SACERDOTE – Formazione cat.

 

SACERDOTE (Formazione cat.)

1.​​ Guardando alla storia degli ultimi secoli, non pare che la formazione cat. sia stata un capitolo forte della formazione sacerdotale nei seminari maggiori.

Il Concilio di Trento, istituendo i seminari, non ha parlato esplicitamente della formazione cat. dei seminaristi. Il decreto​​ De Reformatione​​ chiede ai vescovi di prendere a cuore la formazione dei sacerdoti e di assicurare che essi abbiano una adeguata conoscenza di ciò che il popolo cristiano deve sapere come indispensabile per la salvezza.

L’introduzione delle cattedre di pastorale-catechetica nelle facoltà di teologia a partire dal 1774 può essere considerato un passo positivo verso una formazione cat. del futuro clero, poiché diversi seminari seguirono l’esempio.

Il Codice di diritto canonico del 1917, orientativo per la formazione del clero in gran parte del XX secolo, richiede esplicitamente un corso di teologia pastorale insieme con esercitazioni pratiche “praesertim de ratione tradendi pueris aliisve catechismum” (can. 1365, § 3).

Che tale formazione non sia stata realizzata con molto spirito creativo risulta, fra l’altro, anche dai ripetuti richiami della Congregazione per i Seminari e le Università. Nella lettera​​ Ad Regnum Jesu Christi​​ (1926) i vescovi vengono richiamati al dovere di assicurare nei seminari il corso di catechetica. Nella lettera​​ Quod Catholicis​​ (1929) si richiede che in tutti i seminari venga istituita la cattedra di catechetica. Nel 1942 la stessa Congregazione precisa che il programma di formazione cat. deve essere esteso a considerare anche corsi di pedagogia e di didattica (durante il biennio filosofico) e corsi di catechetica con esercitazioni guidate (durante il quadriennio teologico). Nella lettera del 3-9-1963, in occasione del 4° centenario dell’istituzione dei seminari, la Congregazione richiede che il futuro sacerdote sia un perfetto maestro della parola di Dio. L’intera parte seconda della lettera è dedicata all’impostazione teorica e pratica del corso di catechetica.

Il Concilio Vaticano II ha insistito sul fatto che “le discipline teologiche siano insegnate in maniera che gli alunni possano attingere direttamente la dottrina cattolica dalla divina rivelazione (...) e siano in grado di annunziarla, esporla e difenderla nel ministero sacerdotale” (OT 16). Afferma inoltre che “quella preoccupazione pastorale, che deve permeare l’intera formazione degli alunni, richiede anche una intelligente istruzione nelle cose che riguardano in modo speciale il sacro ministero, specialmente nella catechesi e nella predicazione, (...) nel dovere di andare incontro agli erranti e agli increduli e negli altri uffici pastorali” (OT 19).

La​​ Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis​​ (1970), pubblicata dalla Congr. per l’educazione cattolica, concretizza gli orientamenti conciliari, insistendo sulla necessità di corsi pastorali e cat., nonché sullo studio delle scienze umane che possono venir incontro al servizio pastorale.

Il nuovo Codice di diritto canonico (1983) si limita a riportare la sopraccitata frase di OT (can. 255), mentre per ciò che riguarda le esercitazioni pratiche nell’ambito pastorale, non parla esplicitamente di C. (can. 258). Fino al tempo del Concilio, e anche dopo, la catechetica era scarsamente presente in molti seminari maggiori. In particolare era assente da molti studentati teologici di ordini religiosi e missionari. Fino al 1960 erano pochi i missionari con una preparazione specifica in campo cat.

Per ciò che riguarda l’Italia, dalle due inchieste realizzate da L. Soravito (1977 e 1978) risulta che nei seminari maggiori c’è quasi dappertutto il corso di catechetica, piuttosto ridotto, spesso senza esercitazioni guidate (L. Soravito 1979, 289-317).

2.​​ L’orientamento concreto della formazione cat. del futuro sacerdote è ovviamente dipendente da circostanze locali, in particolare dalla maggiore o minore partecipazione dei laici alla C., dalla situazione missionaria, ecc.

a)​​ Una adeguata preparazione cat. del futuro sacerdote dipende primariamente dall’orientamento pastorale degli studi seminaristici, come giustamente è stato sottolineato dal Concilio Vaticano II. Elementi importanti sono: attenzione ai grandi problemi culturali e religiosi dell’uomo d’oggi; disponibilità all’ascolto della ricerca religiosa nell’umanità; preoccupazione di tradurre il messaggio cristiano in riferimento alle grandi categorie della cultura contemporanea; essenzialità e centralità del messaggio...

b)​​ I corsi esplicitamente cat. dovrebbero comprendere: la catechetica fondamentale, che chiarisce la natura della C. e la sua posizione nell’insieme dell’azione della Chiesa; le metodologie per diversi livelli di età (bambini, fanciulli, ragazzi, adolescenti, giovani, adulti, handicappati) e per ambienti diversificati (cristiani, secolarizzati, missionari, prima evangelizzazione; storia della C...).

c)​​ La formazione deve anche comprendere corsi appartenenti alle diverse scienze dell’uomo: sociologia e psicologia della religione; sviluppo religioso, sviluppo morale; didattica; comunicazione audiovisiva, ecc.

d)​​ Sono molto rilevanti, per una adeguata formazione cat. del seminarista, gli esercizi guidati.

e)​​ Nell’attuale situazione (ad eccezione di alcuni paesi dell’Est) la C. è assicurata in massima parte da laici (soprattutto donne). Di conseguenza, sacerdoti e religiose sono meno impegnati nella C. diretta (con un piccolo gruppo) e sempre più confrontati con l’organizzazione e l’animazione delle diverse categorie di catechisti. La formazione del futuro sacerdote dovrebbe considerare questo nuovo aspetto del compito cat. del sacerdote. Ciò presuppone che il futuro sacerdote abbia una adeguata conoscenza di tutte le forme di C. e sia anche particolarmente addestrato nelle attività di animazione e di coordinamento.

f)​​ Per fare l’insegnante di religione nelle scuole la formazione seminaristica è generalmente insufficiente. Il sacerdote dovrebbe ricevere una formazione specifica, richiesta da tutti gli insegnanti di religione nella stessa nazione.

