SCUOLA

SCUOLA

Roberto Giannatelli

 

1. La scuola nella società

2. Scuola e umanizzazione: quale tipo di formazione viene sviluppato dalla scuola

3. Scuola e pastorale giovanile

 

1.​​ La scuola nella società

Nel concerto delle agenzie educative che si sono affermate nei tempi moderni, la scuola ha assunto un ruolo sempre più rilevante:

— il curricolo formativo obbligatorio di base si estende per un arco di almeno 8-10 anni;

— il tempo che la scuola chiede agli alunni tende ad essere sempre più un «tempo pieno», sottraendo «spazi» tradizionalmente riservati alla vita in famiglia e alle libere occupazioni;

— il «tempo psicologico» messo in gioco dalla scuola è ugualmente considerevole: la scuola attrae l’alunno e lo impegna non solo nella dimensione intellettuale della sua personalità, ma anche nella dimensione affettiva, operativa, relazionale e sociale;

— la scuola moderna dispone infine di una forte struttura organizzativa, è capace di effettuare larghi investimenti in persone, mezzi e risorse di ogni genere.

A ragione si è potuto affermare che oggi la scuola si rivela «come la risposta istituzionale più importante della società al diritto di ogni uomo all’educazione e quindi alla realizzazione di sé stesso e come uno dei fattori più decisivi per la strutturazione e la vita della società stessa» (Congregazione per l’Educazione Cattolica,​​ II laico cattolico testimone della fede nella scuola,​​ Roma 1982, n. 13). La Chiesa ha da sempre onorato questo tipo di intervento che va sotto il nome di «scuola»: umanizzante, comunitario, razionale e sistematico:

— fin dalle sue origini, ha creato autentiche istituzioni scolastiche accanto alle chiese cattedrali e ai monasteri: le stesse università medioevali sono nate come espressione dell’impegno della Chiesa per la cultura;

— nell’età moderna le scuole gestite dai religiosi-e e dal clero diocesano, si sono affermate per la indiscussa qualità dei docenti, i metodi di insegnamento e di educazioneratio studiorum»);

— nei «paesi di missione» la Chiesa ha accompagnato la sua attività evangelizzatrice con un particolare impegno di promozione umana e di catechesi nelle scuole cattoliche;

— anche nelle nazioni di tradizione cristiana, la Chiesa ha incoraggiato la fondazione di «scuole cattoliche», talora come «proposta alternativa» a fronte del pluralismo scolastico (Congregazione per l’Educazione Cattolica,​​ La scuola cattolica,​​ Roma 1977, n. 14). Lo stesso Concilio Ecumenico Vaticano II ha riconosciuto il ruolo e l’influsso della scuola moderna tra le molteplici istanze che operano nel mondo dell’educazione (Dichiarazione sull’educazione cristiana Gravissimum educationis,​​ n. 5).

E recentemente la Congregazione per l’Educazione Cattolica ha elaborato su questo tema tre importanti documenti:

—​​ La scuola cattolica,​​ 19 marzo 1977;

—​​ Il laico cattolico testimone della fede nella scuola,​​ 15 ottobre 1982;

—​​ La dimensione religiosa dell’educazione nella scuola cattolica,​​ 7 aprile 1988.

 

2. Scuola e umanizzazione: quale tipo di formazione viene sviluppato dalla scuola

La scuola, «mentre con cura costante matura le facoltà intellettuali, sviluppa la capacità di giudizio, mette a contatto del patrimonio culturale acquistato dalle passate generazioni, promuove il senso dei valori, prepara la vita professionale, genera anche un rapporto di amicizia tra alunni di indole e condizione diversa, disponendo e favorendo la comprensione reciproca»​​ (GE​​ 4).

Le affermazioni del Concilio mettono in evidenza la funzione umanizzante della scuola e trovano riscontro nelle leggi e nei programmi che la scuola di base in Italia si è data negli ultimi tempi.

Legge 30 luglio 1973, n. 477​​ sullo stato giuridico del personale docente e non docente. Si afferma che nella scuola «si attua non solo la trasmissione della cultura, ma anche il continuo e autonomo processo di elaborazione di essa, in stretto rapporto con la società, per il pieno sviluppo della personalità dell’alunno nell’attuazione del diritto allo studio». La legge evidenzia i caratteri di partecipazione, comunità, razionalità, sperimentazione che la scuola italiana intende fare propri.

Con​​ Decreto Ministeriale del 9 febbraio 1979,​​ sono stati emanati i nuovi programmi della scuola media statale. 1 programmi richiamano la legge istitutiva del 31 dicembre 1962, n. 1859, secondo cui la scuola media statale «concorre a promuovere la formazione dell’uomo e del cittadino secondo i principi sanciti dalla Costituzione e favorisce l’orientamento dei giovani ai fini della scelta dell’attività successiva». Si afferma inoltre che la scuola «potenzia la capacità di partecipare ai valori della cultura, della civiltà e della convivenza sociale e di contribuire al loro sviluppo», secondo i caratteri di una scuola moderna che:

— offre occasioni di sviluppo della personalità «in tutte le direzioni»;

— colloca nel mondo aiutando l’alunno ad acquisire progressivamente «un’immagine sempre più chiara ed approfondita della realtà sociale»;

— pone l’alunno «in condizione di conquistare la propria identità di fronte al contesto sociale», favorendo anche l’orientamento verso scelte realistiche nell’immediato e nel futuro.

I nuovi programmi della scuola elementare​​ (Decreto Presidente Repubblica del 12 febbraio 1985, n. 104)​​ riflettono in modo stimolante non pochi degli accenti assunti dal dibattito pedagogico italiano attorno all’idea di scuola. Nel quadro dell’«educazione alla convivenza democratica», la scuola elementare italiana propone i seguenti obiettivi educativi:

— il fanciullo «prenda consapevolezza del valore e della coerenza tra l’ideale assunto e la sua realizzazione in un impegno anche personale»;

— abbia più ampie occasioni di iniziativa, decisione, responsabilità personale ed autonomia e possa sperimentare progressivamente forme di lavoro di gruppo e di vicendevole aiuto e sostegno, anche per prendere chiara coscienza della differenza fra «solidarietà attiva» con il gruppo e «cedimento passivo» alla pressione del gruppo, tra la capacità di conservare indipendenza di giudizio ed il conformismo, tra il chiedere giustizia ed il farsi giustizia da sé;

— abbia basilare consapevolezza delle varie forme di «diversità e di emarginazione» allo scopo di prevenire e contrastare la formazione di stereotipi e pregiudizi nei confronti di persone e culture;

— sia sensibile ai problemi della salute e dell’igiene personale, del rispetto dall’ambiente naturale e del corretto atteggiamento verso gli esseri viventi, della conservazione di strutture e servizi di pubblica utilità (a cominciare da quelle scolastiche), del comportamento stradale, del risparmio energetico;

— sia progressivamente guidato ad ampliare l’orizzonte culturale e sociale oltre la realtà ambientale più prossima, per riflettere, anche attingendo agli strumenti della comunicazione sociale, sulla realtà culturale più vasta, in uno spirito di comprensione e di cooperazione internazionale, con particolare riferimento alla realtà europea ed al suo processo di integrazione.

Nel medesimo contesto, i programmi affermano che «la scuola statale non ha un proprio credo da proporre né un agnosticismo da privilegiare. Essa riconosce, inoltre, il valore della realtà religiosa come un dato storicamente, culturalmente e moralmente incarnato nella realtà sociale di cui il fanciullo ha esperienza».

In definitiva, le leggi istitutive e i programmi ci presentano oggi in Italia una scuola con fondamentali e ampie valenze educative:

— una scuola «a servizio» dell’educando e che promuove un umanesimo totale, integrale, onnilaterale, «in tutte le direzioni»;

— una scuola «per l’apprendimento», privilegiando fin dall’inizio la prima «alfabetizzazione culturale» e sostenendo lo sviluppo dei processi cognitivi che vanno «dall’esperienza al problema, da questo all’indagine e alla riflessione, da queste ancora alla “chiusura” in direzione disciplinare vera e propria»;

— una scuola «per i valori» «momenti di riflessione aperta, ove si incontrano esperienze diverse», luogo in cui si aiuta l’educando a «superare i punti di vista egocentrici e soggettivi», e a sapersi comportare «alla luce di criteri di condotta chiari e coerenti, che attuino valori riconosciuti»;

— una scuola «per tutti» in attuazione del principio costituzionale secondo cui «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3). In sostanza, il compito della scuola italiana si profila come un contributo «a formare l’uomo della ragione e della libertà».

 

3.​​ Scuola e pastorale giovanile

«La scuola riconosce di non esaurire tutte le funzioni educative». Con questa consapevolezza la scuola getta un ponte verso la comunità ecclesiale, come pure verso la famiglia, il territorio, i messi della comunicazione sociale. La Chiesa, da parte sua, è motivata a essere presente nella scuola. Essa è Chiesa «tra gli uomini» e «per gli uomini».

«La Chiesa si sente direttamente interpellata dalla domanda educativa, perché essa è là dove si tratta dell’uomo, essendo l’uomo “la prima strada che la Chiesa deve percorrere nel compimento della sua missione” (RH,​​ 14). Ciò comporta evidentemente un vero amore di predilezione per la gioventù» (Giovanni Paolo II​​ Iuvenum Patris,​​ n. 14).

I cristiani sono convinti di avere qualcosa da offrire alla scuola, ma anche della necessità di confrontarsi con essa, con il suo «metodo di lavoro», con il suo impegno nel trasmettere ed elaborare la cultura. Il lavoro intellettuale «non va disgiunto dalla vita cristiana». Esso «accende l’amore della verità, che esclude la superficialità nell’apprendere e nel giudicare. Ravviva il senso critico (...), guida all’ordine, al metodo, alla precisione, è segno di una testa benfatta»​​ (La dimensione religiosa dell’educazione,​​ 49).

In risposta all’appello di Paolo VI di colmare la frattura che separa fede e cultura nel mondo moderno (£7V20), la Chiesa esprime «la convinzione che l’ambiente scolastico è la via privilegiata per affrontare in maniera adeguata i problemi della cultura moderna»​​ (Ib.​​ 52).

«La fede, pur non identificandosi con alcuna cultura ed essendo indipendente rispetto a tutte le culture, è chiamata ad ispirare ogni cultura: una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta»​​ (Ib.​​ 53).

Una funzione particolare assume al riguardo l’insegnamento della religione cattolica nella scuola. È infatti compito dell’insegnamento della Religione cattolica scolastica «far scoprire la dimensione religiosa nell’universo della storia umana»​​ (Ib.​​ 58) e «far conoscere ciò che di fatto costituisce l’identità del cristianesimo e ciò che i cristiani coerentemente si sforzano di realizzare nella loro vita»​​ (Ib.​​ 69).

Nello svolgere la propria funzione, l’insegnante di religione dovrà impegnarsi a tenere il proprio insegnamento a un livello propriamente culturale, facendo dell’insegnamento della Religione cattolica una materia con «pari dignità formativa e culturale» a fronte delle altre materie​​ (Intesa sull’insegnamento della religione cattolica,​​ 14 dicembre 1985, n. 4.1.). Le scienze dell’educazione esigono oggi che l’insegnamento della Religione cattolica:

— sia disponibile al confronto costruttivo con il pluralismo delle concezioni e posizioni in materia religiosa;

— non precluda la curiosità intellettuale e la fantasia, l’indipendenza e la capacità di critica degli alunni; né si limiti alla semplice memorizzazione e alla materiale ripetizione di quanto si è imparato;

— non trasmetta mai ai giovani i risultati della ricerca senza far conoscere i metodi adottati e i presupposti da cui si è partiti;

— faccia oggetto di una riflessione scientifica il procedimento stesso messo in atto nell’ora di religione.

«L’insegnamento della religione nella scuola pubblica non può realizzare tutto ciò che è richiesto dall’educazione religiosa. Esso è soltanto una parte di un tutto più vasto che comprende i processi sia di apprendimento che di formazione religiosa» (Sinodo delle diocesi della germania federale,​​ Scuola e insegnamento della religione,​​ LDC, Leumann-Torino 1977, n. 3.9.). L’insegnamento della Religione cattolica nella scuola pubblica deve essere integrato e portato avanti mediante le attività catechistiche e le esperienze di vita ecclesiale messe in atto dalla comunità parrocchiale e dai movimenti giovanili.

 

Bibliografia

Conferenza Episcopale Italiana,​​ Cultura e formazione nell’insegnamento della religione cattolica, La Scuola, Brescia 1988; Corradini L.,​​ Una scuola per l’uomo. La comunità cristiana si interroga, Massimo, Milano 1979; Nanni C.,​​ L’educazione tra crisi e ricerca di senso. Un approccio filosofico, LAS, Roma 1986; Pellerey M. (a cura di),​​ Progettare l’educazione nella scuola cattolica, LAS, Roma 1981; Scurati C. - Causoni P.,​​ Nuovi programmi per una scuola nuova, La Scuola, Brescia 1985.

