SOCIETÀ
Enrico Chiavacci
1. Società e fatto sociale
1.1. Una fitta rete di società diverse
1.2. Il meccanismo regolatore dei rapporti
2. I condizionamenti sociali
3. Il singolo e la società
3.1. Originalità e conformità
3.2. Due osservazioni
4. L'annuncio evangelico sul sociale
4.1. Verso concreti impegni
4.2. La relazione al prossimo come valore assoluto
5. Società e storia in «Gaudium et spes»
6. Il compito della pastorale
7. Dovere di fedeltà e dovere di contestazione
7.1. Prima considerazione
7.2. Seconda considerazione
7.3. Terza considerazione
1. Società e fatto sociale
La guida alla vita in società è elemento fondamentale della pastorale giovanile. Vi è sempre un periodo, fra l’adolescenza e la gioventù (fra 13 e 18 anni) in cui il singolo comincia a autoporsi di fronte agli altri, cioè a prendere coscienza di sé come qualcosa di pensabile in sé e nettamente distinto dall’ambiente umano circostante. Questo inizio dell’autocoscienza è anche inizio di vera vita morale: il contrapporsi duro del ragazzo a tutto ciò che è realtà ambientale umana va letto come un fatto fisiologico, non patologico.
Ciò che il ragazzo subiva senza accorgersene, ora è sentito come imposizione dall’esterno contro cui affermare sé stesso: genitori, pastori, professori, autorità di ogni specie sono gli elementi normali con i quali inizia un processo di contraddizione. Solo ponendosi in contradditorio con essi il ragazzo comincia a scoprire sé stesso e la propria autonomia: da un punto di vista pastorale, si ha qui l’inizio della scoperta di una vocazione personale e irripetibile, e perciò l’avvio di un processo di discernimento (cf Rm 12,2 e Fil 1,9: in greco «dokimazein», comprendere attraverso un processo) che è, per la teologia morale odierna, la base della vita morale, la via irrinunciabile della risposta personale alla chiamata di Dio.
Molti autori ritengono che questo momento sia inquadrabile in un processo psicologico di graduale acquisizione e trasformazione dell’idea di bene morale, processo psicologico che sarebbe da considerare universale (valido cioè per ogni cultura e ogni epoca) e schematizzabile in una precisa serie di passaggi o gradini (Mclntire, Habermas, Apel, Kohlberg). L’ipotesi, e soprattutto le schematizzazioni proposte, sono discutibili, ma sono doverosa conoscenza per l’operatore pastorale, conoscenza per la quale rinviamo agli Autori indicati. Resta comunque un fatto indiscutibile: fino all’età sopra indicata il bambino non percepisce il vivere in società come qualcosa di subito, e forse neppure di avvertito. Gradualmente sorge l’avvertenza e la consapevolezza della società come esterna a sé, e con ciò della propria personalità e vocazione individuale.
Tutto ciò è sempre mediato dalla realtà sociale — in questo momento non ci interessa quale essa sia: interessa che essa c’è — e perciò questa realtà sociale va compresa e studiata in profondo. In particolare non si può parlare di «società» senza distinguere fra vari significati che tale termine può indicare: la mancata distinzione di significato è oggi causa di innumerevoli equivoci, e indizio di confusione mentale. Ciò vale in specie per gli operatori della pastorale: nella tradizione del pensiero sociale cristiano la molteplice valenza semantica di termini quali «società» o «sociale» non sempre è sufficientemente avvertita.
1.1. Una fitta rete di società diverse
La prima cosa da capire è che nessuno è membro di qualsivoglia società (famiglia, stato, impresa, chiesa, etc.) senza essere al tempo stesso parte di una rete molto fitta di società diverse. La definizione consueta di società nei manuali di filosofia sociale cristiana suona: «unione di più persone, per un fine comune, sotto una certa legge (o regole di comportamento) e un’autorità». Questo tipo di definizione non rende conto della complessità del fatto sociale, in cui una singola società è sempre inevitabilmente inserita. A fini solo pratici (la teoria è più complessa), il termine «società» può essere usato 1) per indicare una singola società; 2) per indicare tutto il complesso di singole società in cui un singolo si trova implicato (p. es. nell’espressione «la società violenta»); 3) per indicare la società che, in teoria, coordina al bene comune l’attività di tutte le altre società, e cioè lo stato (meglio: la società civile). Ma nella realtà ciascuna di queste «società» è condizionata dalle altre, e a sua volta le condiziona. Occorre perciò studiare il fatto sociale nel suo complesso, per poter comprendere la funzione che ciascuna società svolge al suo interno, e anche all’interno della coscienza dei singoli esseri umani che vivono inevitabilmente dentro una realtà sociale complessa.