Bibliografia

G. Cenacchi,​​ La pedagogia seminaristica nei documenti del Magistero ecclesiastico,​​ Rovigo, Arti Grafiche, 1966; S.​​ Conor,​​ de​​ Seminaros​​ et​​ Studiorum​​ universitatibus,​​ Circa la preparazione catechistica dei candidati al Sacerdozio,​​ in “Seminarium” 16 (1964) 208-217; C. De​​ Souza,​​ The Catechetical Formation of the Future Priest. A Study of Church Documents,​​ Roma, UPS, 1979​​ (tesi);​​ A. Favale (ed.),​​ Il​​ Decreto sulla Formazione sacerdotale,​​ Leumann-Torino, LDC, 1967;​​ National Conference of Diocesan Directors of Religious Education – CCD (ed.),​​ Priestly Formation and Catechetics,​​ Washington, 1978;​​ La preparazione​​ del​​ futuro sacerdote alla missione di catechista,​​ in “Seminarium” 27 (1975) 1-245; L. Soravito,​​ La catechetica negli istituti teologici. Situazioni e prospettive,​​ nel vol. Gruppo Italiano Catecheti (ed.),​​ Teologia e catechesi in dialogo,​​ Bologna, EDB, 1979, 289-345.

Joseph Gevaert

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SACERDOTE – Formazione cat.

ŠACKIJ Stanislav Teofilovič

 

ŠACKIJ Stanislav Teofilovič

n. a Smolensk nel 1878 - m. a Mosca nel 1934, pedagogista ed educatore russo.

1. Dopo gli studi, si decise per l’educazione. Partecipò al movimento dell’Educazione libera,​​ poi simpatizzò con i rivoluzionari, ma entrò tardi nel partito (1928). Seppe compattare influssi occidentali con la tradizione russa (​​ Tolstoj). Dal 1905 collaborò alla fondazione di istituzioni educative, chiuse poi dalla polizia; nel 1909 creò la società «Lavoro e distensione per i bambini» e s’informò di pedagogia; nel 1911 fondò una colonia, volta alla collaborazione con le famiglie:​​ Bodraja zizn’​​ (Vita premurosa), divenuta celebre, per la «sintesi di pedagogia individuale e collettiva». Dopo la rivoluzione, ne accettò gradualmente gli obiettivi, appoggiò la «Scuola del lavoro» (in campagna però) e partecipò a varie commissioni. Si prodigò nel 1° «Centro pedagogico sperimentale», a Mosca, curando la preparazione dei maestri e la sperimentazione di nuovi metodi educativi (da quello «dei complessi» a quello «dei progetti»). Studiò, in particolare, i condizionamenti sociali dei bambini a scuola.

2. La sua ricca esperienza e i suoi studi, l’hanno portato a​​ posizioni personali,​​ per il ruolo della dimensione sociale e dell’influsso dell’educatore, a scapito del puerocentrismo o di un rigido marxismo. L’educazione è vista come un processo continuo all’interno di un rapporto democratico tra educatori e allievi, conviventi in una​​ comunità autogestita,​​ sul modello familiare, con rilevante spazio per il gioco, il teatro e soprattutto per il lavoro, nei campi e in casa. I tre parametri fondamentali erano: l’interesse dei bambini,​​ il​​ lavoro​​ e un’adeguata​​ ristrutturazione dell’ambiente​​ in comunità educativa. Non direttamente impegnato in politica, l’assunse, dopo lo studio del marxismo, come finalità educativa, in sintonia con le istanze comunitarie e con la sintesi di teoria e prassi.

3. Tra i più significativi pedagogisti russi, S. fu un moderato riformista, originale e coerente all’interno di una «pedagogia in movimento». Il suo influsso fu elevato durante la prima NEP (Nuova Politica Economica), poi in ribasso e infine rinvigorito dopo il 1931.

Bibliografia

gli scritti di Š. sono raccolti in:​​ Pedagogičeskie socinenija v cetyrech tomach​​ (Opere pedagogiche in 4 voll.), Mosca, 1962-1965; su di lui: Slomkiewiecz S.,​​ Idee pedagogiczne Stanislawa Szackiego,​​ in «Rozprawy z dziejów oswiaty» 10 (1967) 85-106;​​ Wichmann J.,​​ S.T.Š: ein Wegbereiter der modernen Erlebnispädagogik, Lüneburg, Neubauer, 1991.

