SECOLARIZZAZIONE

SECOLARIZZAZIONE

Guido Gatti

 

1. Un fenomeno culturale di grande rilevanza pastorale

2. Il mondo sacrale

3. La marginalizzazione della religione

4. Il ruolo della mentalità scientifica e tecnica

5. Una occasione di purificazione per la fede

6. Il superamento della concezione alternativa del rapporto tra Dio e l’uomo

7. Evangelizzare la città secolare

8. Le contraddizioni della cultura secolare

 

1. Un fenomeno culturale di grande rilevanza pastorale

All’interno della storia della cultura occidentale, quel fenomeno culturale cui si dà comunemente il nome di «secolarizzazione» rappresenta indubbiamente una delle connotazioni più specifiche e più vistose di questa cultura e uno dei​​ trend​​ di più lungo periodo di tutta la sua storia.

La secolarizzazione è uno degli elementi più pervasivi e più qualificanti di tutta la nostra civiltà; la cultura occidentale contemporanea si differenzia da tutte quelle che l’hanno preceduta e da quelle che ancora resistono in molte parti della terra alla sua forza di assimilazione e di contagio, se non proprio unicamente, almeno in modo determinante, per il suo carattere secolare. Questo carattere è d’altra parte il risultato di un processo storico-culturale in atto già da secoli e che ha lasciato le sue orme in ogni settore della vita pubblica e privata dell’occidente.

Le culture, in tutti i loro aspetti, costituiscono indubbiamente un condizionamento decisivo della domanda religiosa, e quindi dell’evangelizzazione e dell’educazione della fede. La secolarizzazione poi non è un aspetto qualsiasi della cultura: è una presa di posizione globale della cultura nei confronti del fatto religioso. E poiché si tratta di una presa di posizione per moltissimi aspetti ambigua, quando non proprio negativa, essa pone all’evangelizzazione e all’educazione della fede tutta una serie di problemi complessi e relativamente inediti, di non facile soluzione.

Nessuna meraviglia quindi che la letteratura religiosa, e perciò anche la pastorale e la pastorale giovanile, dedichino già da molto tempo una attenzione privilegiata a questo tema. La soluzione dei molteplici e immani problemi che essa presenta, presuppone naturalmente una comprensione accurata di quello che essa è, delle cause che l’hanno innescata, dei dinamismi con cui opera, degli esiti prevedibili verso cui è incamminata, degli influssi che ha sopra le modalità concrete con cui può essere pensata, comunicata, vissuta la fede, in un mondo sempre più profondamente e irreversibilmente secolare.

Una comprensione, per quanto è possibile, adeguata della secolarizzazione può emergere soltanto da un confronto tra la condizione sacrale che l’ha preceduta nel tempo e che in certo senso le si contrappone e la nuova situazione culturale che con essa si è instaurata.

 

2.​​ Il mondo sacrale

La secolarizzazione non è infatti la situazione culturale originaria dell’occidente. Per molti secoli, anche l’occidente è stato caratterizzato, come tutte le altre regioni culturali del globo, da una cultura sacrale.

Tanto la secolarizzazione quanto una cultura sacrale si definiscono primariamente in base al rapporto esistente tra la cultura e la religione.

Per cultura sacrale si intende un mondo culturale in cui la religione informa le strutture della società, le attività umane e il modo collettivo di pensare.

La religione ha controllato di fatto per lungo tempo le strutture di base della società, che ricevevano da questo controllo l’avallo di una legittimazione sacra, e venivano percepite come il riflesso e il prolungamento della signoria di Dio sull’uomo. La religione segnava estesamente (anche se non sempre profondamente) la vita quotidiana di tutti gli uomini; il suo insegnamento, le sue leggi morali, le sue feste e le sue pratiche costituivano una parte importante delle loro certezze e motivazioni, occupavano una parte determinante del loro tempo e delle loro cure, erano l’unica identificazione in cui tutti si riconoscevano.

Il sapere religioso permeava e unificava tutto il sapere umano. Nell’occidente, la religione che stava in questo modo al centro della vita culturale era di fatto il cristianesimo. La fede cristiana era l’elemento centrale e pervasivo della cultura, così che l’autoriproduzione della cultura, attraverso la socializzazione di base, comportava anche una automatica e pacifica autoriproduzione dell’appartenenza cristiana. Una fede non problematica e monoliticamente condivisa rappresentava l’identità culturale e il collante ideologico della società.

 

3.​​ La marginalizzazione della religione

Non occorre un grande sforzo di riflessione per rendersi conto dell’ampiezza delle trasformazioni culturali che si sono verificate nella nostra società, per quanto riguarda il rapporto tra religione e cultura, nel giro degli ultimi secoli.

La religione ha perso il suo ruolo e la sua posizione di supremazia nella società civile: le strutture sociali e politiche non attingono più la loro legittimazione al mondo del sacro. L’identità religiosa non è più criterio rilevante di appartenenza sociale. Il pensiero religioso non gode più del riconoscimento ufficiale della comunità dei dotti e non svolge più quel compito di unificazione del sapere, che il mondo scientifico ritiene peraltro oggi impossibile e desueto: ogni disciplina si propone infatti di raggiungere un suo frammento isolato di verità, valido​​ etsi Deus non daretur,​​ e questa pacifica assenza di un centro del sapere è appunto una delle caratteristiche più qualificanti della cultura secolare.

Questa emarginazione della religione dai settori più significativi della vita e questo affrancamento della cultura da ogni ipoteca sacrale non comporta necessariamente un abbandono della fede, ma la sua riduzione all’ambito delle scelte personali e delle opinioni private. E tuttavia, per il fatto di non essere appoggiata dal consenso collettivo, la religione perde di peso psicologico anche nella vita individuale di molti credenti, che sembrano restare tali per fedeltà inerziale a una appartenenza non più significativa per la vita. L’abbandono più o meno radicale della fede è comunque consistente: la società si presenta così contrassegnata da un pluralismo religioso e ideologico rilevante. Le più diverse forme di fede religiosa convivono con l’assenza dichiarata di ogni credenza religiosa e con la critica positiva del fatto religioso in quanto tale.

 

4.​​ Il ruolo della mentalità scientifica e tecnica

Le cause di una simile perdita della rilevanza culturale della religione non possono essere viste unicamente nella fine del monolitismo religioso medioevale e nel conseguente relativismo religioso causato dalla riforma. Il ruolo giocato in questa svolta dall’illuminismo ci dice che essa ha radici più profonde, in una evoluzione interna dello stesso pensiero occidentale; evoluzione che è stata percepita all’interno della nostra cultura come una specie di uscita da una condizione di minorità e accesso a una emancipazione o maturità dello spirito. Un ruolo importante in questo cambio di mentalità è stato svolto dallo sviluppo delle scienze e della tecnica.

Lo sviluppo scientifico ha portato con sé il rovesciamento della visione del mondo che caratterizzava l’universo di pensiero tipico della cultura sacrale. L’uomo è stato detronizzato dalla sua posizione di centro dell’universo materiale, e il cosmo ha cessato di apparire come trasparenza diretta del divino. Le scienze hanno restituito autonomia ai dinamismi immanenti delle cause seconde, snidando gradualmente la causazione divina diretta da ogni angolo del mondo fisico o biologico. Lo sviluppo scientifico ha portato all’enfatizzazione del principio di sperimentalità. Al confronto delle scienze, il sapere religioso, privo per sua natura di ogni possibilità di verifica o di falsificazione, appare sempre più come un mondo separato di opinioni personali, oggetto di una opzione volontaristica cieca e irrazionale.

Il carattere discontinuo dello sviluppo delle scienze ha inoltre alimentato una specie di​​ «mito del superamento»,​​ il presente non è ripetizione ma superamento del passato; la novità è criterio di validità e di verità; la scienza fonda sulla perpetua rivedibilità e provvisorietà delle sue acquisizioni la sua credibilità. Il sapere religioso, nella misura in cui sembra arrogarsi immutabilità e definitività, appare al confronto inaffidabile.

Lo sviluppo tecnologico ha trasformato a sua volta l’immagine che l’uomo si faceva di sé stesso. Ha prodotto una struttura di pensiero particolare; ha creato un uomo nuovo, l'uomo della tecnica.

Elemento caratteristico di questa struttura di pensiero è una particolare forma di​​ antropocentrismo,​​ fondata sulla nuova consapevolezza delle possibilità che la tecnica offre all’uomo. La tecnica incanala la volontà umana di autoaffermazione verso il dominio della natura, e quindi verso obiettivi esclusivamente intramondani. Nella misura in cui la visione religiosa della vita poneva Dio al centro di tutto e ne faceva il fine ultimo dell’attività umana, l’autoaffermazione dell’uomo della tecnica è sembrata comportare la negazione di Dio.

La mentalità tecnica include il rifiuto di accettare la natura e di sottostare a un ordine naturale inviolabile e sacro; essa quindi esclude il rifiuto dell’ordine etico, quando sia visto come prolungamento della natura (legge naturale) o come legge imposta all’uomo da un Dio padrone e arbitro supremo del mondo.

Questa cultura peraltro non rifiuta soltanto la padronanza di Dio, ma anche la sua stessa paternità, elemento centrale della rivelazione cristiana: l’accelerazione della storia, che rende inutile l’esperienza, porta a una «società senza padre», al rifiuto di ogni paternità, all’ossessione di volersi costruire da soli, secondo i miti del​​ selfmademan.

È in fondo un atteggiamento coerente con la felice esperienza di costruttore che ha portato l’uomo della tecnica alla passione del costruire, e quindi al rifiuto di quella visione statica della realtà, che è servita per tanti secoli a veicolare il pensiero religioso. L’esperienza della fecondità della sua azione ha portato l’uomo della tecnica a identificare nel successo pratico la prova della verità di ogni teoria («criterio prassologico della verità»)​​ e quindi a rifiutare la dimensione autorinnegativa del messaggio cristiano e la legge della croce che lo caratterizza.

Del resto l'homo faber​​ identifica il costruire col fabbricare, sacrificando all’azione transitiva quella immanente, e limitando il suo orizzonte mentale al campo del suo lavoro: la terra è diventata l’unico oggetto delle sue preoccupazioni e delle sue speranze.

 

5.​​ Una occasione di purificazione per la fede

Questa terrenizzazione delle speranze e dell’orizzonte mentale, come del resto tutti gli elementi della mentalità secolare, ripropongono in termini nuovi il problema dell’annuncio della salvezza cristiana nel linguaggio della cultura secolare.

In quest’opera di incarnazione del vangelo nella nostra cultura, non sono mancati teologi, soprattutto protestanti che hanno creduto di dover accogliere le provocazioni della città secolare con tutta la possibile radicalità; essi hanno cercato di elaborare un vangelo totalmente secolarizzato. Ripensando in termini dialettici la distinzione tra fede e religione, hanno creduto di poter separare la fede cristiana da ogni riferimento religioso, identificando nella religione una contaminazione culturale contingente e superata del messaggio di salvezza (teologia della morte di Dio).​​ La fede, restituita alla sua originaria funzione di emancipazione dalle categorie sacrali, e vissuta come forma di responsabilizzazione radicale nei confronti del mondo, dovrebbe poter coesistere con la radicale secolarizzazione e mondanizzazione delle prospettive e delle speranze degli uomini della nostra cultura. La fede cristiana potrebbe così diventare la coscienza critica e profetica dell’uomo secolare, chiamato a vivere davanti a Dio una disincantata e coraggiosa assenza di Dio (Bonhffer).

Ma non è veramente possibile sopprimere ogni riferimento al Dio che si è rivelato in Cristo come presente alla storia umana, senza mutilare e stravolgere irreversibilmente la stessa essenza del cristianesimo.

La città secolare del resto non sente nessun bisogno di fondare le responsabilità etiche che essa vive su una qualsiasi fede, che sembrerebbe non aver nulla da aggiungere al distaccato agnosticismo che costituisce la sua visione del mondo.

