: è però importante saperle affrontare. Diremo dunque che, in linea di principio, la lealtà verso la realtà sociale data è il primo passo della carità, essendo la via normale in cui il servizio al prossimo può essere effettivo. Sussiste perciò un​​ dovere di fedeltà​​ verso la società in genere, e la società civile in specie.

 

7.2. Seconda considerazione

Ma nella realtà sociale esiste sempre dominio dell’uomo sull’uomo da un lato, carenza di solidarietà dall’altro. Se in prima approssimazione la realtà sociale si presenta come un dato entro cui muoversi nelle nostre scelte di carità, la stessa realtà sociale si presenta anche come compito. È precisamente nello sforzo di trasformarla e indirizzarla verso il suo traguardo che il cristiano adempie il suo dovere di essere attore della storia. Accanto al dovere di fedeltà, esiste un ben preciso​​ dovere di contestazione-,​​ modificare modelli di vita e strutture oggettive di rivalità e di oppressione. All’interno di questo dovere è da inquadrarsi il dovere di critica della società civile e delle sue istituzioni. Ma, come è ovvio, la realtà sociale è assai più complessa e ampia della società civile: il dramma dell’ecologia, della guerra e della pace, dei paesi sottosviluppati, delle condizioni dell’umanità futura, delle finalità della ricerca scientifica, e tanti altri drammi in cui si concreta l’oppressione dell’uomo sull’uomo, vanno ben oltre le possibilità delle leggi di un singolo stato. Il compito è immenso, il singolo cristiano si può sentire impotente di fronte ad esso: e tuttavia ogni singolo cristiano deve sentirsi impegnato in questa battaglia (« In hac pugna insertus»: GS 37). Al cristiano non è chiesto di avere successo: è però chiesto di vivere e morire per amore degli uomini e della famiglia umana.

 

7.3. Terza considerazione

A queste due considerazioni, che presentano le due facce del dovere morale di vivere in società, se ne deve aggiungere una terza: l’età giovanile è quella in cui è possibile passare da un’etica intesa prevalentemente come elenco di comportamenti singoli da ritenersi buoni o cattivi, a un’etica intesa come compito nei confronti dei fratelli e della storia umana. La pastorale giovanile deve dunque educare in un primo momento a vedere le singole osservanze richieste dalla vita associata come modo normale concreto di servire il prossimo; e in un secondo momento a vedere come tale modello di convivenza sia insufficiente o contrastante con la Parola e le attese dei poveri della terra. È proprio e specificamente nell’età giovanile che si può e si deve educare alla critica sociale e conseguentemente all’impegno nel sociale.

 

Bibliografia

Aa.Vv.,​​ Ermeneutica e crìtica dell’ideologia,​​ Queriniana, Brescia 1979; Chiavacci E.,​​ Teologia Morale​​ vol. II:​​ Complementi di morale generale,​​ Cittadella, Assisi 1986 (2° ed); Chiozzi P.,​​ Introduzione all’antropologia culturale,​​ Le Monnier, Firenze 1980; Gadamer H. G.,​​ Verità e metodo,​​ Fabbri, Milano 1973; Galantino N., (ed.)​​ Il Concilio vent’anni dopo: il rapporto Chiesa-mondo,​​ AVE, Roma 1986; Habermas J.,​​ Etica del discorso,​​ Laterza, Bari 1985; Lohfink N., Le nostre grandi parole,​​ Paideia, Brescia 1986;​​ Pax Christi (ed.),​​ Comunità cristiane per una cultura di pace,​​ Queriniana, Brescia 1983; Ribeiro D., Il processo civilizzatore,​​ Feltrinelli, Milano 1973; Walzer M.,​​ Obligations. Essays on Disobedience War and Citizenship,​​ Harvard University Press Cambridge, London 1970.

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SOCIETÀ

La varietà di uso del termine s. rende incerto ed equivoco il suo significato. Risulta, pertanto, necessario un chiarimento del concetto per giungere ad una definizione che ne consenta un’utilizzazione controllata ed epistemologicamente corretta.​​ 

1.​​ Una «prospettiva» per una definizione.​​ La chiarificazione del significato dipende anche dalla prospettiva in cui ci si colloca; il nostro approccio è quello tipico della scienza della s. (​​ scienze sociali): la sociologia. In questa disciplina l’accezione supera ogni approssimazione e genericità e viene riferita a una «totalità complessa» che include ogni forma di relazione tra gli uomini, sia a livello strutturale che culturale, e riguarda le varie dimensioni del vivere sociale: politica, economica, culturale, ricreativa, ecc. In questa visione di «totalità» deve essere percepita un’unità globale di gruppi, livelli e forme di vita istituzionale che si rapportano tra di loro e formano un’unità distinta rispetto a tutte le altre. Il concetto e l’accezione del termine s. che meglio esprime tutti questi aspetti, è quello di «s. globale» e la sua definizione può essere formulata nel modo seguente: «una s. è una organizzata collettività di persone, viventi insieme in un comune territorio, cooperanti in gruppo per soddisfare i loro bisogni sociali fondamentali, abbraccianti una comune cultura e funzionanti come una distinta unità sociale» (Fichter, 1969). Questa accezione di «s. globale» trova la sua concretizzazione nella​​ ​​ nazione. In essa gli elementi precedenti sono collocati in una continuità storica, arricchiti di una identità comune e di una coscienza collettiva e riconosciuti nelle loro differenziazioni interne.

2.​​ L’evoluzione storica.​​ Come ogni esperienza umana, l’organizzazione della vita sociale ha avuto fondamentali evoluzioni nel tempo. Si è passati dalla s. arcaica, che basava i vincoli del vivere sociale sui legami tribali o di sangue, alle forme più evolute fondate sugli interessi comuni e sulla solidarietà tra gli abitanti della stessa città (città-stato), a realtà basate su modalità razionali di organizzazione. Nelle sue diverse forme, la s. trova la ragione di esistere nella sua capacità di canalizzare, organizzare e soddisfare i bisogni fondamentali di coloro che la costituiscono. La sua struttura e il suo funzionamento si adeguano alle situazioni, alle esigenze, ai compiti che nel tempo sono andati sempre più differenziandosi e specializzandosi segnando un percorso che dalla s. primitiva è giunto all’attuale s. complessa. In questo cammino evolutivo non è mutata soltanto l’organizzazione, la struttura e il funzionamento della s., ma anche la sua fondazione teorica e l’interpretazione complessiva. Le diverse forme della vita sociale si sono basate su teorie che rispecchiavano concezioni filosofiche differenti. Fino al Cinquecento-Seicento è stata vincente la concezione dell’uomo «naturalmente socievole» e di conseguenza la s. è stata percepita come un evento di ordine naturale. Il filosofo inglese T. Hobbes oppone a tale interpretazione una visione problematica della condizione umana. Se la realtà è caratterizzata dalla «guerra di tutti contro tutti», non ci può essere altro fondamento alla convivenza umana che quello contrattuale: solo uno stato onnipotente può salvaguardare la pace. Partendo dallo stesso presupposto,​​ ​​ Rousseau giunge alla contrapposizione natura-stato, individuando nella costituzione della s. un fattore di corruzione dell’uomo, piuttosto che un antidoto alle sue difficoltà relazionali. Fino all’avvento dell’Illuminismo è la filosofia la prospettiva prevalentemente utilizzata per spiegare l’origine e il senso del vivere sociale. Successivamente si aprirà la fase in cui prevarrà lo studio positivo della s. e di tutti i fenomeni; a partire da A. Comte, si elaboreranno teorie sociologiche generali aventi come oggetto il funzionamento della s. e lo sviluppo della sociologia assicurerà modelli, metodi e chiavi interpretative sempre più precise e raffinate.

3.​​ Alcune caratteristiche fondamentali della s.​​ Concentrando la nostra attenzione sulla realtà sociale attuale, riscontriamo che elementi fondamentali di ogni s. sono la marcata differenziazione istituzionale e di gruppi sociali. Le diverse istituzioni e gli stessi gruppi tendono sempre più a specializzarsi per trovare una particolare collocazione all’interno della s. A seconda delle funzioni svolte dai diversi gruppi e della necessità e dell’apprezzamento che riserva la stessa s. alle loro caratteristiche e obiettivi, viene a costituirsi una sorta di preminenza di alcuni su altri, tanto da costituire una stratificazione che accentua sempre più le distanze. In ogni s., pertanto, si possono riconoscere criteri particolari nella differenziazione tra le persone, basati sia sulle loro caratteristiche individuali che sulla appartenenza a determinati gruppi. Quanto più le differenziazioni sono marcate, tanto più si evidenzia l’eterogeneità e la stratificazione di una s., la specializzazione e complessità della sua organizzazione e del suo funzionamento e l’insieme delle tensioni che concorrono a rendere dinamico l’intero sistema. La riflessione e la ricerca sociale, attualmente, si occupano soprattutto di questi fenomeni, studiando le varie forme e criteri della​​ ​​ complessità sociale e la loro incidenza sulla vita sociale. I rapidi e profondi cambiamenti, che hanno fatto parlare di «cambiamento d’epoca», evidenziano sempre più i rischi di perdita di identità e di emarginazione e la necessità di coniugare globalizzazione e localizzazione, orizzonte planetario e concretezza della vita in contesto, multicultura e insieme senso di appartenenza e di identità personale e sociale.

4.​​ L’esperienza individuale della s.​​ La dimensione sociale è un fatto connaturale al vivere umano. Non si tratta però di un fatto scontato, ma piuttosto problematico, soprattutto oggi a motivo dei cambiamenti della realtà sociale. La problematicità risiede, tuttavia, in due esigenze contrapposte: la necessità di rendere l’agire sociale prevedibile e fruibile attraverso la mediazione simbolica, che oggi si presenta diversificata e frammentata, e il riscontro della imprevedibilità del comportamento umano che esprime libertà e creatività. La mediazione simbolica ha sempre un carattere riduttivo perché la s., sull’esigenza della prevedibilità, cerca di costituire un sistema culturale atto a fondare una sufficiente omogeneità tra i membri e a regolare così i loro rapporti. La crescente esigenza di razionalità e di varietà degli apparati, tuttavia, rischia sempre più di costringere gli individui nei ruoli da interpretare e di legarli all’efficienza che l’esercizio di un ruolo deve assicurare. La soggettività individuale, pertanto, è spinta a cercare modalità significative di convivenza con la razionalità del sistema, sia in senso adattivo sia nella prospettiva di reinterpretare e modificare le norme attraverso cui si esprime la mediazione simbolica della s. Il rapporto tra soggettività individuale e sistema sociale, oggi, è reso particolarmente incerto; le regole che lo «normalizzano», infatti, sotto la spinta della creatività individuale ma anche delle nuove esigenze della s., sono diventate incerte, fluide. Il sociale, quindi, come luogo di incontro e di scambio non è più rassicurante e la s. è segnata da uno stato fluido e non strutturato, una «modernità liquida», sempre più individualizzata e privatizzata. In questa situazione, è possibile rinunciare a tentativi miranti ad organizzare le strutture e a definire le regole comuni per realizzare l’interdipendenza e il buon vivere delle persone? L’interrogativo è puramente retorico. La s. attuale ha bisogno di protagonisti che la rendano spazio organizzato della convivenza pacifica e solidale.