1.2. Il meccanismo regolatore dei rapporti
La seconda cosa da capire è dunque il meccanismo che lega fra di loro le varie forme di vita associata. A questo scopo si consideri l’enorme massa di dati che un bambino riceve passivamente e registra in memoria: questa ricezione passiva di dati avviene anche prima della nascita, durante la vita intrauterina, attraverso le sensazioni ricevute dalla madre. Questa massa di dati, che viene recepita passivamente fino al momento in cui vi è coscienza critica (più o meno a partire dalla preadolescenza), resta nella memoria e può venire richiamata in qualunque momento da qualunque stimolo esterno, e genera risposte automatiche. Ma questa massa di dati non è la somma di tanti dati che arrivano in memoria per caso: è un sistema che ha una sua coerenza. È ciò che potrebbe propriamente chiamarsi la realtà o il fatto sociale, se visto come fatto oggettivo; e potrebbe chiamarsi condizionamento sociale (o culturale), se visto come fatto interno al singolo che inevitabilmente organizza la propria esistenza all’interno di una realtà sociale data.
2. I condizionamenti sociali
Se esaminiamo più da vicino quello che abbiamo chiamato il complesso di dati, è facile vedere come esso si organizzi in strutture: la prima e la più importante di esse è il linguaggio. Imparare a parlare in un modo piuttosto che in un altro non è solo indicare il «pane» con «pain» o «bread»: è invece imparare a connettere sensazioni e idee in un modo o in un altro. Il linguaggio determina il modo di pensare e di argomentare; non esistendo un linguaggio assoluto, nascere entro una realtà sociale comporta un condizionamento a cui nessuno può sfuggire. Lo stesso dicasi della struttura «famiglia»: chi fa parte della famiglia e con quali ruoli; quali sono le funzioni della famiglia; quali rapporti fra famiglie sono permessi o proibiti, e altre simili questioni sono stabilite dal momento storico della cultura o subcultura in cui si vive. Il bambino impara (mette in memoria) tutto questo fin dai primi istanti di vita, osservando e ascoltando (e toccando) le persone che lo circondano e le loro relazioni reciproche. Non esiste un modello di famiglia assoluto, e nasce perciò un ulteriore condizionamento. Lo stesso argomento può ripetersi per le strutture produttive, abitative, educazionali, politiche, religiose, etc.
I dati non sono dunque casuali: sono strutture complesse, accettate e riconosciute valide da tutto un gruppo (un’area culturale, un’etnia, uno stato nazionale etc.): esse condizionano le risposte del singolo, ma contemporaneamente rendono possibile una vita di relazione e di cooperazione organizzata. Il condizionamento sociale, in questo senso, non è negativo, né è puro determinismo di risposte umane. È un limite all’arco di tutte le scelte possibili, ed è la base di una convivenza organizzata, cioè del fatto sociale stesso. Né il sociale in genere, né alcuna singola società sarebbe pensabile senza questo tipo di condizionamenti.
Occorre però fare un altro passo: tutte le strutture non sono indipendenti fra di loro, né potrebbero esserlo. La struttura familiare interagisce necessariamente con quella educazionale, ma anche con quella abitativa e quella produttiva (in alcune epoche e culture essa è identica con la struttura produttiva): un cambiamento in una struttura, comunque causato, genera cambiamenti in molte o tutte le altre strutture. Il complesso di dati, organizzato in strutture, è perciò anche un complesso di strutture fra loro funzionali o almeno compatibili: potremmo chiamare questa struttura di secondo grado (struttura di strutture) col termine «sistema». Il fatto sociale è un sistema assai complesso che genera in ogni individuo dei «modelli»; e questi modelli governano e limitano la sua capacità di risposta a stimoli esterni, in modo tale che la risposta corrisponda alle attese del gruppo. Il fatto stesso che io scriva una voce per un dizionario e che vi sia richiesta del dizionario e della voce, è qualcosa che ha senso nel nostro gruppo nella nostra epoca; sarebbe stato impensabile in altra epoca, lo sarebbe ancor oggi in ambiti diversi dalla cultura occidentale.