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SCUOLA

Il termine s. deriva dal lat.​​ schola,​​ che è prestito operato sul gr.​​ scholé​​ tempo libero», «esercizio dello spirito»); donde la testimonianza di Festo: «scholae dictae sunt non ab otio ac vacatione omni, sed quod, ceteris rebus omissis, vacare liberalibus studiis pueri debent» (De verborum signifìcatu,​​ 470, 14). Come calco di​​ scholé​​ a​​ ​​ Roma è attestato anche​​ ludus,​​ sempre con il valore di attività concepita al di fuori di ogni fine pratico e intesa, pertanto, sia come gioco sia come esercizio scolastico, prima di carattere privato o domestico e successivamente di carattere pubblico e formalizzato.

1.​​ L’istituzione.​​ Il riferimento alla​​ ​​ Grecia e a Roma è puramente emblematico, in quanto vuole indicare un fenomeno proprio di tutte le civiltà, quello cioè di sostituire l’apprendimento spontaneo o familiare delle giovani generazioni, fondato prevalentemente sull’imitazione degli adulti, con una trasmissione del sapere e della «cultura» affidata all’insegnamento, cui non potevano essere idonei né la famiglia né il gruppo sociale di appartenenza (​​ storia della s.). I materiali culturali, che costituirono i contenuti delle prime forme di istruzione, furono finalizzati alla conservazione delle testimonianze e delle leggi, proprie di ogni comunità, per preservarle nei confronti di altri gruppi. A tale compito vennero delegati gli adulti, quali detentori della cultura del luogo, e in certo modo i garanti della sua autenticità; ad essi si richiese ben presto di calare in forme simboliche i contenuti da trasmettere ai giovani, con il ricorso in particolare ai diversi tipi di linguaggio, alle notazioni matematiche e musicali. Si venne così istituzionalizzando quell’aspetto dell’insegnamento e della s. contrassegnato dalla centralità dell’insegnante e dei contenuti (compresi sotto il termine di «cultura trasmessa»), che costituì la nota dominante della «s. strutturata», detta anche «s. della tradizione».

2.​​ Dalla «s. della tradizione» alla s. dell’allievo.​​ Solo intorno alla metà del sec. XX incominciano ad operare nella s. istanze elaborate anche nel passato, ma rimaste inattive, che porteranno al centro dell’insegnamento non più i contenuti ma il soggetto educando ed apprendente.

2.1.​​ La cultura.​​ Ad essere messa in crisi è innanzi tutto la nozione di​​ ​​ cultura, concepita come «eredità sociale», che al pari della eredità biologica richiama il patrimonio di una tradizione, dove all’uomo è lasciato un ruolo meramente passivo. L’​​ ​​ educazione e 1’​​ ​​ istruzione, in questa accezione di cultura, esercitano una funzione «depositaria», di trasmissione di contenuti già confezionati, che potrebbero valere soltanto se ad una ricezione passiva si sostituisse una ricezione critica, operata dal soggetto destinatario di questa trasmissione, che nella s. è l’allievo. Insieme con queste conoscenze culturali trasmesse da una generazione all’altra, la s. si fa anche carico di mediare il comportamento sociale accettato e di farlo assumere da parte dei giovani. La nozione alternativa di cultura, che è andata via via emergendo anche nella s., fa degli uomini, compresi quelli che si addestrano a diventarlo, non solo dei portatori e delle creature di una tradizione di nozioni e di un sistema di vita, ma dei creatori e manipolatori, capaci di esercitare un ruolo attivo tanto nell’uso di forme simboliche quanto nella costruzione di manufatti: accanto all’homo sapiens​​ è «colto» infatti anche l’homo faber,​​ l’uomo che comprende il mondo, che entra nel «cuore delle cose», per trasformarle a vantaggio dell’uomo. Se alla s. deve spettare il compito specifico di «umanizzare attraverso la cultura» (Perquin, 1967), occorre che questa per prima sia umanizzata, che si ponga cioè dalla parte dell’uomo come operatore di cultura.

2.2.​​ 1 contenuti disciplinari.​​ Quella sorta di «staticità» che ha caratterizzato la «cultura trasmessa» ha influito negativamente anche sull’insegnamento delle singole​​ ​​ discipline o dei loro contenuti; nel proporli infatti agli allievi non si ammetteva il «beneficio del dubbio», essendo i contenuti valutati sempre come certi, definiti ed assoluti. La «falsificabilità» delle teorie scientifiche per lo più non ha indotto gli insegnanti a relativizzare i dati riguardanti la materia dei loro insegnamenti, ad illustrare agli allievi, anche sotto il profilo storico, la provvisorietà che ha segnato il cammino della scienza. Oltre che un errore scientifico, ciò ha provocato uno scarso, o quasi nullo, coinvolgimento creativo degli allievi dinanzi al metodo «affermativo», con cui l’insegnante si rivolgeva ai suoi uditori, nella consolidata forma della «lezione». L’opposto, che rappresenta uno dei momenti fondamentali dell’innovazione scolastica e didattica, si ritrova nel metodo di insegnamento fondato sulla «soluzione di problemi» o, detto altrimenti, sulla ricerca. La quale, prima ancora di essere una tecnica o un espediente per occupare gli allievi, è un atteggiamento nuovo, una mentalità diversa, che accomunano docenti ed allievi, per trarre innanzi tutto un senso del limite proprio delle umane conoscenze. La prassi che deriva da questo atteggiamento consiste dunque nell’affrontare problemi aperti più che soluzioni compiute. L’aspetto problematizzante raccorda tutte le fasi della ricerca, anche nel suo inevitabile impianto tecnico. Essa muove infatti da una serie di interrogativi sull’argomento in questione, per trarne subito un’ipotesi di risposta o una soluzione provvisoria, da verificare successivamente, per formulare una teoria o una legge, se la verifica si è rivelata positiva.

2.3.​​ L’allievo dimezzato.​​ I limiti della nozione di cultura e la relatività dei contenuti disciplinari non hanno impedito alla s. di porsi come momento educativo e di sviluppo dell’allievo. Senonché si è trattato di un’azione fortemente riduttiva, in quanto ha privilegiato solo un aspetto dell’«educazione alla ragione» – che è educazione dell’uomo – cogliendone cioè esclusivamente il momento logico (la «ragione logica» direbbe Maritain) e trascurando la pluridimensionalità dell’esigenza razionale che è insieme intellettuale, affettiva, estetica, fisica, professionale, etico-sociale, creativa e intuitiva. Da una visione della ragione ridotta alla dimensione intellettuale deriva la tendenza a considerare tutte le discipline come «teoriche», aventi cioè come fine la conoscenza, a danno delle discipline per loro natura «pratiche», poiché riguardano le scelte (l’etica e la politica), e delle discipline «produttive» o del «fare» (le arti applicate, le «belle arti»). La stessa soluzione dei problemi, che potrebbe sembrare di tipo esclusivamente intellettuale, comporta nella fase della formulazione di un’ipotesi o di una risposta provvisoria, un intervento di carattere intuitivo, inventivo e creativo, che solo nei momenti successivi dovrà coinvolgere altri aspetti del razionale, come quello logico e operativo. L’innovazione dell’insegnamento dovrebbe coinvolgere insomma l’intero universo delle esperienze dell’allievo, l’intera persona nella pienezza delle sue possibilità.

2.4.​​ L’organizzazione della popolazione scolastica.​​ L’elemento che più manifestamente ha contraddistinto, e contraddistingue ancora, la s. formalizzata e strutturata, si trova nella distribuzione per classi della popolazione scolastica: elemento dell’apparato materiale ma determinante nella conservazione degli aspetti finora segnalati relativi all’insegnamento e di altri ancora. La classe infatti raccoglie gli allievi in un gruppo ritenuto per istituzione «omogeneo», sulla base del principio che ad ogni età cronologica corrisponde un’identica età mentale, distinta dagli stessi processi e ritmi di apprendimento, idonea ad affrontare programmi uguali per tutti gli allievi e tale, infine, da comportare o sopportare gli stessi criteri di valutazione. Il fatto è diventato tanto più grave quanto più la s. si è aperta formalmente a tutti i gruppi sociali, per una sorta di democratizzazione, o di «s. di massa», in cui i più «deboli» non trovano le strutture adeguate al reale sviluppo delle loro potenzialità di apprendimento. Una diversa proposta, per una più «umana» distribuzione degli alunni, è stata avanzata, da alcuni decenni, ed in parte anche realizzata in alcuni Paesi. Essa mira ad una sostituzione dei gruppi-classe con «gruppi di apprendimento» (team-learning),​​ dotati di grande flessibilità per rispondere ai livelli di partenza propri di ogni soggetto, ai ritmi personali di apprendimento, agli interessi di studio e di ricerca. L’iniziativa consente, ad es., che lo stesso allievo possa appartenere, per tempi più o meno prolungati, a gruppi differenti, in base ai criteri accennati, nonché ad esigenze di ricuperi o di interventi su lacune in ambiti particolari. Dalla parte degli insegnanti, ai gruppi di apprendimento dovrebbero corrispondere i «gruppi di insegnamento» (team-teaching),​​ condizione determinante per poter realizzare qualunque innovazione o riforma scolastica. Solo così, infatti, verrebbe meno il rapporto burocratico docente e gruppo-classe per dar luogo a una mobilità fra gli insegnanti, che favorisca da un lato un maggior accordo fra il corpo docente e dall’altro una disponibilità ad aggregazioni diversificate, funzionali alle esigenze delle aggregazioni degli allievi. Ad un’ampia riunione di studenti, per es., finalizzata al dibattito su un particolare problema potrebbe presiedere un solo insegnante, che abbia le qualità di animatore; mentre ad un gruppo, anche ridottissimo, di studio o di ricerca potrebbe essere destinato un gruppo consistente di insegnanti, competenti a rispondere alle esigenze del gruppo. I vantaggi più evidenti di questa nuova organizzazione della s. si registrano soprattutto nell’attenzione rivolta ad ogni singolo allievo, nella reale individualizzazione e nel corrispondente sviluppo delle sue attitudini e capacità, dei suoi interessi e delle sue inclinazioni; e in particolare nella valutazione dei suoi progressi non commisurati ad un profitto standard del gruppo-classe, ma agli effettivi cambiamenti di comportamento dalla fase iniziale a quella conclusiva dell’azione didattica. L’allievo è valutato non comparativamente ad «altri», ma a «se stesso», alla sua «crescita», tenendo conto delle sue capacità ed anche dei suoi limiti e condizionamenti.

3.​​ Le resistenze al cambiamento.​​ Le istanze elaborate dalle teorie sulla s. e sull’apprendimento hanno avuto accoglienze locali diverse: nell’insieme si può dire che la maggior parte dei sistemi scolastici europei ha instaurato una sorta di contaminazione fra s. tradizionale e s. progressiva. Quanto alle cause delle lentezze e talora anche delle resistenze che si riscontrano nell’attuazione del cambiamento, accenneremo a due fenomeni diffusi nei paesi dell’​​ ​​ Europa occidentale: le riforme imperfette e il «conservatorismo» attribuito al corpo docente.​​ 

3.1.​​ Le riforme imperfette.​​ In teoria, il principio vigente nel XIX sec. «ad ogni classe sociale la propria s.» è stato superato dalla istituzionalizzazione della s. come servizio sociale offerto a tutti, e tale pertanto da valorizzare i singoli soggetti in età scolare, con l’estensione dell’obbligo oltre la s. primaria. Di fatto (Farinelli, 2006, 90), il livello di scolarizzazione in Italia rimane preoccupante, se raffrontato con il resto d’Europa: i giovani italiani fra i 18 e i 24 anni che possiedono solo la licenza media e non sono più in formazione sono il 21,9% della loro fascia d’età, a fronte del 12,6% della Francia, del 14,0% della Gran Bretagna, dell’8,7% della Finlandia e del 14,9% della media europea. La ragione è che nella maggior parte dei Paesi d’Europa l’obbligo scolastico è stato elevato fino ai sedici o ai diciotto anni di età, mentre in Italia è stato portato da 14 a 15 anni soltanto nell’a.s. 1999 / 2000. Ma al di là dei dati, anche di quelli che rappresentano un progresso della scolarizzazione, esiste un fenomeno di qualità della s., che non risponde allo sviluppo quantitativo. Se è vero che le riforme, dove sono state realizzate, hanno messo in crisi il modello di «mobilità sociale cooptativa» (l’élite sceglie le proprie reclute sulla base non dei meriti ma delle credenziali derivanti dalle classi sociali di appartenenza: livello economico-culturale, reddito, prestigio), il modello alternativo messo in atto, quello cioè della «mobilità competitiva», che dovrebbe consentire di raggiungere le posizioni più elevate a tutti coloro che vi aspirano, in realtà si rivela un vero meccanismo selettivo, a danno di quanti partono svantaggiati, per le condizioni di disparità in cui si trovano a contendere. I momenti concreti in cui si opera la selezione sono rappresentati dagli aspetti caratteristici della s. tradizionale, che abbiamo già considerato: una certa nozione di cultura, un certo modo di trasmettere i contenuti disciplinari, la distribuzione degli studenti in classi, una valutazione su modelli standard. Il sistema, in tal modo, oltre a conservare il consenso delle classi privilegiate, riesce a conquistare anche quello delle classi svantaggiate, grazie ad una solo apparente promozione. Le une e le altre, pertanto, o meglio i genitori di entrambe le classi, si trovano così d’accordo nel resistere alle riforme qualitative, che la s. e la società reclamano.