Bibliografia

Weber M.,​​ Economia e s.,​​ Milano, Comunità, 1961; Tonnies F.,​​ Comunità e s.,​​ Ibid., 1963; Rusconi G. H.,​​ La teoria analitica della s.,​​ Bologna, Il Mulino, 1968; Fichter J. H.,​​ Sociologia,​​ strutture e funzioni sociali,​​ Roma, Onarmo,​​ 31969; Touraine A.,​​ La produzione della s.,​​ Bologna, Il Mulino, 1975; Ardigò A.,​​ Crisi di governabilità e mondi vitali,​​ Bologna, Cappelli, 1980; Crespi F.,​​ Le vie della sociologia,​​ Bologna, Il Mulino, 1985: Beck U.,​​ La s. del rischio. Verso una seconda modernità, Roma, Carocci, 2000; Bauman Z.,​​ La s. individualizzata. Come cambia la nostra esperienza, Bologna, Il Mulino, 2002; Cesareo V. (Ed),​​ Sociologia. Concetti e tematiche, Milano, Vita e Pensiero, 2004.​​ 

V. Orlando​​ 

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SOCIETÀ

SOCIETÀ DELLA CONOSCENZA

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SOCIETÀ DELLA CONOSCENZA

Le nuove tecnologie dell’informazione hanno provocato nell’ultimo decennio una transizione verso nuove forme di vita sociale che ha fatto parlare di «s.d.c.».​​ 

1.​​ Le trasformazioni socio-economiche e culturali.​​ In breve si può dire che si è compiuto il passaggio da un modello industriale di economia ad uno​​ post-industriale.​​ Il secondo sottolinea la qualità e l’intensità dello sviluppo (ottenere più dal meno), il valore della produzione, la natura simbolica, interattiva, contestuale, partecipativa, autonoma e intellettuale dell’attività occupazionale e della sua strutturazione. Il passaggio al post-industriale si accompagna ad un aumento dei fenomeni di precarizzazione del lavoro​​ che mettono in crisi il tradizionale sistema di relazioni sociali. Anche la​​ cultura​​ della s.d.c. risulta segnata dalla rivoluzione dei microprocessori: moltiplicazione delle opportunità di informazione e di formazione e creazione di nuove forme di analfabetismo e di nuove marginalità; elevazione dei livelli di cultura generale e di competenze per l’accesso al mondo del lavoro e parcellizzazione che ostacola ogni tentativo di sintesi; potenzialmente personalizzante e al tempo stesso generatrice di consumo passivo da parte soprattutto degli strati più deboli della popolazione; fattore di pluralismo, ma anche all’origine del relativismo etico. I grandi miti dell’Occidente non riescono più a difendere le loro pretese di assolutezza e nel contesto di piena globalizzazione nel quale viviamo, prevalgono un nuovo individualismo e un conseguente utilitarismo. La​​ ​​ secolarizzazione religiosa si è attuata, più che nelle menti, nei cuori della gente che si sono rivolti più che altro al​​ ​​ consumismo, al benessere e al divertimento. Comunque, essa è stata controbilanciata da un ritorno di fiamma del sacro, della magia, di nuove forme di religiosità. Questi processi si combinano con il mondo della multicultura che, diffondendo il​​ ​​ pluralismo, mette in crisi i tradizionali modelli di uomo.​​ 

2.​​ L’impatto sul sistema educativo. Il passaggio alla s.d.c.​​ trasforma il senso e il​​ modo di lavorare, nascono nuove professioni, vecchi mestieri cambiano configurazione, altri scompaiono definitivamente. È richiesta la flessibilità, la mobilità occupazionale e la polivalenza della cultura professionale. Inoltre, molti giovani portano nella scuola la​​ cultura del frammento​​ che, se ha il merito di aver contribuito a mettere in crisi il dogmatismo delle grandi ideologie, pone gravi problemi al sistema di istruzione e di formazione. Per rispondere al meglio alle nuove esigenze si dovrà pensare a un​​ nuovo modello di uomo da formare​​ che non solo possieda i necessari requisiti tecnici, ma anche nuovi saperi di base (informatica-informazione, inglese, economia, organizzazione), capacità personali (comunicazione e relazione, lavoro cooperativo, apprendimento continuo), vere e proprie virtù del lavoro (affrontare l’incertezza, risolvere problemi, sviluppare soluzioni creative) e solidi valori civici, morali e spirituali (il rispetto dei diritti dell’uomo, il dialogo interculturale, l’apertura all’assoluto).

Bibliografia

Giddens A.,​​ Il mondo che cambia, Bologna, Il Mulino, 2000; Malizia G. - C. Nanni, «Istruzione e formazione: gli scenari europei», in Ciofs / Fp - Cnos / Fap,​​ Dall’obbligo scolastico al diritto di tutti alla formazione: i nuovi traguardi della formazione professionale, Roma, 2000, 15-42; Callini D.,​​ S. post-industriale e sistemi educativi, Milano, Angeli, 2006.

G. Malizia

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SOCIETÀ DELLA CONOSCENZA

SOCIOLINGUISTICA

 

SOCIOLINGUISTICA

Dopo i lavori anglosassoni di Bernstein (1971) e di Labov (1972) la s. ha ottenuto un posto a sé fra le scienze del​​ ​​ linguaggio, in quanto «studia le dimensioni sociali della lingua e del comportamento linguistico, vale a dire i fatti e fenomeni linguistici che, e in quanto, hanno rilevanza o significato sociale» (Berruto, 1995, 10).

1. Data la sua natura, la s. viene necessariamente a contatto con altre discipline, che con essa concorrono, in parte anche sovrapponendosi, alla ricerca sul rapporto fra lingua e società. In questo ambito essa si configura e si colloca come il nucleo centrale, in cui confluiscono i concetti di comunità linguistica e di competenza comunicativa, nonché il fenomeno della variazione nel lessico, nella fonetica, nella sintassi e nella morfologia.

2. Accanto a questo nucleo, in posizione molto ravvicinata, si ritrova la sociologia del linguaggio, che ha come oggetto di studio le varietà linguistiche, proprie delle singole comunità e distinte sulla base di criteri storici o diacronici, di criteri geografici o spaziali (donde le lingue regionali), di criteri relativi ai diversi strati socio-culturali (il gruppo, l’etnicità, il sesso, la classe generazionale) e, infine, di criteri situazionali.

3. In queste ultime rientrano le varietà che riguardano il parlante (i registri, formali o colloquiali) e quelle relative invece all’argomento di cui si parla, dette «lingue settoriali» o sottocodici, destinati ai diversi ambiti scientifici e disciplinari, quali la medicina, il diritto, l’economia, nonché i settori della politica, dello sport, della pubblicità... Ai confini tra l’area della s. e della sociologia del linguaggio si trovano la dialettologia, la linguistica pragmatica o studio della lingua come «modo di agire» nel contesto comunicativo e, infine, la psicologia linguistica, attenta all’interazione comunicativa sotto l’aspetto psicologico. Il tratto comune per altro alla s. e alle scienze confinanti consiste nel loro particolare modo di fare ricerca, sempre vicino ai concreti problemi di una comunità, compresi quelli della scuola e dell’educazione.

Bibliografia

Bernstein B.,​​ Class,​​ codes and control.​​ Theoretical studies towards a sociology of language,​​ London, Routledge & Kegan Paul, 1971; Labov W.,​​ Sociolinguistic patterns,​​ Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1972; Berruto G.,​​ Fondamenti di s.,​​ Bari, Laterza, 1995; Id.,​​ S. dell’italiano contemporaneo, Roma, Carocci, 2002; Giannini S. - S. Scaglione,​​ Introduzione alla s., Ibid., 2003; Berruto G.,​​ Prima lezione di s., Bari, Laterza, 2005.​​ 

G. Proverbio

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SOCIOLINGUISTICA

SOCIOLOGIA DELL’EDUCAZIONE

 

SOCIOLOGIA DELL’EDUCAZIONE

La s.d.e. è tendenzialmente finalizzata a descrivere e a interpretare la complessa gamma dei fenomeni e dei soggetti che attengono al campo della​​ ​​ socializzazione, e a porli in relazione con la società nella sua globalità e nei suoi sottosistemi. Fa parte quindi delle cosiddette​​ s. specifiche o applicate,​​ il cui campo specifico di interessi è quello dell’educazione. Partecipa così di una doppia natura: quella della teoria sociologica generale, di cui condivide i metodi, gli obiettivi, le vicende storiche di un determinato approccio teoretico; e quella della specifica parte del sociale relativa ai suoi​​ oggetti propri​​ come i processi di​​ ​​ formazione, i significati della​​ ​​ scuola e dell’​​ ​​ istruzione, i rapporti tra le diverse componenti di un sistema educativo e la società.

1.​​ Le origini.​​ La s.d.e. nasce da​​ due diverse matrici​​ che finiranno poi per congiungersi, ma solo dopo alcuni decenni e non senza contrasti, e cioè la teoria sociologica generale e la natura della s.d.e. il cui obiettivo è di fare da supporto alle decisioni pedagogiche. Nel primo caso l’inserimento dei nuovi membri nella società e quindi il modo con cui essa si riproduce e i suoi processi educativi come condizione di sopravvivenza dei sistemi sociali, sono stati al centro delle grandi tradizioni sociologiche (​​ Durkheim, Weber, Marx). Esse, pur differenziandosi, hanno in comune tre punti, per cui considerano l’educazione un’istituzione sociale macrosociologica, ritengono centrali nella struttura sociale l’educazione e le sue interfacce con altre istituzioni, e vedono l’origine del cambiamento sociale nelle relazioni tra il sistema educativo e gli altri sistemi sociali, politici ed economici. Nel secondo caso, la convinzione ambivalente presso i sociologi che il sistema educativo è per gli uni determinato dalle strutture sociali mentre per altri ne è determinante, spinge la s.d.e. a specializzarsi in corrispondenza dei bisogni sociali e a proporsi come supporto alle decisioni pedagogiche, offrendo alla politica dell’educazione una serie di indicazioni empiricamente fondate.

2.​​ S.d.e. come scienza delle istituzioni e dei processi formativi.​​ Nel contesto di questo nodo centrale costituito dal rapporto educazione / società, la tradizione sociologica classica considera l’educazione come variabile dipendente dalla società. Mentre Durkheim si limita ad affermarne una dipendenza generica, Weber la precisa come dipendente dalle strutture del potere e Marx dai condizionamenti dei rapporti di produzione. Nella s. contemporanea le analisi a livello macro consentono così di individuare tre filoni: l’approccio del neomarxismo, quello del neo-funzionalismo e quello neo-weberiano. Con riferimento al neo-marxismo, anche i contributi più recenti continuano a considerare l’educazione in termini sovrastrutturali e deterministici. Le stesse teorie della riproduzione sociale (Althusser e Poulantzas) e della riproduzione culturale (Bourdieu, Passeron e Bernstein) non riescono a cogliere ciò che realmente avviene all’interno del sistema educativo, considerato ancora una passiva «cinghia di trasmissione». Il neo-funzionalismo non ha ancora trovato la soluzione all’antinomia tra funzionalità del sistema sociale e autonomia del sistema educativo. È problematica la questione dell’integrazione funzionale (Gouldner, Etzioni, Eisenstadt) che cerca una soluzione anche in termini di approccio sistemico (Buckley). Infine la s. neo-weberiana è il filone oggi meno esplorato. Esso però si propone il tentativo di individuare una rete delle «mappe subculturali della conoscenza». Collins evidenzia il significato dell’istruzione in termini di cultura di ceto, mentre Archer sollecita la necessità di procedere ad un’analisi dei sistemi educativi declinando tra di loro struttura e cultura, avviando così ad un​​ quarto approccio a livello micro​​ che trova i propri punti di riferimento teorico nella fenomenologia, nell’interazionismo simbolico e nell’etnometodologia. Oggi la s.d.e. nella sua globalità è riconosciuta unanimemente come una branca specialistica della s., che con il suo fuoco di analisi nello studio delle istituzioni e dei processi formativi è capace di dare incremento alla conoscenza sociologica. Nel passato, sempre nel tentativo di definire meglio la s.d.e., vi è stato un dibattito assai vivace attorno alla distinzione tra contesto americano (s.d.e. estranea alla s. mentre si avvicina di più alla pratica pedagogica e didattica) e contesto inglese (s.d.e. come studio sociologico dell’istruzione). Il dibattito si concentrava su una precisazione di non poco rilievo in quanto distingueva tra s. educativa (educational sociology)​​ e s.d.e. (sociology of education).​​ La prima infatti era essenzialmente una teoria normativa volta all’azione pratica con imperativi metodologici e didattici, come mezzo di controllo dei processi educativi. La seconda per contro sviluppava una teoria in grado di approfondire la conoscenza dei fenomeni educativi lungo una linea di descrizione-spiegazione-comprensione tipica della riflessione sociologica, collocandosi perciò a monte di qualsiasi intervento pratico, didattico e politico nel ruolo, pur non esclusivo, di aiuto ai decisori. Col tempo è stata la seconda accezione a prevalere.