D’altra parte una certa concezione del sacro, di stampo più naturistico che cristiano, può essere effettivamente superata senza alcuna compromissione della specificità teologale della fede, permettendo anzi alla fede di esprimere tutte quelle possibilità di emancipazione che essa porta in sé, e che una cultura sacrale non le permetteva di esprimere. Non per nulla la cultura secolare è il risultato di uno sviluppo interno alla cultura cristiana, omogeneo alle potenzialità evolutive di questa cultura. Indubbiamente la secolarizzazione provoca i credenti a una difficile purificazione della dimensione religiosa del loro credere; ma proprio questa purificazione si rivela come una preziosa occasione, per mobilitare tutte le capacità liberatrici interne al messaggio evangelico.

Così può essere ad esempio dell’immagine cristiana di Dio: liberato da ogni funzione suppletiva nei confronti delle cause seconde intramondane, che ne facevano il classico «tappabuchi», Dio potrà essere restituito alla sua funzione di senso e di speranza ultima di tutto l’impegno umano nel mondo.

 

6.​​ Il superamento​​ della concezione alternativa​​ del rapporto tra Dio e l’uomo

Così può essere della concezione del rapporto tra Dio e l’uomo. La sensibilità spirituale, guadagnata dall’uomo secolare attraverso l’esperienza della scienza e della tecnica, rendono possibile e necessario il superamento di ogni​​ concezione alternativa​​ del rapporto tra Dio e l’uomo e quindi tra sacro e profano.

Alla radice infatti di molte incomprensioni tra cultura secolare e religione si trova spesso una più o meno esplicita impostazione concorrenziale dei rapporti tra Dio e l’uomo; impostazione che ha pervaso a lungo il linguaggio della fede, alla maniera di un condizionamento culturale spurio ed ambiguo. Concezione alternativa o concorrenziale significa un modo di pensare il rapporto tra Dio e l’uomo che pone Dio e l’uomo sullo stesso piano, come entità contrapposte che si tolgono spazio a vicenda; così che per affermare l’uno sono costretto a negare l’altro; fare dell’uno il fine significa ridurre l’altro a mezzo. Concentrare l’attenzione sull’eternità equivale a svilire il tempo, riducendo questo mondo a uno scenario provvisorio e irrilevante.

In questa concezione il sacro è vissuto come «separazione per Dio», e quindi sottrazione all’uso mondano, espropriazione dell’umano a favore di Dio. La conseguenza pratica di questo modo di pensare è I’irrilevanza o per lo meno la strumentalizzazione radicale degli impegni terreni e delle responsabilità intramondane.

Messo di fronte alla necessità di una scelta alternativa, l’uomo secolare opta (almeno inconsapevolmente e perfino quando continua a credere) per il profano, ed emargina il sacro, divinizza l’uomo e dimentica Dio.

Ma una concezione alternativa del rapporto tra Dio e l’uomo non è soltanto inaccettabile per l’uomo secolare: essa si rivela sempre meglio come una eredità culturale fondamentalmente estranea al nucleo centrale del messaggio rivelato.

Il rapporto tra l’uomo e il Dio che si è rivelato in Cristo come Padre è un rapporto di amore creativo che esclude ogni antagonismo e strumentalizzazione; l’amore autentico vede nell’amato un fine e non un mezzo; non si può amare in senso proprio che una persona e non si può amarla che come persona, volendo il suo bene di persona, quindi la sua autonomia e libertà. Dio crea per amore e in forza di questo amore vuole per l’uomo ogni possibile pienezza di essere e di vita. In questa pienezza consiste la sua gloria. L’autorealizzazione umana, pur restando radicalmente dono di Dio, fonte di ogni essere e di ogni perfezione, è anche frutto di una responsabile assunzione da parte dell’uomo dell’impegno morale come propria autorealizzazione. L’autocompimento è per l’uomo il compito supremo, e il termine dei suoi desideri; in esso Dio realizza il massimo dono di sé, il culmine della sua autocomunicazione; Cristo che è questo culmine è quindi la verità ultima dell’uomo, la pienezza della vita.

 

7.​​ Evangelizzare la città secolare

La pastorale è chiamata a rispondere alle istanze dell’uomo secolare presentandogli un vangelo che non gli chieda alcuna dimissione di maturità, di autonomia, di responsabilità; che sia anzi il senso ultimo e una speranza trascendente di riuscita, proprio per i suoi compiti di costruttore di umanità.

La pastorale ha spesso tentato di provare il carattere necessario e insopprimibile della religione partendo dai limiti e dalle miserie della condizione umana. La condizione secolare esige invece un’apologetica che, senza ignorare questi limiti e queste lacune, sappia valorizzare anche le conquiste dell’uomo e le dimensioni positive della sua esistenza, come punto di partenza per una riscoperta di Dio. Riconoscere l’incompiutezza dell’uomo non significa necessariamente per i nostri contemporanei scoprire una fessura attraverso cui reintrodurre Dio; essa può suscitare al contrario un senso di responsabilità orgogliosa e disincantata; il tentativo di programmare una vita e una storia priva di ogni illusoria compensazione religiosa.

La fede ci ricorda che il dialogo dell’uomo con Dio non è tanto lo sbocco naturale dei limiti della condizione umana quanto il risultato di una iniziativa gratuita di Dio. Ma nella misura in cui il credente sa che questa iniziativa gratuita è, nel concreto ordine storico della salvezza l'unum necessarium,​​ egli metterà la sua vita al servizio di questa testimonianza, senza orgoglio, ma anche senza complessi di inferiorità. Ma non cercherà di agganciare il suo annuncio alle miserie e alle lacune dell’uomo, bensì alle sue vittorie e alle sue conquiste, cioè alla sua libertà e alla sua responsabilità di cui Dio resta il senso ultimo e l’orizzonte decisivo.

 

8.​​ Le contraddizioni della cultura secolare

La descrizione che abbiamo appena abbozzato della cultura secolare e della mentalità scientifico-tecnica che la ispira peccherebbe di semplicismo e di idealizzazione, se non tenessimo conto in modo adeguato delle profonde contraddizioni che attraversano questa cultura.

L’uomo contemporaneo è infatti ricco di incoerenze. Il passato anche più remoto sembra sopravvivere in lui, e farne un essere in ritardo sull’universo tecnico e scientifico da lui stesso messo in moto. La lucidità del pensiero scientifico convive con elementi di irrazionalità; la stessa razionalità tecnologica si esaurisce troppo spesso nell’ambito della funzionalità strumentale, e non riesce a diventare razionalità sostanziale.

Nonostante il suo umanesimo l’uomo secolare ha infierito sull’uomo come mai era avvenuto in passato. Ancora oggi due terzi dell’umanità soffrono la fame in una situazione di sottosviluppo umiliante, mentre si sprecano risorse ingentissime nel creare la possibilità di un immane suicidio collettivo.

Lo storicismo tipico della mentalità secolare non impedisce a molti uomini di vivere nell’attesa di un tempo sacro intrastorico, capace di realizzare il paradiso sulla terra. La persistenza delle ideologie è all’origine di forme faraoniche di schiavitù collettiva; nuovi riti e nuovi miti occupano in modo ambiguo lo spazio psicologico lasciato libero dalla caduta delle forme tradizionali di religiosità. Ancora una volta sembra rivelarsi in queste contraddizioni una specie di radicale e insuperabile insufficienza dell’uomo, che fonderebbe la sua costitutiva necessità di Dio. Si direbbe che l’atteggiamento religioso risponde a un bisogno insuperabile, così che l’assenza di uno sbocco religioso vero e proprio costringa l’uomo a rifugiarsi in forme ambigue di religiosità decaduta. E naturalmente si presenta per la pastorale la tentazione di profittare di queste contraddizioni, per mettere l’uomo secolare con le spalle al muro della sua insopprimibile sete del divino.

Ma ancora una volta riteniamo che puntare sulle incoerenze, le lacune e le debolezze dell’uomo secolare, se potrà raggiungere in maniera più o meno convincente le singole persone all’interno di questa cultura, non aiuterà ad attuare una convincente evangelizzazione della cultura secolare in quanto tale. L’evangelizzazione di questa cultura non dovrebbe consistere tanto in un suo improbabile ripiegamento sulle posizioni di un passato culturale, che essa ritiene di avere sorpassato definitivamente, quanto in un suo andare oltre l’instabile equilibrio di valori e di significati, che essa crede di avere raggiunto. È soltanto portando fino al fondo i suoi aspetti positivi, che questa cultura potrà incontrare il vangelo, non come mascheramento delle sue residue contraddizioni, ma come compimento ultimo delle sue conquiste e delle sue speranze.

 

Bibliografia

Acqua viva S.,​​ L ’eclisse del sacro nella civiltà industriale, ed. Comunità, 1971;​​ Cultura secolarizzata e autenticità cristiana,​​ Marietti, Torino, 1971; De Rosa G.,​​ Fede cristiana, tecnica e secolarizzazione,​​ ed. Civiltà Cattolica, Roma 1970; Luebbe H.,​​ La secolarizzazione, Storia e analisi di un concetto,​​ Mulino, Bologna 1970; Luckmann J.,​​ La religione invisibile,​​ Mulino, Bologna, 1969; Nijk A. J.,​​ Secolarizzazione,​​ Queriniana, Brescia 1973; Schillebeeckx E.,​​ Dio, il futuro dell’uomo,​​ E. P., Roma 1970.

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SECOLARIZZAZIONE

Il termine s., come strumento descrittivo e analitico, è carico di molteplici significati e non vi è accordo circa quello che dovrebbe avere nella teoria sociologica. Dice a proposito Lary Schiner (Acquaviva-Guizzardi, 1973) che l’unica cosa che si può forse dire con certezza del concetto di s. è che raramente si può essere sicuri di che cosa esattamente voglia dire quando viene usato. Il termine, infatti, è stato utilizzato in tanti sensi anche tra loro contrapposti. Un altro motivo per cui esso si presenta scientificamente sospetto sta nel fatto che si trasforma facilmente in un giudizio di valore e viene strumentalizzato e adoperato ideologicamente (​​ ideologia). In ciò può avere responsabilità un certo ottimismo razionalista, che dà eccessivo rilievo alla​​ ​​ religione come sistema di spiegazione e che ne prevede poi la progressiva scomparsa soppiantata alla ragione oggettiva. Sulla stessa linea ottimistica si muoveva anche l’ideologia marxista ortodossa che proclamava come inevitabile il declino e l’uscita di scena del fenomeno religioso, in connessione col trionfo della scienza e della​​ ​​ ragione.

1. Oggi esiste un’area geografica a cui la teoria della s. si può applicare molto bene: l’Europa. Al contrario, la religione continua a esercitare un profondo influsso nel resto del mondo: l’Oriente e il Sud-Est asiatico, le regioni asiatiche meridionali e il mondo musulmano, l’Africa e l’America Latina, e anche gli Stati Uniti continuano ad essere Paesi profondamente religiosi. Forse ha ragione Peter Berger quando propone che la teoria della s. dovrebbe essere nobilitata dal concetto di «teoria della pluralizzazione» nel processo di modernizzazione (1994). La parola​​ ​​ pluralismo non è così ambigua e significa nell’uso comune la coesistenza, in certa misura pacifica, di gruppi diversi in una stessa società, il che implica un certo grado di​​ ​​ interazione sociale. Il processo di s. comincia in corrispondenza con lo sviluppo delle scienze, della tecnica, della vita in società, dell’auto-comprensione dell’individuo: esso riguarda soprattutto le strutture sociali, pur senza negare l’importanza della religiosità individuale. Le religioni in Occidente hanno perso di rilevanza sociale e politica, poiché esercitano sempre di meno quel potere di plasmare la società che hanno posseduto per secoli.