3.2.​​ Gli insegnanti.​​ Gli​​ ​​ insegnanti, dalla vasta letteratura che ne affronta il problema, vengono per lo più descritti come non innovatori, deferenti, privi di coraggio, passivi, non competitivi... Ovunque, nel Belgio come nella Costa d’Avorio, nella s. elementare come nella media, gli insegnanti applicano gli stessi schemi di insegnamento e consacrano l’essenziale del loro tempo a trasmettere nozioni o a organizzare la vita in classe (Crahay, 1986, 12-13). Ad essi viene pertanto attribuita la responsabilità delle riforme fallite o mancate, del diffuso malessere della s., dovuto piuttosto agli errori o alle inadempienze delle politiche scolastiche. Posti così in apparenza in una posizione centrale nella questione s., anziché trarne vantaggi in ogni caso discutibili, si vanno sempre più rendendo conto, almeno nell’area dei Paesi dell’Ocse (​​ organizzazioni internazionali), di esercitare una professione non molto prestigiosa, una «professione debole», che non li motiva ad assumere iniziative di innovazione nella s. Contemporaneamente si avverte nei docenti anche una marcata disponibilità ad accettare le critiche, che vengono loro rivolte, sulla loro insufficiente preparazione professionale, sulla scarsa conoscenza della psicologia dell’apprendimento, della psicologia sociale, della sociologia, della metodologia dell’insegnamento. Pertanto, tra gli insegnanti è maturata la coscienza di essere essi stessi il prodotto di un sistema che va radicalmente cambiato nella sua organizzazione e nelle strutture di autorità e di potere che lo sorreggono. Altrimenti, non resta che auspicare paradossalmente il collasso dei sistemi scolastici, perché si possano aprire ai docenti prospettive professionali diverse rispetto a quelle attuali.

4.​​ La s. alternativa.​​ La limitata efficacia dell’istituzione scolastica nell’offrire reali e pari opportunità di istruzione a tutti gli aventi diritto, ha fatto sorgere proposte note sotto il termine di «s. alternativa». La sua formulazione più semplificata consiste nell’indurre le autorità responsabili a mettere a disposizione pari risorse sia per coloro che seguono corsi propedeutici all’università, sia per coloro che intendono spendere le risorse in altri tipi di s. (ad es. di formazione al lavoro), tanto più utili se si pensa come la s. secondaria superiore si riveli mal preparata ad unire i programmi scolastici con l’addestramento professionale. L’uguaglianza di opportunità non si identificherebbe pertanto con l’identità di opportunità o di trattamento, ma con l’offerta di possibilità educative, che armonizzino le attitudini e i livelli di sviluppo degli alunni con le esigenze proprie dei vari compiti di apprendimento. L’attuazione di questa «s. alternativa» comporta, al di là della sua apparente naturalezza, una vera rivoluzione, o quanto meno una grande flessibilità nel sistema formativo, tanto da far pensare ad una vera «descolarizzazione della società» (Illich, 1972). Alle strutture istituzionali Illich intendeva sostituire centri ordinati a creare per gli studenti un rapporto con le «cose» (biblioteche, laboratori, musei), con le «persone» fornite di competenze anche se prive di diplomi, con i «pari» e con gli «anziani», ricchi di esperienza e di saggezza. A questi centri dovrebbero poter accedere quanti intendono spendere le risorse, messe a disposizione dai poteri costituiti, per seguire programmi individuali di apprendimento, accanto a «maestri» scelti dagli interessati e a persone adulte con cui mettere a confronto ciò che vanno imparando. Nei centri, infatti, sono ammessi anche i non più giovani, che, usciti dal sistema scolastico, vogliano rientrare in un modello di formazione adatto ai loro ritmi e ai loro interessi. Nella proposta di Illich è tutta la comunità che viene impegnata, in forme che consentano a studenti di qualsiasi età di stabilire rapporti con una «cultura», che la s. non è in grado di promuovere. A questo coinvolgimento dell’intera comunità si sono ispirate varie iniziative di s. alternative. Si può dire che tutte, pur con modalità, forme e valore diversi, hanno contribuito a far uscire la s., come istituzione, dall’isolamento in cui si era chiusa e a coinvolgere l’intera comunità (genitori, amministratori, forze politiche, sociali e culturali, agenzie territoriali) nella gestione di essa. Rovesciando la formula di Illich «descolarizzare la società», ma rispettandone lo spirito, si può ritenere che le esperienze alternative locali, abbiano ottenuto lo scopo di «socializzare la s.».

Bibliografia

Perquin N.,​​ Algemene didactiek,​​ Uitgevers, Roermond-Maaseik, Romen​​ &​​ Zonen,​​ 1967; Richmond W. K.,​​ La rivoluzione nell’insegnamento,​​ Roma, Armando, 1969; Bertin G. M.,​​ Educazione alla ragione,​​ Ibid., 1971; Bloch J. H. (Ed.),​​ Mastery learning. Procedimenti scientifici di educazione individualizzata,​​ Torino, Loescher, 1972; Goodlad J. I. - R. H. Anderson,​​ The nongraded school. S. senza classi,​​ Ibid., 1972; Illich I.,​​ Descolarizzare la società,​​ Milano, Mondadori, 1972; Levi G. - J. C. Schmitt,​​ Storia dei giovani,​​ Bari, Laterza, 1994; Gasperoni G.,​​ Diplomati e istruiti. Rendimento scolastico e istruzione secondaria superiore, Bologna, Il Mulino, 1996; Bonetta G.,​​ Storia della s. e delle istituzioni educative, Firenze, Giunti, 1998; Brint S.,​​ S. e società, Bologna, Il Mulino, 1999; Farinelli F. (Ed.),​​ La s. in cifre 2006, Roma, Ministero della Pubblica I., Direzione Generale Studi e Programmazione, 2006.

G. Proverbio

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SCUOLA

SCUOLA AGRICOLA

 

SCUOLA AGRICOLA

Riunisce, come poche istituzioni educative, le due componenti di ogni insegnamento: quella teorica (apprendimento scolastico) e quella pratica (applicazione di tutte le scienze studiate: fisica, chimica, biologia, botanica, zoologia, mineralogia... e l’acquisizione di abilità manuali).

1. Per questo tipo di insegnamento è essenziale la disponibilità di un appezzamento di terreno ove fare sperimentazione, sia nello stesso giardino della s. (per ogni tipo di s.a.) sia, ai livelli superiori, in campi lavorati con la supervisione di esperti. Il curricolo tradizionale comprende, almeno, lo studio del suolo, delle piante, del clima e visite ad aziende modello. Oggi bisogna aggiungere anche le tecniche artificiali di coltivazione ed irrigazione, le malattie delle piante, la applicazione generalizzata della chimica, lo studio dei macchinari, del mercato agricolo, della legislazione, e la conoscenza delle fonti di informazione. Ovviamente contro questa concezione si sta aprendo la strada alla cosiddetta «agricoltura ecologica o biologica», che ricerca un insegnamento mirato alla produzione agricola tradizionale senza l’impiego della chimica, che non è però regolata ancora da nessuna legislazione. La s.a. offre un’occasione importante per l’apprendimento del lavoro in​​ équipe,​​ germe del futuro cooperativismo agricolo che è ormai un fenomeno da cui non si può prescindere.

2. Fino alla fine degli anni ’30 del XX sec. la politica della formazione professionale in agricoltura seguì l’evoluzione del​​ ​​ sistema formativo di ogni nazione. Ma già nel IV Congresso Internazionale di Insegnamento Agricolo (Roma) si chiese che la s. primaria istruisse il futuro agricoltore nella conoscenza delle cause e dei fondamenti scientifici che sono alla base della sua attività e si opponesse alle cause economiche e morali che contribuivano allo spopolamento dei campi.​​ ​​ Organizzazioni internazionali come l’Unesco, l’Ocde e l’Oit, con i loro studi e le loro Raccomandazioni, hanno portato ad una politica unificata nelle sue linee generali, secondo cui la s.a. si è andata spostando dal livello elementare o di secondaria di primo ciclo a quello della secondaria superiore professionale; inoltre la cultura generale ha assunto una rilevanza sempre più grande nel curricolo. Nell’Unione Europea, dal Trattato di Roma del 1957 fino al 1971, si può solo parlare di «principi comuni» di formazione professionale in seguito anche a «programmi di attività», benché solo a partire dal 1992 l’educazione abbia un riconoscimento giuridico nei diversi Trattati. Sul piano amministrativo la competenza sulla s.a. tende ad essere dispersa tra vari Ministeri (dell’Istruzione, del Lavoro, dell’Agricoltura).

Bibliografia

V Congresso Internazionale dell’insegnamento agrario,​​ Roma, CITA, 1975;​​ Raimbault R. N. et al.,​​ Enseignement agricole et Tiers Monde,​​ Paris,​​ AFDI, 1989;​​ Rivero J. M.,​​ Profesionalización del agricultor y formación de técnicos,​​ Valencia, Generalitat, 1992; Prellezo J. M., «Le s. professionali (1880-1922)»,​​ in​​ L’educazione salesiana dal 1880 al 1922. Istanze e attuazioni in diversi contesti, a cura di J. G. González et. al., vol. 1, Roma, LAS, 2007, 53-94.

V. Faubell

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SCUOLA AGRICOLA

SCUOLA CATTOLICA

 

SCUOLA CATTOLICA

Secondo un recente documento magisteriale: “La SC sta acquistando rilievo sempre più grande nella Chiesa”. È tuttavia evidente che la sua presenza nel contesto laico e secolarizzato attuale comporta non pochi problemi e denuncia una difficile convivenza. Ne fanno fede recenti (1984) e imponenti manifestazioni di massa per difendere diritti che rischiano di venir clamorosamente conculcati anche in Paesi di indiscussa tradizione cattolica (cf la Francia).

In riferimento alla C. viene qui puntualizzata soprattutto la rivendicazione della SC ad un proprio progetto educativo, in cui si riconosce una qualificante attenzione all’educazione religiosa. A proposito di questa, tuttavia, la situazione si presenta così diversificata nei vari Paesi, anche solo dell’area europea, da non consentire indicazioni pertinenti neppure parzialmente comparabili. Ci si riferisce quindi in linea di massima al contesto italiano. Altrove resteranno da verificare e ambientare opportunamente le indicazioni proposte. I documenti magisteriali recenti cui si fa soprattutto riferimento sono:​​ La Scuola Cattolica,​​ Sacra Congregazione per l’Educazione Cattolica, 1977 (= S.C.);​​ La Scuola Cattolica oggi, in Italia,​​ documento pastorale dell’Episcopato italiano, 1983 (= S.C.I.).

1.​​ L’orizzonte del dibattito.​​ La Chiesa rivendica sul fondamento della sua stessa missione il diritto di istituire scuole. Ma già a questo punto non mancano obiezioni da parte di chi “in nome di un malinteso senso di laicità, impugna la SC come istituzione” (S.C., n. 18), “o perché riconosce alla Chiesa solo una testimonianza individuale, o perché teme strumentalizzazioni della scuola a scopi religiosi” (ivi,​​ n. 19).

La presenza della SC accanto alla scuola di stato è fonte di sottese o aperte resistenze: si denuncia il pericolo di un rapporto polemico e concorrenziale. Appare spesso molto fragile l’accoglienza sulla base di una reciproca cooperazione per la libertà di insegnamento e di scelta educativa per studenti e genitori. Il confronto ha radici anche più lontane: investe in ultima analisi la legittimità o semplicemente l’opportunità di una “cultura cattolica” di cui la SC potrebbe rappresentare la punta di diamante e di cui farsi promotrice. Ma nell’ambito concreto della scuola la discussione verte particolarmente sulla correttezza dei metodi e delle finalità educative: di fatto s’incentra per lo più sul tema del progetto specifico dell’educazione cattolica, che, dove fa riferimento a una esplicita visione cristiana della vita, chiama in causa anche la comunità credente e tematizza rapporti di correttezza educativa fra comunità ecclesiale e comunità scolastica. Comunque il dibattito sulla legittimità della SC ha taluni nodi obbligati. Si possono ricordare:

— La missione della Chiesa e il suo compito magisteriale di fronte al credente e di annuncio per il non-credente.