B. A. Bellerate

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ŠACKIJ Stanislav Teofilovič

SACRAMENTI

SACRAMENTI

Achille Triacca

 

1. Chiavi di lettura dei sacramenti

1.1. Chiave di lettura classica

1.2. Chiave di lettura sacramentale o simbolica

1.3. Chiave di lettura storico-salvifica

1.4. Chiave di lettura personalista

1.5. Chiave di lettura verbale

1.6. Chiave di lettura liberatrice

1.7. Chiave di lettura unitaria

1.8. Chiave di lettura pneumatologica

2. Per un appropriato approfondimento pastorale

2.1. No agli estremismi

2.2. Si al meglio

3. Indicazioni progettuali

3.1. I sacramenti «punti» della fede in crescita

3.2. Isacramenti «tappe» di un diuturno itinerario spirituale

3.3. I sacramenti «luogo» della pedagogia cristiana

3.4. I sacramenti «attuazione» della storia della salvezza nel fedele

3.5. Isacramenti «crocevia» della teologia vissuta

3.6. Isacramenti «luogo di incontro» del divino con rumano

 

Nello sviluppo e nella maturazione della «personalità cristiana» i sacramenti hanno sempre occupato un posto rilevante in quanto costituiscono delle mete da raggiungere e una sorgente ispiratrice di molteplici itinerari educativi.

Purtroppo il loro studio e, di conseguenza, la catechesi e la pastorale nei loro riguardi hanno privilegiato determinate accentuazioni, risultando così notevolmente parziali. Fortunatamente le visuali sacramentarie fatte proprie dal Vaticano II hanno aperto ampi orizzonti e posto le basi per far loro recuperare un rinnovato mordente.

Attualmente sono ormai superati gli stadi di una loro comprensione sia puramente​​ moralistica​​ centrata cioè sulle condizioni per una valida e lecita celebrazione e partecipazione, sia quasi esclusivamente​​ strumentalistica​​ che li concepisce come semplici mezzi di santificazione, sia strettamente​​ rubricistica​​ perché prevalentemente interessata a una loro aulica celebrazione.

Oggi la teologia liturgico-sacramentaria si avvale dei seguenti apporti di altre discipline teologiche: di quelli biblici attinenti la storia della salvezza; di quelli teologici riguardanti il deposito della fede in continua crescita; di quelli liturgici concernenti la salvezza attuata nell’oggi celebrativo; di quelli antropologici relativi al fatto che i sacramenti sono espressione della fede della comunità ecclesiale.

Ciò ha reso possibile individuare diverse chiavi di lettura dei sacramenti stessi; il che è utile non tanto e non solo per una loro migliore comprensione, quanto piuttosto per compiere un’analisi valutativa del vissuto ecclesiale e per prospettare una loro più efficace celebrazione e partecipazione, diretta alla crescita di una professione della fede, che sia nutrita appunto da una più partecipata celebrazione della fede inerente a una pratica sacramentaria compiuta in verità.

 

1.​​ Chiavi di lettura dei sacramenti

È ovvio che non si riesca a dire tutto quanto si dovrebbe, quando si enfatizza un solo aspetto della complessa realtà dei sacramenti. Effettivamente, tentando di offrirne una comprensione che favorisca ulteriori approfondimenti, si può ritenere che nel nostro secolo si sono alternati non poche chiavi di lettura che, per un verso, sono​​ tutte buone​​ e, per un altro,​​ tutte inadeguate,​​ perché variamente parziali.

Il fatto non ha mancato dal suscitare un certo senso di «malessere» in campo operativo nei confronti dei sacramenti. Tale malessere si esprime in una vasta gamma di modalità, che vanno dalla​​ disaffezione,​​ la quale porta all’abbandono della loro celebrazione e partecipazione, a un’accentuazione​​ che sfocia in un sacramentalismo esasperato non lontano da una celebrazione e partecipazione ripetitiva, rutinaria, quasi meccanica.

Gli accenni schematici che qui si fanno circa tali chiavi di studio si prefiggono almeno un duplice intento: 1. quello di puntualizzare le visuali che, se pur parziali, racchiudono aspetti validi; 2. quello conseguente di aiutare il lettore a operare una sintesi personale del meglio espresso da tali visuali. Si tenga poi presente che l’elenco proposto qui di seguito è solo indicativo e non esaustivo.

 

1.1. Chiave di lettura classica

Questa chiave di lettura si riferisce in modo preferenziale alla nota definizione di sacramento: «segno efficace della grazia istituito da Gesù Cristo per salvarci», e indugia a mettere in risalto gli effetti rapportati e-o rapportabili al sacramento stesso. Specialmente in seguito alle polemiche suscitate dalla riforma protestante, essa privilegia gli effetti del sacramento cioè la vita di grazia ovvero la vita trinitaria nelle persone dei fedeli.

A motivo poi di una visuale tuziorista mutuata dalla morale sacramentaria, essa si sofferma ad analizzare i costitutivi del segno sacramentale (= elemento e parola,​​ alias​​ materia e forma), le persone direttamente interessate ai sacramenti ( = soggetto e ministro), nonché i requisiti per la loro celebrazione valida e lecita, e per la loro fruttuosa recezione. Si tratta di una visuale ortodossa ma parziale almeno perché l’accento posto sugli elementi costitutivi del sacramento espone facilmente al rischio di considerarli avulsi dal loro contesto vero e proprio, quello della celebrazione intesa come evento storico salvifico operante nella comunità cristiana.

 

1.2. Chiave di lettura sacramentale​​ o​​ simbolica

Quest’altra chiave analizza i sacramenti a partire dalla categoria della «sacramentalità», che notoriamente è applicabile, a diversi livelli di appropriazione o di analogia, a differenti realtà storico-salvifiche, quali il mondo, l’uomo, la Chiesa e prima ancora Cristo stesso, immagine visibile dell’invisibile Dio (Col 1,15).