Infine, e siamo all’ultimo passo nella nostra analisi del fatto sociale, questa coerenza interna al sistema, e che in diversa misura è necessaria a ogni sistema, si organizza all’interno della mentalità del singolo; e si organizza in modelli di risposta ad attese o stimoli. Di norma si indicano tre modelli — cognitivo, operativo, valutativo — da cui nascono i comportamenti interni ed esterni di ogni individuo di uno stesso gruppo. Alcuni psicologi (Kardiner, Linton) hanno indicato questa attitudine comune come «personalità di base». Seguendo Freud, quest’insieme organizzato di dati recepiti all’interno del singolo dall’ambiente sociale potrebbe chiamarsi «superego».
Così, quando si parla di «società», nel senso di una singola società, non si dovrà mai dimenticare che ogni società nasce e si determina all’interno di un fatto sociale già dato, e dovrà di norma essere compatibile o funzionale ad esso; né potrà — in prima approssimazione — essere altrimenti, dato che i suoi singoli membri si muovono all’interno della stessa personalità di base e delle stesse strutture oggettive. Di norma, abbiamo detto: vedremo fra breve che vi sono di fatto, ed è importantissimo che vi siano, eccezioni. Resta però fermo che nessuna singola società è studiabile in sé stessa, senza tener conto del quadro globale della realtà sociale in cui è inserita.
E questo vale anche per la Chiesa, come società visibile. Anch’essa è condizionata dalla realtà sociale in cui vive: la ripartizione di ruoli, il rapporto con altre società, il modo stesso di concepire la vita associata, e altre cose ancora (per es. la funzione del «segno» e della «parola» nella liturgia) sono sempre in qualche modo derivate dal, e compatibili col, fatto sociale nella sua globalità. Ciò deve far riflettere sull’importanza e relativa autonomia che la chiesa locale deve assumere, e contemporaneamente sul ruolo di garanzia dell’unità nella diversità che in futuro sempre più incomberà sulla funzione petrina.
3. Il singolo e la società
Nessun singolo dunque sfugge a condizionamenti sociali che riguardano praticamente tutte le aree della sua attività scegliente. Si potrebbe pensare che, per la pace e il buon ordine di un gruppo, sia desiderabile che ciascun singolo dia sempre, nei suoi comportamenti, le risposte previste e attese dal gruppo. Anzi, inconsapevolmente, tutti gli amanti dell’ordine e della funzionalità di un gruppo — e in specie di uno stato o di una chiesa — aspirano a tale totale prevedibilità. Ciò è un gravissimo errore.
E un errore di fatto: ogni gruppo conosce al suo interno una evoluzione di strutture e di modelli. La storia di un gruppo, come quella dell’umanità, è variazione continua. Di dove dunque proviene questa variazione, se il fatto sociale, con i suoi modelli, tende a riprodursi in ogni generazione successiva? Ma ciò è anche un errore teologico: ogni essere umano, nella visione cristiana, è unico e irripetibile, creato e amato da Dio nella sua singolarità, e chiamato da Dio a dare una sua risposta alla sua personale vocazione. Esiste dunque, di fatto, la possibilità di un’originalità del singolo: ciò in concreto vuol dire la possibilità di dare risposte comportamentali non prevedibili, e quindi la possibilità di una critica sociale. Ma esiste anche il dovere morale personale di saper guardare criticamente i modelli proposti, e il dovere morale sociale di ampliare gli spazi di originalità per i singoli all’interno di una realtà sociale data.
3.1. Originalità e conformità
La possibilità di un porsi originale del singolo di fronte alle attese del gruppo può avere diverse spiegazioni, non necessariamente alternative. Ne accenniamo solo qualcuna, a titolo di esempio. Il cervello umano è ancora qualcosa di misterioso. Non è giustificato ritenere che la memoria sia un semplice stoccaggio di dati in aree cerebrali fisse e uguali per tutti: i circuiti cerebrali (neurali) sono complessi e spesso polivalenti; ma gli stessi dati bruti sono o possono esser connessi fra di loro in molti modi che per ora, e per molto tempo, resteranno sconosciuti. Inoltre nessun singolo si comporta mai in modo perfettamente logico (nella logica che ha appreso il gruppo): in particolare esiste il fenomeno dell’emozione, in cui il singolo crea una sua risposta non prevista dal sistema; ed esiste soprattutto una diversa sensibilità di fronte ai bisogni.