— Il pluralismo culturale, e dentro questo la pluralità delle istituzioni.

— In ambito specificamente scolastico, per una scuola moderna tesa al servizio dell’alunno l’interrogativo concerne il servizio specifico che la SC gli rende. È l’aspetto che risulta più rilevante per la C.

2.​​ L’educazione religiosa nella SC.​​ La discussione sulla natura e legittimità dell’educazione religiosa nella scuola (cf IR), sulla sua distinzione e diversità rispetto all’educazione nell’ambito della comunità credente vale anche per la SC, fatte naturalmente le debite distinzioni. Le più importanti riguardano l’identità esplicita dell’istituzione stessa e la possibilità di libera scelta degli allievi e dei genitori, che presumibilmente tendono a valorizzarne appunto lo specifico. Dentro questo quadro si possono raccogliere gli orientamenti caratterizzanti l’educazione religiosa nella SC.

I documenti del magistero ribadiscono anzitutto l’importanza e la centralità della “dottrina evangelica”. Nel ’77 si ribadisce: “La SC è consapevole dell’importanza della dottrina evangelica come è trasmessa nella Chiesa Cattolica”. Essa, infatti, è “elemento fondamentale dell’azione educativa”. Anche più esplicitamente l’Episcopato olandese sottolinea nell’IR la specificità confessionale, pur delimitandone opportunamente l’ambito, che viene a coincidere con l’esperienza religiosa conosciuta e vissuta dagli allievi.

Il valore attribuito alla “dottrina” spiega l’insistenza per un insegnamento che la valorizzi “in maniera esplicita e sistematica” (cf S.C., nn. 49-50). Tuttavia s’impone anche una considerazione alternativa. Di fatto anche la SC deve tener conto della centralità dell’alunno e delle leggi di sviluppo che comandano la sua formazione, oltre che della metodologia educativa propria della scuola. Donde il rispetto dei “criteri di gradualità e il riferimento ai metodi propri dei vari ordini e gradi di scuola” (cf S.C.I., n. 22). Un ultimo richiamo merita puntuale considerazione nella SC: riguarda la diversificazione e la complementarità degli interventi educativi. Un conto è l’IR che resta entro l’ambito e il rispetto dei metodi della scuola; un conto sono gli spazi di libera partecipazione o di ulteriore approfondimento sia teorico che pratico: “È infatti importante che ... la SC preveda per i propri membri — alunni, docenti, genitori — occasioni permanenti di esperienza religiosa” (cf S.C.I., n. 22). Si tratta di distinguere bene due momenti della vita della scuola: la lezione e la più vasta esperienza educativa possibile nell’ambito delle iniziative della scuola; consentendo naturalmente libertà di partecipazione. Nel caso è evidente la reciproca complementarità e l’importanza educativa.

3.​​ I problemi.​​ Da più parti si fa quadrato attorno alla SC: ne è segno anche l’intervento di vari episcopati nazionali. Affermazione da una parte di legittimità e di significato, dall’altra manifestazione implicita di disagio che affiora da più versanti. La società è pluralista, ma discute sulla corretta interpretazione di un pluralismo che coinvolge le istituzioni di pubblico interesse e di importanza capitale, come la scuola. Il diritto alla libera scelta dei genitori e degli allievi sembra scontato fino a quando non se ne tirano tutte le conseguenze, comprese quelle di ordine economico. Anche nel confronto fra le varie “confessioni” le suscettibilità affiorano, specie dove il cattolicesimo è largamente maggioritario; privilegi rivendicati o denunciati sono motivo di polemica. A livello esplicitamente educativo bisogna poi fare i conti con situazioni provocanti e complesse. L’allievo della SC rischia la discriminazione; gli stessi docenti per altre ragioni corrono il medesimo pericolo.

Con tutte le difficoltà resta singolarissimo e insostituibile il servizio reso dalla SC alla causa dell’evangelizzazione; sia perché stimola alla elaborazione attuale del messaggio, sia come spazio effettivo di confronto e di verifica con la cultura, sia soprattutto per l’apporto qualificato all’educazione cristiana della gioventù. Specialmente quest’ultimo aspetto chiama in causa esplicitamente la C., rispetto alla quale l’IR tende sempre più a differenziarsi. Si apre perciò la ricerca di un rapporto ripensato e corretto fra IR e C. Anche su questo fronte la SC è chiamata a pensare in termini pedagogicamente rispettosi del contesto scolastico la proposta che la qualifica.

Bibliografia

Fra i documenti del Magistero segnaliamo;

La Scuola cattolica,​​ Sacra congregazione per l’educazione cattolica, 1977;​​ La Scuola cattolica,​​ Lettera pastorale dei vescovi olandesi, 1977;​​ La Scuola cattolica oggi, in Italia,​​ documento pastorale dell’Episcopato italiano, 1983.

Inoltre:

L’educazione cristiana dopo il Concilio,​​ Brescia, La Scuola, 1966;​​ Scuola Cattolica cultura e società,​​ Roma, UCIIM, 1979; A. Brien,​​ Scuola Cattolica ed educazione alla fede in un mondo secolarizzato,​​ Leumann-Torino, LDC, 1970; L. Cokradini,​​ Una scuola per l’uomo. La comunità cristiana s’interroga,​​ Roma, UCIIM, 1979; M. Fievet,​​ École, mission et église de demain,​​ Paris, Cerf, 1969; P. Gianola,​​ L’educazione cristiana nella scuola cattolica,​​ in “Communio” 46 (1979) 74-99.

Zelindo Trenti

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SCUOLA CATTOLICA

La s.c. è una​​ ​​ s. libera che si propone finalità di educazione, e non di lucro, nel quadro di un progetto educativo fondato sui valori della fede cattolica.

1.​​ L’evoluzione.​​ L’attuale quadro di iniziative che rientrano nell’ambito della s.c., presenta​​ radici​​ storiche assai profonde che sono connesse con l’impegno culturale svolto dalla Chiesa nei secoli. In sintesi è sufficiente richiamare il ruolo delle abbazie benedettine, delle parrocchie, delle università della vecchia Europa, delle s. nate nel contesto del risveglio suscitato dal Concilio di Trento, degli ordini e delle congregazioni che si sono dedicate all’apostolato nell’istruzione ed educazione dei giovani. Passando a tempi più recenti e all’Italia, è opportuno ricordare due contributi della s.c. allo sviluppo del nostro​​ ​​ sistema educativo. Il principale è quello della​​ popolarità​​ da intendersi a sua volta in un duplice senso: come rispetto dell’esperienza di un popolo che ha maturato un impianto di valori che ne hanno plasmato la cultura propria e al cui interno la prospettiva religiosa assume una rilevanza centrale anche per scopi di educazione; come riscatto economico, culturale, sociale e politico a servizio degli ultimi e contro ogni pretesa di egemonia. L’altro tratto dell’esperienza storica della s.c. va identificato nel contributo offerto alla​​ modernizzazione​​ del Paese.

2.​​ La s. nella missione della Chiesa.​​ La Chiesa educa alla fede e fa maturare una cultura cristiana ricorrendo a varie strategie. Tra queste va menzionata la s.c. che contribuisce alla missione pastorale in base alla sua caratteristica propria dell’essere s. che consiste nella formazione alla ricerca della verità, alla riflessione critica e al sapere scientifico secondo le dimensioni dell’organicità e della sistematicità. Essa anzi è​​ strumento privilegiato​​ in quanto tra i luoghi in cui avviene l’incontro tra la Chiesa e i giovani nessuno si presenta così ampio, quotidiano e incisivo. Da questa relazione discendono i tratti distintivi della​​ identità ecclesiale della s.c.​​ Essa è vero soggetto ecclesiale in quanto verifica in sé le dimensioni essenziali dell’essere Chiesa, anche se in modo qualitativo piuttosto che quantitativo. Se la Chiesa è anzitutto comunione e se la luce del Vangelo consente di cogliere la verità profonda sull’uomo, la s.c. non può che essere un ambiente comunitario permeato dallo spirito cristiano di libertà e di carità (v.​​ GE, 8). La​​ ricaduta pastorale​​ del rapporto tra Chiesa e s.c. va ricercata in due direzioni principali. Anzitutto la Chiesa è chiamata ad aiutare la s.c. a custodire e ad attuare la propria identità in comunione con tutte le altre realtà ecclesiali. A sua volta la s.c. è invitata a fare la sua parte, impegnandosi in modo solidale e corresponsabile a percorrere il cammino pastorale della Chiesa locale senza chiusure e isolamenti secondo la modalità propria di un servizio formativo di una fede che si fa cultura.

3.​​ Il progetto educativo della s.c.​​ Esso delinea un iter formativo che è cammino al tempo stesso di verità, di libertà e di carità. La s.c, ispirandosi a un modello aperto di razionalità, deve promuovere l’assimilazione critica e sistematica del sapere e nell’attuazione di questo compito si presenta come comunità educante che punta al coinvolgimento di tutti nell’opera formativa, alla gestione sociale da parte della comunità cristiana e alla vocazione a produrre cultura educativa. Il progetto della s.c. pone al centro l’educando e assume come elemento insostituibile la mediazione personale dell’educatore tra competenza ed esperienza di fede. Indubbiamente ai​​ ​​ genitori spetta il diritto-dovere di scegliere per i propri figli la s. che fornisca l’educazione più conforme alle loro convinzioni (CIC, can. 797) ma i figli anche vanno posti nella condizione di prendere parte alla scelta; a loro volta gli insegnanti possono liberamente scegliere dove svolgere la loro attività professionale. Per assicurare il carattere della s.c. è conveniente la presenza simultanea di sacerdoti, religiosi, religiose e laici che la rende più adeguata a realizzare la sua missione di educare alla fede, in quanto ne fa un riflesso della ricchezza e varietà della comunità ecclesiale. Al diritto dei genitori e dei figli a una​​ reale libertà di educazione​​ corrisponde il dovere dei pubblici poteri di renderne effettivo l’esercizio mediante sovvenzioni. Tale obbligo va visto nel quadro dell’osservanza della giustizia distributiva e del rispetto del principio di sussidiarietà che esclude ogni forma di monopolio scolastico. Pertanto, la s.c. in quanto s. delle famiglie e della comunità chiede di essere trattata in modo realmente paritario, senza privilegi, ma anche senza discriminazioni. La s.c. è diffusa in tutto il mondo e tra il 1980 e il 2000 si riscontra una crescita di oltre il 30% sia delle s. (+30,1%) sia degli alunni (+32%): più precisamente le prime si avvicinano ormai alle 200.000 unità e i secondi hanno superato i 45 milioni (Malizia - Cicatelli, 2004, 212-215). In Italia, nel 2005-06 gli iscritti alle s. dell’infanzia di ispirazione cristiana sono circa 600.000, quelli delle elementari, medie e superiori circa 400.000 e quelli della Formazione Professionale oltre 56.000: i dati indicano una forte crescita nell’ultimo decennio per la scuola dell’infanzia, una crescita minore per la formazione professionale e un leggero calo per gli altri ordini di scuola (Malizia - Cicatelli - Pieroni, 2007, 75). Sul piano qualitativo, ricerche fuori dell’Italia evidenziano un rendimento degli alunni più elevato delle s.c. che sarebbe da attribuire al loro modello di organizzazione di tipo comunitario (Ribolzi, 1997). Per quanto riguarda il nostro Paese un sondaggio del 1999 mette in risalto che la s.c. è percepita come​​ un’opportunità formativa​​ che aumenta le possibilità dei giovani di autorealizzarsi e quelle dei genitori di esercitare meglio le loro responsabilità di padri e madri (Stenco et al., 2001).

Bibliografia

Gravissimum educationis, Concilio Vaticano II, Roma, 1965; S. Congr. per l’Educazione Cattolica,​​ La s.c., Città del Vaticano, 1977;​​ Id.,​​ La s.c. oggi in Italia, Roma, 1983; Id.,​​ La presenza della s.c. in Italia,​​ Brescia, La Scuola, 1992; Ribolzi L.,​​ Il sistema ingessato, Ibid., 1997; Id.,​​ La s.c. alle soglie del Terzo Millennio, Città del Vaticano, LEV, 1998; Cssc-Centro Studi per la S.C.,​​ Per un progetto di s. alle soglie del XXI secolo. S.c. in Italia. Secondo rapporto, Brescia, La Scuola, 2000; Stenco B. et al., «Gestori, docenti, genitori e studenti di fronte alla qualità», in Cssc-Centro Studi per la S.C.,​​ Per una cultura della qualità. Promozione e verifica. S.c. in Italia. Terzo rapporto,​​ Ibid., 2001, 157-188; Malizia G. - S. Cicatelli, «La s.c. nel contesto ecclesiale e civile», in Id.,​​ Dirigere e coordinare le s. S.c. in Italia. Sesto rapporto, Ibid., 2004, 203-234; Malizia G. - S. Cicatelli - V. Pieroni,​​ La s.c. in cifre. Anno 2005-06, Roma, Centro Studi per la S.C., 2007.