3.​​ Il​​ rapporto educazione / società.​​ Esso è al centro del dibattito sulla natura della s.d.e., che analizzato secondo una prospettiva tematica e comparativa (Moscati, 1989) può articolarsi in​​ tre fasi.​​ Nella prima fase, comune agli altri Paesi occidentali, centrale è il​​ problema del cambiamento,​​ considerato sotto il profilo della ricostituzione dell’ordine e dell’adeguamento della società alle nuove direzioni e ai nuovi ritmi di evoluzione indotti dall’industrializzazione e dall’accelerazione dello sviluppo economico. L’istruzione allora assume un ruolo sempre più centrale come mezzo di sviluppo equilibrato dei singoli individui o come elemento unificante sul piano dei valori e dei modelli di comportamento. Emerge in primo piano la figura dell’insegnante che in Italia è stata analizzata dalle ricerche di Cesareo e di Barbagli e Dei.​​ La seconda fase​​ corrisponde all’accentuarsi dentro ai processi di modernizzazione del rapporto tra istruzione, stratificazione e mobilità sociale, che viene sempre più legata alla carriera professionale, in cui l’istruzione svolge un ruolo cruciale. L’esame di questo nesso importante enfatizza il tema dell’uguaglianza delle opportunità di fronte all’istruzione, sia rispetto alle condizioni iniziali di partenza sia rispetto agli esiti scolastici. Gli anni ’70 infatti sono caratterizzati dal dibattito sul rapporto tra origine sociale e riuscita scolastica e professionale, spostando così l’ottica verso un’attenzione ai soggetti e ai loro percorsi individuali e differenziati. I giovani acquistano «visibilità» così da stimolare lo sviluppo di numerose ricerche sulla condizione giovanile, in misura esponenziale rispetto al passato.​​ La terza fase​​ di sviluppo della s.d.e. corrisponde ad un sempre più attento ricupero del ruolo dei soggetti all’interno delle dinamiche formative, per cui si pone attenzione ai processi che avvengono all’interno dei gruppi, come la classe scolastica e gli attori in essa coinvolti. Si colgono il disagio degli studenti e l’incertezza degli insegnanti sul proprio ruolo. Si sviluppa un policentrismo formativo tanto nella domanda che nell’offerta di formazione.

4.​​ I​​ temi di studio e di ricerca della s.d.e.​​ Tentativi di individuare e differenziare specifiche e più precise aree tematiche e oggetti pertinenti di studio della s.d.e. sono stati compiuti a più riprese. Brookover (1964) individuava 4 aree di studio della s.d.e.: l’analisi delle relazioni del sistema educativo con gli altri aspetti della società; lo studio delle relazioni psicologiche e istituzionali dentro la scuola; l’analisi dell’influenza della scuola sul comportamento e sulla personalità dei suoi membri specie dell’insegnante; l’influenza della comunità e delle diverse agenzie di socializzazione sull’organizzazione scolastica. Floud e Halsey qualche anno dopo hanno fatto il medesimo tentativo sulla base di un’ampia bibliografia ragionata, giungendo a risultati quasi identici e, secondo Cesareo, sovrapponibili. Anch’essi avevano individuato alcuni ambiti corrispondenti, e cioè lo studio del sistema formativo in rapporto alla più ampia struttura sociale (sistemi di valori, demografia, economia, politica); l’esame delle relazioni tra le varie attività educative; gli influssi educativi esercitati dall’ambiente su studenti e insegnanti. Infine in una sistematizzazione più organica e razionale, Ribolzi (1988) è giunta a definire come ormai classici nella s.d.e. i temi seguenti: lo studio della funzione sociale dell’istruzione e in particolare della scuola; l’analisi dei soggetti istituzionali del sistema educativo (specie insegnanti e allievi); lo sviluppo dei processi di socializzazione (contesto anche extrascolastico); l’analisi delle macrorelazioni tra sistema formativo, sistema di classe e sistemi economici, politici, culturali. Volendo completare la panoramica anche in prospettiva di futuro è indispensabile tuttavia includere e approfondire altre cinque aree di studio oggi particolarmente urgenti, come il rapporto tra scuola e mercato del lavoro in relazione ai nuovi bisogni di professionalità e di internazionalizzazione, ma anche attento al rischio di un nuovo efficientismo produttivistico a scapito delle componenti affettive e socializzanti dell’adolescente; le nuove tecnologie nella ricerca educativa; la struttura organizzativa del sistema formativo e delle politiche sociali per i giovani; il confronto internazionale sui sistemi scolastici; la valutazione in efficacia ed efficienza dei processi formativi contro ogni forma di sprechi; la formazione diffusa, cioè quella rete articolata di opportunità formative che va progressivamente ad integrare la scuola e la formazione permanente degli adulti.

5.​​ Gli sviluppi della s.d.e. in Italia.​​ Anche se già dagli anni ’50 lo Svimez aveva avviato le prime analisi riguardanti i rapporti tra sviluppo economico e fabbisogni formativi, è solo a partire dagli anni ’60 che la s.d.e. acquista in Italia una fisionomia disciplinare autonoma nei confronti sia di materie affini come la pedagogia e la psicologia, sia della s. generale. Pur sorta in ritardo rispetto ad altri Paesi, ha seguito le tendenze prevalenti nel panorama internazionale. In particolare sull’onda dei movimenti studenteschi sorti originariamente negli Stati Uniti e copiati nei vari Paesi europei, la nuova s.d.e. ha voluto studiare i rapporti tra struttura di classe ed educazione. In ogni caso il filo conduttore del suo evolversi rimane sempre la riflessione sul rapporto educazione / società variamente interpretato dalle diverse posizioni teoriche. I due approcci «classici»: funzionalista e conflittualista, sono entrambi presenti nella s.d.e. italiana con una certa prevalenza del primo nell’epoca iniziale, e del secondo attorno agli anni ’70. Infatti in coincidenza con la fase della contestazione studentesca e più in generale con la «caduta dell’ottimismo sociale», si rafforza l’orientamento conflittualista di indirizzo marxista piuttosto che quello weberiano. In tempi più recenti, però, gli operatori tendono a rifiutare la concezione rigidamente althusseriana della scuola riproduttrice dei rapporti di classe, in quanto essa nega valore all’azione pedagogica e condanna la scuola all’immobilismo. Ancora scarsamente presente nel nostro Paese è l’empirismo metodologico, che trascurando una sistematizzazione in precise categorie concettuali, cerca la propria legittimazione nell’adozione di tecniche di misurazione sempre più sofisticate. Nella seconda metà degli anni ’80 la s.d.e. raggiunge una relativa maturità rappresentata dallo svilupparsi in parallelo di diversi indirizzi e tematiche di approfondimento, come le trasformazioni degli studi universitari, la selezione scolastica, la mobilità attraverso l’istruzione, il dibattito su scuola statale e non statale, l’analisi comparativa delle politiche formative. Il già ricordato «ritorno del soggetto» sulla scena della riflessione sociologica ha aiutato a controbilanciare la precedente enfasi su strutture, sistemi e istituzioni sociali, rivalutando l’intenzionalità soggettiva contro i determinismi sociologici, così da proporre alla macrosociologia una fondazione anche di tipo microsociologico. Ciò comporta lo sviluppo di nuove categorie per lo studio della realtà sociale, come i concetti di​​ interdipendenza,​​ interpenetrazione e multidimensionalità.​​ Su queste basi, consolidate da numerose analisi di ricerca, si sta stabilizzando una sistematica revisione e razionalizzazione della s.d.e. in Italia, secondo una identità abbastanza definita.

6.​​ Problemi aperti della s.d.e. in Italia.​​ Se la s.d.e. in Italia ha trovato difficoltà a costruirsi uno statuto epistemologico autonomo in relazione alle teorie di carattere generale, non le è stato neppure facile collegarsi alla riflessione scientifica internazionale in termini di modelli teorici e di problematiche. Gran parte delle difficoltà sono infatti legate al crescere dell’importanza delle zone di confine. In particolare i fenomeni inerenti al sistema formativo non possono più essere circoscritti come oggetto di uno studio disciplinare specifico, ma per il loro carattere trans-disciplinare richiedono un approccio più complesso. La sempre maggiore importanza del rapporto educazione / società sta infatti suscitando nuovi problemi, a motivo delle esigenze poste dalle modalità di sviluppo dei processi sociali, quelle cioè dell’integrazione e dell’ordine sociale in una società pluralista, complessa e multiculturale.

Bibliografia

Saha L. G., «Sociology of education: overview», in T. Husen - T. Neville Postlethwaite (Edd.),​​ The International encyclopedia of education,​​ Oxford, Pergamon, 1994, vol. 10, 5596-5607; Hallinan M. T. (Ed.),​​ Handbook of the sociology of education, N.Y., Plenum, 2000; Ribolzi L. (Ed.),​​ Formare gli insegnanti.​​ Lineamenti di s.d.e., Roma, Carocci, 2002; Fischer L.,​​ S. della scuola, Bologna, Il Mulino, 2003; Maccarini A.,​​ Lezioni di s.d.e., Padova, CEDAM, 2003; Benadusi L. et al.,​​ Educazione e socializzazione. Lineamenti di s.d.e., Milano, Angeli, 2004; Benadusi L. - F. Consoli (Edd.),​​ La governance della scuola. Istituzioni e soggetti alla prova dell’autonomia, Bologna, Il Mulino, 2004; Besozzi E.,​​ Società,​​ cultura,​​ educazione, Roma, Carocci, 2006; Callini D.,​​ Società post-industriale e sistemi educativi, Milano, Angeli, 2006; Colombo M. et al. (Edd.),​​ S. delle politiche e dei processi formativi, Milano, Guerini, 2006; Schizzerotto A. - C. Barone,​​ S. dell’istruzione, Bologna, Il Mulino, 2006.

R. Mion

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SOCIOLOGIA DELL’EDUCAZIONE

SOCIOLOGIA DELLA RELIGIONE

 

SOCIOLOGIA DELLA RELIGIONE

1.​​ L’ambito della SdR.​​ La SdR si interessa fondamentalmente di quattro problemi tra di loro strettamente connessi: a) del fatto che in molte società e culture sono presenti comportamenti collettivi che fanno riferimento ad un ordine radicalmente diverso dall’ordine naturale controllabile dall’uomo; b) del fatto che tale riferimento ha particolare rilevanza per l’ordine sociale, cui conferisce significato e talvolta legittimazione/delegittimazione; c) del fatto che tale riferimento si traduce in un comportamento morale; d) del fatto che tale riferimento dà origine a particolari forme di aggregazione (gruppi, movimenti, associazioni, ecc.) più o meno istituzionalizzate. Gli approcci elaborati dalle diverse teorie sociologiche nei riguardi del problema religioso dipendono sostanzialmente dal concetto di R. che le teorie stesse adottano. In sintesi si possono identificare le seguenti accezioni: a) la R. è un fenomeno tipico degli stadi primitivi dello sviluppo dell’umanità (Comte, Spencer, Frazer, Tylor e molti antropologi culturali); b) la R. è un comportamento tipico degli stadi arcaici dello sviluppo psichico delle singole personalità (Feuerbach, Freud); c) la R. è un’ideologia utilizzata per esercitare il dominio di una classe sulle altre (Marx); d) la R. è una risposta​​ funzionale​​ al bisogno di integrazione psichica e sociale, cioè di unità, senso e ordine; e) la R. è l’istituzione universale capace di influenzare, mediante l’etica che essa esprime, l’ordine economico, sociale e politico (Weber); f) la R. è esperienza universale e collettiva di un ordine “sacro” riconosciuto come preesistente all’uomo (R. Otto); g) la R. è la capacità di simbolizzazione, cioè di trascendenza e di sacralizzazione delle esperienze umane individuali e collettive (Durkheim,​​ Luckmann);​​ h) la R. è adesione a una verità rivelata che produce comportamenti corrispondenti nei diversi ambiti di vita (Le Brasi. Il ricorso a queste e a molte altre definizioni di R. rivela i rapporti necessari che esistono tra SdR e altre discipline quali la teologia, la filosofia, la storia, la psicologia, ecc., e che ne definiscono lo statuto epistemologico. Secondo le varie premesse teoretiche adottate, la SdR si colloca su due posizioni polarizzate: o come approccio che pretende di dire la verità sulla R., o come approccio parziale, sostanzialmente fenomenologico e descrittivo-interpretativo, delle forme storicamente e socialmente conosciute di R. Per coloro che derivano la verità della R. da una fondamentazione filosofico-teologica, la pretesa totalizzante della SdR viene declassata a puro riduzionismo e viene accettato solamente l’altro approccio, che del resto è considerato importante e insostituibile, per una comprensione multilaterale dei fenomeni religiosi. La C. infine non può ignorare che le diverse premesse teoretiche assunte dalla SdR fanno ormai parte della cultura della società secolarizzata e sono utilizzate largamente come strumenti di critica della R.