Questo è un punto della massima importanza: l’esperienza di un bisogno non soddisfatto dal sistema porta a comportamenti non integrabili nel sistema, e soprattutto porta alla convinzione di una insufficienza del sistema. Una cultura, e più in piccolo una certa realtà sociale, è capace di rispondere mediamente ai bisogni fondamentali dei singoli; ma vi è sempre un certo numero di singoli che non è soddisfatto di questa risposta media. Una situazione simile a questa si ha quando un singolo si trova a scegliere in una condizione non prevista dal sistema. Un computer in tale caso non risponde, ma il singolo essere umano in qualche modo deve rispondere, e deve crearsi la sua risposta.
Se ora consideriamo il termine «cultura» come l’attività con cui l’essere umano coltiva sé stesso (cf GS n. 53), possiamo ritenere che ciò avvenga in un primo momento in forma passiva: il singolo riceve dati dall’ambiente sociale in cui è inserito; in un secondo momento invece in forma attiva: il singolo reagisce originalmente e da fruitore diviene produttore di cultura. Questa distinzione, e questa concezione della vita del singolo in società, è centrale per lo studio del sociale in genere, e in specie per ogni approccio pastorale in tale materia. La distinzione è presentata chiaramente dal Concilio Vaticano II, nel capitolo sulla cultura di Gaudium et spes (nn. 53ss.), a cui sia la teologia morale, sia la pastorale hanno prestato finora scarsa attenzione. Il momento moralmente e teologicamente rilevante è certo il momento attivo della cultura; ma esso sarebbe impossibile senza il supporto del momento passivo.
Possiamo dunque concludere che ogni uomo vive entro un condizionamento culturale che è inevitabile e anzi necessario; ma anche che ogni uomo ha la capacità di porsi originalmente di fronte all’ambiente sociale in cui è inserito, e quindi di esser soggetto di critica sociale. Questa capacità varia in conseguenza della varietà degli individui, ma varia anche — e soprattutto — in conseguenza del sistema: il sistema può lasciare o aprire spazi per l’espressione originale del singolo, e può invece cercare di chiudere tali spazi. Noi riteniamo che la realtà sociale in cui viviamo, nell’Europa e nell’Italia degli anni ’80, tenda sostanzialmente a chiudere spazi, mentre tensioni anche forti di piccole minoranze tendono ad aprire spazi.
3.2. Due osservazioni
Non possiamo dimostrare qui questa nostra tesi. Ci limitiamo a due osservazioni. La prima riguarda il criterio valutativo generale tipico della nostra cultura odierna: quello che è stato più volte denunciato come il primato dell’avere sull’essere. In termini psicoanalitici è il principio di realtà identificato nel binomio produzione-prestazione. La ricerca dell’avere è un bene in sé: una persona vale tanto quanto è capace di produrre, o di avere successo economico. La vita associata è concepita come lotta fra individui singoli o gruppi che cercano ciascuno il successo (economico) a spese di altri. Si onora il vincente o l’emergente in questa lotta; si considera irrilevante e discriminabile chi non vuole emergere e soprattutto chi non può emergere (si pensi all’handicappato o all’ex-carcerato). Questo criterio valutativo diviene sempre più comune: ciascuno per sopravvivere, per essere accettato dalla società, deve accettare questo criterio, cioè questo modello valutativo di «vita buona». Se questo modello cadesse, cadrebbe anche il potere di chi controlla i meccanismi dell’economia. Così avviene che il potere difende sé stesso cercando di mantenere o imporre questo modello.
La seconda osservazione è conseguenza della prima: dalla scoperta della tecnologia dei semiconduttori (l’epoca del silicio) si è improvvisamente e spaventosamente accresciuta la possibilità di comunicazione di massa. Questa, e non più la casa o la scuola, è la struttura educativa di base: un bambino di 12 anni ne ha passati almeno 3 davanti al televisore. Dato però che tali strumenti sono controllati, direttamente o indirettamente, dal potere economico, essi sono usati esclusivamente a scopo di convenienza economica del potere. Così quei modelli di «vita buona» che sono funzionali al potere economico tendono a chiudere sempre più gli spazi di cultura attiva — sempre pericolosi per ogni sorta di potere — e a distruggere identità culturali diverse da quella occidentale, così da costituire un vero colonialismo culturale. La omologazione dei modelli, e quindi la fine della cultura attiva, è ormai un’impresa in atto a livello planetario.