Alla base si trova l’umanità di Cristo. In Lui la dimensione umana e visibile, i suoi eventi e le sue parole ne rivelano la realtà divina. Tale sacramentalità è partecipata alla Chiesa e, di conseguenza, coinvolge i sacramenti ad essa affidati dal suo Signore. In effetti, in essi operano insieme l’umano e il divino, il visibile e l’invisibile in modo unitario o in sinergia, nel senso che l’aspetto umano visibile è segno e strumento dell’azione invisibile di Dio.

Oltre a mettere in risalto la sacramentalità «diffusa», espressa in modo particolare nei sacramenti e compresa secondo le attuali aperture antropologiche, questa visuale enfatizza un’altra categoria fondamentale, quella di «simbolo». Vi ricorre per spiegare l’essenza del sacramento, confrontando appunto il contenuto del simbolo con quello del sacramento inteso in modo classico. Ciò consente di evidenziare la convergenza e la diversità tra il simbolo (il cui studio può essere fatto con un approccio filosofico, psicologico, fenomenologico, specie di fenomenologia della religone...) e il sacramento che ingloba le potenzialità espressive del simbolo.

I sacramenti sono così intesi come espressione simbolica dell’esperienza di fede, come mediazioni simboliche dell’incontro del fedele con Dio e dei fedeli tra loro, come autoespressione simbolica della Chiesa.

Questa prospettiva di studio valorizzata in sede sacramentaria aiuta a riscoprire che l’uomo sta al centro della celebrazione dei sacramenti. Anzi rende maggiormente comprensibile il fatto che l’Uomo-Dio, Gesù Cristo, è il sacramento originario o fontale; inoltre il fatto che la comunicazione tra il ministro e l’assemblea celebrante con il ministro principale, il Signore Gesù appunto, costituisca l’evento di salvezza: la celebrazione assembleare, infatti, è essa stessa una mediazione che ricorre alla parola e al rito simbolico come a mezzi espressivi e comunicativi, senza dei quali si corre il rischio di vanificare il sacramento.

Si è in presenza di una visuale grandiosa che ha consentito di recuperare la dimensione simbolica dei sacramenti e di superare l’«impasse» della prospettiva precedente, perché fa esplicito riferimento al contesto cristico ed ecclesiale considerato luogo proprio dei sacramenti. Tuttavia questa visuale è esposta al pericolo di creare confusione tra differenti livelli di sacramentalità e di livellare la realtà complessa sottesa a tale categoria interpretativa.

 

1.3. Chiave di lettura storico-salvifica

Le categorie biblico-liturgiche utilizzate da quest’altra chiave interpretativa sono quelle indicate sinteticamente dalle formule: «segni della nuova alleanza» e «memoriale del mistero-pasquale». Anzi tale chiave di lettura suppone una concezione dinamica della storia, che è essenzialmente storia di salvezza. Inoltre evidenzia il carattere radicalmente storico della sacramentalità cristiana e, quindi, dei sacramenti.

Questi sono giustamente considerati come concretizzazioni storiche dell’iniziativa della Trinità che passa da Cristo alla Chiesa e, in essa, ai singoli fedeli. In altri termini, essi si trovano all’estremo opposto della ritualità magica comune alle varie religioni, perché sono eventi dell’incontro di Cristo Signore con il credente, diretti a far sì che questi realizzi in sé stesso il piano di salvezza progettato da Dio (= economia salvifica o​​ mysterium)​​ per ciascuno dei suoi figli dispersi, chiamati a formare un’unica persona in Cristo (cf​​ Gv​​ 11,5 ls).

Questa visuale è senza dubbio illuminante e stimolante per la pastorale sacramentaria, ma corre sul filo tagliente dell’esclusività. In effetti se non è presa nel suo insieme, facilmente si falsificano i dinamismi dei sacramenti, relegandoli a frutti di condizionamenti socioculturali, divenuti oggi ormai obsoleti.

 

1.4. Chiave di lettura personalista

Questa chiave di lettura prende le mosse da realtà indicate dai seguenti termini: incontro, comunicazione, personificazione...

Applicati ai sacramenti, essi mettono in risalto l’alterità e l’uguaglianza dei partecipanti alla celebrazione, ciò che li accomuna e ciò che li diversifica, i rapporti di comunicazione o di non-comunicazione, Pofferta-recezione del dono oppure il suo rifiuto...

Il fatto che i sacramenti sono, nella Chiesa, punti salienti dell’incontro dei fedeli con Cristo ne illumina in modo particolare la​​ dimensione cristologica​​ rapportandola alla presenza operativa del Signore Gesù. Egli opera lungo l’arco della storia, trascende i limiti di una mera corporeità; nei sacramenti agisce come ministro principale del proprio incontro con i suoi e come garante del loro incontro con il Padre nello Spirito. Egli sollecita coloro che si riconoscono suoi fedeli nella celebrazione sacramentaria a seguirlo nel loro vissuto quotidiano (​​ =​​ sequela).

In questa visuale anche la​​ dimensione ecclesiale​​ dei sacramenti viene evidenziata con connotazioni precise. Infatti ogni celebrazione è fatta​​ nella​​ Chiesa,​​ per la​​ Chiesa,​​ in comunione con la​​ Chiesa,​​ in favore della​​ Chiesa e cioè della concreta assemblea in cui occupano un posto particolare i partecipanti e, in primo luogo, il ministro con gli altri ministranti. Anzi il condividere la stessa fede, il sentirsi solidali con tutti i chiamati alla salvezza (l’umanità intera) sprona alla missionarietà cioè a impegnarsi nell’edificare il corpo di Cristo, il popolo di Dio, l’umanità nuova in Cristo.

Questa visuale accentua con fondatezza il fatto che i sacramenti sono pure espressione della vita della comunità ecclesiale. Tuttavia, qualora venisse considerata Tunica valida, priverebbe la comprensione dei sacramenti dell’apporto delle altre prospettive che si stanno esaminando.