2.​​ Gli sviluppi teoretici della SdR.​​ Lo sviluppo teoretico della SdR si svolge attorno a due grandi gruppi di problemi tra di loro complementari.

Il​​ primo tema​​ si può formulare come​​ analisi delle funzioni integrative della R.​​ L’elaborazione di questa teoria generale parte dal presupposto che l’esperienza religiosa è sostanzialmente un’identificazione dei valori a cui l’uomo, individualmente o collettivamente, attribuisce una particolare importanza per il mantenimento della propria identità. CoÉocati in una sfera altamente simbolica e garantiti dal carattere di sacralità, tali valori offrono il senso fondamentale dell’esistenza (contro ogni rischio di cedimento ad avvenimenti irrazionali come la morte, la malattia, la catastrofe, l’insuccesso); conferiscono unità funzionale allo psichismo individuale e alle forme collettive di vita sociale; assicurano la sopravvivenza e l’efficienza del gruppo umano che tali valori esprime.

Questa concezione funzionalistica della R. è utilizzata sia da chi considera la religione come stadio transitorio dello sviluppo dell’umanità (tutta la tradizione positivistica), sia da chi la ritiene una componente essenziale dell’equilibrio sociale anche in società avanzate (Durkheim, il funzionalismo,​​ Luckmann).​​ In questa prospettiva la R. è vista come fattore di coesione, ordine, legittimazione della società, in altre parole le si riconosce un ruolo di conservazione.

Si può considerare sostanzialmente funzionalista anche la teoria critica della R. assunta dalla tradizione marxista; la R., in quanto ideologia delle classi dominanti in una società ingiusta, e oppio dei popoli oppressi, non è che un fattore di perpetuazione dell’alienazione collettiva e di legittimazione dell’ordine disumano costituito; resta per tanto secondaria la funzione di “protesta” e di “denuncia” espressa indirettamente dall’esperienza religiosa dei popoli oppressi.

Un​​ secondo tema​​ della SdR riguarda la funzione della R. come​​ fattore di differenziazione,​​ stimolazione, cambiamento dei sistemi sociali. Il presupposto di questa elaborazione teorica è la stretta connessione esistente tra contenuto valoriale di un’esperienza religiosa, il suo tradursi in un’etica coerente, il diffondersi pervasivo dell’etica nell’azione e nei sistemi sociali che ne rimangono necessariamente influenzati. Secondo M. Weber l’esempio più evidente di questa teoria si ha nella connessione tra il protestantesimo calvinista e le trasformazioni economico-sociali-politiche che vanno sotto il nome di capitalismo. In questo quadro teorico trova la sua collocazione la distinzione tra forme di R. che favoriscono lo sviluppo e la modernizzazione della società (in particolare il cristianesimo nelle sue varie differenziazioni confessionali) e forme che vi sono estranee (in genere le grandi R. orientali).

3.​​ I​​ grandi temi della SdR.​​ I modi particolari di definire la R. e di risolvere gli interrogativi teoretici che la riguardano influenzano direttamente l’approccio che la SdR ha elaborato nei riguardi di alcuni grandi temi della cultura contemporanea, in particolare quello della secolarizzazione. Sinteticamente essi possono essere così riassunti: 1) la secolarizzazione è un​​ non problema-,​​ essa è semplicemente impossibile perché la R. svolge una funzione universale di conferimento di senso (Durkheim e il funzionalismo) e anche perché è sempre in azione nell’uomo un processo individuale e collettivo di significazione trascendente della realtà (Luckmann); 2) la secolarizzazione è solo una​​ regressione​​ dalle forme storiche di R. verso forme più astratte ed essenziali di esperienza religiosa da cui vengono nuove forme di incarnazione storica di R. (M. Scheler, Berger, la corrente fenomenologica); 3) la secolarizzazione è un processo di​​ autonomizzazione e​​ di​​ marginalizzazione​​ nel privato dell’Istituzione ecclesiastica rispetto al sistema sociale globale per effetto di una crescente razionalizzazione e differenziazione del sistema stesso (funzionalismo, Max Weber); 4) la secolarizzazione è​​ scomparsa​​ della R. sotto i colpi della razionalità scientifico-tecnologica che ne rivela il carattere residuale (evoluzionismo positivista) o il carattere di nevrosi collettiva, controllo repressivo, comportamento infantile dell’umanità (Freud, Reik); 5) la secolarizzazione è disvelamento necessario dei​​ rapporti di dominio​​ di cui la R. è legittimazione e perciò emarginazione progressiva dell’esperienza religiosa come pericolosa patologia sociale (marxismo ortodosso); 6) la secolarizzazione è solo​​ purificazione​​ delle forme arcaiche o involute della R. e riemergenza delle sue forme autentiche (Le Bras); 7) la secolarizzazione è una​​ scomparsa​​ “secca” della R. in quanto tale e non solo una crisi della pratica o della “religione di chiesa” (Acquaviva). In questo quadro si afferma come problema centrale della SdR contemporanea quello della definizione dei rapporti tra R. e società industriale e postindustriale nei diversi sistemi economico-politici; in altri termini, il problema del futuro della R. nel mondo in continua trasformazione, problema a cui vengono date risposte diversificate, sulla base delle posizioni descritte.

4.​​ Le istituzioni religiose al centro delle analisi della SdR.​​ Oltre ai grandi temi concernenti il rapporto globale tra R. e società la SdR ha dedicato molti studi all’approfondimento dei processi interni alle singole forme storiche di R., in particolare ai processi di​​ istituzionalizzazione dell'esperienza religiosa.​​ Per istituzionalizzazione si può intendere “un processo attraverso cui le funzioni, le relazioni e i valori sociali si cristallizzano, formalizzano e stabilizzano con ritmo graduale, in modo da produrre tra i membri di gruppi organizzati una condotta relativamente uniforme” (Moberg). In particolare ogni esperienza religiosa registra una progressiva istituzionalizzazione della sua​​ struttura​​ (relazioni tra persone) e della sua​​ cultura​​ (credenze, riti, comportamenti connessi a credenze e riti).

L’istituzionalizzazione della struttura religiosa​​ è stata ed è oggetto di molte riflessioni sociologiche e storiche, soprattutto nell’ambito delle diverse confessioni cristiane. In dettaglio si possono identificare i seguenti temi di ricerca e dibattito: 1) Il passaggio da un’esperienza religiosa primitiva caratterizzata dal carisma del fondatore e vissuta in un contesto comunitario a un’esperienza garantita dai responsabili “per ufficio”, nel contesto di un’organizzazione societaria, complessa e differenziata; in questa linea vengono studiati i temi della distribuzione e della legittimazione del potere ecclesiastico, della stratificazione sociale all’interno delle istituzioni religiose, dei rapporti di confronto/conflitto tra diverse articolazioni istituzionali della R., dei diversi tipi di persone religiose (profeti, asceti, mistici, sacerdoti, laici, ecc.) e dei loro ruoli/funzioni, delle sette e delle nuove R. Complessivamente oggi si tende a interpretare la storia delle strutture religiose​​ in​​ modo non lineare-evoluzionistico, ma in modo dialettico, cioè come storia di forme variamente presenti nel tempo e variamente interagenti tra di loro. 2) Il rapporto tra strutture religiose e strutture profane. Sotto questo profilo vengono analizzati gli influssi che la società ha esercitato sulla storia delle istituzioni religiose, proiettando su di esse i propri processi di sviluppo, i propri modelli di organizzazione, le proprie logiche di potere, ecc.; e analogamente si studiano le modalità di accettazione più o meno critica di tali influssi da parte della struttura ecclesiastica. In questo contesto risulta rilevante l’approfondimento del grado di profanizzazione delle strutture religiose, cioè degli effetti di mondanizzazione e di compromissione rispetto ai valori dell’esperienza religiosa originale che il confronto con la società può avere prodotto.

Le tematiche concernenti​​ l’istituzionalizzazione della struttura religiosa​​ sono al centro dei dibattiti che si accendono nelle diverse Chiese, soprattutto nei periodi di riforma e di aggiornamento, come ad esempio nella fase conciliare e postconciliare della Chiesa cattolica; e per questo motivo interessano direttamente la C.

5.​​ La formazione e la trasmissione della cultura religiosa.​​ In parallelo alla istituzionalizzazione della struttura la SdR studia i processi di istituzionalizzazione della corrispondente cultura.

Un primo campo di indagine è offerto dalla trasformazione delle credenze. In questo contesto si parla di passaggio “dal mito al logo”, cioè di un tentativo di progressiva comprensione e sistematizzazione razionale dell’originale messaggio religioso. Molti problemi si presentano a questo riguardo: 1) il problema del​​ controllo sul processo,​​ cioè il problema dell’ortodossia (chi la deve garantire e qual è il suo rapporto con le diverse formulazioni teologiche della dottrina, qual è la sua funzione sociale e politica, come si connette al potere, ecc.); 2) il problema della​​ scelta degli strumenti​​ ermeneutici, cioè delle premesse culturali e degli apparati culturali utili alla comprensione del messaggio religioso (come dimostra il dibattito sull’utilizzo della filosofia greca in passato, o, oggigiorno, del marxismo); 3) il problema del​​ rapporto tra fede e cultura,​​ cioè tra la formulazione della verità religiosa e l’insieme dei valori legittimati da una determinata società; tale rapporto può infatti oscillare tra la piena convergenza/consonanza/integrazione e il conflitto aperto, determinando situazioni diverse di rapporto tra società ecclesiale e società civile.

Un secondo campo di studio è dato dal processo di istituzionalizzazione dell’esperienza religiosa in termini di passaggio “dal mito al rito”, cioè di formazione di un culto. Analogamente ai problemi già emersi a proposito delle credenze, si pongono qui interrogativi riguardanti: 1) la garanzia dell’efficacia evocativo-espressiva dei simboli utilizzati nell’esperienza cultuale e della loro coerenza rispetto ai contenuti della credenza; si tratta di un’esigenza di ortodossia nei riguardi di una produzione soggettiva di simboli religiosi praticamente illimitata; 2) il collegamento tra pratica religiosa e sentimento di appartenenza all’istituzione, dal momento che la partecipazione al culto è in genere un indicatore della fedeltà istituzionale più che della qualità della fede religiosa; 3) il rapporto con il quadro simbolico più vasto della società civile che evolve per leggi proprie e nei cui riguardi il culto religioso istituzionalizzato può trovarsi in situazione di estraneità.

Un terzo settore riguarda l’istituzionalizzazione dei modelli di comportamento profani influenzati dalla credenza e dai riti religiosi. L’esperienza religiosa tende infatti a diventare cultura anche nel senso che tende a creare un “sistema di significato” per la vita che si coestende a tutti gli aspetti del comportamento umano comunemente ritenuti profani. In dettaglio, questo sistema di significato assume una dimensione culturale ed etica che investe i campi del comportamento familiare ed educativo, sociale, economico, politico, ecc., sollevando molti problemi teorici e pratici che sono oggetto di studio da parte della SdR. In particolare essa analizza: 1) il rapporto tra questa cultura religiosa e la cultura globale di una determinata società (in termini di integrazione, distinzione o contrapposizione subculturale e/o controculturale); 2) il grado di coerenza tra questa cultura e l’adesione al mito e al rito religioso; 3) le modalità della sua trasmissione (→ socializzazione).