G. Malizia - S. Cicatelli

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SCUOLA CATTOLICA

SCUOLA DELL’INFANZIA

 

SCUOLA DELL’INFANZIA

Con questa espressione, nel passato usata in maniera alternativa rispetto a quella classica di «s. materna», si indica la s. che accoglie ed educa i bambini dai tre ai sei anni.​​ 

1. Le prime s. infantili, poi chiamate «asili», sono nate in Italia nella prima metà dell’Ottocento (1830 circa) per iniziativa del sacerdote cremonese Ferrante​​ ​​ Aporti ed ebbero una rapida diffusione nell’età risorgimentale. Nel corso dello stesso secolo ad esse si affiancarono i giardini d’infanzia froebeliani, poi rinnovati e ricostruiti pedagogicamente da Rosa e Carolina​​ ​​ Agazzi e dal 1907 in poi le​​ Case dei bambini​​ montessoriane. Nel 1914 gli asili e i giardini infantili italiani ebbero i loro primi programmi, in cui si precisava che essi sono prima di tutto istituti di educazione e come tali si sono affermati nel corso del Novecento fino a giungere alla legge istitutiva della s. materna statale del 1968 (n. 444), ed agli​​ Orientamenti dell’attività educativa nelle s. materne statali​​ del 1969 e poi del 1991, che ne hanno ridefinito la natura, la specificità e l’identità e che sono alla base delle «Indicazioni Nazionali per i Piani Personalizzati delle attività educative nelle s.d.i.», legate alla L. 53 / 2003.

2. La s.d.i. si configura come un’istituzione scolastica connotata dal rapporto che intercorre tra la flessibilità, l’inventività didattica e «l’intenzionalità», chiamata a promuovere l’educazione integrale della personalità infantile e quindi un’equilibrata maturazione e organizzazione (per non dire sinergia) delle componenti affettive, sociali, religiose, e ad aiutare il bambino nell’acquisizione «di capacità logiche e di competenze di tipo comunicativo, espressivo e operativo», tenendo presenti la variabilità individuale dei ritmi, dei tempi e degli stili di apprendimento, le motivazioni e gli interessi personali. L’identità dell’istituzione è data infatti dall’attenzione per la centralità del bambino, come soggetto attivo e protagonista del suo apprendimento (individuale e cooperativo), che interagisce con gli adulti e con i «pari» e da un insieme di elementi che si influenzano vicendevolmente quali la particolarità del curricolo e / o del piano educativo, il rapporto tra esperienze e sistemi simbolico-culturali, le finalità, la qualità dell’organizzazione, della mediazione didattica, della relazione e della comunicazione, la valorizzazione dell’attività ludica, ludiforme «di lavoro» e di vita quotidiana e della collaborazione tra s. e famiglia e altri «servizi» educativi per l’infanzia.

Bibliografia

Macchietti S. S.,​​ La s. infantile tra politica e pedagogia dall’età aportiana ad oggi, Brescia, La Scuola, 1985; Scurati C. (Ed.),​​ Infanzia scenari di s., Ibid., 2003; Id.,​​ Infanzia famiglia s. Comunità e comunicazione, Ibid., 2005; Id.,​​ A s. per l’infanzia, Ibid., 2006.

S. S. Macchietti

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SCUOLA DELL’INFANZIA

SCUOLA DI FRANCOFORTE

 

SCUOLA DI FRANCOFORTE

Istituzione di ricerca sociale che ha avuto vasta eco nella critica alla cultura occidentale contemporanea.

1. L’Institut für Sozialforschung,​​ aggregato all’Università di Francoforte, fu fondato nel 1924. Nel 1930 ne divenne direttore M.​​ Horkheimer​​ che diresse anche la rivista dell’Istituto «Zeitschrift für Sozialforschung» dalla fondazione (1932) alla cessazione delle pubblicazioni (1938). Dell’Istituto fecero parte Th. W. Adorno, H. Marcuse, F. Pollock,​​ ​​ Fromm,​​ ​​ Bettelheim ed altri, tra cui specialmente W. Benjamin. A causa del nazismo nel 1938 l’Istituto si trasferì negli USA, ospitato dalla Columbia University. Con il ritorno nel 1950 a Francoforte, per l’impulso di M. Horkheimer (1895-1973) e Th. W. Adorno (1903-1969), l’Istituto fece «scuola». J. Habermas (n. 1929) se ne può considerare il prosecutore più autorevole.

2. La ricerca sociale della S.d.F. è organizzata secondo un approccio ultra-disciplinare che tiene conto di filosofia, psicoanalisi, economia, storia delle idee, ricerca empirica. Inizialmente si riferì principalmente al marxismo, ma esso stesso, specie di fronte agli esiti dello stalinismo, venne messo radicalmente in questione. La «teoria critica» della società (terminologia introdotta da Horkheimer nel 1937), connette l’indagine socio-economica con quella degli apparati ideologici e culturali in una prospettiva di emancipazione da ogni alienazione e dominazione per una società libera e razionale. Sono famosi gli studi sulla famiglia, sulla personalità autoritaria, sull’antisemitismo e sul razzismo. Soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, gli autori della S.d.F. accomunarono il totalitarismo nazi-fascista e stalinista al capitalismo tecnocratico, nella stessa radice di «eclisse della ragione», iniziata con l’ambigua «dialettica dell’illuminismo», in cui la ragione scientifica sarebbe stata ridotta a «ragione strumentale» e dominata da una logica efficientistico-tecnocratica, manipolatrice di uomini e cose, supporto ideologico al capitalismo delle multinazionali e a quello di Stato.

3. Rispetto a tali esiti, si può collocare l’affermazione di Horkheimer relativa alla «nostalgia del totalmente altro» e la ricerca di H. Marcuse di un «nuovo sensorio» (un nuovo modo di vedere e di pensare più attento alla dimensione estetica), così come la ricerca di J. Habermas per una ermeneutica finalizzata ad una società della comunicazione e del dialogo democratico. Nella linea francofortese si è mossa (e in vario modo ancora si riferisce) la​​ ​​ critica didattica e pedagogica; e ad essa si è ispirata la pedagogia dell’​​ ​​ emancipazione.

Bibliografia

Schmidt A. - G. E. Rusconi,​​ La S.d.F. Origine e significato attuale,​​ Bari, De Donato, 1972; Geninazzi L.,​​ Horkheimer & C.: gli intellettuali disorganici,​​ Milano, Jaca Book, 1977; Bedeschi G.,​​ Introduzione a la S.d.F.,​​ Roma / Bari, Laterza,​​ 22005.

C. Nanni

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SCUOLA DI FRANCOFORTE

SCUOLA DOMENICALE

 

SCUOLA DOMENICALE

1.​​ La SD è un’istituzione tipica del protestantesimo moderno. Può essere definita: un’organizzazione composta di catechisti e fanciulli che si riuniscono periodicamente per lo studio della Bibbia, per il canto, per la preghiera.

Nacque circa due secoli fa, in Inghilterra, per opera di laici credenti, non collegati alle istituzioni ecclesiastiche protestanti del tempo. In seguito, pur conservando una certa autonomia, ebbe legami sempre più stretti con le Chiese locali. Mantenne tuttavia quasi ovunque un carattere​​ interdenominazionale​​ (comprendente cioè anglicani, presbiteriani, metodisti, ecc.). Fu uno dei primi movimenti di orientamento ecumenico nel seno del protestantesimo.

Escludendo il periodo iniziale (Inghilterra 1780-1800 circa) le SD ebbero e hanno tuttora le seguenti caratteristiche. Le riunioni si svolgono per lo più di domenica in ambienti quasi sempre messi a disposizione dalle Chiese locali. Di solito durano un’ora (qualche volta di più) e si svolgono contemporaneamente al culto mattutino per gli adulti. I​​ monitori​​ (= catechisti), tutti volontari, sono in rapporto numerico coi fanciulli molto favorevole (in Italia per es. attualmente in media uno ogni sei).

Per buona parte del tempo disponibile le riunioni si svolgono in piccoli gruppi per fasce di età. In essi si studia la Bibbia (NT e AT) avvalendosi per lo più del materiale didattico fornito dalle organizzazioni nazionali. Il dialogo e l’espressione personale e individualizzata da parte del fanciullo sono privilegiati, mentre non esiste più nessun tipo di verifica (interrogazioni, versetti studiati a memoria). I fanciulli che frequentano la SD hanno un’età che va dai 5 ai 14 anni circa. (In Italia dopo i 14 anni i ragazzi che intendono continuare la loro formazione e che vogliono entrare a far parte della loro Chiesa seguono corsi di catechismo più sistematici sotto la guida del pastore). Il calendario delle SD corrisponde più o meno a quello delle altre scuole.

2.​​ Storia.​​ La riforma protestante fin dal suo nascere ebbe a cuore l’istruzione biblica dei giovani, come stanno a dimostrare la cura con cui Lutero (1483-1546) compilò corsi di catechismo, e la fondazione di scuole pubbliche obbligatorie in Ginevra da parte di Calvino (1509-1564). Tuttavia, nei secoli seguenti i ragazzi non furono oggetto di cure particolari da parte delle Chiese protestanti. Perciò le classi di istruzione biblica a loro destinate, che funzionarono sporadicamente qua e là, non possono essere considerate anticipazioni delle SD. Esse infatti nacquero e si svilupparono in modo autonomo e quasi esplosivo alla fine del sec. XVIII in Inghilterra, diffondendosi poi rapidamente in tutto il mondo protestante.

Robert Raikes (1735-1811), un laico protestante, direttore del “Gloucester Journal”, si interessò fin da giovane dei problemi sociali provocati dalla rivoluzione industriale. Tentò, ad esempio, di migliorare le condizioni di vita nelle carceri, ma con scarso successo. Una domenica del 1780, recatosi per caso in un quartiere povero e malfamato della sua città, restò impressionato dal comportamento dei ragazzi che, liberi dal lavoro in fabbrica, si dedicavano ad atti di vandalismo; tra l’altro, disturbavano la quiete pubblica e danneggiavano i commercianti. Pensò che ciò dipendesse dalla mancanza di istruzione. Decise quindi di retribuire alcune donne di buona reputazione per fornire un po’ di istruzione a quei ragazzi.

L’opera ebbe inizi assai modesti: alcune signore accolsero in casa loro per tutta la domenica quei fanciulli per dare loro i rudimenti della lettura. Questi umili inizi ebbero uno sviluppo inatteso. Robert Raikes pubblicò sul suo giornale una breve informazione sulla sua iniziativa. La notizia fu ripresa da diversi giornali e suscitò un enorme interesse. Ben presto si formò in tutta l’Inghilterra un movimento di opinione in appoggio all’iniziativa di Raikes. Venti anni dopo, il prestigioso periodico “Gentlemen’s​​ Magazine”​​ (che è la principale fonte di informazione sul nascere delle SD) valutò sobriamente in 156.000 il numero dei fanciulli coinvolti in quell’iniziativa.

Il movimento di Raikes può essere considerato il primo tentativo di alfabetizzazione di massa. Egli infatti non si limitò a propugnare l’insegnamento della lettura (si usava come libro di testo soprattutto la Bibbia) ma vincendo opposizioni e sospetti volle che i fanciulli imparassero anche a scrivere. Fu allora che una parte della Chiesa anglicana si oppose a Raikes adducendo il motivo che lo scrivere era un vero e proprio lavoro, vietato nel giorno del Signore. Altre opposizioni si levarono in quanto i conservatori consideravano socialmente pericoloso dare in mano ai poveri l’arma della cultura.

La parte più dinamica delle Chiese protestanti e il movimento metodista, nato per opera di John Wesley (1703-1791), appoggiarono invece Raikes aprendo dappertutto SD basate sul volontariato. Il movimento più propriamente laico dei cosiddetti “educatori” si adoperò poi per trasformare le SD in una scuola di tutta la settimana, comprendente anche l’istruzione tecnica. È probabile che ciò abbia accelerato la formazione di scuole gratuite e, in seguito, gratuite e obbligatorie, in tutta l’Inghilterra. L’altro ramo, quello dei cosiddetti “salvatori”, si dedicò invece all’istruzione biblica e morale, accompagnandola con iniziative sociali, come la distribuzione di abiti e di scarpe ai più bisognosi.