 

1.5. La chiave di lettura verbale

Quest’altra chiave interpretativa si concentra sullo studio della linguistica, essendo preoccupata di identificare soprattutto come funziona la comunicazione per mezzo del linguaggio e ciò per comprendere meglio l’efficacia del sacramento.

Nel compiere questa operazione si avvale dell’apporto della filosofia del linguaggio (specie dell’area di lingua tedesca) e persegue un obiettivo maggiormente ecumenico rispetto alle chiavi di lettura finora esposte. Riferendosi allo stretto legame tra parola e realtà, questa visuale pone in luce il fatto che il linguaggio sacramentario è efficace o, come si dice, è performativo, cioè realizza ciò che esprime.

In questo modo si recupera, per altra via, la comprensione del modo in cui il sacramento opera ciò che significa, in quanto la parola unita al rito diventa comunicativa di ciò che intende realizzare.

È questa una prospettiva abbastanza interessante, ma che attende ulteriori approfondimenti specie in relazione alle questioni antropologiche legate al linguaggio performativo.

 

1.6. La chiave liberatrice

Già ventilata una trentina d’anni fa, questa visuale è stata collocata in primo piano dalla cosiddetta teologia della liberazione, specialmente dell’area latino-americana. Le categorie da essa utilizzate sono quelle di liberazione, libertà, creatività...

Va oltre la prospettiva simbolica da cui prende le mosse e cerca di approfondire in che modo i sacramenti sono simboli di libertà, eventi liberatori, luogo di cristiana contestazione delle ingiustizie che Cristo, presente tra i suoi, condanna oggi, come condannò ieri. Se compiuta in modo autentico, la celebrazione dei sacramenti è punto di incrocio delle coordinate costituite da Cristo, dalla Chiesa e dai cristiani: è luogo dove i poveri di Dio riscoprono di essere i privilegiati dalla bontà concreta delle Persone divine che sono schierate dalla loro parte, per impegnarli ad abbattere le divisioni create dall’uomo, ma non volute né da Dio né dai seguaci di Cristo, perché con i loro atteggiamenti e comportamenti devono essere segni credibili delle tenerezze divine.

Tale celebrazione, inoltre, mentre edifica la Chiesa promuovendo la compartecipazione espressa dall’esperienza dei credenti ispirata dal vangelo, aiuta efficacemente a riunire le persone, a coinvolgerle insieme nel realizzare il progetto rivelato da Dio in Cristo, ravvisabile nella solidarietà delle persone umane tra loro e con la Trinità.

Questa visuale è, almeno in parte, sicuramente nuova e consente di ricordare che la stessa vita divina nei fedeli, per un culto in Spirito e verità, è diretta a donare la libertà dei figli di Dio: libertà liberante, che ha bisogno d’essere ogni giorno sempre più liberata da molteplici forme oppressive fino a raggiungere l’età matura in Cristo (cf Ef 4,13).

Se non la si pone sul candeliere come l’unica luce, questa chiave interpretativa proposta dalla più sana teologia della liberazione favorirà l’approfondimento delle virtualità contenute nei sacramenti, destinate a essere rese vitali nella celebrazione dei medesimi.

 

1.7. La chiave di lettura unitaria

Nell’intento di superare le visuali parziali che caratterizzano in vari modi le vedute finora esaminate e di recuperare una visione unitaria della sacramentaria, si sente oggi sempre più l’urgenza di vivacizzare lo studio dei sacramenti e la loro pratica pastorale, inquadrandoli in una cornice in cui si contempli sia il​​ prima​​ celebrativo che il​​ dopo​​ celebrativo, mentre si approfondisce il​​ durante​​ celebrativo avvalendosi degli apporti delle categorie interpretative menzionate e di altre ancora. Reagendo a impostazioni che, soffermandosi sul durante celebrativo, studiano la sola essenza metafisica o, al più, l’essenza fisica dei sacramenti, questa visuale si preoccupa di sottolinearne invece le linee portanti. Esse coinvolgono l’intera vita del fedele (e anche del catecumeno, che desidera esserlo), in modo da renderla una degna preparazione alla celebrazione. Così nell’azione liturgica si celebra in verità la vita di fede e si attua il «mistero». In tale modo il mistero percorre tutto il cammino che va dalla vita alla celebrazione per rifluire nella vita. A sua volta il​​ dopo​​ celebrativo mentre inserisce ciò che si celebra nel vissuto quotidiano, colmando lo iato tra rito e vita, diventa il​​ prima​​ di una successiva celebrazione.

Le categorie impiegate da questo modo di vedere sono quelle di mistero, azione liturgica​​ (alias​​ celebrazione), vita, coniugate con quelle di «memoriale»​​ (anamnesis),​​ partecipazione​​ (methexis),​​ presenza ed azione di Cristo e della Chiesa in forza della presenza invocata dello Spirito Santo​​ (epiclesis).

Questa visuale facilita indubbiamente un’impostazione adeguata sia della catechesi che della pastorale sacramentaria. Essa aiuta a percepire la verità dei sacramenti ricorrendo a tutte le angolature con cui se ne può affrontare lo studio e recependone il meglio. Naturalmente anch’essa può essere fraintesa da coloro che si avvicinano ai sacramenti con precomprensioni proprie di determinate scuole filosofiche, teologiche e antropologiche, notoriamente insensibili alle aperture da essa prospettate.