Tutto il settore dell’analisi dei rapporti tra forme della cultura religiosa e forme di vita sociale (religiosa e civile) è oggi in notevole sviluppo; se ne interessa soprattutto la sociologia della conoscenza, cioè quel ramo della sociologia che studia i condizionamenti obiettivi (economici, politici, sociali, materiali, ecc.) delle diverse produzioni del pensiero e dell’azione (valori, ideologie, modelli di comportamento, ecc.).

6.​​ SdR e catechesi.​​ Nel mondo cattolico lo sviluppo della SdR si è per lungo tempo limitato alle ricerche sulla pratica religiosa e a studi sul problema della secolarizzazione (in termini prevalenti di scristianizzazione). Più recentemente si sono avuti studi teorici e ricerche empiriche concernenti soprattutto il rapporto​​ società-cattolicesimo,​​ pur senza arrivare a nuove elaborazioni teoretiche e anche tematiche specifiche legate ai processi di​​ istituzionalizzazione delle strutture​​ (analisi sul potere ecclesiastico, sull’associazionismo cattolico, ecc.). Il rischio di sociologismo, sempre insito in analisi di questo tipo, ha più volte prodotto nel mondo cattolico un’ingiustificata diffidenza verso l’approccio sociologico al fenomeno religioso.

In realtà, gli apporti della SdR sembrano rilevanti in diversi settori della C.: 1) a livello di​​ insegnamento scolastico della religione,​​ il discorso sociologico offre contributi insostituibili di analisi critico-comparata delle diverse forme istituzionalizzate di religione; 2) a livello di C. finalizzata esplicitamente alla iniziazione e formazione cristiana, la SdR contribuisce alla​​ conoscenza del soggetto catechizzato​​ (attraverso l’analisi dei processi di socializzazione),​​ del quadro istituzionale​​ (attraverso l’approfondimento delle dinamiche intraecclesiali e dei rapporti Chiesa-società),​​ del contenuto da trasmettere​​ (attraverso lo studio dei processi di istituzionalizzazione della cultura religiosa),​​ delle metodologie da utilizzare​​ (attraverso l’informazione concernente le sensibilità, i valori, gli stili di vita prevalenti nei contesti in cui si opera).

Più in generale, la SdR contribuisce ad una conoscenza “razionale” del fenomeno religioso che può essere utilmente integrata con la visione che di esso offre la fede.

Bibliografia

S. S. Acquaviva – G. Guizzardi,​​ La secolarizzazione,​​ Bologna, Il Mulino, 1973; P. Berger,​​ Il brusio degli angeli,​​ ivi, 1971; P. Bourdieu,​​ Genèse et structure du cbamp religieux,​​ in “Revue​​ Française​​ de Sociologie” 18 (1971) 3, 295-334; E. Durkheim,​​ Le forme elementari della vita religiosa,​​ Milano, Ed. Comunità, 19712; T. Luckmann,​​ La religione invisibile,​​ Bologna, Il Mulino, 1969; G. Milanesi,​​ Sociologia della religione,​​ Leumann-Torino, LDC, 1973; N. Smart,​​ The Science of Religion and the Sociology of Knowledge,​​ Princeton, Univ. Press, 1977; W. Stark,​​ The Sociology of Religion,​​ 5 vol., London, Routledge & Kegan Paul, 1966ss; J.-P. Strommen,​​ Secularisation​​ and Religious Politiques,​​ La Haye, Mouton, 1982; M. Weber,​​ Economia e Società,​​ Milano, Ed. Comunità, 19682; D. Zadra (ed.),​​ Sociologia della religione,​​ Milano, Hoepli, 1969; I. I. Zaretski – M. P. Leone (ed.),​​ Religious Mouvements in​​ Contemporary​​ America,​​ Princeton, Univ. Press, 1974.

Giancarlo Milanesi

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SOCIOLOGIA DELLA RELIGIONE

La s.d.r. può essere definita quella branca della s. il cui scopo specifico è costituito dallo studio scientifico delle relazioni esistenti tra​​ ​​ religione e​​ ​​ società.

1. La s.d.r. ha come oggetto di studio l’analisi dei fenomeni religiosi. Il punto di partenza della sua nascita è dato dallo sforzo di individuare il suo oggetto e i suoi metodi. In proposito una particolare importanza va riconosciuta al modo di considerare il rapporto tra la società e la religione. Si potrebbe pertanto osservare come il modo di intendere tale relazione sia in qualche misura paradigmatico tanto dell’evoluzione della riflessione sociologica quanto, a maggior ragione, di quella della s.d.r., e dei rapporti tra questi due campi di studio. Hervé Carrier (1967, 11) ci ricorda come la s. sia rimasta a lungo estranea al mondo cattolico e guardata con molto sospetto e serie riserve. Questo atteggiamento negativo era motivato dai presupposti positivisti e scientisti nell’era comtiana, spenceriana e più tardi durkheimiana. Oltre a questa estraneità dei cattolici, molti autori sottolineano l’esistenza di un vuoto di studi e ricerche di s.d.r. dopo il periodo dei classici della s. (​​ Durkheim e​​ ​​ Weber) che invece la considerano una componente essenziale della loro riflessione.

2. Una volta definita la collocazione della s.d.r. all’interno della s. e individuato il suo scopo, si può rilevare come il problema dell’oggetto di studio accompagna tutte le fasi del suo sviluppo e possa essere quindi ritenuto a tutti gli effetti un problema in qualche misura sempre aperto, forse proprio per la sua intrinseca complessità e problematicità, che ci dice quanto sia necessario andare oltre la semplice e sintetica definizione data sopra. Tentativi sistematici di individuazione delle aree più importanti sono stati compiuti a più riprese. R. Bellah indica quattro principali tematiche: a) il sistema simbolico (credenze e valori), che riguarda i legami tra credenze e sistemi simbolici; b) l’azione religiosa (pratiche religiose); c) l’organizzazione (aspetto comunitario) che è un elemento specifico della struttura sociale religiosa e consiste nel funzionamento dei gruppi che costituiscono il sistema religioso come la chiesa, le denominazioni, le sette, il culto, la chiesa locale, le parrocchie, le comunità religiose; d) le implicazioni sociali (aspetto etico) che comprendono l’influenza della religione sul comportamento e sulla personalità dell’uomo o dei credenti.

3. La s.d.r., come qualsiasi altro settore specialistico della s., non può quindi prescindere dal legame con la teoria sociologica generale, pena il venir meno di un apporto concettuale e metodologico fondamentale. È per questo motivo che essa segue anche in larga misura le vicende della s. generale: per es., il prevalere, all’interno di questa di un determinato approccio teorico o la contrapposizione tra posizioni diverse, a loro volta riferite a​​ ​​ ideologie contrastanti (marxismo, liberalismo, scientismo, ecc.), coinvolge direttamente anche la s.d.r., in particolare la concezione che si sviluppa riguardo all’impostazione teorica del concetto di religione. Questa chiara collocazione della s.d.r. all’interno della s. generale non significa tuttavia un rapporto di mera dipendenza di quella da questa. Piuttosto, nel tempo è maturata la capacità della prima di contribuire allo sviluppo della seconda, anche attraverso l’apporto delle sempre più numerose ricerche empiriche, che hanno consentito di vagliare molte ipotesi generali, di confermarle o di trasformarle. Si può pertanto sostenere che diventa sempre più evidente come tra s. generale e s.d.r. esista un rapporto di tipo circolare. La prima fornisce alla seconda schemi concettuali di analisi, anche in termini di ipotesi da verificare, mentre la seconda offre alla prima elementi per la chiarificazione o la riformulazione di concetti e teorie e dello stesso quadro di riferimento. La s.d.r. ha dovuto cercare fin dalle sue origini, come ogni scienza, di chiarire il proprio oggetto, precisare il proprio linguaggio, scegliere i metodi d’indagine e spiegare la propria utilità sociale. In tutte le fasi di questo processo di definizione del proprio statuto epistemologico, essa è stata frenata da uno sviluppo storico ambiguo, per cui, da un lato, è stata oggetto di elaborazioni complesse nella teoria sociologica generale (Durkheim e Weber) e, dall’altro, ha svolto un ruolo di supporto alla scienza o alle politiche sociali, o si è limitata a cercare di comprendere i problemi della società. Inoltre, la s.d.r. ha trovato difficoltà anche a motivo della qualità essenzialmente dinamica dei fenomeni di cui si occupa, che non è possibile catalogare, descrivere ed interpretare entro i confini disciplinari di una sola scienza. I fatti religiosi sono tipicamente interdisciplinari (​​ interdisciplinarità) e assumono spesso le caratteristiche di processi di confine che coinvolgono diversi sottosistemi e implicano tutte le componenti del rapporto tra persona e società. Questo spiega sia l’interesse di filosofi, storici, archeologi, teologi, sia le oscillazioni dei sociologi verso scienze con cui condividono largamente l’oggetto di studio.

Bibliografia

Durkheim E.,​​ Le forme elementari della vita religiosa,​​ Milano, Edizioni di Comunità, 1963; Carrier H. - E. Pin,​​ Saggi di s. religiosa,​​ Roma, AVE, 1967; Bellah R.,​​ Beyond belief.​​ Essays on religion in a post-traditional world,​​ New York, Evaston, London, Harper and Row, 1970; Cipriani R.,​​ La religiosità diffusa.​​ Teoria e prassi,​​ Roma, Borla, 1988;​​ Stolz F.,​​ Grundzüge der Religionswissenschaft,​​ Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht,​​ 1988; Acquaviva S. - E. Pace,​​ S.​​ delle religioni. Problemi e prospettive,​​ Roma, NIS, 1992; Berger P.,​​ A far glory.​​ The quest for faith in an age of credulity,​​ New York, The Free Press, 1992; Burgalassi S.,​​ Passato e futuro.​​ Religiosità italiana e analisi sociologica,​​ Pisa, ETS, 1992; Mette N. - H. Steinkamp,​​ Scienze sociali e teologia pratica,​​ Brescia, Queriniana, 1993; Simmel G.,​​ Saggi di s.d.r.,​​ Roma, Borla, 1993; Nesti A.,​​ La religione implicita. Sociologi e teologi a confronto,​​ Bologna, Dehoniane, 1994; Romanelli M. M.,​​ Il fenomeno religioso. Manuale di s.d.r., Ibid., 2002; Bajzek J. - G. Milanesi,​​ S.d.r, Leumann (TO), Elle Di Ci, 2006.

J. Bajzek

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SOCIOLOGIA DELLA RELIGIONE

SOCIOMETRIA

 

SOCIOMETRIA

Fondata da J. L. Moreno, la s. è la parte della​​ ​​ psicologia sociale che si occupa dello studio e della misura della struttura informale e dei fenomeni socio-affettivi presenti nei gruppi primari.

1. Lo schema classico di una ricerca sociometrica prevede quattro momenti: l’osservazione diretta dei comportamenti o il test sociometrico, la preparazione della matrice sociometrica, l’elaborazione del sociogramma e la rappresentazione dei sociogrammi individuali.

2. Il​​ test sociometrico​​ consiste nell’invitare ciascun componente del gruppo ad esprimersi in termini di «scelta» o di «rifiuto» nei confronti degli altri componenti in relazione ad una certa attività, la cui natura varia ovviamente a seconda del tipo di gruppo. L’insieme delle risposte viene riportato nella​​ matrice sociometrica,​​ un grafico reticolare a due entrate. I risultati del test sociometrico vengono rappresentati graficamente per mezzo del​​ sociogramma,​​ che originariamente, era costruito in termini di figure geometriche collegate da frecce direzionali. Gli uomini vengono rappresentati per mezzo di un triangolo, le donne per mezzo di un cerchio e le frecce che uniscono questi triangoli e questi cerchi, indicano le scelte e i rifiuti. In questo modo viene visualizzata la struttura informale del gruppo: le relazioni tra persona e persona, le simpatie e le antipatie reciproche, le attrazioni e repulsioni, la coesione del gruppo e l’esistenza di sottogruppi, la presenza di leader e di emarginati.