Questa situazione tragica, da pochi vista con chiarezza, impone al cristiano una reazione decisa in due direzioni. La prima direzione è il rifiuto del modello proposto: comunque si voglia pensare in concreto la solidarietà — il vivere per gli altri — il modello intorno a cui oggi si tenta di omologare l’intera famiglia umana è direttamente opposto a qualunque concetto di solidarietà. La seconda direzione è il rifiuto di strutture che mirano alla chiusura di spazi di originalità e di critica, all’adeguamento pragmatistico all’esistente, alla perdita di ogni tensione o impegno nella modificazione delle strutture esistenti.
Dal punto di vista della pastorale giovanile, emerge immediatamente la necessità e l’urgenza di attivare, fin dalla preadolescenza, il momento critico: si deve educare a vivere in società, ma si deve educare contemporaneamente a vivere in proprio, cioè a non lasciarsi vivere, a sapersi porre criticamente di fronte ai modelli recepiti. L’educazione all’obiezione è parte integrante dell’educazione morale: l’ultimo gradino del cammino morale è sempre necessariamente, e oggi più che nel passato, post-convenzionale.
4. L’annuncio evangelico sul sociale
Ma non avrebbe alcun senso criticare qualcosa, se non esistesse un metro su cui quella cosa può esser misurata. Come posso criticare il modello individualistico-economicistico se non affermo il primato della solidarietà e della condivisione? Come posso criticare lo spegnimento di ogni cultura attiva, se non affermo la dignità di ogni essere umano nel suo esser libero e autodeterminantesi? Ma la doppia affermazione ora accennata — come qualunque metro o valore supremo per 1’esistenza umana — deve essere enunciata e motivabile a noi stessi e agli altri. Una critica sociale è pura velleità se non è proposta e ricerca di consenso intorno a modelli alternativi.
4.1. Verso concreti impegni
Per la pastorale giovanile è da ricordare che i giovanissimi sono ancora legati al concreto: parlare loro di modelli o di senso dell’esistenza è vano, se non si esprime questo in termini di impegno concreto (ecologia, pacifismo, condivisione economica, sostegno e rispetto del debole etc.). Ma l’impegno concreto vale solo se gradualmente diviene comprensione di un impegno globale, e attitudine critica verso i modelli proposti e i loro veicoli. Agire in piccolo per pensare in grande è la nostra proposta per una pastorale giovanile nell’area della vita associata. E perciò fin dall’infanzia occorre, nei modi che la pedagogia indicherà opportuni, ancorare la vita e la coscienza della persona a valori e a modelli di comportamento e di valutazione che rispondano all’annuncio cristiano sulla realtà sociale.
4.2. La relazione al prossimo come valore assoluto
È opinione comune che nella Scrittura il tema del sociale sia trattato solo indirettamente (le virtù sociali), e che un pensiero sociale cristiano sia nato con la Rerum novarum nel 1891. Sono errate tutte e due le opinioni. Mentre non possiamo fare qui la storia del pensiero sociale cristiano dai Padri ai nostri giorni, è necessario un cenno sintetico dell’annuncio biblico sul sociale, e del salto qualitativo operato dalla Gaudium et spes.
Già nell’AT la pace è la perfezione di un universo complesso, secondo un progetto del Creatore; la perfezione nell’ambito del complesso sistema delle relazioni inter-umane è la santità stessa di Dio, che — attraverso le grandi gesta di salvezza per il suo popolo — si manifesta come benevolenza, misericordia, perdono, sostegno del debole e dell’oppresso. La giustizia di Dio è in pratica sinonimo di tutto questo: «anche tu eri straniero in Egitto, e io ti ho liberato: così ora vai, e libera lo straniero». E appunto frutto di questa giustizia sarà la pace (Is 32,15-17). La santità di Dio vive nel popolo attraverso la sua capacità di rispecchiare al suo interno questa giustizia: la fede e l’adesione alla chiamata di Dio si deve tradurre in giustizia, in difesa del povero e dell’oppresso, senza di che non si può dire di «conoscere» Dio (Ger 22,3-9; 15-16). L’abbandono della giustizia è abbandono di Dio.
Nel NT il Signore si presenta precisamente come il re-messia annunciato dai profeti, e assume su di sé il compito di essere operatore di pace, di essere il portatore di questa giustizia (Lc 4,16-21; Mt 5,3-12). Ma il Signore annuncia qualcosa di più: Dio eterno e assoluto si manifesta in lui come puro dono di sé, come assoluto di relazione, sia al suo interno nella dinamica trinitaria, sia verso l’umanità intera (e non più il solo popolo eletto). Così il Figlio dell’uomo è venuto per servire e non per essere servito (Mt 20,28); così Pietro, che non ragiona secondo Dio (in una logica di servizio), ma secondo gli uomini (in una logica di potere e prestigio), è chiamato «Satana» (Mt 17,21-23); così è nel lavare i piedi del prossimo che noi saremo fedeli al comandamento nuovo (Gv 12,12-15).