2. Alcuni autori indicano due errori da evitare al riguardo della s. Il primo consiste nel partire dalla negazione dei fenomeni attuali di crisi per concludere nel senso della permanenza o dell’invarianza della funzione religiosa in Occidente; nel secondo caso si inferisce dall’indiscutibile declino del ruolo della religione nelle nostre società la certezza che essa sia destinata a svanire senza lasciare tracce. Le istituzioni religiose, raggiunte dalla modernità e dai cambiamenti sociali, sono state depotenziate nelle loro risorse del​​ ​​ sacro. Ora il sacro deborda dallo spazio delle religioni, si trova libero, diffuso, fruibile in più direzioni. I processi di s. sono andati avanti e parallelamente si sono create ampie zone franche non più controllate da un’autorità e sempre più aperte a esperienze differenziate. Il termine s. risulta nel contesto odierno sempre più insufficiente a indicare e comprendere i nuovi modi di intendere i problemi e i nuovi stili di vita: esso è diventato troppo ambiguo. I nuovi dati esulano dal modello prefigurato dal principio di s., anche a partire dagli ambienti della moderna razionalità formale. La s. non è né omogenea, né universale, né univoca nei suoi effetti, come era stato previsto da alcuni autori che avevano sottostimato le risorse di sopravvivenza, di adattamento, di ricomposizione e di innovazione della religione nel mondo moderno. Alcuni sociologi sono del parere che esistono oggi delle forme religiose che sono ormai un esito della s. e che insieme configurano una fase storica che si può definire «post-secolare». Proprio sul terreno della s. si sono manifestati fenomeni culturali significativi come il bisogno di eticità, la domanda di spiritualità, la rivalutazione delle esperienze del sacro e la rinascita di forme nuove e varie di religiosità. La s. si presenta come processo di scomposizione più che di cancellazione del religioso, che produce diverse visioni del mondo, diverse fedi, diversi valori, diverse chiese e diverse appartenenze.

3. Il punto più importante nell’evoluzione della religiosità odierna è la smentita dell’ipotesi relativa ad un suo regresso irreversibile come volevano alcuni interpreti della s. Per descrivere i molti fermenti di innovazione religiosa ed ecclesiale che si riscontrano nel mondo anche occidentale è stato impiegato il termine di «de-s.». Teorie diverse e contrastanti avevano disegnato schemi interpretativi al cui interno si riduceva sempre più lo spazio delle tematiche dell’​​ ​​ appartenenza religiosa, ritenute forme arcaiche per la costruzione di identità pubbliche e private. La moltiplicazione crescente delle nuove forme religiose ha chiaramente smentito ogni ipotesi sul senso irreversibile e unidirezionale delle trasformazioni sociali in atto. Nell’Ottocento era opinione comune che i processi di modernizzazione favorissero ineluttabilmente l’eliminazione delle religioni: ma oggi, all’inizio del terzo millennio, è opinione prevalente che le religioni sono ineliminabili dal mondo sociale, e dunque continueranno per sempre a caratterizzare la storia umana. A questo riguardo dice F. Sidoti: «Da questo punto di vista nelle società ci saranno sempre fenomeni religiosi, e importante non è tanto la riflessione su s. o de-s., ma piuttosto la discussione in merito a quali forme di religiosità sono preferibili per la stabilità di una società democratica» (Sidoti, 1992,17). La cultura positivista nelle sue varie accezioni era impreparata a prevedere sia un regresso così forte nella diffusione dello spirito laico, sia una rinascita impetuosa dei fenomeni religiosi in parte all’interno e in parte all’esterno delle forme tradizionali. La s. risulta nel contesto odierno sempre più insufficiente a indicare e comprendere i nuovi modi di intendere i problemi religiosi e le espressioni e gli stili nuovi di vita religiosa. Essa nonostante la grande attrattiva esercitata è ben lontana dall’avere un’accezione comune presso i diversi autori e ambienti, e la nuova fenomenologia religiosa si stacca dal modello da essa prefigurato. Molte delle nuove forme di religione e di religiosità costituiscono risposte a bisogni creati da processi messi in moto proprio dalla modernizzazione, che avrebbero dovuto al contrario portare a un irriducibile antagonismo tra religione e modernità secondo la tesi formulata sulla base dell’opera di Weber, per cui la religione nell’età moderna si sarebbe avviata a diventare un fattore sempre più marginale e ad occupare soltanto gli spazi della vita e delle scelte private. La persistenza del religioso, e non soltanto del sacro, è uno degli indicatori più significativi della crisi di fiducia nella​​ ​​ modernità (ragione, scienza, progresso) da parte dell’uomo tecnico.

Bibliografia

Acquaviva S. - G. Guizzardi (Edd.),​​ La s.,​​ Bologna, Il Mulino, 1973; Rosanna E.,​​ S. o trasfunzionalizzazione della religione?,​​ Zürich, PAS-Verlag, 1973; Acquaviva S. - R. Stella,​​ Fine di un’ideologia: la s.,​​ Roma, Borla, 1989; Backford J.,​​ Nuove forme del sacro,​​ Bologna, Il Mulino, 1990; Dal Lago A.,​​ Il paradosso dell’agire. Studi su etica,​​ politica e s.,​​ Napoli, Liguori, 1990; Martelli S.,​​ La religione nella società post moderna. Tra s. e de-s.,​​ Bologna, Dehoniane, 1990; Campanini G.,​​ Cristianità e modernità. Religione e società nell’epoca della s.,​​ Roma, AVE, 1992; Menozi D.,​​ Storia della s.,​​ Milano, Einaudi, 1992; Sidoti F.,​​ Politeismo dei valori,​​ Padova, CEDAM, 1992; Menozi D.,​​ La Chiesa cattolica e la s.,​​ Torino, Einaudi, 1993; Berger P. L.,​​ Una gloria remota. Avere fede nell’epoca del pluralismo,​​ Bologna, Il Mulino, 1994; Berzano L.,​​ Religiosità del nuovo areopago. Credenze e forme religiose nell’epoca postsecolare,​​ Milano,​​ Angeli, 1994; Lübbe H.,​​ Säkularisierung. Geschichte eines ideenpolitischen Begriffs, München, K. Albert, 2003; Dal Ferro G. et al.,​​ Dialogo con la s.?, Venezia, Istituto di Studi Ecumenici, 2003.

J. Bajzek

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SECOLARIZZAZIONE

SEGNI DEI TEMPI

SEGNI DEI TEMPI

Mario Midali

 

1. Che cosa sono i segni dei tempi?

1.1. Il senso storico-sociologico

1.2. Il senso teologico

1.3. Trasparenza di Dio nella storia

2. La complessità dei segni dei tempi

2.1. Caratteristiche

2.2. Quali segni dei tempi oggi?

3. A chi spetta discernere i segni dei tempi

4. Criteri di discernimento e condizioni per attuarlo

4.1. Criteri di discernimento

4.2. Condizioni per attuarlo

 

I segni dei tempi sono un modo caratteristico e qualificante di interpretare, alla luce della fede, determinati eventi storici intraecclesiali ed extraecclesiali. Rientra nel discorso attinente lo «sguardo di fede», ma focalizzato non tanto sul quotidiano, quanto piuttosto su avvenimenti frequenti e generalizzati. La formula «segni dei tempi» compare come categoria portante nell’enciclica​​ Pacem in terris​​ di Papa Giovanni XXIII. Viene introdotta negli atti iniziali del Vaticano II e vi si impone con forza crescente nel fluire delle problematiche conciliari. È assunta come categoria fondamentale specialmente nella costituzione​​ Gaudium et spes,​​ dove viene tematizzata, benché non in forma sistematica. È poi fatta propria da Paolo VI nell’Ecclesiam suam,​​ ed è ormai diventata d’uso corrente nel linguaggio teologico-pastorale.

 

1.​​ Che cosa sono​​ i segni dei tempi?

Stando alle autorevoli indicazioni del Vaticano II, i segni dei tempi sono fatti od eventi che hanno un doppio senso congiunto: un senso corrente connotabile come storicosociologico e un senso propriamente teologico.

 

1.1. Il senso storico-sociologico

Secondo la spiegazione data dalla sottocommissione speciale incaricata di elaborare e modificare lo schema 13 (divenuto poi costituzione​​ GS)​​ e che introdusse per la prima volta tale espressione nei testi conciliari, sono segni dei tempi «quei fenomeni che per la loro generalizzazione e la loro frequenza caratterizzano un’epoca, ed attraverso i quali si esprimono i bisogni e le aspirazioni dell’umanità» (Chenu M. D.,​​ Les signes des temps,​​ II 208). I passi in cui ricorre la formula parlano di «avvenimenti» rivelativi di «interrogativi», «aspirazioni», «richieste», «attese» degli uomini del nostro tempo​​ (GS​​ 4a, 1 la). In altre parole, i segni dei tempi sono per così dire le linee di forza di un’epoca, sono quegli eventi che manifestano gli orientamenti di fondo sottesi a fatti contingenti e che mostrano, sia pure parzialmente, le prospettive caratteristiche di un’epoca, le sue sensibilità, i suoi punti di vista preferiti, le sue aspirazioni e attese. Di conseguenza, cogliere i segni dei tempi significa comprendere lo spirito di un’epoca.

Questo fa capire che non tutti i cambiamenti né tutti i fenomeni che si verificano in un momento storico sono da considerarsi segni dei tempi. Sono tali solo quegli avvenimenti o movimenti in cui si rivela la sensibilità propria del tempo e il complesso dei valori verso cui un’epoca è orientata o aspira. A questo proposito il Vaticano II annovera tra i segni dei tempi ad es. il movimento liturgico​​ (SC​​ 43a), le iniziative ecumeniche​​ (UR​​ 4a), i fenomeni sociali contemporanei che vanno sotto il nome di «accelerazione della storia»​​ (GS​​ 4), socializzazione​​ (AA​​ 14c;​​ GS​​ 6), secolarizzazione​​ (GS​​ 4-7, 33, 36), personalizzazione (GS 26b, 6e;​​ DH​​ 15ac). L’attuale ricerca storico-sociologica ne indica altri caratteristici degli anni ’80 (vedi oltre n. 2.2).

 

1.2. Il senso teologico

I segni dei tempi così intesi sottendono un significato propriamente teologico, accessibile solo tramite un giudizio di fede, fattibile unicamente da parte di credenti. Da questo punto di vista si chiamano segni dei tempi gli stessi avvenimenti umani segnalati, ma visti come eventi che manifestano e insieme occultano — secondo che si sanno leggere o no — un’altra realtà che li trascende, pur rimanendo vitalmente innervata in essi, per il fatto che ne sono segno, cioè degli indicatori. Quest’altra realtà non si riduce all’insieme delle urgenze e aspirazioni di un’epoca ma, all’interno di esse, contiene e rivela una libera presenza operativa dello Spirito Santo che, appunto in questo modo, guida il cammino dell’umanità verso la realizzazione del suo destino finale, sostenendone le aspirazioni se conformi alla dignità della persona umana, e invece contestandole se contrarie ad essa. Questo senso teologico dei segni dei tempi è chiaramente indicato e ripetutamente sottolineato dai testi conciliari. Così il movimento liturgico contemporaneo «è giustamente considerato (...) come un passaggio dello Spirito santo nella Chiesa»​​ (SC​​ 43a). Le varie iniziative ecumeniche sono attribuite all’«impulso della grazia dello Spirito Santo»​​ (UR​​ 4ab). «Negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni (...) del nostro tempo» occorre discernere «i veri segni della presenza (...) di Dio»​​ (GS​​ Ila).

 

1.3. Trasparenza di Dio nella storia

Divenuta d’uso corrente, la formula «segni dei tempi» è stata sovente equivocata e riempita di significati difformi da quelli indicati dal Vaticano II e da una corretta riflessione teologica. Merita di essere precisata.

I temini chiave da chiarire sono quelli di storia e di presenza. I segni dei tempi emergono dalla storia intesa non come miniera di fatti od esempi utili per illuminare una dottrina, ma come vita vissuta, come evento frutto di libere scelte umane, che diventa materia di riflessione teologica, perché suscita una nuova consapevolezza e stimola una presa di posizione di fronte a una misteriosa presenza operativa di Dio che si rivela appunto in tale vissuto.