 

1.8. La chiave pneumatologiea

Partendo dal postulato secondo cui senza lo Spirito Santo non si ha celebrazione, questa visuale sottolinea che i sacramenti sono un’immagine o icona della presenza operativa dello Spirito del Signore risorto. Senza di Lui essi sarebbero vuota ritualità. Compiuta con Lui, la loro celebrazione rende presente, nell’oggi, la salvezza: in effetti, il memoriale liturgico degli eventi del Signore Gesù (vita, passione, morte e risurrezione) ne attualizza l’efficacia salvifica.

Nell’evento celebrativo, i riti e i gesti, il linguaggio e la parola, le cose e le azioni, pur rimanendo realtà umane, divengono segni efficaci della presenza di Cristo, che agisce nei sacramenti tramite il suo Spirito, in modo che in essi si attui l’iniziativa del Padre. Animati dallo Spirito Santo, i partecipanti alla celebrazione, in qualità di soggetti attivi a titoli differenti, non sono semplicemente persone umane, ma fedeli. In breve, la celebrazione considerata in tutte le sue componenti diventa il luogo di un’autentica esperienza religiosa, cristiana ed ecclesiale attuabile e attuata dalla presenza misteriosa, ma reale e operativa, dello Spirito Santo. Tanto è vero che ogni celebrazione, memoriale nel tempo del mistero pasquale, è manifestazione pentecostale dell’unico Spirito. Egli agisce nella vita del fedele, perché quanto precede e quanto segue la celebrazione trovi il suo vertice e la sua sorgente nella celebrazione stessa.

In questo modo la vita (di ciascun fedele nella Chiesa e della Chiesa in ogni fedele) viene compenetrata e animata dalla dimensione della santificazione per conseguire la pienezza della vita cultuale nello Spirito.

Sembra che valorizzando le ultime due visuali, più facilmente si possa giungere a delineare un concreto progetto di teologia sacramentaria. Da essa, debitamente arricchita delle nuove acquisizioni anche se parziali, potrebbero trarre vantaggio non solo gli «addetti ai lavori», ma la stessa azione pastorale.

 

2.​​ Per un appropriato approfondimento pastorale

Si sa che nell’ultimo ventennio non sono purtroppo mancate strumentalizzazioni dei sacramenti, ad es. perché letti in una determinata chiave politica o secolarizzante... Il seguito dell’esposto non intende affatto avventurarsi in ulteriori loro strumentalizzazioni (tentazioni cui sono facilmente esposti operatori pastorali meno avveduti). Si limita piuttosto a segnalare alcuni punti, salienti e certi, che possono facilitare un loro appropriato approfondimento pastorale.

 

2.1. No agli estremismi

Nessun vero e autentico approfondimento dei sacramenti, specialmente in vista di una loro pratica pastorale, può far sue visuali parziali, ancorché buone. Ci si scosterà allora dalle posizioni di coloro che li relegano al solo ambito della storia della salvezza e li escludono dalla storia umana-profana. Lo richiede una sana visione antropologica propria dei sacramenti, la cui celebrazione deve innervarsi nell’umano, in modo che il divino vi si possa più facilmente «incarnare». La lunghezza d’onda del divino postula che l’umano entri in sintonia con esso. Il sacramento rimane pur sempre un evento umano-divino o teantropico, analogamente al tedrismo di Cristo, Verbo incarnato, Dio-Uomo. Similmente l’approfondimento in chiave pastorale dei sacramenti illumina la stessa teologia sacramentaria, perché la stimola a elaborare chiavi interpretative che favoriscano l’eliminazione progressiva dello iato tra «rito» e «vita», ereditato da un passato non troppo recente. Ciò sarà conseguibile con l’aiuto dell’operatore pastorale che sappia promuovere un equilibrio, da riconquistare, tra «fede» e «sacramento» ovvero tra «evangelizzazione» e «celebrazione». D’altra parte, come la sacramentaria ha tratto vantaggio di recente dalle acquisizioni della cultura contemporanea, specialmente nell’analisi del sacramento inteso come segno secondo gli apporti delle scienze antropologiche, così le istanze pastorali hanno stimolato la sacramentaria ad abbandonare configurazioni liturgiche piuttosto evasive nei confronti dell’impegno cristiano nella storia umana.

Si aggiunga che le fratture tra sacro e profano esasperate da note correnti di pensiero che provocarono nella sacramentaria laceranti contrasti, sotto l’incalzare del vissuto si sono progressivamente ricomposte.

Tra l’altro, essendo tutta permeata di economia salvifica, la sacramentaria postula una teologia della storia e un’antropologia cristiana che risultano provocatorie nei confronti del linguaggio liturgico. Per essere conforme alle proprie finalità, esso esige una comunicazione vera e autentica della gestualità, della ritualità, dei segni, delle parole, delle cose che fanno parte della celebrazione.

Più ancora, le istanze pastorali sollecitano le stesse persone interessate alla celebrazione, a diversi titoli di partecipazione, a essere trasparenti e veritiere nei loro atteggiamenti e comportamenti. Questo non può non allettare i giovani che, a ragione, stimolano gli altri alla trasparenza e all’impegno, ad essere cioè più semplici, più schietti, più coerenti nella vita con quanto celebrano nei sacramenti.

Non è il caso di proseguire nella diagnosi degli estremismi nell’area della sacramentaria, che la prassi pastorale, con le sue esigenze ed urgenze, ha aiutato ad eliminare. Può essere invece utile ricordare che tale prassi ha stimolato la sacramentaria a dire sì ad attuazioni pratiche e a comprensioni teoriche che la migliorano.