3. Oggi i risultati del test sociometrico vengono rappresentati per mezzo di tecniche statistiche sofisticate, come, ad esempio, l’analisi fattoriale. Le informazioni raccolte attraverso il test sociometrico consentono di elaborare anche un​​ sociogramma individuale,​​ mediante il quale vengono rappresentate la «posizione» di ciascun soggetto all’interno del gruppo, le sue relazioni nei riguardi degli altri componenti e le relazioni degli altri nei suoi confronti. A partire dai risultati offerti dal test sociometrico è possibile progettare interventi psicologici volti a facilitare la coesione di un gruppo e la sua capacità di realizzare i compiti affidatigli.

Bibliografia

Moreno J. L.,​​ Principi di s.,​​ di psicoterapia di gruppo e sociodramma,​​ Milano, Etas Kompass, 1964; Schuetzenberger A. A.,​​ La s.,​​ Roma, Armando, 1975; Mattioli F.,​​ S.,​​ Roma, Euroma La Goliardica, 2003.

E. Gianoli​​ 

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SOCIOMETRIA

SOCRATE

​​ 

SOCRATE

Vissuto ad Atene tra il 470-469 e il 399 a.C., filosofo greco.

1. S., maestro di​​ ​​ Platone, è l’iniziatore di quel fecondo periodo della speculazione greca caratterizzato dal pensiero dello stesso Platone e di​​ ​​ Aristotele. Si contrappone ai​​ ​​ Sofisti sia sul terreno filosofico, in quanto ricercatore della​​ verità​​ (contro l’agnosticismo sofista e il conseguente ripiegamento sull’opinione),​​ sia, quindi, su quello pedagogico. Non ha lasciato nessuno scritto, per cui la documentazione su di lui, giuntaci da Aristofane, da Senofonte e da Platone, soffre l’incertezza dovuta all’originalità delle fonti.

2. Come educatore continua nel solco dell’idealità antica della​​ ​​ paideia​​ greca, i cui valori sono però criticamente ripensati e riconquistati in base ai principi ispiratori del pensiero socratico: in particolare la perseverante​​ ricerca della verità​​ e il fondamentale «conosci te stesso»​​ (il motto scritto sul tempio di Delfi), che segna quella consapevolezza di sé, che è base di partenza per la conquista della virtù (santi,​​ coraggio,​​ giustizia,​​ saggezza)​​ sia nel suo contenuto intellettuale come conoscenza del vero, che nella sua dimensione pratico-operativa. L’areté​​ greca acquista in S. una valenza di virtù squisitamente etica, che diviene lo scopo primo della sua azione pedagogica. Egli attribuisce alla conoscenza il primato anche in ordine all’agire morale, per cui conoscenza e virtù sono inscindibilmente collegate (intellettualismo etico).​​ Il «conosci te stesso»​​ porta anche a quella interiorizzazione della conquista del sapere e del processo formativo che, rispondendo in modo diverso dai Sofisti al problema della insegnabilità dell’areté,​​ fa di S. più un​​ suscitatore​​ che un​​ comunicatore​​ di conoscenze e lo contrappone, con la propria confessione di​​ non sapere nulla,​​ all’esibizionismo dei maestri sofisti. Tale compito di guida alla personale scoperta del sapere e della virtù è da S. esercitato con il metodo del​​ dialogo,​​ da lui stesso chiamato​​ maieutico,​​ in analogia all’opera della levatrice che assiste e aiuta il parto: quasi un aiutare il discepolo a partorire da sé il vero, cioè a giungere consapevolmente a scegliere i valori. Dai valori personali (conosci te stesso) la ricerca si allarga a quelli degli altri, della casa, della città; giungendo indirettamente a quella​​ dimensione politica​​ che i Sofisti mettono come scopo diretto della loro azione pedagogica.

3. Grande è l’influsso di S. sulla successiva corrente del pensiero filosofico, soprattutto attraverso il suo discepolo Platone. In campo pedagogico restano emblematici il richiamo all’interiorità, il primato dell’etica, e la valorizzazione del metodo maieutico, che precorre le istanze pedagogiche attivistiche via via emergenti nella storia della pedagogia.

Bibliografia

Giannantoni G. (Ed.),​​ S. Tutte le testimonianze da Aristofane a Senofonte ai Padri cristiani,​​ Bari, Laterza, 1986; Adorno F.,​​ S.,​​ Ibid., 1970; Rigobello A. (Ed.),​​ Il messaggio di S. Antologia,​​ Brescia, La Scuola, 1974; Jaeger W.,​​ Paideia. La formazione dell’uomo greco,​​ Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1991; Garin E.,​​ A scuola da S.,​​ Ibid., 1993;​​ Corzo Toral J. L.,​​ Actualidad de los orígenes clásicos de la educación: un diálogo socrático al empezar curso y siglo, Madrid, Universidad Pontificia de Salamanca en Madrid,​​ 2001.

M. Simoncelli

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SOCRATE

SOFFERENZA

SOFFERENZA

Sandro Spinsanti

 

1. Condizione giovanile e sofferenza

2. Lettura teologica della sofferenza

2.1. La spiegazione «classica»

2.2. Approfondimenti attuali dell’approccio teologico-etico

2.3. L’approccio biblico

2.3.1. Sofferenza-impurità

2.3.2. Sofferenza-peccato

2.3.3. Sofferenza-soteria

3. Per una pedagogia della sofferenza

3.1. Le situazioni di apprendimento

3.1.1. Il cammino della salute

3.1.2. Le separazioni

3.2. La sofferenza, educazione all’umano

 

1.​​ Condizione giovanile e sofferenza

Non basta il dolore perché ci sia sofferenza. Il dolore fisico costituisce una sofferenza solo quando è integrato a una cultura. Questa fornisce modelli per interpretarlo (religiosi o filosofici; teorie sulla sua origine, sulla sua finalità e sul suo statuto morale), modalità etiche di affrontarlo (virtù o atteggiamenti da coltivare; simboli, miti e ideali: il Cristo in croce, la liberazione buddista o l’apatia stoica), sussidi per controllarlo (dalla morfina alle tecniche ipnotiche, dallo psicofarmaco alla mano sulla fronte...). Qualsiasi discorso che voglia tener conto della situazione attuale deve partire dal presupposto che la civiltà tecnologica contemporanea è dominata dall’algofobia.

Nella nostra società domina il mito della libertà dalla sofferenza. Al dolore non viene attribuito alcun significato positivo: è semplicemente un assurdo che deve essere eliminato. La soppressione del dolore è diventata un’impresa esclusivamente medica. Filosofia e religione sono state spossessate dalla medicina del loro rapporto privilegiato con la sofferenza umana. Lottare contro il dolore è una priorità assoluta, indipendente dalla comprensione di esso: nessuna riflessione sul fenomeno, ma solo ricerca e messa in opera di mezzi per farlo retrocedere. Questo compito, attribuito per definizione al medico, si è esteso progressivamente anche alle forme di sofferenza non legate al dolore fisico. Anche la sofferenza esistenziale — che accompagna come un’ombra tutto il percorso della vita umana — è stata patologizzata e medicalizzata. Il consumo crescente di psicofarmaci, che agiscono sull’umore e modificano gli stati d’animo, illustra drammaticamente l’avanzata del fronte dell’algofobia. All’interno della nostra società la condizione giovanile si caratterizza per certi tratti peculiari nei confronti della sofferenza. Una duplice azione sembra tener lontani i giovani dalla sofferenza. Da una parte c’è l’esplosione naturale di vitalità libidica, propria degli anni dello sviluppo, rafforzata dal narcisismo spontaneo. Una simile costellazione psicologica fa ritenere al giovane di essere al riparo dalla sofferenza: questa può toccare agli altri, non a lui! (È lo stesso meccanismo che rende così difficile convincere molti giovani di oggi a prendere le misure profilattiche che impediscono di contagiarsi con il virus dell’AIDS: il narcisismo li fa ritenere immuni). Dall’esterno, invece, agisce sul giovane l’immaginario sociale. Questo si serve del mito della giovinezza come condizione di completo benessere, per abbinarlo a prodotti da vendere. Il giovane presentato dalla mitologia della società industriale avanzata non è mai minacciato nella salute corporea, handicappato, insicuro, afflitto; deve solo godere i beni, abbondanti e inesauribili, che lo circondano.

L’azione congiunta del meccanismo interiore e dell’immaginario sociale non costituisce, in realtà, uno scudo protettivo dalla sofferenza; bensì una congiura ai danni del giovane. La presunta invulnerabilità si tramuta in una maggiore fragilità. Quando eventi particolari e inevitabili lo mettono in contatto con la sofferenza, ciò acquista le dimensioni di un cataclisma interiore. Il frequente ricorso a stupefacenti o a droghe che alterano momentaneamente lo stato della coscienza dipende spesso dalla volontà di evitare il contatto con la sofferenza, che il giovane non è preparato ad affrontare.

Un altro pesante prezzo che si paga all’algofobia generale, rafforzata per ciò che concerne la condizione giovanile, è la riduzione della capacità di amore. Il trattamento repressivo della sofferenza rende apatici al dolore altrui. Dal momento che la capacità di soffrire e quella di amare vanno insieme, chi non sa affrontare la sofferenza non sa neppure amare. Su questa tela di fondo generale costituita dalla condizione giovanile nella società contemporanea, consideriamo l’azione pastorale come finalizzata a un duplice obiettivo: aiutare il giovane a leggere un significato nella sofferenza e accompagnarlo pedagogicamente ad assumere nei suoi confronti un atteggiamento che favorisca la crescita etica e spirituale.

 

2.​​ Lettura teologica della sofferenza

La sofferenza provoca scandalo. Qualsiasi sofferenza: non solo quelle estreme ed eccezionali (le ecatombi della guerra, la tortura nei regimi dittatoriali o i bambini che muoiono di fame nei paesi sottosviluppati), ma anche quelle che subisce il Giobbe «uomo normale», nella persona di colui che si sente prigioniero di relazioni familiari infelici, del giovane che non trova lavoro o di chi è minacciato nella salute.

Il dolore viene sentito come un’intrusione indebita nel proprio progetto di vita e suscita una protesta. In colui che non è murato nel proprio egocentrismo, tutte le varie forme di partecipazione al dolore altrui scatenano lo stesso scandalo. La facoltà umana di provare in sé stesso il dolore degli altri è l’empatia. Questa può avere una dimensione così ampia da includere non solo gli esseri umani, ma anche gli animali. La sofferenza — per definizione «innocente» — di un animale può essere per un animo sensibile la via di accesso alle questioni fondamentali legate alla presenza del male nel mondo. Non di rado lo è, proprio tra i giovani, forse poco esperti di dolore personale, ma dotati di capacità empatiche più universali.

Per qualunque via si affacci alla coscienza, lo scandalo della sofferenza mette in movimento due tipi di questioni: quella metafisica (qual è la causa della sofferenza? In che rapporto stanno dolore e colpa?) e quella etica (quale atteggiamento bisogna assumere di fronte alla sofferenza?). Buona parte del pensiero filosofico e religioso, tanto in Oriente quanto in Occidente, costituisce una risposta a tali domande fondamentali.

Le risposte teologiche sistematiche rischiano di essere deludenti quanto le diverse teodicee: le une e le altre non sono in grado di risolvere l’enigma della sofferenza, così come si pone a livello esistenziale. Allo scandalo che la sofferenza suscita di per sé, può aggiungersi quello costituito da risposte che si presentano con la pretesa della certezza, mentre invece trasmettono, come tutte le ideologie, solo un sapere insoddisfacente, destinato più a togliere di mezzo le domande, che a fornire risposte utilizzabili nella vita. Per coloro che si affacciano a questi problemi nell’ambito della civiltà occidentale, la risposta che ha più probabilità di provocare scandalo è la spiegazione «classica» del senso della sofferenza, quella cioè sistematizzata nella teologia di sant’Agostino e di san Tommaso d’Aquino.