I numerosissimi insegnanti volontari sentirono ben presto l’esigenza di incontrarsi per confrontare le proprie esperienze. Così già nel 1785 nasceva a Londra la​​ Society for Establishement and Support of Sunday-Schools,​​ mentre nel 1803 nasceva la​​ Sunday-Schools Society​​ d’Inghilterra su base interdenominazionale, che esiste tutt’ora. Il mondo protestante seguì l’esempio inglese. Nel 1824 per es. nasceva nel Nord America un’analoga società per le SD; un po’ più tardi nei paesi scandinavi, nel 1852 in Francia e così via. Le SD hanno diffuso ampiamente la conoscenza della Bibbia a livello popolare, e se oggi si può parlare di nazioni a “cultura protestante” lo si deve in gran parte alla loro influenza e diffusione.

In​​ Italia​​ nel 1891 nacque un Comitato interdenominazionale per le SD che riuniva Chiese battiste, metodiste e valdesi e che si collegò con analoghe organizzazioni straniere. (Nel 1907 fu organizzato a Roma un convegno mondiale che riunì circa 1050 delegati). Ma già prima della nascita di questo Comitato, nel 1878, uscì per un anno la riv. mensile “La Scuola domenicale” per opera del pastore valdese A. Meille. Essa forniva un programma di letture bibliche continuato, spiegazioni del testo e consigli didattici per i monitori, articoli pedagogici e di cultura biblica. Questa rivista riprese le sue pubblicazioni regolari un decennio dopo; attualmente, giunta al suo 91° anno, è trimestrale, pubblicata a cura del Servizio Istruzione ed Educazione della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia, continuatore del Comitato creato nel 1891. Le denominazioni che vi si riconoscono (battiste, metodiste, valdesi e altre minori) si servono della rivista e del materiale didattico per bambini e ragazzi ad essa collegato, che propone un programma di letture bibliche cicliche di 5 anni.

Bibliografia

P. Cliff,​​ La nascita delle Scuole domenicali,​​ in “La Scuola domenicale” 87 (1980) 250-257; R. W. Lynn –​​ E. Wright (ed.),​​ The Big Little School-. 200​​ Years of the Sunday School,​​ Birmingham, Al., Religious Education Press, 1980; T. G. Soares,​​ Sunday Schools,​​ in J. Hastings (ed.),​​ Encyclopaedia of Religion and Ethics,​​ vol. 12, Edinburgh, 1921, 111-114;​​ Sunday Schools,​​ in​​ The New​​ Schaff-Herzog Encyclopedia of Religious Knowledge,​​ Baker Book House, Grand Rapids, Michigan, 1930.

Franco​​ Girardet

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SCUOLA DOMENICALE

SCUOLA ELEMENTARE

 

SCUOLA ELEMENTARE

La SE in Europa, percorsa da un processo di innovazione curricolare, presenta fini fondamentalmente comuni. I programmi di quest’ultimo decennio propongono precisi obiettivi per ogni materia e criteri per la scelta dei contenuti in vista degli obiettivi da raggiungere. In questo processo di innovamento si iscrive un rinnovamento delle finalità, dei contenuti e dei metodi dell’IR nella scuola.

I.​​ L’IR NELLA SE

1.​​ Impostazione generale.​​ Nella SE l’IR va assumendo la fisionomia di una materia del programma di studi, svolta quasi sempre nel normale orario scolastico: la possibilità di chiedere l’esonero la rende facoltativa.

Sia nelle scuole gestite da enti pubblici che in quelle confessionali, si tende a passare da un IR come C. gestito dalla Chiesa ad un IR gestito dalla scuola in accordo con la Chiesa, come materia che nel curricolo concorre con il proprio specifico alla formazione integrale della persona. Il programma comunque è sempre concordato con le Chiese e gli insegnanti sono da esse autorizzati. In certe scuole statali (le​​ County Schools​​ dell’Inghilterra e del Galles) si propongono programmi concordati dai rappresentanti delle autorità locali, degli insegnanti e delle Chiese, che permettono agli alunni di acquisire le conoscenze religiose comuni alle diverse confessioni.

Le scuole organizzate da pubblici poteri tendono a offrire corsi di IR delle diverse confessioni presenti nel territorio o, in alternativa, corsi di morale laica (per l’uno e per l’altra, da una a due ore settimanali).

2.​​ Contenuti e metodi.​​ Il processo di innovazione in atto si può così riassumere: l’IR nella SE finora è consistito nella presentazione degli elementi fondamentali della dottrina cristiana o nello studio sistematico delle parti centrali della Bibbia: una C. nella scuola. Ora ci si va convincendo che la scuola non è il luogo specifico della C.; è piuttosto il luogo dove, partendo dall’esperienza del fanciullo, nel rispetto dei suoi modi di apprendere, dei suoi problemi e interessi, lo si può aiutare a riflettere sulla dimensione religiosa dell’esistenza. Si profila così un IR su base antropologica (Paesi Bassi, Belgio, Germania, Inghilterra...). In certi Stati (es. R.F.T.) si richiede che i piani di IR siano formalmente strutturati come “curricula” orientati ai fini e agli obiettivi: così gruppi di insegnanti e di sacerdoti hanno studiato modelli e tipi di → unità didattiche utili per l’IR. Lo →​​ Zielfelderplan,​​ per i quattro anni della​​ Grundschule,​​ ne è un esempio.

3.​​ Problemi aperti.​​ Nell’attuale processo di innovazione dell’IR scolastico ci sono degli aspetti acquisiti e dei problemi aperti. È acquisito che l’IR concorre con il proprio specifico al raggiungimento dei fini educativi della SE, che si riassumono nella promozione integrale della persona. È aperto il tipo di IR da garantire nella SE. I nuovi programmi della SE italiana hanno confermato che la scuola statale, che “non ha un proprio credo da proporre né un agnosticismo da privilegiare”, è attenta al fatto religioso nella sua espressione storica, culturale, sociale, e promuove una alfabetizzazione culturale degli alunni, anche in questo ambito. In forza del Concordato tra la Chiesa cattolica e la Repubblica Italiana viene assicurato, per chi intende avvalersene, un insegnamento della religione cattolica “nel quadro delle finalità della scuola”.

II.​​ Formazione degli insegnanti

L’IR nella SE è per lo più affidato all’insegnante di classe, autorizzato dall’autorità ecclesiastica. Attualmente molti insegnanti considerano difficile l’IR e avvertono il bisogno di formazione, a livello di contenuti e metodi.

1.​​ Contenuti della formazione.​​ Le esigenze di formazione degli insegnanti derivano dalla nuova fisionomia dell’IR nella SE. Si tratta, ad es. in Italia, di promuovere una alfabetizzazione culturale di tutti gli alunni circa la dimensione religiosa dell’esistenza, e di un insegnamento della religione cattolica per chi ne fa richiesta. L’IR deve aiutare i fanciulli a comprendere gli elementi che costituiscono la realtà religiosa e a rispettare le diverse posizioni che le persone adottano di fronte ai problemi della vita sul terreno religioso. In particolare, non si tratta di svolgere una C. nella scuola sulla base di un testo dottrinale, ma di organizzare un IR a partire dalla scuola, dalle sue finalità e dai suoi metodi di lavoro. Ciò richiede una preparazione scientifica su diversi versanti: religioso, antropologico, psico-pedagogico, metodologico-didattico.

Per quanto riguarda il primo aspetto, occorre una​​ conoscenza della Chiesa,​​ dei misteri che costituiscono il contenuto della fede, della vita comunitaria della Chiesa, del suo linguaggio e dei suoi segni, della sua storia e delle sue fonti, del suo impegno di testimonianza. Occorre una​​ conoscenza della teologia,​​ la scienza cui compete l’interpretazione critica del linguaggio con il quale la Chiesa esprime la sua fede. Occorre una​​ conoscenza della Bibbia,​​ come interpretazione religiosa dell’esistenza, come storia del popolo di Dio, come messaggio religioso che questa storia contiene per l’uomo di oggi, come linguaggio attraverso cui esprime tale messaggio. Occorre una​​ conoscenza delle altre religioni​​ con le quali il fanciullo viene a contatto, anche attraverso i​​ mass-media.

Per quanto riguarda la formazione metodologico-didattica, occorre imparare a partire dall’esperienza del fanciullo, a promuovere in lui la capacità di individuare i problemi e le domande di significato, a lavorare per il raggiungimento di obiettivi, all’interno di → unità didattiche correttamente costruite, a utilizzare il dialogo e il colloquio, la ricerca personale e di gruppo, i diversi → linguaggi (verbale, grafico-plastico, mimico, drammatico, musicale...).

In base a queste esigenze, è da rivedere radicalmente l’itinerario di formazione degli insegnanti di religione nella SE, nel quadro della riforma della scuola secondaria e della preparazione universitaria dei docenti.

2.​​ Luoghi della formazione.​​ Nelle migliori situazioni, sono le facoltà di teologia​​ o​​ i dipartimenti di scienze religiose presso le università che assicurano la formazione degli insegnanti. Si può ipotizzare: 1) l’organizzazione di studi teologici e socio-pedagogici nei dipartimenti di scienze dell’educazione delle università statali; 2) il riconoscimento da parte dello Stato degli studi svolti presso le facoltà di teologia (cattoliche, protestanti...) operanti sul territorio nazionale; 3) la stipulazione di convenzioni tra università statali e università confessionali: una parte degli studi, ad es. scienze umane, si effettuerebbe nell’ambito delle istituzioni statali, e l’altra parte — contenuti e metodi delle discipline teologiche — sarebbe di competenza delle Chiese.

In Italia, in base al recente Accordo di revisione del Concordato – Protocollo addizionale n. 5-a, 1, l’IR, nelle scuole materne ed elementari, può essere impartito dall’insegnante di classe, riconosciuto idoneo dall’autorità ecclesiastica, che sia disposto a svolgerlo. Mentre si fa credito alla professionalità dell’insegnante, ci si pone il problema delle competenze da coltivare, in materia di educazione religiosa, e delle strutture formative che è possibile utilizzare o che occorre attivare.

3.​​ Problemi aperti.​​ La formazione degli insegnanti di religione nella SE si collega con il tema, tuttora molto discusso, della formazione professionale di base, che tende al livello universitario, e dell’aggiornamento in servizio, che tende alla specializzazione per aree o per discipline, dato che spesso in una classe opera un​​ team​​ di docenti con diverse competenze. Anche per la SE si auspica da più parti la figura dell’insegnante specializzato nell’IR.

Bibliografia

G. Cirignano –​​ F.​​ Montuschi – M. Prioreschi,​​ Insegnare la religione nella scuola elementare oggi,​​ Torino, SEI, 1983; Comisión​​ Episcopal...,​​ Pian de Acción de la Comisión​​ Episcopal​​ de Enseiianza​​ y​​ Catequesis para el trienio 1981-1984,​​ Madrid, 1982;​​ Deutscher Katecheten Verein,​​ Zielfelderplan für den katholischen Religionsunterricht in der Grundschule. Grundlegung,​​ München, DKV, 1977;​​ Enseignement​​ National​​ Catholique,​​ Programmes​​ de catéchèse pour l’école primaire,​​ Liège, 1975; Groupe Interconfessional...,​​ La coopération des Églises en matière d’enseignement religieux pendant la scolarité obligatoire,​​ Bern,​​ 1976;​​ L’insegnamento della religione nella scuola primaria,​​ Leumann-Torino, LDC, 1977;​​ J.​​ M.​​ Hull,​​ Agreed​​ Syllabuses,​​ Past,​​ Present​​ and Puture,​​ nel vol.​​ New Movements in​​ Religions Education,​​ London, 1975;​​ Insegnare religione oggi.​​ Vol.​​ I:​​ Nella scuola elementare,​​ Leumann-Torino, LDC, 1977;​​ Scuola e religione,​​ 2 vol., ivi, 1971-1973; Sinodo Nazionale...,​​ Scuola e insegnamento della religione,​​ ivi, 1977.

Sulla formazione degli insegnanti

E. Damiano,​​ Funzione docente,​​ Brescia, La Scuola, 1976; G. De​​ Landsheere,​​ La formazione degli insegnanti domani,​​ Roma, Armando, 1978; R. Giannatelli,​​ La qualificazione degli insegnanti di religione,​​ nel vol.​​ Scuola e religione,​​ vol.​​ II:​​ Situazione e prospettive in Italia,​​ Leumann-Torino, LDC, 1971, 329-350; D. E.​​ Lomax​​ (ed.),​​ Européen Perspectives​​ in Teacher​​ Education,​​ London,​​ Wiley,​​ 1976.