 

2.2. Sì al meglio

In effetti, le diverse teologie aggettivate (teologia biblica, teologia patristica, teologia conciliare, teologia magisteriale...) come le teologie al genitivo (teologia del mondo, teologia della speranza, teologia della liberazione...), se da un lato hanno ricevuto nuovi lumi dalla più genuina teologia sacramentaria, dall’altro hanno positivamente influenzato le aperture della sacramentaria, facendola passare al filtro della teologia pastorale. Pungolata da istanze spontanee o riflesse che sollecitano adeguamenti pratici, essa ha stimolato e continua a stimolare un discorso critico (quasi per insoddisfazione endogena) circa il tessuto ecclesiale, in vista di un più autentico vissuto ecclesiale.

La teologia pastorale svolge un servizio critico nella Chiesa e per la Chiesa, ispirandosi a determinate visioni teologiche, frutto di scelte cristologiche, pneumatologiche, ecclesiologiche e antropologiche. Nel caso dei sacramenti, queste si avvalgono degli apporti delle scienze umane, ma senza permettere alla sacramentaria (e alla stessa teologia pastorale) né di configurarsi in un’antropologia religiosa che le dissolva in una fusione confusionaria con essa, né di modellarsi sulle scienze umane che le riduca a semplice capitolo di psicologia o di sociologia del fenomeno religioso cristiano.

Inoltre la teologia sacramentaria, sempre passando al filtro della teologia pastorale, fa appello a una corretta e costante cooperazione sia con i soggetti che con i responsabili ultimi dell’azione ecclesiale, diventando in tal modo una teologia viva, vivace e vitalizzante. Infatti, mentre, da una parte, si è sempre rivelata tavola di prova e di collaudo delle diverse teologie aggettivate e del genitivo, dall’altra, si è progressivamente arricchita delle stimolazioni critiche in atto.

Senza dire poi che, nel configurarsi come teologia pastorale dei sacramenti, diventa il crocevia in cui può essere validamente valutato l’orientamento della vita cristiana. In questo senso è possibile suggerire alcune indicazioni progettuali.

 

3.​​ Indicazioni progettuali

Di loro natura, queste indicazioni sono suscettibili di modifiche, dovendosi adeguare a situazioni concrete e, nel caso nostro, a destinatari giovani (soggetti dei sacramenti, partecipanti alla celebrazione), anche con adattamenti consoni alla loro età evolutiva (preadolescenza, adolescenza, giovinezza).

Per camminare sul sicuro, si possono richiamare qui, in sintesi, le linee comuni a tutti i sacramenti, utili per un progetto il più adeguato possibile sia alla realtà dei sacramenti che alla situazione dei loro destinatari.

Si presta particolare attenzione all’eucaristia, alla penitenza o riconciliazione, sacramenti che i giovani in quanto fedeli sono chiamati a «frequentare» (si diceva una volta), a «partecipare» (si dice oggi) secondo determinati ritmi.

Con ciò non si vuole disattendere il fatto che la comune vocazione battesimale-cresimale si dovrà esprimere in quella matrimoniale o ministeriale o verginale: tappe che chiamano in causa rispettivamente i sacramenti del matrimonio e dell’ordine, e i sacramentali della consacrazione della verginità e della professione religiosa.

Le linee in esame si rivelano altrettanti criteri per elaborare progetti pastorali con cui vivificare il​​ prima​​ celebrativo dei sacramenti, in vista di una loro più autentica celebrazione, perché capace di smuovere e fomentare dal di dentro la​​ vita​​ dei giovani ovvero il loro​​ dopo​​ celebrativo. Raggiunta l’età adulta dal punto di vista cronologico e psicologico..., essi potranno far ricorso alle stesse linee che sono portanti per la vita di ogni cristiano maturo.

Le seguenti indicazioni progettuali, assai schematiche e puramente indicative, vanno integrate con i contenuti delle voci indicate nel sentiero​​ pastorale dei sacramenti',​​ potrebbero essere considerate sia singolarmente sia complessivamente, prendendole insieme tutte o più di una; sono quelle ritenute più plausibili e, intuitivamente, più pratiche e realizzabili.

Sono ricavate dalla natura stessa dei sacramenti, ma trovano un loro riscontro nel vissuto ecclesiale, anche giovanile, che ad esse si ispira.

 

3.1. I sacramenti «punti» della fede in crescita

In fase di programmazione (e poi di verifica) pastorale si potrebbero ipotizzare differenti progetti di azione in conformità con i dinamismi della fede comuni a ogni sacramento.

Senza dubbio, dato che il sacramento ha il suo punto di riferimento privilegiato nella fede, non si potrà fare a meno di porre l’azione pastorale al servizio della crescita della persona nella fede.

Ciò consiglia di orientare dinamicamente le potenzialità del giovane verso un sincero e perseverante impegno coerente con la fede vissuta e celebrata. D’altro canto, l’intervento pastorale punterà sui contenuti dei sacramenti, in modo da risultare strutturato fondamentalmente e primariamente sulle movenze proprie dei singoli sacramenti di volta in volta chiamati in causa.

 

3.2. I sacramenti «tappe» di un diuturno itinerario spirituale

La celebrazione dei sacramenti è punto d’incontro di diversi itinerari educativi, le cui coordinate si intersecano attorno ad alcune costanti quali:

— la preminenza della parola di Dio;

— la fede suscitata da tale parola proposta, accolta, approfondita, vissuta e celebrata;

— la conversione intesa come fede operativa sempre in atto.

 

3.3. I sacramenti «luogo» della pedagogia cristiana

La celebrazione del sacramenti, compiuta in verità, potenzia la comunione di ideali e di responsabilità sociale (= dimensione comunitario-ecclesiale dei sacramenti), i legami di amicizia ( = dimensione comunionale), l’impegno cristiano nel privato e nel pubblico ( = dimensione antropologico-soprannaturale).