 

2.1. La spiegazione «classica»

Secondo tale teologia — o, più esattamente, secondo la versione «vulgata» della medesima — la sofferenza è punizione. Attraverso il male morale del peccato originale, si sono riversati sull’umanità i mali fisici: il dolore, la malattia e la morte (cf Tommaso d’Aquino,​​ De malo,​​ q. 1, a. 4; q. 5, a. 4;​​ S. Th.​​ I-II q. 85, a. 5; Agostino,​​ De libero arbitrio,​​ lib. 1, cap. I;​​ De civitate Dei,​​ lib. XVI, cap. 15). Alla questione dell’ineguale, e spesso ingiusta, distribuzione della sofferenza tra gli uomini, con la conseguenza che i più innocenti soffrono di più, la stessa teologia è solita rispondere che Dio, come medico e pedagogo, usa la sofferenza come medicina per preservare dai peccati futuri, per purificare e accrescere le virtù (Tommaso d’Aquino,​​ De malo,​​ q. 5, a. 4;​​ S. Th.​​ I-II, q. 108, a.4). Poiché la sofferenza è una punizione medicinale, l’uomo deve affrontarla con pazienza e umiltà. Il dolore è per il suo bene. Di più: poiché Dio ha voluto operare la nostra redenzione attraverso la passione e la morte di Gesù, la sofferenza è diventata la via della salvezza voluta da Dio. Come Gesù, il cristiano deve portare la sua croce; in tal modo imita Cristo e percorrendo questo «cammino regale» perviene alla gloria eterna (cf Tommaso da Kempis,​​ Imitazione di Cristo,​​ lib. 2, capp. 11 e 12).

Qualunque sia il valore intrinseco di questo coerente sistema teologico-etico elaborato per rispondere allo scandalo della sofferenza, esso rischia di essere completamente irrilevante per l’uomo d’oggi. In particolare per il giovane. Lungi dal risolvere l’enigma della sofferenza, può costituire uno scandalo supplementare. L’inadeguatezza della risposta teologica classica non dipende da un difetto intrinseco: è la precomprensione antropologica che oggi è diversa, e fa ritenere ingenua e inattendibile la teologia della sofferenza come punizione e medicina. Di conseguenza, sulla proposta etica dell’accettazione rassegnata della sofferenza cade la condanna svalutante di promuovere un «dolorismo» che confina con la morbosità masochistica.

 

2.2. Approfondimenti attuali dell’approccio teologico-etico

Un approccio teologico-etico del problema del dolore che voglia coinvolgere l’uomo contemporaneo deve tener presenti le caratteristiche della nostra cultura. All’analisi classica della sofferenza umana questa ha apportato, infatti, un approfondimento e una duplice direzione: quella sociale e quella relativa ai livelli della coscienza. Siamo diventati più consapevoli della dimensione sociale della sofferenza; anzi, la patologia di origine sociale ha preso il primo posto nella discussione sulle forme della sofferenza e sui rimedi da apportarvi. La distribuzione del potere, i meccanismi di sfruttamento e di emarginazione ci appaiono oggi come le forme maggiori della fenomenologia della sofferenza. Sull’altro versante, dobbiamo alla psicologia del profondo una diversa percezione del coinvolgimento personale nella sofferenza stessa. Accanto al dolore che possiamo classificare «normale», in quanto connesso intrinsecamente e necessariamente con l’esistenza umana, emerge un vasto continente di dolore «nevrotico». Sofferenza smisurata, incapacità di gioire e di creare legami di amore, angosce disperate e aggressioni distruttrici, delusione e scontentezza costituiscono resistenza del nevrotico, in un processo senza fine che si rinforza lungo il cammino. Di tutta questa sofferenza non necessaria è la persona nevrotica stessa, inconsciamente, responsabile. Il nevrotico è il peggior nemico di sé stesso. Anche da questo punto di vista la cultura moderna mira non a una spiegazione astorica che favorisca un’accettazione della sofferenza, bensì a un cambiamento della situazione, mettendo in atto ciò che può eliminare il dolore evitabile.

 

2.3. L’approccio biblico

Il maggior spessore antropologico dell’interrogazione attuale sulla sofferenza è un incentivo a preferire il confronto con l’ampio spettro delle risposte bibliche al problema, piuttosto che un sistema teologico chiuso.

 

2.3.1. Sofferenza-impurità

Nella tradizione ebraico-cristiana troviamo una pluralità di schemi per rispondere in modo teorico e pratico alle sfide della sofferenza. Il più antico, che possiamo collegare con la religiosità di tipo «sacerdotale», è lo schema​​ puro-impuro.​​ Se prendiamo come esemplare la condizione del malato, la risposta è la segregazione dalla comunità, in particolare da quella cultuale (cf Lv 12,2-8) di colui che, in quanto si discosta dalla salute, è portatore di una impurità.

Il modello della sofferenza come un’impurità da evitare è oggi, paradossalmente, più presente nel pensiero laico che in quello religioso. In un processo continuo, infatti, si è progressivamente passati a trattare il dolore come qualcosa da vincere, da evitare, da negare, da disprezzare. La nostra cultura ha elaborato delle tecniche sociali per mascherare il dolore, sottraendolo allo sguardo (istituzioni psichiatriche, cronicari, ospizi, ecc.) e preservando i «puri» — sani, efficienti, integrati — dal contatto con coloro che, in quanto portatori di sofferenza o di handicap, sono considerati «impuri». Questi devono essere tenuti lontani dalla «liturgia» laica della festa riservata ai «normali» (sani, produttivi, felici).

 

2.3.2. Sofferenza-peccato

Nei confronti della sofferenza la prospettiva profetica adotta il linguaggio del «debito»​​ (o peccato): la sofferenza è fatta risalire a una trasgressione del patto di fedeltà a Dio; è interpretata come una conseguenza del cammino fuori dell’alleanza (cf Dt, 28,15-22). Chi è colpito nel corpo o nei beni dalla disgrazia è invitato a una conversione del cuore, a un cambiamento della condotta. Da questo modo di considerare la sofferenza, come legata a una colpa personale, si sono sviluppate, tanto nel giudaismo quanto nel cristianesimo, le forme più pesanti di moralismo. Ed è un atteggiamento di fondo che tende a perseverare nel tempo. Se ne sono avute delle espressioni anche di recente, a proposito dei malati di AIDS, accusati da alcuni ecclesiastici di aver ricevuto da Dio la punizione per la loro condotta peccaminosa. Talvolta il ricorso al modello profetico viene fatto spontaneamente da chi si trova nella sofferenza (per esempio: «Che cosa ho fatto, perché Dio mi punisca così?»).​​ La lettura della sofferenza in chiave di responsabilità morale tende a riaffiorare costantemente, come un archetipo ineliminabile.

 

2.3.3. Sofferenza-«soteria»

Al tempo di Gesù il linguaggio sacerdotale e quello profetico coesistevano. Nelle situazioni concrete in cui è stato chiamato a prendere posizione, Gesù si è differenziato tanto dal legalismo (cf Me 7,1-16), quanto dalla ricerca di una colpa personale dietro ogni manifestazione patologica (il conflitto con una forma estremizzata della prospettiva profetica riveste, nell’episodio del cieco nato, i toni della polemica teologica: cf Gv 9,1-3). L’atteggiamento di Gesù nei confronti della sofferenza incontrata sul suo cammino ha un carattere omogeneo, che possiamo qualificare come «messianico». Non offre una spiegazione di essa, se non mettendola in relazione con il male, che è contrario alla volontà di salvezza che Dio ha per l’uomo. Il vangelo, che egli annuncia con il ministero della parola e con quello della mano taumaturgica, con l’annuncio del perdono e con i gesti della compassione, è una forza che fa vivere. La​​ soteria​​ si manifesta come una risposta alla sofferenza in tutte le sue dimensioni: toglie la colpa, reintegra l’emarginato nella nuova comunità messianica, restituisce la salute, vince la morte.

Che cosa, in concreto, implichi l’assunzione del modello messianico nei confronti dei sofferenti emerge dai tratti a noi noti della comunità cristiana delle origini. I malati, le vedove, i poveri, coloro che sono in lacrime, vengono considerati membri a cui spetta una considerazione particolare; attorno ad essi si mobilita ia comunità dei credenti, che ha ricevuto la​​ soteria.​​ Gli occhi del credente vedono la vera realtà, quale è davanti a Dio, di colui che soffre. E pure là dove la visione degli occhi, anche se illuminati dalla fede, fa difetto, le mani hanno accesso diretto alla realtà della salvezza. Secondo la formulazione di Mt 25,37-40, in colui che soffre c’è Gesù stesso («Signore, quanto ti abbiamo​​ visto​​ malato o prigioniero, e ti abbiamo visitato?... In verità ogni volta che lo avete​​ fatto​​ al più piccolo dei miei fratelli, lo avete fatto a me»). La mano del credente, posta nella sequela messianica, si apre a condividere, secondo le esigenze radicali della comunità fraterna (cf At 2,44-47) e a «sostenere i deboli e gli infermi» (cf 1 Ts 5,14).

Se l’educatore vuole favorire un’interrogazione teologica della sofferenza, si preoccuperà meno di fornire le rigide risposte provenienti da un sistema dottrinale, quanto di promuovere un cammino che dalle reazioni istintive della emarginazione e della colpevolizzazione conduca a un’azione coerente con quella messianica. Invece di coltivare l’illusione di una razionalizzazione della sofferenza, egli mostrerà di non temere il fallimento della ragione teoretica nella spiegazione del male. Ciò permetterà di correggere l'immagine ingenua e illusoria del «buon Dio», lasciando che Dio sia Dio. «La fede guarda in un’altra direzione: l’origine del male non è il suo problema; il suo problema è la fine del male» (P. Ricoeur).

 

3.​​ Per una pedagogia della sofferenza

 

3.1. Le situazioni di apprendimento

Alcune situazioni costituiscono le tappe obbligate dell’incontro personale con la sofferenza. L’attenzione ad esse fornisce all’educatore un accesso diretto ai problemi del giovane e gli permette di aiutarlo a elaborare in modo costruttivo per la sua crescita emotiva e spirituale le sfide che la sofferenza gli propone.

 

3.1.1. Il cammino della salute

Il primo percorso è quello costituito dal cammino della salute. Anche se statisticamente è poco probabile che il giovane abbia problemi maggiore di salute, almeno con la stessa frequenza con cui si presentano nell’età adulta e soprattutto nella vecchiaia, nessuno è completamente protetto dal rischio di incontrare il dolore fisico della malattia, anche in età giovanile. Oltre ai rischi endogeni, i pericoli connessi con certe modalità di vita — sport, motorizzazione, ecc. — si incaricano di aumentare la percentuale di probabilità che il giovane faccia la conoscenza personale dell’handicap, temporaneo o permanente. Qualsiasi minaccia alla salute sarà vissuta in prima istanza come una violenza indebita. Particolarmente quando il male fisico colpisce un giovane, l’atteggiamento di rifiuto della malattia, che è caratteristico della nostra cultura medicalizzata, si tende fino all’estremo. Prende forma una concezione della malattia che la riduce a una «res» che aggredisce l’organismo dall’esterno, sprovvista di significato personale e comprensibile solo nei termini «scientifici», quando cioè è ricondotta a quei cambiamenti che intervengono nelle strutture cellulari dell’organismo e sono esprimibili nel linguaggio delle scienze della natura.

Questo modo di rappresentarsi la malattia è funzionale a un approccio pragmatico e favorisce la lotta a oltranza contro di essa. Tende però a rendere impossibile un approccio «sapienziale», in cui la sofferenza legata al percorso accidentato della salute — sempre esposta a minacce, crisi, ricupero, ulteriori disequilibri, nuovi adattamenti, fino alla definitiva perdita — diventa una parte essenziale della biografia della persona. Solo quando le minacce della salute, da accidentalità indebita e del tutto marginale alla persona, diventano una «crisi» biografica possono essere percepite come un’occasione offerta all’individuo di diventare sé stesso.