Ciò che al cristiano si presenta nel Vangelo come valore assoluto, sul quale, ed esclusivamente sul quale, sarà giudicato, è la relazione al prossimo vissuta come servizio, solidarietà, condivisione: con questo tema Matteo apre il primo discorso pubblico di Gesù (Mt 5: le beatitudini e le antinomie) e chiude l’ultimo (Mt 25: il giudizio finale). In questa luce va capita la rilevanza evangelica del tema della pace come dono del Risorto e come compito per la comunità nascente dallo Spirito (Gv 20,19-22). Essere operatori di pace è dunque un dovere morale coessenziale a tutto l’annuncio evangelico. È il momento relazionale, e perciò inevitabilmente la logica con cui si vive la realtà sociale, il luogo di verifica della fede e dell’adesione al Signore. Crediamo che si possa riassumere tale logica della convivenza, che l’annuncio cristiano propone come compito per il credente e come traguardo per ogni forma di vita associata, in due principi ben precisi (v. il nostro Teologia Morale v. Il), e cioè:
— l’impegno contro ogni stato di cose oppressivo;
— l’impegno per una fraternità (solidarietà e corresponsabilità) universale.
5. Società e storia in «gaudium et spes»
La percezione precisa della società e della storia come oggetto proprio della riflessione teologica e dell’attività missionaria (pastorale) della Chiesa è maturata assai lentamente, con alti e bassi che qui non possiamo descrivere, ed è giunta a maturazione con la GS: ivi, con tutta l’autorità magisteriale di un Concilio ecumenico, si dichiara questa più profonda comprensione del mistero della Chiesa e della sua missione (« mysterio Ecclesiae penitius investigato»: GS 2), si amplia il concetto stesso di salvezza dall’ambito della salvezza della singola anima alla salvezza dell’umanità e della sua storia («Ecclesia... tamquam fermentum et veluti anima societatis humanae in Christo renovandae et in familiam Dei transformandae exsistit»: GS 40), si afferma il progetto divino di fare del mondo uno «spatium verae fraternitatis» (GS 37).
La storia dell’umanità intera ha un senso e un traguardo: il Signore non è solo il traguardo per la singola anima, ma per la storia stessa, per l’intera vicenda della famiglia umana («Dominus finis est humanae historiae»: GS 45). Accompagnare la vicenda umana verso questo traguardo, additare la direzione segnata una volta per sempre dalla Parola, sono compito essenziale della Chiesa. E perciò la riflessione sulla realtà sociale come essa storicamente si presenta, e l’annuncio critico della Parola su questa realtà alla luce dei due principi enunciati al termine del precedente paragrafo, sono compito ineludibile della teologia morale e della pastorale.
Ma la GS ci insegna anche qualcosa di più: questa fatica di annunciare la Parola eterna sull’oggi storico — il che non è altro che la «pastorale» in senso rigoroso — deve orientarsi su due poli: il Vangelo e l’esperienza umana. Il Concilio dice questo esplicitamente: all’inizio della seconda parte del documento, cioè della parte applicativa, si dichiara che occorre muoversi «sub luce evangelii et humanae experientiae» (GS 46).
Questa esperienza umana ha sostanzialmente due facce. Vi è una esperienza immediata di eventi, di sofferenze, di esigenze, di aspirazioni (sono questi i segni dei tempi): senza un attento discernimento di queste grida di bisogno e di liberazione non si può neppure comprendere quale sia il progetto divino per noi, Chiesa di oggi. E vi è un’esperienza riflessa che, per il nostro ambito, è costituita dalla riflessione umana sul fatto sociale: sia come studio della realtà esistente, sia come studio dei modelli ad essa soggiacenti, sia come proposta di linee di modificazione e di strumenti adeguati per effettuare tali modificazioni, sia infine, e soprattutto, come sforzo di comprensione di realtà sociali organizzate al di fuori degli schemi e delle tradizioni culturali tipiche dell’Occidente (l’etnocentrismo è finito, ma solo nei manuali di antropologia culturale; non certo nella mentalità occidentale, cristiani ed istituzioni ecclesiastiche comprese).