Come intendere questa trasparenza dinamica del divino nella storia? L’azione di Dio non va intesa come quella di un agente accanto ad altri, quasi che Dio fosse una specie di super-agente della storia accanto agli uomini piccoli protagonisti delle scelte con cui strutturano l’umanità nel corso dei secoli. L’azione di Dio nei segni dei tempi non va ancora intesa come quella di un agente che opera sì nella storia, ma unicamente in settori particolari a lui riservati: l’azione di Dio investe l’intera esistenza umana, fa in modo che essa viva e operi, nel rispetto della sua realtà creaturale, e nulla può essere sottratto al suo influsso o alla sua presenza, ancorché differenziata secondo i casi.

Tale azione di Dio non va ancora intesa come una sovrapposizione a quella dell’uomo con questa specificità: essa punterebbe a una finalità evangelica nel senso che l’avvenimento diventerebbe un appello.

In tutti questi casi azione di Dio e azione storica dell’uomo sono considerate in una visuale dualista che la​​ Gaudium et spes​​ ha tentato di superare.

La presenza di Dio significata dai segni dei tempi va intesa piuttosto in questo modo: come incontro della libertà divina e della libertà umana nel santuario della coscienza degli uomini. Gli eventi e gli avvenimenti sono percepiti dalle coscienze degli individui e delle collettività, ed in esse Dio incontra i singoli, ne illumina le scelte, ne sostiene le decisioni, ne orienta gli impulsi nel senso di un’aspirazione a determinate mete umanizzanti, di rifiuto di situazioni disumane, di ricerca e di adesione a valori emergenti. In breve, si tratta di una presenza di Dio nelle coscienze e nelle volontà delle persone in quanto stanno alla radice dei fenomeni designati come segni dei tempi.

Questi fanno trasparire tale presenza, sono appunto il luogo della «trasparenza divina» nella storia. È questo il significato chiaramente inteso dai testi della​​ Gaudium et spes (GS​​ 26d, 38a, 41a).

Esso si colloca sul versante antropologico, non su quello cristologico ed escatologico, che è quello presente nella Bibbia. Per questa ragione il Concilio evitò opportunamente di motivare con citazioni bibliche i suoi asserti.

 

2.​​ La complessità dei segni dei tempi

I segni dei tempi si prestano facilmente a false interpretazioni e a visioni esclusiviste, dovute per lo più al fatto che si disattende la loro complessità o la molteplicità delle seguenti loro caratteristiche.

 

2.1. Caratteristiche

La mobilità.​​ I segni dei tempi non hanno sempre lo stesso potere di indicazione. La loro significatività varia col mutare dei tempi, precisamente perché si riferisce a entità variabili quanto sono i tempi. Un segno può essere indicativo in un tempo, cessare di esserlo in un altro e ridiventarlo, magari con sfumature diverse, in un altro ancora. Nessun segno dei tempi può essere assolutizzato come significativo per sempre. Alcuni segni dei tempi indicati dal Vaticano II per gli anni ’60 non lo sono più per gli anni ’80.

La diversità.​​ I segni non danno le stesse indicazioni in tutti i luoghi e per tutte le culture. Certi fenomeni indicano orientamenti e valori della civiltà occidentale soltanto. In altre culture attuali non esistono neppure, o non esistono ancora, od hanno un altro significato. La relatività dei segni dei tempi non si riferisce dunque solamente al tempo, ma anche allo spazio. Così il Vaticano li non ha indicato come segno dei tempi l’anelito alla liberazione da molteplici forme oppressive. Secondo le indicazioni di vari episcopati dell’America latina, dell’Asia e dell’Africa, tale ricerca liberatrice è un palese segno dei tempi di detti continenti.

L’ambivalenza.​​ I segni dei tempi hanno significati ambivalenti, almeno in un doppio senso. Anzitutto in quanto il loro senso storico-sociologico e teologico, pur essendo congiunti, non si identificano. Poi perché i sensi storico-sociologici sono aperti sia al bene che al male come lo è la storia umana. Questa infatti è animata non solo dallo Spirito del Cristo risorto, ma anche dallo spirito del male. Essa è frutto insieme dal mistero di salvezza e dal mistero di iniquità. I grandi fenomeni indicati dal Vaticano II come segni dei tempi non sono privi di pericoli, di rischi, di espressioni variamente deviami.

La sovrapposizione.​​ I segni esprimono una molteplicità di aspirazioni, di valori e di ispirazioni divine che si sovrappongono e si intrecciano in un tutt’uno. Il distinguerli in gruppi è legittimo ma è insieme relativo.​​ La non unicità.​​ I segni dei tempi non sono le uniche indicazioni di Dio alla sua Chiesa, neppure a livello di avvenimenti. Essi sono le indicazioni più importanti e significative, ma non le uniche. Si integrano nel dettaglio delle vite di ogni giorno, anche le più banali, che sono esse pure e sempre un appello di Dio a cooperare concretamente a realizzare i suoi progetti. Accanto ai segni dei tempi vi sono quindi i segni quotidiani ed ordinari del volere divino per i singoli e per le comunità ecclesiali.

La rinnegabilità.​​ I segni dei tempi indicano aspirazioni umane e orientamenti che di fatto sovente si realizzano solo in modo parziale e incompleto, od anche non si realizzano affatto. Sono accompagnati perciò da squilibri, frustrazioni e mistificazioni ad es. denunciati dalla​​ GS​​ (nn. 4-10). E però anche tali deviazioni concorrono, sia pure in negativo, a mostrare il loro doppio senso: di promozione di valori l’uno, di contestazione di non valori o di situazioni insostenibili l’altro.

 

2.2. Quali segni dei tempi oggi?

Voler redigere un elenco esaustico di essi in riferimento all’attuale situazione sociale ed ecclesiale anche solo occidentale è rischioso, data la mobilità che li caratterizza. Ciò che qui si può fare è limitarsi a qualche semplice segnalazione indicativa che tiene conto specialmente dell’attuale realtà giovanile a livello europeo.

I profondi e rapidi cambi socio-culturali e religioso-ecclesiali verificatisi nel periodo del postconcilio hanno fatto emergere nuovi segni dei tempi, ad es. in riferimento alla realtà familiare, al mondo del lavoro, ai rapporti donna-uomo nella società e nella Chiesa, alla condizione giovanile, alla difesa dei diritti umani e alla ricerca della pace. Li segnalano gli autori delle rispettive voci del presente dizionario.

Ampliandone la prospettiva, si può rilevare che oggi si avverte più acutamente che in passato un fatto: il «benessere» neocapitalista sancisce la prevalenza dei bisogni «poveri» sui bisogni «ricchi» e conduce all’appiattimento economicistico della persona. Sotto la bandiera dello sviluppo della produzione e del «benessere» è, in realtà, la subordinazione della persona al feticcio dell’oggetto di consumo che viene contrabbandato.

Ciò provoca in strati significativi, anche se non prevalenti, della popolazione e specialmente del mondo giovanile, la crescita del «bisogno di cultura», intesa come ricerca di senso e non come accesso al potere, del «bisogno di contemplazione», come forma di conoscenza non strumentale, del «bisogno di comunicazione», come base di più autentiche forme di socializzazione, del «bisogno di pace», esteso fino agli animali e all’ambiente naturale.

Alla base vi è un’altra aspirazione, che si oppone frontalmente alla tradizione borghese e «marxista ortodossa», quella di una nuova identità, di un nuovo stile esistenziale, di un nuovo modo di essere, ricercato e raggiunto in forme certo limitate, forse criticabili o anche deprecabili, ma in ogni caso indicative di una nuova sensibilità di fondo. In essa l’esigenza di vivere in modo significativo e coerente si unisce a quella di essere in pace, di esprimersi liberamente, di contemplare e di conoscere, di essere solidali con gli altri. Tutto ciò porta in sé un potenziale davvero rivoluzionario e, pur essendo essenzialmente laico, è ciò che di più evangelico è stato espresso dalla cultura dei nostri giorni. Non uno sviluppo umano senza rapporti con le sue basi materiali, ma il progresso attraverso l’aumento della libertà, personale e collettiva, d’espressione dei valori di cui vuol vivere l’individuo e la comunità, attraverso la rinuncia volontaria al dominio, al possesso, alla riuscita, al riconoscimento sociale: ecco un segno dei tempi in seno al quale la Chiesa è chiamata a far risuonare l’annuncio di Dio, che è suprema libertà e gratuità ed è il dono infinito fatto all’uomo, perché questo scopra sé stesso come libertà, gratuità e dono di sé.

 

3.​​ A chi spetta discernere i segni dei tempi

Secondo la​​ Gaudium et spes,​​ discernere i segni dei tempi è compito permanente di tutto il popolo di Dio e quindi dei pastori e dei fedeli presi nel loro insieme. «È dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del vangelo»​​ (GS​​ 4a). «Il popolo di Dio, mosso dalla fede [...], cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio»​​ (GS​​ 11 b).

Ma all’interno dell’unico popolo di Dio hanno una particolare responsabilità in merito i pastori e i teologi. È soprattuto loro il dovere «di ascoltare attentamente, capire e interpretare i vari modi di parlare del nostro tempo, e di saperli giudicare alla luce della parola di Dio, perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venire presentata in forma più adatta»​​ (GS​​ 44b).

Ciò non solleva gli altri soggetti attivi dell’agire ecclesiale dalle loro precise responsabilità. Il decreto conciliare dedicato ai presbiteri evidenzia il compito che hanno al riguardo i preti e i laici, e sottolinea l’esigenza e l’urgenza di una loro assidua collaborazione in questo delicato compito. «Siano pronti [i presbiteri] ad ascoltare il parere dei laici, considerando con interesse fraterno le loro aspirazioni e giovandosi della loro esperienza e competenza nei diversi campi dell’attività umana, in modo da poter riconoscere i segni dei tempi»​​ (PO​​ 9b ed anche 6b).

In una visuale più generale va tenuto presente l’illuminante magistero conciliare e postconciliare sui carismi cioè sui doni liberi che lo Spirito Santo elargisce ai fedeli. Attraverso tali doni, Egli li abilita a percepire la sua azione nella storia e il futuro che in questo modo prepara alla comunità cristiana (cf​​ LG​​ 12b;​​ AA​​ 3) . Tra coloro che sono gratificati di particolari carismi, vanno ricordati in modo speciale i profeti che il Signore non lascia mai mancare alla sua Chiesa e alla stessa umanità. Sono loro quelli che, in generale, sono più sensibili alla trasparenza divina negli eventi umani e la possono indicare alla comunità cristiana.

 

4.​​ Criteri di discernimento e condizioni per attuarlo

Discernere i segni del tempo è un compito tutt’altro che facile. Si può incorrere nel rischio per nulla ipotetico del soggettivismo, del facile moralismo; si possono formulare giudizi troppo affrettati e applicare valutazioni prefabbricate ad avvenimenti sempre cangianti. In alcune indicazioni sintetiche offerte dal Vaticano II e soprattutto analizzando il procedimento conoscitivo da esso attuato nella redazione della​​ Gaudium et spes​​ è possibile cogliere i criteri con cui discernere i segni dei tempi e le condizioni richieste per assolvere con successo tale impegno.

 

4.1. Criteri di discernimento

Oltre il riferimento generale e fondante costituito dal vangelo e, precisamente, dai segni che nel NT sono serviti per identificare la presenza speciale e unica di Dio nel Signore Gesù, i criteri suggeriti e concretamente impiegati dal Vaticano II sono sostanzialmente tre:

—​​ il carattere provocatorio​​ del segno, ossia la capacità di suscitare reazioni: ciò è collegabile all’estensione, alla frequenza e alla drammaticità che sovente caratterizza gli avvenimenti qualificati come segni dei tempi;

—​​ la significatività​​ del segno, cioè la sua capacità di veicolare un messaggio, di segnalare dei valori, di additare delle mete verso cui tendere, come sono in generale il superamento di forme disumane di esistenza e il raggiungimento di una migliore qualità di vita;

—​​ il messaggio​​ o i valori indicati dal segno e concernenti una reale promozione umana, considerata nella pienezza dei suoi aspetti di creazione e redenzione e riempita di contenuti non astratti ma concreti, ossia rispondenti alle esigenze di un determinato contesto, come sono ad es. quelle segnalate sopra (n. 2.2).