Rina Gioberti

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SCUOLA ELEMENTARE

SCUOLA LAICA

 

SCUOLA LAICA

L’idea di s.l. può ben dirsi una tipica «invenzione» francese. A partire dal 1880, i governi della Terza Repubblica adottarono, nel volgere di pochi anni, una serie di provvedimenti miranti ad avviare, in opposizione alla precedente legislazione favorevole alla Chiesa cattolica, un processo di laicizzazione scolastica.

1. È da ricordare, in special modo, la L. del 29 marzo 1882, proposta dal titolare della Pubblica Istruzione J. Ferry, con la quale s’introduceva il principio dell’obbligatorietà della frequenza della s. elementare e, nel medesimo tempo, si aboliva dai programmi l’insegnamento della religione a vantaggio di quello della morale «laica». In Francia la laicità scolastica conservò, per lungo tempo, un carattere oltranzistico, fortemente anticlericale. Essa, con tutto il suo carico di polemiche e lacerazioni, divenne una bandiera agitata anche in altri paesi di tradizione neo-latina (per es., l’Italia) o particolarmente sensibili all’influsso francese (come nel caso del Belgio), dove il contenzioso fra Stato e​​ ​​ Chiesa nel secondo ’800 andò via via crescendo d’intensità.

2. Nel contesto nazionale italiano si possono schematicamente individuare tre fasi, da non interpretarsi però in modo rigido, del cammino dell’idea laica in campo scolastico. La​​ prima,​​ corrispondente agli anni della formazione dello Stato unitario, in cui fu sempre più vivo l’intento dei governi liberali di rivendicare l’autonomia della s. pubblica (allora ordinata dalla L. Casati del 13 novembre 1859) nei confronti dell’influsso esercitato su questa dalla Chiesa cattolica, come documentavano, fra l’altro, i​​ Programmi​​ per le elementari del 1867, dove non vi era espressa menzione per la religione; la​​ seconda,​​ relativa al periodo compreso tra l’ascesa al potere della Sinistra (1876) e la cosiddetta età giolittiana (inizio Novecento), quando, sotto l’influsso dello scientismo positivistico, risultò evidente l’ulteriore sforzo di laicizzare l’insegnamento pubblico (basti citare, mentre era in carica il ministro M. Coppino, la L. del 23 giugno 1877, che aboliva i direttori spirituali nelle s. secondarie e quella del 15 luglio 1877, sull’​​ ​​ obbligo scolastico, che introduceva nell’elementare le «prime nozioni dei doveri dell’uomo e del cittadino» al posto dell’istruzione religiosa); la​​ terza,​​ successiva alla guerra e al ventennio fascista (durante il quale era stato anche ripristinato l’insegnamento della religione cattolica in tutti gli ordini e gradi del sistema scolastico), allorché nell’Italia democratico-repubblicana andò facendosi gradualmente strada, pur fra incertezze, tortuosità e polemiche a non finire, un ideale di s.l. come ambiente di promozione personale dell’alunno, fuori da qualsiasi tentazione d’indottrinamento e da superate, ancorché impossibili, neutralità.​​ 

3. Molti studiosi dei problemi scolastici oggi convengono circa l’esigenza di accantonare definitivamente ogni forma di «archeo-laicità», con il suo ingombrante fardello di razionalismo e di anticlericalismo, per accedere invece a una «laicità aperta» o «del confronto». Secondo quest’ultima prospettiva, per s.l. possiamo allora intendere un modello scolastico fondato «sul concorso di tutti e aperto a tutti», in cui, lungi dall’assumere «una determinata visione del mondo» per imporla agli studenti o dal promuovere «un mortificante quanto illusorio silenzio sulle questioni che dividono», ci si prefigge di sollecitare in ciascun soggetto la maturazione di attitudini riflessive e la disponibilità «a confrontarsi con le posizioni degli altri» (Pazzaglia, 1977, 409). Una concezione del genere annovera pertanto fra i suoi caratteri distintivi: il pluralismo nelle istituzioni, lo spirito critico, la dimensione dialogica, la ricerca culturale sull’intero arco dell’esperienza umana. L’ultimo tratto indicato consente di precisare che la vera s.l., proprio perché non censura nessun aspetto della vicenda storica ed esistenziale dell’uomo, avvia il discente, in maniera adeguata sul piano pedagogico e didattico, allo studio anche del fenomeno religioso nelle sue complesse espressioni e istanze. In un contesto di società multietnica e multireligiosa come la nostra, lo statuto di laicità è l’unico in grado di assicurare un’esperienza educativo-scolastica aperta, promovente e rispettosa di tutte le esperienze. Entro questa cornice teorico-programmatica vanno anche affrontati problemi di non semplice soluzione, come la presenza intra-scolastica dei simboli religiosi, espressione di appartenenza identitaria. Negli ultimi anni, a seguito dei sempre più massicci fenomeni immigratori, con forte incremento degli islamici, il dibattito sulla questione si è acceso pure in Italia. La via d’uscita richiede, da ogni parte, il superamento di posizioni oltranzistiche, a vantaggio di una visione pluralistica della s., dove tutti hanno diritto di cittadinanza, nel rispetto però delle regole di convivenza democratica, costituzionalmente sancite.

Bibliografia

Tomasi T.,​​ L’idea laica nell’Italia contemporanea (1870-1970),​​ Firenze, La Nuova Italia, 1971; Jouguelet P.,​​ Laicità,​​ libertà e verità,​​ Brescia, La Scuola, 1976; Pazzaglia L., «Laicità e s.», in​​ Laicità. Problemi e prospettive,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1977, 407-429;​​ Società civile s.l. e insegnamento della religione,​​ Brescia, Queriniana, 1983; Caimi L., «Laicità», in E. Berti - G. Campanini (Edd.),​​ Dizionario delle idee politiche,​​ Roma, AVE, 1993, 417-427; Galli N.,​​ I​​ «nuovi cantieri della laicità» nell’attuale riflessione d’oltralpe,​​ in «Pedagogia e Vita» (1995) 2, 8-10; Cambi F.,​​ Alla ricerca di una nuova laicità: tra ripresa della tradizione e rilancio del modello laico,​​ in «Scuola e Città» (1995) 8, 363-366;​​ Baubérot J.,​​ Laïcité 1905-2005,​​ entre passion et raison, Paris, Éditions du Seuil, 2004; Coq G.,​​ La laïcité,​​ principe universel, Paris, Éditions du Félin, 2005; Savagnone G.,​​ Dibattito sulla laicità.​​ Alla ricerca di una identità, Leumann (TO), Elle Di Ci, 2006; De Giorgi F.,​​ Laicità europea. Processi storici,​​ categorie,​​ ambiti, Brescia, Morcelliana, 2007; Scola A.,​​ Una nuova laicità. Temi per una società plurale, Venezia, Marsilio, 2007.​​ 

L. Caimi​​ 

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SCUOLA LAICA

SCUOLA LIBERA

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SCUOLA LIBERA

La terminologia più diffusa distingue tra s.​​ privata​​ e pubblica secondo che sia istituita da privati, singoli o istituzioni, o dal potere pubblico, mentre alcuni parlano di s.​​ statale​​ e non, ma ambedue le definizioni non sembrano del tutto adeguate perché nel primo caso l’appellativo di pubbliche non può essere negato a s. che, pur nate dall’iniziativa privata, offrono un servizio a tutti, e nel secondo va osservato che non in ogni Paese le s. sono dello Stato e inoltre la categoria «non statale», oltre ad essere una definizione negativa, per esclusione, risulta molto eterogenea dato che raggruppa un’ampia gamma di s., da quelle degli enti pubblici a quelle private con scopo di lucro. Un’altra terminologia di area francese usa l’espressione s.l. per indicare programmi formali di educazione istituiti e gestiti da privati, singoli o enti, con finalità di interesse pubblico o di profitto. Essa non implica alcun giudizio negativo nei confronti della s. pubblica, quasi che lì non fosse rispettata la libertà, ma vuole sottolineare che la s.l. costituisce una manifestazione del diritto dei cittadini all’iniziativa in campo educativo.

1.​​ La situazione italiana.​​ Nel primo cinquantennio dello Stato unitario ha dominato il principio del​​ monopolio statale.​​ Durante il fascismo la riforma​​ ​​ Gentile del 1923 e, soprattutto, la L. n. 86 / 42 introdussero la normativa sul​​ riconoscimento legale​​ dei titoli di studio conseguiti nelle s.l., a condizione della conformità degli ordinamenti didattici a quelli delle corrispondenti s. statali. La​​ Costituzione repubblicana​​ ha inserito dal 1948 il sistema educativo in un quadro nuovo di principi. L’ordinamento scolastico è finalizzato al pieno sviluppo della persona umana all’interno di una concezione pluralista della società e svolge la sua funzione in connessione inscindibile con l’attività delle comunità naturali e delle formazioni sociali in cui avviene la maturazione dell’individuo, soprattutto con la famiglia. Esso va organizzato secondo i principi di libertà e di democrazia in vista soprattutto della realizzazione di tre diritti: all’educazione, alla libertà d’insegnamento, alla libertà d’iniziativa scolastica. Il punto più problematico è rappresentato dalla clausola contenuta nell’art. 33 secondo la quale il diritto di istituire s. è riconosciuto ad enti e privati​​ senza oneri per lo Stato.​​ Grosso modo le interpretazioni possono essere raccolte intorno a tre nuclei. Per alcuni la clausola sancisce il diritto di istituire s.l., ma vieta allo Stato di erogare loro finanziamenti. Secondo altri la normativa intende semplicemente escludere un diritto costituzionale dei privati ai contributi dello Stato; essa però non vieta qualsiasi aiuto pubblico alle s. libere. Altri infine ritengono che la tesi del divieto è in contraddizione con il resto della nostra costituzione scolastica. Per oltre 50 anni il dettato della carta fondamentale che, tra l’altro, richiedeva l’emanazione di una legge sulla parità delle s. non statali, è rimasto inattuato,​​ nonostante l’invito della Corte Costituzionale nel 1958 a provvedere con sollecitudine. Solo nel​​ 2000​​ la L. n. 62 ha introdotto una​​ parità parziale e imperfetta. Gli aspetti problematici riguardano soprattutto il concreto della vita scolastica: la realizzazione del tutto inadeguata della libertà di educazione della famiglia; l’ambiguità presente già nel titolo che mescola parità e diritto allo studio e all’istruzione; l’affermazione di principi giuridici di per sé validi ma di cui non viene valorizzata tutta la potenzialità pratica. Al tempo stesso risultano apprezzabili alcuni aspetti fondamentali di carattere giuridico quali: la consacrazione in legge del principio di un sistema nazionale di istruzione che non si identifica con la s. dello Stato e degli Enti locali, ma del quale sono parte integrante s. statale e l.; il riconoscimento del servizio pubblico delle s. paritarie; la libertà culturale e pedagogica con il diritto di dichiarare nel progetto educativo la propria ispirazione culturale o religiosa; la libertà del gestore di scegliere il personale dirigente e docente, purché fornito di abilitazione. Benché la quasi totalità delle s.l. siano divenute paritarie, rimane, tuttavia, molto bassa la percentuale degli alunni che le frequentano sul totale degli allievi del sistema scolastico: appena il 10.6% che, è vero, diviene nelle s. dell’infanzia il 35.4%, ma negli altri livelli non supera il 6% (5.8% nelle elementari e 5.2% nelle superiori) o nel caso delle medie raggiunge solo il 3.4% (Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della L. 10 marzo 2000, n. 62, 2004).​​ 

2.​​ Lo scenario a livello mondiale.​​ Il riconoscimento reale e pieno della libertà di educazione può contare almeno su tre​​ giustificazioni:​​ il diritto di ogni persona ad educarsi e a essere educata secondo le proprie convinzioni e il correlativo diritto dei genitori di decidere dell’educazione e del genere d’ istruzione da dare ai loro figli minori; il modello dell’educazione permanente la cui attuazione è assicurata non solo dalle istituzioni formative statali, ma anche da una pluralità di strutture educative pubbliche o private che, in quanto operano senza scopo di lucro, hanno diritto di ricevere adeguate sovvenzioni statali; l’emergere nelle dinamiche sociali fra Stato e mercato di un «terzo settore» o del «privato sociale» che, creato dall’iniziativa dei privati e orientato a perseguire finalità di interesse generale, sta ottenendo un sostegno sempre più consistente dallo Stato a motivo delle sue valenze solidaristiche. Vari fattori hanno spinto i governi ad interessarsi a forme di privatizzazione dell’istruzione tra cui, fra l’altro, una certa superiorità della s.l. rispetto alla pubblica circa il profitto degli allievi, evidenziata dalla ricerca. Tra i​​ regimi giuridici​​ della libertà di educazione una formula che contrasta con criteri di eguaglianza sostanziale è costituita dal monopolio dello Stato che relega le s.l. in una posizione marginale, escludendole tra l’altro dai finanziamenti pubblici. Tra i modelli accettabili vanno ricordati: il sistema integrato di servizio scolastico che è caratterizzato dall’integrazione e dal coordinamento nell’unico servizio pubblico delle s. predisposte dai pubblici poteri e di quelle istituite e / o gestite da soggetti diversi, purché dirette al fine di educazione; il regime delle convenzioni che consiste in un’associazione dell’iniziativa privata al servizio pubblico, a metà strada fra l’indipendenza e l’integrazione; il buono s., purché sia subordinato a condizioni che garantiscano l’eguaglianza delle opportunità. Da ultimo, una ipotesi recente che potrebbe rivelarsi molto valida propone il passaggio da una s. sostanzialmente dello Stato a una s. della società civile con un perdurante ed irrinunciabile ruolo dello Stato, ma nella linea della sussidiarietà.