Gli studi sul fatto sociale sono oggi numerosi e ricchi di indicazioni. È dovere della Chiesa, e in specie dei pastori e dei teologi (GS 44), ascoltare queste voci. Solo cercando di comprendere al meglio quali siano i meccanismi della realtà sociale la Chiesa potrà adempiere al meglio il suo compito di fermento e lievito della società umana. È questa una grande lezione del Concilio: una lezione di umiltà e di logica dell’incarnazione. Questo infatti è il punto rilevante per la pastorale: annunciare una parola eterna in un quadro storico concreto, costituito di dati di fatto e di sforzo di comprensione scientifica di questi dati. Sia il dato, sia la comprensione del dato, sono provvisori: cambiano costantemente, e richiedono uno sforzo costante. Qui non abbiamo nessuna certezza di fede: abbiamo solo — ma non è poco — la ragione e l’onestà intellettuale del ricercatore. La fede illuminerà questa conoscenza, facendoci vedere come — all’interno di tale conoscenza (e non ne abbiamo altra) — il faticoso cammino dell’umanità possa essere avviato sulla via del Vangelo; come cioè il dominio dell’uomo sull’uomo si manifesti oggi, quali forme rivesta, da quali strutture (politiche, economiche, mediali etc.) sia mantenuto, quali modelli o condizionamenti lo giustifichino. Su tale base di conoscenza è possibile studiare le vie concretamente praticabili di liberazione dell’oppresso, e portare su questa realtà di oppressione un annuncio evangelico che non sia solo velleità o enunciazione generica, ma denuncia precisa di modelli e di strutture, e proposta di logiche di convivenza e di impegno nel sociale e nel politico. Proclamare solennemente o enfaticamente che il lavoro è a servizio dell’uomo è certo dire qualcosa di evangelico, ma non è annuncio del Vangelo nell’oggi della storia: occorre domandarsi perché oggi il lavoro non sia al servizio dell’uomo, perché agli economisti e ai finanzieri odierni il lavoro appaia solo come fattore della produzione, quale variazione nella concezione stessa dell’attività economica e nelle strutture economiche sia oggi condizione necessaria perché il lavoro non sia asservimento dell’uomo etc.
Su questa linea di tentativo di lettura di una tragica realtà sociale planetaria, e di annuncio su questa realtà, si sono mosse le tre grandi encicliche sociali post-conciliari: Populorum progressio, Laborem exercens e Sollicitudo rei socialis. Anche se in esse l’analisi della situazione è discutibile o non sufficientemente elaborata, queste tre encicliche segnano una strada ben precisa per la Chiesa di oggi e la sua missione pastorale. E questa missione passa ineluttabilmente per lo studio e la modificazione della complessa realtà sociale in cui si muove oggi la famiglia umana.
6. Il compito della pastorale
Quando dunque la pastorale si accosta al termine generico di «società», essa è immediatamente coinvolta nel duplice compito di:
— studio accurato della realtà sociale nel suo complesso, delle principali strutture in cui si articola, dei modelli che induce nella mente degli uomini che in essa si muovono: e in ciò si impone il ricorso a quanto di più significativo le varie scienze dell’uomo e della società oggi offrano;
— critica sociale e impegno nella modificazione di strutture e di modelli alla luce della Parola: e in ciò si impone il ricorso all’impegno attivo nel sociale, sia a livello teorico sia a livello pratico; si impone inoltre la ricerca di un annuncio morale «profetico», mirante cioè a modificare modelli e attitudini mentali ormai accolti acriticamente e inconsapevolmente come veri in eterno (basta pensare all’idea di «stato sovrano» o di «proprietà privata» o di «marito capo della famiglia»).
La pastorale deve dunque imporre un impegno e proporre linee di assolvimento di tale impegno. A ogni cristiano incombe il dovere morale di impegno nella storia, perché la famiglia umana possa camminare verso il suo traguardo: è questa un’acquisizione irreversibile del Concilio. Solo all’interno di questa comprensione globale della missione della Chiesa potranno poi essere affrontati i singoli problemi legati all’idea generale e generica di «società».