 

4.2. Condizioni per attuarlo

Quanto alle condizioni richieste per attuare il discernimento dei segni dei tempi, i testi conciliari e la letteratura recente sottolineano le seguenti:

— innanzi tutto l’importanza e l’insostituibilità di​​ un’informazione​​ seria e aggiornata che fornisca il materiale e lo stimolo per una costante ricerca delle richieste concrete poste alla missione della Chiesa; occorre però che le informazioni siano illuminate e vagliate criticamente alla luce del vangelo;

— in secondo luogo la necessità del​​ dialogo​​ intraecclesiale, tra pastori e fedeli, tra presbiteri e laici, ed extraecclesiale, con gli uomini del nostro tempo; esso è già necessario per la percezione e il riconoscimento dei segni dei tempi, per quanto debba poi protrarsi anche nei due momenti successivi della valutazione e dell’accettazione; la natura obiettiva dei segni, in quanto eventi storici, dovrebbe facilitare il raggiungimento di un accordo circa la loro individuazione; in ogni caso occorrerà rinunciare al senso di autosufficienza e cercare invece positivamente l’intesa con gli altri;

— in terzo luogo​​ la presenza esperienziale​​ del popolo di Dio nel tessuto vivente degli eventi, in modo da poter cogliere, all’interno di essi, tramite una reale simpatia e una profonda sintonia con gli interrogativi e i bisogni, con le aspirazioni e le attese che li caratterizzano, i segni di una divina presenza; è qui implicato il discorso della​​ Gaudium et spes​​ sulla condivisione della condizione umana da parte del popolo di Dio.

 

5.​​ Conclusione

Intesi in senso teologico, i segni dei tempi rivelano le strade che Dio apre al cammino della sua comunità, manifestano ciò che Dio chiede​​ hic et nunc​​ ad essa. I testi conciliari parlano in proposito di «disegni di Dio» sul tempo presente e di connessi «doveri» o «compiti» storici della Chiesa (cf​​ SC​​ 43a;​​ A A​​ 15c;​​ GS​​ 4a, Ila). Ciò rientra nelle responsabilità di una pastorale e di una pastorale giovanile che intenda muoversi secondo le autorevoli indicazioni della Chiesa conciliare, fedele interprete del vangelo di Dio nell’attuale tornante della storia umana.

 

Bibliografia

Chenu M. D.,​​ Les signes des temps. Reflexion theologique, in L ’Eglise dans le monde de ce temps, Paris 1967, 205-225; Gennari G.,​​ Segni dei tempi, in Nuovo Dizionario di Spiritualità, Paoline, Roma 1979, 1400-1422; Valadier P.,​​ Signes de temps, signes de Dieu?, in Etudes (ago.-sett. 1971) 261-280; Valentini D.,​​ Segni dei tempi, in Dizionario di pastorale della comunità cristiana, Cittadella, Assisi 1980, 532-534; Van Caster M.,​​ Catéchèse des signes de notre temps, in Lumen Vitae 21 (1966) 225-267.

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SEGNI DEI TEMPI

SEGNI LITURGICI

 

SEGNI LITURGICI

Per quanto i segni nella liturgia siano elementi secondari, tuttavia essendo i primi ad essere percepiti sono anche condizionanti. A volte la loro accettazione o il loro rifiuto stanno a dire rispettivamente l’accettazione o il rifiuto delle realtà di cui essi sono vettori. Ora dato che la liturgia è prima fonte e norma per la dottrina in vista della vita (cf lex orandi – lex credendi – lex vivendi), essa deve considerare con serietà: parole, gesti, simboli, riti (= linguaggio liturgico). Similmente l’operatore catechista deve conoscere il linguaggio liturgico nelle sue manifestazioni signali per adeguare l’azione cat .-liturgica ai contenuti di cui i segni vogliono essere trasmettitori.

1.​​ I problemi e le problematiche.​​ La riforma lit. postconciliare, recando il dettato e lo spirito dei principi sanciti dai Padri Conciliari, ha operato una semplificazione dei segni lit., ma non li ha eliminati. Infatti la liturgia è l’esercizio del sacerdozio di Cristo per mezzo di segni sensibili (cf SC 7). Questi però non sono segni “nudi”, bensì di una realtà sacra (SC 21), perché la liturgia si serve di segni sensibili per significare le invisibili realtà divine (SC 33). Anzi è di primaria importanza che i fedeli comprendano i segni lit. (SC 59). Essi sono però accompagnati da una serie di problemi e problematiche a cui si vuole qui accennare per chiarire e per semplificare quanto a volte è ancora fasciato di opinabile. Per esempio, dai competenti si discute ancora sulla diversità tra segno e simbolo; esistono anzi diverse scienze che si interessano dei segni, quali: semantica, semeiotica, simbologia, ecc., i cui rispettivi confini rimangono ancora oggi da circoscrivere. Qui — per necessità — si ricordano solo i seguenti problemi e/o problematiche legati ad alcuni centri di interesse.

a)​​ Terminologia e realtà soggiacenti.​​ Il​​ segno​​ è una realtà sensibile (udibile, visibile, tangibile, di cui in qualche modo si può fare esperienza con i sensi) che fa da ponte tra la cosa che significa e coloro ai quali la significa e la fa presente. Comunemente, seguendo F. de Saussure, ogni segno comporta: un​​ significante​​ (l’elemento o realtà sensibile), un​​ significato​​ (la realtà evocata o significata), la​​ significazione​​ (la effettiva capacità di un significante di “dire”, “comunicare” il significato). Si avrebbe un →​​ simbolo​​ quando il significante, invece di rinviare a un significato, invia a sua volta a un significante. Quanto di positivo e di negativo si può asserire del segno, andrebbe almeno duplicato per il simbolo. Il segno senza dubbio​​ svela​​ la realtà significata, ma non riuscendo a svelarla completamente, la​​ vela, fomentando​​ il desiderio di comprendere sempre più quanto “non” “dice-comunica” pienamente. Ogni segno è​​ ambivalente​​ (dice e non dice), è​​ pregnante​​ (dice e dice ancor di più), è​​ ridondante​​ (dice e potrebbe dire ancora sempre di nuovo).

b)​​ I segni liturgici appartengono al genere del sacro autentico.​​ I segni che vogliono significare il rapporto tra il creato e Dio appartengono al genere del​​ sacro.​​ Si ha un segno sacro​​ originario​​ quando esso dice l’intercomunione tra l’uomo e l’Assoluto, a prescindere dallo specifico dell’Assoluto. Si può così avere un segno sacro​​ falso​​ quando è errato il rapporto tra l’uomo e il trascendente, o perché il trascendente è frutto dell’immaginazione dell’uomo (dèi falsi; miti umani; divinizzazione di uomini, ecc.), o perché il rapporto è inteso a difesa, a paura della divinità, a propiziazione del nume, a pretesa di soggiogamento dell’Assoluto (si noti: si avrebbe il sacro numinoso, mitico, cosmologico, ecc.). I segni sacri falsi sono quelli della magia. Il rapporto espletato dai segni in tal caso proviene dall’uomo che cerca di “dominare” la divinità. I segni lit. al contrario appartengono al genere di quelli sacri​​ autentici,​​ in cui il rapporto da loro significato parte dal Dio Tripersonale, verso persone che fanno (o devono fare) parte della Chiesa: mistica persona. Sono sempre relazionabili a fatti storico-salvifici; e sono insigniti della caratteristica escatologica, cioè non esauriscono mai la loro valenza solo “qui – ora” ma sono protesi, anticipando nel “qui – ora”, quanto si avrà nell’eschaton svelatamente e completamente.

I segni​​ liturgici per eccellenza​​ sono quelli che la Chiesa usa per la celebrazione dei sette sacramenti nella loro parte costitutiva. La loro efficacia non ha nulla di magico, proprio perché si tratta di segni della fede, il cui autore e consumatore è Cristo (cf​​ Eb​​ 12,2). Sono segni lit. anche gli altri che servono per visibilizzare la celebrazione, per quanto propriamente non farebbero parte essenziale della medesima. Sia gli uni che gli altri sono forniti di caratteristiche speciali la cui natura deve essere conosciuta dal catechista (cf qui sotto 2).

c)​​ I dinamismi propri ad ogni segno.​​ Al di là delle discussioni proprie agli esperti, da tutti si conviene che ogni segno (sacro o no; sacro falso o autentico; ecc.) è dotato di​​ quattro​​ ambiti di azione, che sono raggruppabili in​​ due​​ gruppi di dinamismi: il dinamismo della rappresentazione e quello dell’operatività. Il​​ dinamismo della rappresentazione​​ testimonia che il segno è l’elemento sensibile che, entrando nell’esperienza del ricevente, annuncia un avvenimento a cui si deve prestare attenzione. Il primo ambito di azione è​​ V avvertimento​​ che non manca mai a ciascun segno. Riesce a raggiungere il secondo ambito di azione, se riesce a recare il messaggio che il segno intende veicolare. Perché un segno possa espletare l’informazione​​ è necessario che il ricevente possegga la chiave di lettura​​ dell’avvertimento.​​ Infatti la​​ conoscenza della convenzione​​ segnaletica è alla base della significazione del segno. L’informazione è accessibile solo a chi è preparato. Così il segno sacro autentico, cioè il segno lit., informa adeguatamente, cioè consegue il dinamismo della rappresentazione in modo pieno solo in soggetti che sono sufficientemente preparati ad accogliere il messaggio. La convenzione semantica per i segni lit. è​​ fornita dalla fede.

Il​​ dinamismo dell’operatività​​ esige che chi è stato avvertito e sufficientemente informato dal segno passi all’azione. Infatti chi ha inteso il messaggio dell’emittente, cioè del segno, si trova assoggettato al segno. Al caso il segno lit. postula un​​ asservimento.​​ È ovvio che per uomini liberi il rapporto fra segno con l’avvertimento-informazione e l’asservimento che consegue può essere “cancellato”. Se però è accettato, allora il segno operativamente arriva fino alla​​ “comunione”; cioè, il dialogo che si instaura fra segno emittente e soggetto ricevente arriva alla fine quando la vita si conforma alla informazione ricevuta. Ciò suppone una relazione del tutto tipica e operativa, di esecuzione cioè di quanto il segno significa. L’operatore della C. deve approfondire la sua conoscenza sulla polivalenza dei segni lit., cioè: Cosa intendono avvertire? Cosa informano? In campo operativo: Cosa postulano? Cosa esigono? Quale tipo di “comunione” intendono espletare?

2.​​ Natura e caratteristiche dei segni liturgici.​​ Il codice di informazione, ovvero la chiave di interpretazione dei segni lit., è dato dalla fede. A sua volta essa proviene dalla → Parola di Dio. In un simile contesto si comprende che la natura dei segni lit. è connaturata alla fede che di loro è la matrice. Si può convenire sui seguenti punti, che illustrano la​​ natura​​ dei segni lit. Essi​​ esprimono la fede​​ della Chiesa nella fede dei singoli partecipanti all’azione lit. È la fede della Chiesa che ha il primato. Essa pone gesti, parole, segni, ecc., sapendo di offrire una mediazione oggettiva ed efficace dell’incontro dell’uomo (fedele) con Dio Padre, per mezzo di Cristo (segno del Padre), nello Spirito Santo.