Bibliografia

Ribolzi L.,​​ Il sistema ingessato, Brescia, La Scuola, 1997; Rescalli G.,​​ La s. privata nell’Unione Europea, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1999;​​ Fernández A. et al.,​​ El estado de las libertades educativas en el mundo, Madrid, Santillana, 2002; Malizia G., «La legge 62 / 2000 e la libertà di educazione. Quali prospettive?», in Cssc-Centro Studi per la S. Cattolica,​​ A confronto con le riforme. S. cattolica in Italia. Quarto Rapporto, Brescia, La Scuola, 2002, 57-72;​​ Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della legge 10 marzo 2000,​​ n. 62, Roma, Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, 2004.

G. Malizia - S. Cicatelli

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SCUOLA LIBERA

SCUOLA MATERNA

 

SCUOLA MATERNA

1.​​ Dalla custodia all’educazione.​​ In Occidente, nell’età moderna, sono state istituite scuole propriamente dette, capaci di accogliere bambini/e nell’età da zero a 6 anni, e molti le hanno chiamate scuole materne.

Fin dall’antichità romana esistevano, per nutrire infanti abbandonati, brefotrofi e orfanotrofi; il Codice di Giustiniano ne fa menzione esatta (I, II, 17, 22). Anche in Oriente esistevano orfanotrofi, come quello edificato a cura di Basilio di Cesarea in una cittadella ideata per l’esercizio delle opere di misericordia.

La Riforma, come tensione verso una forma apostolica di vita, non è estranea alla dissertazione di Erasmo di Rotterdam “de pueris statim ac liberaliter instituendis” (1529), ma più ancora è ispiratrice dell’impresa di Girolamo Emiliani (Venezia 1486 – Somasca, Bergamo, 1537) fondatore dell’Ordine dei Chierici Regolari di Somasca. Aveva frequentato in Roma l’Oratorio del divino Amore, uno dei centri d’irradiazione della Riforma cattolica. Le circostanze lo ricondussero a Venezia, di fronte a schiere di bambini/e abbandonati alle malattie, alla fame, alle violenze. Ebbe cura di loro, in senso evangelico, provvedendo alla loro assistenza. Una ispirazione evangelica si può trovare nel pensiero e nell’opera di Comenio (Nivnice 1592 – Amsterdam 1670). Riconosce dignità di scuola al grembo materno, e in tal senso inaugura il discorso moderno sulla scuola materna. In questa linea d’ispirazione evangelica notiamo i nomi di diversi educatori e pedagogisti impegnati nei tempi e nei problemi della scuola materna: J. H. Oberlin (Strasburgo 1740 – Ban-de-la-Roche, Vosgi, 1826); J. H. Pestalozzi (Zurigo 1746 – Brugg, Berna, 1827); J. P. F. Richter (Wunsiedel, Baviera 1763 – Bayreuth 1825); G. G. Girard (Friburgo, Svizzera, 1765-1850); A. Necker de Saussure (Ginevra 1765 – Mornay 1841).

In una nuova concezione della società R. Owen (Newtown, Montgomeryshire, 1771-1858) colloca la casa delle nutrici e la scuola dei bambini. La rivoluzione industriale ha mutato i rapporti nella produzione, molti bambini/e hanno bisogno di asilo e di custodia quando anche le madri lavorano fuori di casa. Cause di questo tipo danno luogo alla istituzione di asili, di sale di custodia. Si pone la questione se tali istituzioni possano avere fini educativi e non soltanto assistenziali, e in tal senso si riparla di scuola, di scuola dei bambini. Owen esclude l’aspetto religioso dell’educazione dalla casa delle nutrici e dalla casa dei bambini, poiché, egli afferma, ai bambini non si addice di dover tremare davanti alla parola divina. Ma egli stesso, partendo per gli Stati Uniti per andare a fondare la comunità socialista di New Harmony, affida le case delle nutrici e dei bambini a Buchanan, e con lui bambini/e di New Lamark ascoltano la parola divina come motivo di gioia e di vita e non di paura e di morte.

Una intensa esperienza di vita interiore conduce F. W. A. Froebel (Oberweissbach, Turingia, 1782 – Marienthal, Vienna, 1852) ad aprire il suo giardino d’infanzia in​​ Blankenburg,​​ in Turingia nel 1837, e qui l’educatore offre a bambini/e i suoi doni accuratamente preparati perché diano luogo ad attività educative.

F. Aporti (San Martino dall’Argine, Mantova, 1791 – Torino 1858), sacerdote, biblista, è ispettore di scuole, e fonda altre scuole, a incominciare da quelle dell’infanzia; apre scuole per i figli di famiglie agiate, ma si dedica ad aprirne altre per i figli di famiglie povere. Il suo pensiero pedagogico riguarda spesso le scuole infantili, e ritorna più volte implicitamente a Owen. Il suo nome rimane legato agli asili, detti appunto aportiani.

R. Agazzi (Volongo, Cremona, 1866-1951) e C. Agazzi (Volongo, Cremona, 1870-1945) iniziano a Mompiano un sistema educativo di scuola materna, capace di supplire l’attività educativa della madre, ove tale attività fosse carente, ma capace a ogni modo d’integrare tale attività. Pezzetti di cose trovate, cose apparentemente senza valore, danno luogo a interpretazioni infantili assai apprezzabili.

Un metodo educativo dei bambini è opera di → M. Montessori (Chiaravalle, Ancona, 1870 – Noordwijk, Olanda 1952) a partire dalla casa dei bambini da lei aperta in Roma intorno al 1907. Mentre il sistema delle sorelle Agazzi riafferma una sua originalità rispetto al giardino d’infanzia di Froebel, la casa dei bambini della Montessori tiene conto delle esperienze e degli studi di J. M. G. Itard e di E. Séguin.

Dall’idea di un asilo, di una sala di custodia, dove prevale l’aspetto assistenziale, si passa dunque all’idea di una scuola materna, dove prevalga l’aspetto educativo. Per segnalare che, in questa scuola, i bambini/e sono i primi soggetti, alcuni preferiscono la denominazione di scuola dell’infanzia.

2.​​ La formazione delle maestre.​​ Il culto dei valori religiosi e morali richiede di essere approfondito, ma richiede anche di essere congiunto con competenza scientifica, capacità tecnica ed esperienza professionale, per la formazione di chi abbia compiti educativi nelle scuole materne.

Dai tempi di Girolamo Emiliani i fondatori e le fondatrici di congregazioni religiose dedicate alla educazione dell’infanzia concepiscono itinerari di formazione delle collaboratrici e dei collaboratori. Dal ceppo legato al nome di Vincenzo de’ Paoli vengono modelli notevoli a tale proposito, e si fa netta la distinzione tra la figura della monaca impegnata qualche volta a favore di piccole ospiti del monastero e la figura della religiosa impegnata stabilmente in compiti di educazione della infanzia.

Nel pensiero di Comenio la madre, avendo già accolto nel proprio grembo il nuovo frutto, associa a sé il marito nella preghiera. Il pedagogista la munisce di una Guida, dove specialmente la sua figura di madre diventa tipo dell’educatrice dell’infanzia. Pestalozzi a questo proposito ha l’intuizione della madre pensosa, nel quadro della personalità di una educatrice capace di unificare in sé diversi talenti, mente e cuore. Con Girard e la Necker de Saussure c’è già il disegno per la formazione di maestre di scuole materne, pur nella diversità delle definizioni.

Finché si tratta di asili, di sale di custodia in senso stretto, ci si affida all’esperienza professionale, tramandata molte volte dall’anziana alla giovane attraverso un pratico tirocinio. Quando poi si tratta di scuole, allora si avverte l’esigenza di una capacità tecnica, analoga a quella richiesta per le maestre delle scuole di grado superiore a quello della scuola materna.

A volte si accentua l’idea che il grado della scuola materna abbia la funzione di preparare l’accesso alla scuola ulteriore, e quindi alla maestra non si richiede capacità tecnica specifica. Al massimo, le sarà chiesto di superare un esame di abilitazione, per esser qualificata come maestra giardiniera per i giardini d’infanzia di tipo froebeliano. Oppure si apriranno scuole per l’abilitazione di maestre del grado preparatorio, sempre però nell’ambito di una istruzione professionale, allo scopo di fornire una capacità tecnica. Successivamente si avverte l’esigenza di fondare esperienza professionale e capacità tecnica sulla base di una competenza scientifica.

Quindi la formazione della maestra di scuola materna tende a porsi nell’ambito della istruzione superiore, di un liceo magistrale specificamente adatto a dar fondamento scientifico a tale formazione.

Ma le ulteriori riforme delle scuole e degli istituti secondari superiori, con l’estensione della fascia dell’istruzione obbligatoria, insieme con le esigenze di una conoscenza scientifica del campo della educazione dell’infanzia, persuadono a considerare nuovamente la formazione delle maestre di scuola materna, e c’è chi la pone ormai a livello universitario.

Intanto, sia nei nidi che nelle scuole dell’infanzia, si apre l’accesso agli uomini, mentre si riconosce la specificità della funzione direttiva, insieme con la dignità di ogni operatore. Dipende molte volte dalle strutture universitarie che siano o no soddisfatte le esigenze di un organigramma composito e differenziato.

In Occidente, il fenomeno della scuola materna, nell’età moderna, è stato caratterizzato dalla presenza, nel campo della educazione infantile, di fondatori, di educatori e di pedagogisti di forte personalità, e quindi di metodi nettamente distinti. L’impresa di formare educatrici ed educatori in questo campo è stata perciò molte volte appassionata, e ha potuto dar luogo a confronti vivaci, specialmente con i pubblici poteri: a essi si addice sussidiare le diverse imprese, e non solo da un punto di vista economico e finanziario, senza peraltro sostituirle.

Tuttavia oggi anche in questo campo un accresciuto intervento dei pubblici poteri può essere a un tempo effetto e causa di un progressivo moltiplicarsi di rapporti della scuola materna nella vita sociale: il criterio della sussidiarietà si compone con quello della socializzazione.

In simili circostanze si può avere il vantaggio di una maggior cura dell’aspetto scientifico della formazione delle maestre e dei maestri di scuola materna, e in genere delle persone operanti in tale tipo di scuole; si può avere una maggiore obiettività. Occorre tuttavia ritornare vigorosamente al senso di una crescita proporzionata tra competenza scientifica, capacità tecnica, esperienza professionale e culto dei valori religiosi e morali, se si vuol essere coerenti con i criteri iniziali.

3.​​ Formazione religiosa.​​ Cf → bambini (catechesi dei); catechismi italiani; Maria​​ Montessori.

Bibliografia

A. Agazzi,​​ Il metodo delle sorelle Agazzi per la scuola materna,​​ Brescia, La Scuola, 1951; Id.,​​ La formazione delle educatrici d’infanzia,​​ Roma, 1957; S. Cavalletti,​​ Storia, pedagogia, didattica, programmi e orientamenti della scuola materna dalle origini ad oggi,​​ Roma, E. Ciranna, 1970; R. Gentili,​​ Il metodo Agazzi e le scuole dell’infanzia,​​ Roma, E. Ciranna, 1968;​​ L’educazione religiosa nella scuola materna,​​ Bassano del Grappa, Centro Studi Larizza, 1981; A. Leonarduzzi,​​ Maria Montessori, la persona e l’opera,​​ Brescia, Paideia, 1967; M. Mencarelli,​​ Scuola materna,​​ Brescia, La Scuola, 1978; M.​​ Montessori,​​ Opere,​​ Milano, Garzanti, 1962;​​ Orientations​​ pour la catéchèse à l’école maternelle,​​ Bruxelles, Ed. O.P.E.M., 1969-1970; U. Pasquale,​​ Conversazioni religiose per scuole materne,​​ Leumann-Torino, LDC, 1972;​​ La scuola materna oggi,​​ Roma, Centro Nazionale per la Scuola Materna, 1971.

Giovanni Catti

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SCUOLA MATERNA
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