Il modo con cui questo impegno può essere assolto non è dato una volta per tutte, dal momento che è legato a un preciso momento della storia dell’umanità; né è lo stesso per tutti i cristiani, che vivono in sistemi sociali e tradizioni culturali diversi. Ma anche all’interno di un singolo gruppo omogeneo in un preciso momento (p. es. la Chiesa italiana di oggi), la scelta del modo dell’impegno è sempre in qualche misura scelta di opportunità: essa infatti si basa non solo su dati di fede, ma anche su dati di fatto, la cui lettura ed interpretazione non può essere in genere univoca; si basa inoltre su valutazioni di opportunità — di efficacia di mezzi al fine — che in ultima istanza sono frutto di esperienza e di discernimento personale. Sarà utile, e talora necessario, un discernimento da parte della Chiesa locale: ma esso potrà servire solo come orientamento per le scelte del singolo, non come prescrizione morale.
7. Dovere di fedeltà e dovere di contestazione
Stabilito che per il cristiano qualunque discorso o studio o scelta che verta sul «sociale» — comunque concretamente configurato nel singolo caso — è sempre un problema di impegno e di moralità, è bene tenere presenti tre considerazioni.
7.1. Prima considerazione
Ogni essere umano vive entro una realtà sociale complessa che gli si presenta, in un primo momento, come un dato. Non sarebbe possibile alcuna vita di relazione stabile al di fuori di tale quadro. All’interno di esso, l’altro si aspetta da me certi comportamenti in certe situazioni, e conta su tali comportamenti (le leggi civili o penali di uno stato ne sono un importante esempio): il servizio della carità deve dunque cominciare dalla fedeltà alla società in cui io sono inserito e dall’osservanza delle regole in essa vigenti. Il primo e più ovvio dovere nei confronti delle società in cui uno è collocato (famiglia, stato, chiese, gruppi etnici, scuole, etc.) è il dovere di affidabilità, o — con un ottimo termine in uso nell’etica anglosassone — di lealtà. Nasce qui un problema gravissimo, e scarsamente considerato dall’etica sociale cristiana: il problema della priorità nel campo delle diverse lealtà. Un padre testimonierà il falso per salvare il figlio? Il cittadino disobbedirà allo stato per il bene comune della famiglia umana? Non è questo il luogo per discutere queste e altre simili questioni: è però importante saperle affrontare. Diremo dunque che, in linea di principio, la lealtà verso la realtà sociale data è il primo passo della carità, essendo la via normale in cui il servizio al prossimo può essere effettivo. Sussiste perciò un dovere di fedeltà verso la società in genere, e la società civile in specie.
7.2. Seconda considerazione
Ma nella realtà sociale esiste sempre dominio dell’uomo sull’uomo da un lato, carenza di solidarietà dall’altro. Se in prima approssimazione la realtà sociale si presenta come un dato entro cui muoversi nelle nostre scelte di carità, la stessa realtà sociale si presenta anche come compito. È precisamente nello sforzo di trasformarla e indirizzarla verso il suo traguardo che il cristiano adempie il suo dovere di essere attore della storia. Accanto al dovere di fedeltà, esiste un ben preciso dovere di contestazione-, modificare modelli di vita e strutture oggettive di rivalità e di oppressione. All’interno di questo dovere è da inquadrarsi il dovere di critica della società civile e delle sue istituzioni. Ma, come è ovvio, la realtà sociale è assai più complessa e ampia della società civile: il dramma dell’ecologia, della guerra e della pace, dei paesi sottosviluppati, delle condizioni dell’umanità futura, delle finalità della ricerca scientifica, e tanti altri drammi in cui si concreta l’oppressione dell’uomo sull’uomo, vanno ben oltre le possibilità delle leggi di un singolo stato. Il compito è immenso, il singolo cristiano si può sentire impotente di fronte ad esso: e tuttavia ogni singolo cristiano deve sentirsi impegnato in questa battaglia (« In hac pugna insertus»: GS 37). Al cristiano non è chiesto di avere successo: è però chiesto di vivere e morire per amore degli uomini e della famiglia umana.
7.3. Terza considerazione
A queste due considerazioni, che presentano le due facce del dovere morale di vivere in società, se ne deve aggiungere una terza: l’età giovanile è quella in cui è possibile passare da un’etica intesa prevalentemente come elenco di comportamenti singoli da ritenersi buoni o cattivi, a un’etica intesa come compito nei confronti dei fratelli e della storia umana. La pastorale giovanile deve dunque educare in un primo momento a vedere le singole osservanze richieste dalla vita associata come modo normale concreto di servire il prossimo; e in un secondo momento a vedere come tale modello di convivenza sia insufficiente o contrastante con la Parola e le attese dei poveri della terra. È proprio e specificamente nell’età giovanile che si può e si deve educare alla critica sociale e conseguentemente all’impegno nel sociale.
Bibliografia
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