I segni lit.​​ coinvolgono il fedele ed esigono​​ da lui una risposta operativamente pregnante. La risposta è risposta di fede, ed è necessaria per realizzare l’incontro tra la persona (del fedele) e il Dio Tripersonale. Si comprende come ogni celebrazione lit. sia sempre accompagnata dal dono della fede. Globalmente considerati i segni lit. hanno una​​ natura dialogica e​​ intendono provocare atteggiamento di attenzione, di devozione, di fede. L’azione cat. deve aiutare a far passare dall’avvertimento all’informazione, tenendo lontani i fedeli dall’insidia sottesa a ogni genere di segni. Infatti i fedeli, quanto meno sono preparati, tanto più rischiano di leggere i segni arbitrariamente e di scoprirvi ciò che più risponde alla loro sensibilità (cf sentimentalismo nelle celebrazioni), al loro senso innato di magico, ecc. Al contrario, l’interpretazione che la fede della Chiesa dà ai segni lit. è in rapporto diretto​​ ​​ a​​ vago​​ simbolismo,​​ né​​ ad​​ arhitrarismo​​ (anche se i segni lit. come tutti i segni dipendono da una convenzione) ma​​ primariamente alla storia della salvezza​​ (cf SC 24.33).

Siccome è di importanza primaria che i fedeli comprendano i segni lit. (cf SC 59), allora è opportuno conoscere le loro caratteristiche. Essi sono adorni di un simbolismo il cui significato fondamentale è comprensibile alla​​ luce della Bibbia.​​ Sono in genere rivestiti di una patina vetero e neotestamentaria. Sono​​ comprensibili​​ alla luce dell’evento che è Cristo e della volontà della Chiesa che nel decorso dei secoli, e ancor oggi, sancisce il codice della convenzione per la loro comprensione. In ultima analisi, i segni lit. non possono essere interpretati​​ ​​ con il parametro della​​ funzionalità, né​​ con quello dell’allegorismo.​​ Essi sono segni efficaci anche se​​ convenzionali​​ (rapportabili o alla volontà del Cristo o senza dubbio a quella della Chiesa). Essi sono​​ rimemorativi​​ del passato salvifico,​​ indicativi​​ di una efficacia nel presente celebrativo, e​​ preannunziatori​​ (prognostici) del futuro salvifico. La maggior parte sono rapportabili a significati presenti nella Bibbia. Tutti assumono​​ senso dalla struttura celebrativa​​ in cui sono inseriti.

Si noti che essi sono​​ labili,​​ cioè a causa dell’assuefazione, della incapacità di attenzione, di concentrazione da parte dei fedeli necessitano di C. continua e ripetutamente nuova, che sappia suscitare interesse. Alcuni segni lit. poi, per motivi storici, possono​​ sembrare obsoleti.​​ Con un’attenta e penetrante loro comprensione, al contrario, sono ancor oggi capaci di “dire-comunicare”. Altri sono​​ frutti di culture​​ diverse da quelle in cui sono usati. Si inseriscono qui i capitoli dell’adattamento, dell’acculturazione, dell’inculturazione dei segni lit. che esorbitano dai limiti della voce.

3.​​ Incipiente esemplificazione dei segni liturgici.​​ Essi fanno parte del linguaggio della liturgia nel quale si devono annoverare la parola (lingua usata nei testi lit.), i gesti, l’uso tipico del corpo, di cose, di realtà. Secondo i diversi centri di interesse si possono ricordare:

a)​​ Segni lit. in rapporto all’uso di realtà del creato.​​ L’acqua, l’olio, il pane, il vino, il fuoco, la luce, l’incenso, la cenere, il profumo, il sale, ecc., nella liturgia assumono significato nuovo e tipico. Il simbolismo legato a questi elementi è di notevole spessore e di polivalenti significati. Si pensi al simbolismo del cibo e della bevanda, che, a sua volta, rimanda a quello del banchetto (veterotestamentario, neotestamentario, del Cristo, escatologico); o al simbolismo dell’acqua battesimale, di quella aggiunta al vino durante la S. Messa; a quello delle unzioni, ecc. Per la comprensione di ciascun segno derivante dall’uso di realtà del creato e per ogni simbolismo legato al segno, il ricorrere a un buon dizionario biblico costituisce la più facile preparazione per istaurare una C. adeguata.

b)​​ Segni lit. in rapporto agli atteggiamenti dei partecipanti.​​ Chi prende parte all’azione lit. è già entro un codice di lettura che dà un significato tipico ad ogni atteggiamento del corpo o all’uso di esso, sia del presidente sia dei partecipanti. Si pensi allo stare in piedi, seduti, genuflessi, prostrati, al digiunare, al camminare (processioni), ecc., atteggiamenti che nel contesto lit. assumono semantemi speciali. Così l’uso della mano con le varianti: imposizione delle(a) mani(o) su cose e persone, che dice epiclesi dello Spirito Santo, sua presenza ed azione; elevazione delle mani in atteggiamento orante; immersione della mano nell’acqua battesimale; il lavarsi le mani; segni di pace. Lo spirare: la​​ insufflatio​​ su persona(e) o su cosa(e); la​​ halitatio​​ su persona(e) o su cosa(e); il segno di croce; lo sguardo alla Croce; il cantare; l’ascoltare; il toccare, ecc.

c)​​ Segni lit. in rapporto all’uso di cose.​​ Si pensi all’uso di vesti speciali: l’abito bianco (al battesimo, cresima, eucaristia, matrimonio, consacrazione delle vergini); le vesti lit.; l’uso dell’anello (per le vergini, la sposa, lo sposo, il vescovo); la corona (per gli sposi, le vergini); il velo (per le vergini, per la sposa), ecc. L’uso delle immagini, icone. Ognuno di questi segni merita una trattazione speciale. Il catechista deve cercare di istruirsi e di trasmettere quanto apprende. Operativamente, deve preoccuparsi che la verità dei segni lit. emerga sempre più chiara, liberandoli da certe precomprensioni in modo che il fedele non sia preso dalla “routine” propria al formalismo rituale. Si coscientizzi alla partecipazione, che è ben di più che il ricevere un sacramento o lo stare a guardare un’azione lit. Infatti la liturgia per mezzo dei segni lit. può espletare una pedagogia se ci sono catechisti che si occupano a spiegare il significato del segno lit., il quale rimanda sempre al di là di se stesso, nel cuore della realtà celebrata.

Bibliografia

L. Beirnaert,​​ Expérience chrétienne et psychologie,​​ Paris, 1964; H. Biedermann,​​ Il libro dei segni e dei simboli,​​ Milano, Bietti, 1974; L. Bouyer,​​ Il rito e l’uomo,​​ Brescia, Morcelliana, 1964; L. M. Chauvet,​​ Linguaggio e simbolo. Saggio sui sacramenti,​​ Leumann-Torino, LDC, 1982; J. Daniélou,​​ Les symboles​​ chrétiens​​ primitifs,​​ Paris, Seuil, 19622; J. Dreissen,​​ La linea liturgica nella nuova catechesi. Strutture e linee di azione,​​ Leumann-Torino, LDC, 1969;​​ Espressioni simboliche ed espressioni artistiche nella liturgia,​​ in “Concilium” 16 (1980) n. 2; R. Guardini,​​ I santi segni,​​ Brescia, Morcelliana, 1964; S. Rosso,​​ Elementi naturali,​​ in NDL, 428-448 (bibl.); D. Sartore,​​ Segno/ simbolo,​​ in NDL, 1370-1381 (bibl.);​​ Segni rituali e culture,​​ in «Rivista liturgica» 66 (1979) n. 1;​​ Il segno nella liturgia,​​ Roma, CAL, 1970;​​ Il simbolo nella liturgia,​​ in «Rivista liturgica» 67 (1980) n. 3;​​ Il simbolo, ponte tra Bibbia e liturgia,​​ ibid. 67 (1980) n. 5;​​ Symbol und Liturgie,​​ in “Liturgisches Jahrbuch” 30 (1980) n. 1.

Infine utilissimi i due fascicoli curati da J. Aldazabal,​​ Gestos y simbolos,​​ “Dossier” nn. 24-25, del Centro de Pastoral Liturgica de Barcelona (Barcelona 1984).

Achille Maria Triacca

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SEGNI LITURGICI

SELEZIONE SCOLASTICA / SOCIALE

 

SELEZIONE SCOLASTICA /​​ SOCIALE

Indica l’insieme dei procedimenti scolastici per la scelta dei soggetti idonei al conseguimento di un titolo o, più in generale, allo svolgimento di un ruolo sociale.

1.​​ In una prospettiva​​ macrostrutturale​​ il​​ ​​ funzionalismo aveva sostenuto durante gli anni ’50 e ’60 l’esistenza di una correlazione virtuosa fra stratificazione, s. e scuola. Negli anni ’70 il neo-marxismo e la teoria della riproduzione culturale (​​ marxismo pedagogico) hanno rovesciato tale posizione e hanno accusato la scuola di svolgere, anche attraverso la s., una funzione di perpetuazione della struttura sociale. Dall’inizio della decade ’80 del sec. XX si è assistito a un graduale recupero del ruolo positivo della scuola, anche se in termini realistici che non nascondono le sue carenze. Essa, pur essendo funzionale alla logica della produzione capitalista, trasmette competenze e cultura, contribuisce alla promozione delle classi popolari e fornisce un apporto significativo allo sviluppo della società.

2.​​ Passando al piano​​ micro,​​ i meccanismi di s. utilizzati a scuola possono essere raggruppati in due categorie: quelli consistenti negli esami e tutti gli altri. I secondi si identificano con le diverse forme dell’​​ ​​ orientamento; gli altri comprendono vari tipi di prove di​​ ​​ valutazione quali quelle di profitto, di intelligenza, attitudinali e le interviste. In alcuni Paesi ci si limita alle prove di profitto, mentre la maggior parte fa ricorso a una combinazione di forme diverse. Se si applicano test standardizzati, questi spesso specificano gli indici di affidabilità e di validità; tuttavia, in molti casi le prove non sono standardizzate. Va da ultimo osservato che è in atto un passaggio da una modalità tradizionale di valutazione (deriva dal confronto dei risultati degli studenti con quelli attesi, espressi in obiettivi rilevabili empiricamente e indicanti valori di soglia) ad una cosiddetta autentica (mira a verificare non solo ciò che l’allievo sa, ma ciò che «sa fare con ciò che sa», si muove in chiave formativa e utilizza prevalentemente il portfolio delle competenze personali). La riflessione​​ sociologica​​ ha cercato di individuare le forme di organizzazione scolastica che più influiscono sulla distribuzione diseguale dell’insuccesso secondo la classe di appartenenza e che pertanto si trasformano in forme di discriminazione sociale. Le principali sono le seguenti: l’esame di ammissione alla secondaria di tipo umanistico-scientifico tra i 10 e i 12 anni; la possibilità della ripetenza; la divisione di un livello scolastico in più istituti o indirizzi, ciascuno con un prestigio sociale differente; lo​​ streaming​​ o raggruppamento omogeneo degli studenti che consiste nel distribuire gli allievi di un dato anno in​​ streams​​ o classi di alunni dotati del medesimo livello di intelligenza.​​ 

Bibliografia

Yoloye E. A., «Selection mechanisms in secondary education», in T. Husen - T. N. Postlethwaite (Edd.),​​ The International encyclopedia of education,​​ Oxford, Pergamon Press,​​ 21994, 5385-5389; Comoglio M.,​​ Insegnare e apprendere con il Portfolio, Milano, Fabbri RCS, 2003; Pellerey M.,​​ Le competenze individuali e il Portfolio, Milano / Firenze, RCS / La Nuova Italia, 2004; Besozzi E.,​​ Società,​​ cultura,​​ educazione: teorie,​​ contesti e processi, Roma, Carocci, 2006; Schizzerotto A. - C. Barone,​​ Sociologia dell’istruzione, Bologna, Il Mulino, 2006.

G. Malizia

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SELEZIONE SCOLASTICA / SOCIALE

SEMANTICA

 

SEMANTICA

Nella sistemazione teorica fornita da Ch. Morris, si definisce s. una delle tre dimensioni costitutive della semiosi e, di conseguenza, una delle tre prospettive a partire da cui si può studiare un segno dal punto di vista semiotico.