Il compito di ricondurre la sofferenza legata alla patologia della salute nella sfera della persona è difficile, in quanto si trova a cozzare contro un’impresa terapeutica, gestita dalla medicina, tutta tesa a rimuovere la sofferenza come un’assurdità insensata, estranea al soggetto. Anche il linguaggio che il malato usa per designare la malattia illustra questo processo di allontanamento del fatto morboso della sfera personale. Nelle lingue che hanno anche il genere neutro questo pronome viene usato per distanziarsi dal fenomeno: il male fisico è «es» in tedesco, «it» in inglese... Ma anche le altre lingue conoscono dei modi che permettono al parlante di sottolineare l’estraneità della malattia da sé stesso. Il linguaggio riduce la malattia a un soggetto agente che intrude nel corpo umano, inteso come luogo di un succedere che confina l’uomo al ruolo di «patiens». L’uomo e la sua malattia rimangono, insomma, due realtà separate e non comunicanti. L’obiettivo educativo che deve prefiggersi la pastorale nelle situazioni di sofferenza legate al cammino della salute è quello di favorire una graduale riappropriazione della malattia da parte del soggetto. Ciò avviene quando la malattia cessa di essere qualcosa che si​​ ha,​​ per diventare qualcosa che si è. A questo punto la personale e attiva partecipazione alla malattia (esistenzialmente: «Io sono la mia malattia», in essa si realizza la mia modalità di essere al mondo) diventa una questione spirituale di prim’ordine. Solo a questa condizione la malattia e la sua evoluzione possono costituire avvenimenti «presso i quali si illumina la questione del senso della vita» (A. Mitscherlich).

L’intervento educativo consiste nel favorire la ricerca di una risposta personale. Lo scoglio è costituito dalle risposte preconfezionate, che spesso si sovrappongono alla domanda e ne impediscono la graduale formulazione. Il provvidenzialismo («Dio li manda questo male per il tuo bene») e il dolorismo (il dolore come «privilegio», come segno di eccellenza spirituale, e varie altre espressioni di mistica della sofferenza) sono i più frequenti tra tali pericoli.

 

3.1.2. Le separazioni

Una seconda situazione di incontro obbligato con la sofferenza sono le separazioni che scandiscono l’evolversi della vita. Possiamo rappresentarci il decorso di un’esistenza come una sequenza di separazioni: dalla separazione dal corpo materno, alla nascita, fino a quella definitiva del proprio corpo, che si realizza con la morte. Tra questi due eventi estremi dobbiamo necessariamente incontrare altre separazioni: quella dei genitori e di questi dai propri figli, nel normale processo di crescita che si conclude con l’autonomia e l’indipendenza; le separazioni dal coniuge, sempre più frequenti in una società che favorisce la mobilità piuttosto che la stabilità dei legami, la spontaneità dei sentimenti piuttosto la responsabilità dei vincoli; la separazione da coloro che ci precedono nella morte. L’esistenza di ogni persona è scandita da una sequenza ininterrotta di separazioni: volute o imposte, fisiologiche o traumatiche, tragiche o salutari. Sempre, tuttavia, tali separazioni sono accompagnate da sofferenza.

Il dolore morale per la perdita dell’oggetto amato è una variabile personale: non tutti lo sentono nelle stesse situazioni e con la stessa intensità. Per alcuni la sofferenza massima è connessa con la morte, per il suo carattere di evento definitivo; per altri con le separazioni da relazioni amorose, nelle quali va distrutta l’identificazione conseguita mediante il rapporto d’amore. Staccarsi da qualcuno o qualcosa fa male: se ciò vale per tutti, la reazione individuale al dolore della separazione, e soprattutto il modo in cui tale sofferenza viene integrata nella propria vita, è diverso da persona a persona.

Oltre alle separazioni occasionali, che possono sopravvenire in ogni età, la giovinezza conosce separazioni che le sono tipiche: il progressivo distacco dal legame di dipendenza dai genitori (con tutta la sua ambivalenza: la dipendenza, infatti, coarta la libertà, ma è anche fonte di sicurezza); l’abbandono dell’infanzia, con la sua dimensione ludica e l’assenza di responsabilità; le separazioni connesse con l’educazione sentimentale. Queste ultime sono tanto più dolorose, in quanto le prime esperienze di innamoramento creano intense sensazioni di fusione simbiotica, che fanno sentire la fine di un amore giovanile come una cacciata dal paradiso terrestre. La persona colpita dal doloroso processo della separazione, in qualsiasi forma, spesso sollecita un aiuto, facilmente interpretato come una più o meno esplicita richiesta di consolazione. Il rischio che incombe sulla prassi pastorale in queste situazioni è di degradarsi ad agenzia che dispensa le «consolazioni della religione». Il compito di una relazione d’aiuto di tipo pastorale è piuttosto quello di favorire una elaborazione positiva, in senso psicologico e spirituale, della sofferenza provocata dal distacco. L’angoscia da separazione può portare ad aggrapparsi disperatamente all’oggetto amato. Soprattutto in una società che non sa più fornire le categorie concettuali e i modelli comportamentali per elaborare il lutto, in tutte le sue dimensioni, l’incapacità di separarsi produce sempre più frequentemente esiti patologici.

La funzione della relazione pastorale nel contesto di questo tipo di sofferenze può essere cosi formulata: insegnare — non in astratto, ma in un rapporto vissuto — l’arte di separarsi, fatta di tempi di avvicinamento e di tempi di allontanamento. Questa funzione pedagogica può essere ricondotta all’acquisizione dell’atteggiamento sapienziale proprio dell’Ecclesiaste, secondo il quale c’è un tempo per tutto sotto il cielo: «Un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dall’abbraccio, un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per conservare e un tempo per buttar via» (Qo 3,5-6).

 

3.2. La sofferenza, educazione all’umano

Identificate le situazioni di sofferenza che più frequentemente sollecitano l’intervento del pastore e gli obiettivi dell’azione di quest’ultimo, possiamo tracciare un abbozzo dei contenuti specifici della pastorale giovanile in questo ambito. Essa mirerà a finalizzare l’impatto della sofferenza alla crescita etica del giovane, tanto a livello personale che comunitario. I due elementi sono uniti, anche se la priorità assiologica ed esperienziale va al secondo.

La sofferenza, infatti, emerge nella vita interiore del soggetto sotto la figura primaria del distacco dalla comunità. Che sia colpito nella salute fisica, negli affetti o nel significato della propria vita, il sofferente è sempre seduto, come Giobbe, su un mucchio di letame, al di fuori del contatto vitale con la comunità. In questo senso la sofferenza è percepita come opera «diabolica». In senso letterale, infatti, il «dia-bolos» (il «separatore») è in azione quando la sofferenza infrange il senso di appartenenza beata a un «tutto»: a un corpo come strumento docile e armonioso dello spirito, a un altro essere umano, alla vita come insieme dotato di senso divino.

La condizione di isolato propria del sofferente crea un’interpellazione all’altro, in particolare a colui che rappresenta l’istanza religiosa. La forma più frequente è quella di richiesta di una spiegazione causale: «Perché mi capita quello che mi capita?». Anche la protesta contro Dio, condotta fino alla forma estrema della bestemmia, può esprimere questo stesso atteggiamento. La consapevolezza dell’educatore che il cristianesimo non è tanto portatore di razionalizzazioni teologiche, quanto di orizzonti finalistici (non il «perché», ma il «per che cosa» della sofferenza) gli farà evitare i sentieri insidiosi delle presunte spiegazioni del dolore. L’interpellazione che soggiace alla richiesta di un perché è sempre fondamentalmente una domanda di presenza. La comunità deve riaggregarsi attorno a colui che soffre e si sente da essa respinto. La risposta all’opera disgregatrice del «diabolos» è il «symbolon»: il mettere insieme i pezzi separati.

Nei costumi dell’antica Grecia i frammenti di tessere o monete combacianti erano il «simbolo» che permetteva di riconoscere il portatore del frammento come ospite o amico. All’atto del confrontare — «syn-ballo» — avveniva un riconoscimento dell’identità dell’altro e della reciproca appartenenza. La forza motrice del simbolo è l’amore. Nel ricongiungimento «simbolico» il sofferente trova il fratello e nella comunione la risposta pratica alla sua interpellazione. La risposta può consistere a volte in un concreto aiuto offerto in una situazione di necessità (da un intervento di natura economica fino al gesto supremo del dono di un organo che permette di salvare una vita minacciata). Altre volte il «simbolo» che dischiude la dimensione della fraternità, dando così una risposta alla sofferenza, è di natura solo spirituale. La vera solidarietà, che si esprime nel «com-patire», anche se vissuta nell’impotenza a rimuovere le cause della sofferenza, crea un «volto» nuovo. Il sofferente, scoprendosi parte di un tutto integrato, può fare della prova dolorosa la porta di accesso a un’esperienza di appartenenza, che guarisce la lacerazione più profonda causata dalla sofferenza. La «compassione» è la via alla «pazienza». Questa è la seconda dimensione della crescita, intesa come un nuovo modo di sperimentare sé stesso e la comunità umana. La sofferenza è scuola di pazienza; l’opera del pastore è rivolta a facilitare l’acquisizione di questa virtù, in quanto atteggiamento generale verso ciò che coarta la libertà. La prima accezione del termine «pazienza», così come è usato nel linguaggio comune, dice riferimento all’accettazione dei limiti. La sofferenza è legata alla vita nelle sue determinazioni concrete. È un esercizio umile, ma fondamentale, di pazienza accogliere la vita come processo oggettivo, e non solo come proiezione della soggettività. Il desiderio — di piena salute, di intesa interpersonale perfetta, di auto affermazione e successo — deve confrontarsi col reale, pagando un prezzo di sofferenza per questa incarnazione. Con la pazienza si impara il peso dell’oggettività. Una dimensione ulteriore della pazienza emerge se ci lasciamo guidare dalla traccia fornita dall’etimologia. La pazienza contiene il «pathos», cioè quella modalità dell’esistenza che dipende non da ciò che facciamo, ma da ciò che subiamo. La cultura tecnologica dell’Occidente tende a valutare esclusivamente l’azione. La determinazione volontaria è entrata abbondantemente anche in fatti esistenziali che prima dipendevano dal caso o dalla Provvidenza: come il numero e la temporalità delle nascite, e anche il momento della resa alla morte (rivendicazione di un diritto all’eutanasia).

Questo sbilanciamento unilaterale verso l’azione produce una deformazione antropologica. La modalità «patica» dell’esistenza ha non solo diritto di cittadinanza negli atteggiamenti etici che costituiscono l’umano autentico, ma è un’esigenza per arrivare là dove l’azione non ci può portare. «Passività di crescita» chiama Teilhard de Chardin questi eventi dell’esistenza, che richiedono la pazienza come risposta comportamentale. La passività costituisce l’altro braccio rispetto a quello dell’azione, con cui Dio ci attira a sé.

Una terza concezione della «pazienza» ci introduce nella valorizzazione piena della sofferenza dal punto di vista etico e spirituale. Ancora una volta dobbiamo ricorrere all’etimologia. L’originale greco degli scritti neotestamentari che in latino è stato tradotto con «patientia» esprime la virtù richiesta al cristiano nelle situazioni di coartamento della libertà con il termine greco «hypomoné».

Questa non è la «pazienza» nella sua accezione di sopportazione passiva o rassegnata di una realtà che contrasta i desideri o i progetti personali, quanto una virtù attiva che richiede la «costanza», anche nelle avversità. Per il cristiano il modello più eccelso di «hypomoné» è Gesù stesso, rimasto fedele al Padre e all’amore per tutti gli uomini anche nella situazione estrema di una vita strappatagli con la violenza. Il «Christus patiens» è il «costante» per eccellenza.

La virtù della «pazienza» che costituisce l’ideale cristiano nelle situazioni di sofferenza acquista così una connotazione pasquale. È la virtù del Venerdì santo solo in quanto questo si apre sulla Domenica della risurrezione. La virtù della «pazienza» = «costanza» caratterizza l’uomo che, in una situazione di sofferenza, tiene duro grazie alla fiducia con cui aspetta il soccorso da Dio. Il cristiano «paziente» (costante) non è dunque un dimissionario di fronte alle potenze di diminuzione che aggrediscono l’uomo. Egli può e deve resistere al male.

Ma la sua è una lotta nella speranza, cioè nella situazione spirituale di chi, nella fede, si è arreso a Dio e ha accettato che egli dica l’ultima parola sulla storia dell’uomo.

Per il cristiano, dunque, la costanza è la forma tipica della speranza. Lo conferma, nel pensiero san Paolo, lo stretto legame tra costanza e speranza (cf Rm 5,3-5; 8,24-25; 1 Cor 13,7; 2 Cor 1,6-7, ecc.). La pedagogia della sofferenza, in questo ultimo senso, non è altro che la dimensione etica dell’annuncio della fede.

 

Bibliografia

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