1. Si intende per semiosi il processo attraverso il quale un segno funziona come segno, cioè produce senso, significa. In tale processo è facile distinguere almeno tre elementi: a) qualcosa che significa, che funge da segno; b) qualcosa che viene significato, cioè cui il segno rinvia; c) la capacità di questo qualcosa che significa qualcos’altro di produrre effetti su qualcuno. Nello studio dei segni, alla luce del rilievo di queste tre dimensioni costitutive, si prospettano tre livelli a cui organizzare l’analisi: se si resta sul piano dei segni, e si mette a tema lo studio delle relazioni dei segni con altri segni che appartengono allo stesso contesto, si assume una prospettiva sintattica; se si prende in considerazione la relazione dei segni con i loro interpreti ci si colloca dal punto di vista della pragmatica; si costruirà, invece, una s., se si assumerà a oggetto di studio il segno nella sua relazione con ciò che esso denota.

2. Con questo si porta in gioco un problema, quello del riferimento o della denotazione, che ha costituito una​​ vexata quaestio​​ per la ricerca logica tra Otto e Novecento, come la riflessione sulla natura dell’oggetto inesistente all’interno della scuola di Brentano e il dibattito Russell-Strawson a partire dalla teoria delle descrizioni hanno dimostrato. In una prospettiva semiologica il problema non è altrettanto rilevante. Ciò che interessa al semiologo è il connotato, non il denotato. Infatti, navigando nell’universo dei segni, ciò che urge è di capire a quale significato il segno rinvii, non quale oggetto concreto (il referente) esso designi; e infatti, una grande quantità di segni sono non referenziali, non designano cioè nessun oggetto esistente (un divieto di sosta, pur essendo perfettamente significante, non denota nulla).

3. Pensato in questi termini, il problema semantico coincide in definitiva con il problema della classificazione e della verifica dell’operazionalità dei codici attraverso i quali le diverse materie dell’espressione vengono organizzate in funzione significante. L’importanza formativa di una considerazione s. dei segni coincide di conseguenza con l’importanza formativa di un’analisi dei​​ ​​ codici.

Bibliografia

Morris C.,​​ Lineamenti di una teoria dei segni,​​ Torino, Paravia,​​ 21970; Rigotti E.,​​ Principi di teoria linguistica,​​ Brescia, La Scuola, 1979.; Violi P.,​​ Significato ed esperienza, Milano, Bompiani, 2001.

P. C. Rivoltella

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SEMANTICA

SEMINARIO istituzione formativa

 

SEMINARIO: istituzione formativa

Istituzione ecclesiale ordinata alla formazione sacerdotale.

1. Nato con il concilio di Trento il s. è stato riconfermato nella sua validità e necessità dal Vaticano II (OT, 4; Codice cann. 235-245) e da più recenti documenti (Pastores dabo vobis,​​ 60,​​ La formazione dei presbiteri,​​ 58). L’identità del s. (maggiore) è «di essere, a suo modo, una​​ continuazione nella Chiesa della comunità apostolica stretta intorno a Gesù,​​ in ascolto della sua Parola» (Pastores,​​ 60).​​ Finalità specifica del s. è «l’accompagnamento vocazionale dei futuri sacerdoti, e pertanto il discernimento della vocazione, l’aiuto a corrispondervi e la preparazione a ricevere il sacramento dell’ordine con le grazie e le responsabilità proprie» (Ibid.,​​ 61).

2. Elementi costitutivi di tale istituzione sono: a) una comunità educativa organicamente strutturata in ruoli distinti e complementari; b) l’unità della proposta costruita attorno alla sensibilità pastorale, ragione ispirante dell’intera formazione, espressa nella convergenza dei vari stimoli e momenti educativi, dalla preghiera allo studio, dall’esperienza pastorale alla vita comunitaria; c) l’accompagnamento personale dei singoli attraverso il colloquio regolare e frequente; d) una precisa programmazione che armonizzi le dimensioni della formazione sacerdotale (umana, spirituale, intellettuale e pastorale) con il livello di maturità dei singoli e dei gruppi lungo le varie fasi, e la cultura locale; e) una condivisione di vita tra educatori e giovani per un congruo arco di tempo; f) un programma di studi filosofico-teologici che formino il credente e il maestro nella fede.

3. Rispetto al passato il s. odierno sottolinea maggiormente il rapporto tra formazione iniziale e permanente, e mira soprattutto a rendere il soggetto capace di continuare a imparare lungo la vita. Il s., inoltre, non è più pensato oggi come una parentesi che prepara al domani, ma come un’esperienza già fattiva di​​ presbiterio​​ e comunione ecclesiale. Sembrano oggi più marcati, infine, l’impronta pastorale nella formazione e il ruolo della dimensione umana. Condizione fondamentale per l’ingresso nel s. maggiore è la scelta tendenzialmente definitiva del sacerdozio assieme a una certa maturità di base, sul piano umano e spirituale. Nel passato tale preparazione avveniva nel s. minore; oggi tale istituzione, pur mantenendo una sua utilità (can. 234), non è ovunque presente, risentendo della crisi vocazionale, specie in certi ambienti. Nella​​ Pastores dabo vobis​​ si parla di s. minore e «altre forme di accompagnamento vocazionale» (n. 63), a sottolineare la necessità di provvedere comunque alla preparazione all’ingresso nel s. maggiore.

Bibliografia

Codice di Diritto canonico,​​ Roma, 1983, cann. 232-264; Peri I.,​​ I​​ s.,​​ Roma, Rogate, 1985; Gambino V.,​​ Dimensioni della formazione presbiterale,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1992; Giovanni Paolo II,​​ Pastores dabo vobis,​​ Roma, 1992; Congregazione per l’Educazione Cattolica,​​ Direttive sulla preparazione degli educatori nei s., Roma, 1993; Cei,​​ La formazione dei presbiteri nella chiesa italiana. Orientamenti e norme per i s.,​​ Città del Vaticano, LEV,​​ 32007.

A. Cencini

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SEMINARIO istituzione formativa

SEMINARIO metodo di studio / ricerca

 

SEMINARIO:​​ metodo di studio / ricerca

Metodo di lavoro intellettuale la cui funzione è avviare i giovani universitari allo studio e alla ricerca in gruppo. Il termine viene usato anche con significati meno precisi: una o più conferenze su un argomento seguite da discussione, incontri e giornate di studio.

1. Le prime esperienze di s. accademico ebbero luogo in Germania nella seconda metà del sec. XVIII, allo scopo di iniziare i futuri professori alla pratica del metodo storico-critico. Oggi viene largamente applicato nell’ambito delle diverse discipline anche in contesti culturali non prettamente universitari. In contesto accademico si distinguono tre livelli: il pre-s. (Proseminar),​​ introdotto già nelle esperienze tedesche, è destinato agli studenti che iniziano i corsi universitari, e costituisce una preparazione al s. propriamente detto (Hauptseminar).​​ Questo, ordinato all’approfondimento critico di una tematica o problema rilevante, è effettuato dallo studente in progressiva autonomia, in équipe con altri colleghi e con un professore in funzione fondamentalmente di coordinatore e di guida, controllato dal gruppo, a partecipazione definita, svolto con regolarità, in clima democratico di collaborazione. Il s. superiore (Oberseminar)​​ si propone un preciso scopo di ricerca in gruppo per dare un apporto originale al progresso della scienza e, contemporaneamente, cerca di offrire un contributo al perfezionamento scientifico dei partecipanti.

2. Dal punto di vista metodologico il s. accademico contempla alcune tappe fondamentali: a) presentazione da parte del docente / esperto dell’argomento proposto (problematica e impostazione generali, fonti e bibliografia essenziale); b) scelta ad opera dei partecipanti del tema (o aspetto del tema) da affrontare individualmente o in piccoli gruppi e pianificazione dei diversi incontri; c) periodo ragionevole di preparazione degli approfondimenti personali; d) incontri regolari di tutti i partecipanti, in cui vengono presentati e discussi i diversi contributi di studio; e) stesura di una relazione scritta. Questa relazione va redatta dai singoli partecipanti al s. (nelle eventuali relazioni di gruppo, deve apparire chiaramente la parte elaborata da ciascun membro). Nel corso della stesura del lavoro scritto vanno vagliati criticamente e integrati gli elementi emersi nei diversi momenti della discussione del tema generale. In tale confronto critico si trova un elemento fondamentale dell’efficacia del s. come metodo di studio e di ricerca in gruppo, alla base della «riforma dell’insegnamento e dell’apprendimento universitario» (Greschat, 1970, 7).

Bibliografia

Greschat M. et al.,​​ Studium und wissenschaftliches Arbeiten. Eine Anleitung,​​ Gütersloh, Gütersloher Verlaghaus Gerd Mohn, 1970; Spandl O. P.,​​ Die Organisation der wissenschaftlichen Arbeit,​​ Braunschweig, Vieweg, 1977; Prellezo J. M. - J. M. García,​​ Invito alla ricerca.​​ Metodologia e tecniche del lavoro scientifico,​​ quarta ediz. rivista e aggiornata, Roma, LAS, 2007 (ediz. in sp.: Madrid, CCS, 2006).

J. M. Prellezo

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SEMINARIO metodo di studio / ricerca

SEMIOTICA

 

SEMIOTICA

Si definisce con questo termine un’area disciplinare che si propone lo studio: a) dei segni intesi come ciò di cui l’uomo, in virtù della loro strutturale capacità di rinviare a uno o più significati, si serve per comunicare con i suoi simili; b) del testo inteso come lo spazio metodologico in cui, in virtù del ricorso a codici e strategie comunicative precisi, avviene uno scambio simbolico tra un progetto di comunicazione (enunciatore) e un programma d’uso (enunciatario); c) dell’interazione tra un testo e il suo ricettore entro un determinato contesto comunicativo.

1. Ciascuna di queste definizioni corrisponde a una delle tre grandi famiglie di teorie che lo sviluppo della s. nel nostro secolo ha prodotto; la vicenda storica della s., in tempo precedente al raggiungimento di un’autoconsapevolezza epistemologica (tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento), è di fatto più antica e ci riporterebbe prima ancora che alle riflessioni di Locke, all’intuizione del processo di significazione nella antica Stoà (sec. III a.C.). L’attenzione al segno, alla sua capacità di rinvio, al suo impiego in funzione comunicativa, è quella distintiva delle origini «scientifiche» della s. dalla riflessione di Peirce e Saussure. Il prevalere del modello di significazione proposto dal secondo – quello classico che distingue nel segno significante e significato – comporta l’iscriversi di tutta una generazione di s., la prima, entro il paradigma teorico dello​​ ​​ strutturalismo.

2. Quando lo strutturalismo entra in crisi alla fine degli anni ’60 del sec. scorso, alla prima si avvicenda una seconda generazione di teorie accomunate da una preoccupazione testualista. Critiche nei confronti di un concetto, quello di struttura, rigido e soprattutto incapace, perché non dinamico, di spiegare il funzionamento comunicativo di un testo, queste s. pensano il testo come il luogo di una contrattazione simbolica, come una macchina che produce senso ed insieme disegna il profilo del suo interlocutore. Vittime di questa reimpostazione sono idee forti delle prime s., come la convinzione dell’autosufficienza dell’oggetto significante o della reversibilità del processo di codifica. A queste s. subentra infine – ed è storia recente – una nuova generazione di s., le pragmatiche, la cui attenzione passa dal testo all’interazione e soprattutto al contesto come luogo di questa interazione.

3. Di grande interesse è lo studio della s. per chi si occupa di educazione almeno in due direzioni. In primo luogo perché l’intera area della comunicazione didattica, sia condotta in presenza che all’interno di ambienti di apprendimento on-line, richiede che venga elaborata una compiuta s. della formazione sia in ordine ai codici con cui si organizza la comunicazione (da parte dell’insegnante come dello studente) sia in relazione al​​ setting​​ che ne costituisce lo spazio naturale. In secondo luogo, la strumentazione s. è sicuramente importante perché consente all’insegnante di muoversi a proprio agio dentro la vera e propria foresta di simboli multimediali di cui è costituito il paesaggio culturale della società dell’informazione. Non saperli leggere significa condannarsi automaticamente a una scarsa efficacia educativa.

Bibliografia

Casetti F.,​​ S. Saggio critico,​​ testimonianze,​​ documenti,​​ Milano, Feltrinelli, 1977; Eco U.,​​ I​​ limiti dell’interpretazione,​​ Milano, Bompiani, 1990; Martin M.,​​ Semiologia dell’immagine e pedagogia,​​ Roma, Armando, 1990; Bonfantini M. A.,​​ Specchi del senso. Le s. speciali,​​ Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1991; Rivoltella P. C.,​​ Teoria della comunicazione, Brescia, La Scuola, 2001; Cantoni L. - N. Di Blas,​​ Comunicazione. Teorie e pratiche, Milano, Apogeo, 2006.

P. C. Rivoltella

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SEMIOTICA

SENECA Lucio Anneo

 

SENECA Lucio Anneo

n. a Cordova nel 4 a.C. - m. a Roma nel 65, filosofo romano di origine ispana.

1.​​ Vita.​​ Compì gli studi a Roma con retori e filosofi stoici. Fu introdotto ancora giovane alla corte di Caligola sotto il quale cominciò la carriera forense ed il​​ cursus honorum,​​ ma nel 39 un suo discorso lo fece cadere in disgrazia presso l’imperatore, che lo avrebbe condannato se una sua cortigiana non gli avesse consigliato di risparmiarlo perché la natura lo avrebbe presto ucciso per consunzione. Fu esiliato in Corsica da Claudio per uno scandalo di corte suscitato da Messalina, ma venne poi richiamato da Agrippina minore che lo nominò maestro di suo figlio Domizio, il futuro Nerone. Quando il nuovo imperatore uccise il fratello Britannico e la stessa madre, S. si ritirò dalla vita pubblica ma nel 65 fu coinvolto nella congiura di Pisone, a cui partecipava anche suo nipote Lucano; fu costretto ad uccidersi per ordine di Nerone nel 65. Con Epitteto e Marco Aurelio, S. appartiene al gruppo dei filosofi della​​ stoà​​ imperiale, definiti «maestri di morale». In ogni epoca il valore pedagogico della sua opera è stato riconosciuto per la penetrante esperienza umana, per la fine intuizione delle relazioni umane e per il nuovo senso di intimità di cui è permeata.​​ 

2.​​ L’antropologia pedagogica.​​ L’ideale del saggio formulato da S. in stretta aderenza alla​​ stoà​​ non deve indurre in errore. Anche nel​​ De constantia sapientis,​​ il suo umanesimo si applica all’uomo corrente: «Anche se vi circondano nemici da ogni parte, mantenete il posto che vi è stato assegnato dalla natura. Qual è questo posto? quello di uomo». Non si tratta però di un uomo astratto. Il realismo dell’antropologia pedagogica di S. riflette le difficoltà dei suoi contemporanei, che devono vivere in un’epoca in degrado, caratterizzata dai disordini della tirannia, in piena crisi della società, della politica e dei costumi. Sullo sfondo della Roma imperiale, S. vuole ridare all’uomo la propria coscienza di uomo –​​ la sua libertà​​ – di fronte al suo​​ destino,​​ alla sua​​ vita​​ e alla sua​​ morte.

3.​​ La pedagogia di S.​​ Le due correnti della​​ paideia​​ greca, quella retorica e quella filosofica, persistono nella​​ humanitas​​ romana, che aveva avuto in Cicerone il suo massimo rappresentante. S. si pone nella corrente filosofica quando proclama l’autonomia della​​ ragione​​ come condizione imprescindibile dell’umanesimo. A questa corrente molto eteroclita, seguita soprattutto dagli stoici, S. dà un apporto personale; le caratteristiche principali sono: lo scarso valore formativo che attribuisce alle​​ ​​ arti liberali​​ in sé; l’esercizio della filosofia​​ inteso come ascesi verso la perfezione umana e l’assoggettamento definitivo della filosofia alla​​ saggezza.​​ a)​​ Le arti liberali.​​ Nell’humanitas​​ romana contemporanea a S., sono prevalenti i contenuti che l’epoca ellenistica aveva indicato come​​ encyclios paideia​​ e che Roma aveva denominato​​ artes liberales.​​ S. si occupa di esse soprattutto nel documento emblematico del carattere filosofico della sua pedagogia, l’epistola 88 delle​​ Epistulae morales ad Lucilium.​​ Le arti liberali non meritano grande considerazione perché, né per il contenuto né per gli scopi di coloro che le professano, hanno relazione con la perfezione umana; non spianano il cammino verso la virtù. «A cosa mi serve saper dividere un campicello, se non lo so dividere con mio fratello?» (Ep.,​​ 88). Le arti liberali non si integrano con la filosofia e con la saggezza in un’unità simile a quelle delle parti del corpo umano, unità che S. auspica per ogni sapere. Semplicemente strumentali, orientate all’utilità immediata, si perdono in futilità nonostante si chiamino liberali, e sono solo degne dell’uomo libero, per il loro valore propedeutico. In sintesi, «Non dobbiamo apprenderle, bensì averle apprese» (Ep.,​​ 88). b)​​ L’esercizio della filosofia e i gradi di perfezione.​​ «Che cosa è il meglio nell’uomo? La ragione, per la quale supera gli animali ed imita gli dei: la ragione perfetta è, quindi, il bene proprio dell’uomo» (Ep.,​​ 86). La meta del sapere è insostituibile, ma l’esercizio della filosofia, dal punto di vista pedagogico, è centrato nel sapere in se stesso. Cercare di condurre la propria vita d’accordo con il bene morale: la filosofia di S. trascende lo spazio della teoria ed insegna a vivere. «La filosofia insegna a praticare, non a parlare, ed esige che tutti vivano conformemente alle sue leggi, che la vita non dissenta dall’insegnamento, né si contraddica» (Ep.,​​ 20). c)​​ La saggezza.​​ La filosofia, vera morale in atto, è subordinata alla saggezza: questa «è il massimo della perfezione dell’essere umano; la filosofia si avvia al punto in cui essa è già arrivata» (Ep.,​​ 84). La saggezza è il bene proprio del saggio. Come la filosofia, si riferisce ad un contenuto di carattere teoretico, però quella di S. non è una filosofia intellettualistica, dato che «una sola cosa completa la perfezione dell’animo: l’immutabile scienza del bene e del male» (Ep.,​​ 88). La saggezza senechiana implica la perfezione suprema dell’essere umano, cioè la morale. «La saggezza è l’abito dell’anima perfetta» (Ep.,​​ 117), perché saggezza e virtù sono per lui strettamente unite tra loro, tanto da costituire due aspetti della stessa pienezza umana.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ L.A.S.,​​ Diálogos sobre la providencia. Sobre la firmeza del sabio. Sobre la ira. Sobre la vida feliz. Sobre el ocio. Sobre la tranquilidad del Espíritu. Sobre la brevedad de la vida,​​ trad. di V. García Yebra, Madrid, Gredos,​​ 2001. b)​​ Studi: Cid Luna P.,​​ L.A.S.,​​ Madrid,​​ Clásicos, 2003;​​ Padilla M. A. (Ed.),​​ S.,​​ la práctica de la filosofía: fragmentos escogidos, Madrid, Nueva Acrópolis, 2004; Pociña Pérez A.,​​ Bibliografía española sobre Séneca (s. XX),​​ in «Estudios de la Antigüedad Clásica» 17 (2006) 359-410.​​ 

Á. Galino - Á. del Valle

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SENECA Lucio Anneo

SENSAZIONE

 

SENSAZIONE

Termine filosofico riferito alle rappresentazioni prodotte dai cinque sensi, o più in generale al conoscere sensibile distinto da quello intellettivo-razionale. Il concetto di s. (che è variamente interpretato dalle diverse scuole filosofiche) è talora distinto da quello di​​ ​​ percezione: tale distinzione si fonda sul concetto che le s. costituiscono le condizioni elementari del funzionamento mentale e cioè rappresentano il dato elementare avvertito in connessione con lo stimolo corporeo, mentre le percezioni sono complesse e derivano il loro significato dall’apprendimento e cioè si formano nell’associazione di nuove s. con le immagini di esperienze precedenti, dando inoltre inizio ad una attività conoscitiva vera e propria.

1. Senza entrare in merito alle discussioni filosofiche sul significato, il valore e il ruolo della s. nella costruzione della conoscenza del mondo e dei processi di pensiero, è possibile identificare nella s. il problema centrale da cui prenderà le mosse tutta la psicologia scientifica. La psicofisica di Fechner riconduceva il fenomeno della s., considerata una delle componenti fondamentali della percezione e un’esperienza elementare dovuta unicamente alle variazioni dello stato di un recettore opportunamente stimolato, a un rapporto calcolabile fra l’entità dello stimolo fisico e quella della risposta soggettiva. Da allora, fino alle ultime ricerche della psicologia cognitiva, il concetto di s. non ha mai ricevuto una definizione chiara ed univoca. Le svariate interpretazioni della s., e le teorie della percezione che da esse derivano, possono essere viste come un tentativo di colmare il vuoto tra la modificazione indotta dagli stimoli sugli organi di senso e l’esperienza soggettiva di tali modificazioni.

2. Un primo tentativo di conciliare i due ordini di fattori portò ad ammettere l’esistenza di entità elementari, le cosiddette s. (relative ai diversi sensi) che entrano in connessione tra loro e con le rappresentazioni, e cioè con i dati di coscienza acquisiti mediante precedenti esperienze percettive. La percezione, in ultima analisi, non sarebbe che il risultato di un processo di tipo associativo. Questo schema, originariamente proposto da Th. Reid (1764) venne adottato da autori quali Weber, Fechner,​​ ​​ Wundt e da altri rappresentanti della psicofisiologia classica. Diversi autori criticarono queste posizioni mostrando il carattere originariamente intenzionale e relazionale della s. In particolare E. Mach pone la s. a fondamento delle asserzioni scientifiche considerandola «strumento per liberare la scienza dalla metafisica». Sostenendo che «non sono i corpi che generano le s., ma sono i complessi di s. che generano i corpi» e che dunque il «mondo è una mia s.», E. Mach mette in crisi la rigida divisione tra fisico e psichico. Tesi simili ricorrono nel primo periodo del circolo di Vienna sia nella concezione dei «fatti atomici» di L. Wittgenstein sia nel concetto, proposto da Carnap, di «unità empirica elementare», intesa alla stregua di «un elemento neutro, anteriore alla distinzione tra l’oggettivo e il soggettivo», su cui viene basata la tesi della totale riducibilità di ogni enunciato della scienza ad un enunciato circa le s.

3. Tali posizioni, rivendicando il concetto di esperienza «pura» si presentano dunque come alternative alle diverse interpretazioni di stampo associazionistico, a cui si rivolgeranno peraltro le critiche dei sostenitori della psicologia della forma. Autori quali Wertheimer e Koffka, superando la contrapposizione tradizionalmente stabilita tra s. e percezione, sosterranno quindi che le discriminazioni sensoriali non corrispondono simmetricamente alle dimensioni dello stimolo fisico, ma ne costituiscono piuttosto un’elaborazione che ne modifica profondamente il profilo.

Bibliografia

Mecacci L.,​​ Storia della psicologia del Novecento,​​ Roma / Bari, Laterza, 1992; Mastandrea S.,​​ La psicologia della percezione: dalla s. alla comunicazione, Napoli, Idelson-Gnocchi, 2004; Hirtz P. - A. Hotz,​​ Competenza motoria: s. percettivo-motoria, Bologna, CLUEB, 2005.

F. Ortu - N. Dazzi

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SENSAZIONE
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