Tutto ciò offre prospettive promettenti per modelli di vita appetibile, gradualmente, per ogni età computata in senso cronologico, psicologico e spirituale.

 

3.4. I sacramenti «attuazione» della storia della salvezza nel fedele

Anche in reazione a visuali parziali, il progressivo recupero in campo pratico-pastorale dei sacramenti intesi come «mysterium», cioè come storia salvifica in atto, apre ampie possibilità di progettare un’azione liturgico-pastorale che incida in profondità nella coscienza cristiana dei giovani.

 

3.5. I sacramenti «crocevia» della teologia vissuta

I contenuti della teologia sono quelli stessi celebrati dai sacramenti. Un’appropriata celebrazione dei sacramenti è allora un terreno fecondo per farne radicare e sviluppare le accentuazioni catechetiche.

In effetti, i sacramenti che provengono da Cristo ne significano e realizzano pur sempre la sua presenza operativa (= cristocentrismo), che è finalizzata a portare fratelli e sorelle al Padre ( = finalità dei sacramenti), proprio mentre sono manifestazione dello Spirito Santo, creatore di comunione tra i fedeli. Di conseguenza, nell’azione pastorale, essi costituiscono eventi privilegiati per edificare, consolidare e purificare la comunità cristiana.

 

3.6. I sacramenti «luogo di incontro» del divino con l’umano

Valorizzando le aperture antropologiche della teologia corrente, la teologia sacramentaria passando al filtro dell’azione pastorale (e viceversa) riscopre i sacramenti come luogo privilegiato per potenziare la situazione esistenziale del fedele: le sue aspirazioni verso Dio trovano in essi il massimo della loro risposta compatibile con la propria condizione di viatore. La progettazione pastorale saprà allora valorizzare le virtualità in essi contenute.

 

Bibliografia

Liturgia e teologia sacramentaria, in Rivista Liturgica, (3-1988); Marsili S.,​​ Sacramentaria, in Nuovo Dizionario di Liturgia, Paoline, Roma 1988; Ruffini E.,​​ Sacramenti, in Dizionario Teologico Interdisciplinare, Marietti, Casale Monferrato 1977;​​ Sacramenti, in Bollettino bibliografico curato dalla Rivista Liturgica, LDC, Leumann (dal 1970 in poi); Tettamanzi D.,​​ Sacramenti, in Dizionario Enciclopedico di Teologia Morale, Paoline, Roma 1981.

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SACRAMENTI

SAGGEZZA

 

SAGGEZZA

Della s. occorre individuare esattamente il contenuto e il significato, se si vuole che diventi operabile dal punto di vista educativo: come fine del processo di crescita o come metodo o come qualità dell’educatore.

1. A questo scopo è, anzitutto, necessario distinguerla nettamente da due realtà contigue ben definite dal punto di vista teorico (filosofico-teologico) e operativo (etico): la​​ sapienza​​ o la ricerca-contemplazione del vero e del bene, che diventa in definitiva il Vero e il Bene (Dio) (la​​ sophía​​ e la​​ philosophía-theoría​​ greco-cristiana); e la​​ ​​ prudenza,​​ la virtù guida della vita morale. Dal punto di vista storico-pedagogico rimangono disponibili almeno tre tipi di s.:​​ scienza della vita​​ di stampo tradizionale e popolare; capacità di trasmissione di​​ abilità tecnico-pratiche; sapienza-prudenza depotenziata.

2. Nelle società di tipo tradizionale, affidate alla cultura orale, la s. (scienza di vita, morale e pratica) è prerogativa soprattutto degli anziani carichi di esperienza e di memorie (e vicini al «sacro»): «archivi viventi» («quando un vecchio muore è una biblioteca che brucia»), educatori, giudici e consiglieri (antico Oriente, civiltà Inca, Sparta, ebraismo, Africa). Un concentrato di tale s. sono spesso le massime, le sentenze, i proverbi.

3. A livello teorico, «intellettuale», ci si affida alla s. dell’anziano colto nelle società feudali greca e medievale. In​​ ​​ Omero appare Chirone che dà ad Achille (Iliade​​ XI 832) e ad altri venti eroi una integrale formazione fisica intellettuale e morale. Anche nella letteratura cavalleresca del​​ ​​ Medioevo europeo l’eroe, l’uomo di valore (in guerra, nella politica, nel comportamento quotidiano), è «saggio» in quanto è «abile», chiaroveggente, «sperimentato», all’altezza della situazione, dal sangue freddo, perspicace oltre che «pio» e «giusto».

4. Dal punto di vista storico, anche nello specifico campo pedagogico, si ricorre al concetto di s. quando, particolarmente nel Cinquecento francese, vengono messe in discussione la logica e la filosofia aristotelica, con l’approdo a posizioni scetticheggianti e moralistiche. Il binomio classico sapienza-prudenza perde il rigoroso significato originario, assumendone un altro pragmatico-vitale, guida ad una felicità «su misura d’uomo», chiuso nella sua individualità anziché supportato da un’antropologia vigorosamente metafisica aperta al trascendente. Nel saggio​​ De l’institution des enfants​​ ​​ Montaigne propugna la formazione di un uomo «abile» piuttosto che «sapiente», allenato nella filosofia intesa come arte di vita piuttosto che costruzione concettuale astratta (il sapere sillogistico degli «ergo», l’«ergotismo»): «la testa ben fatta più che ben piena», la s. del «saper ben vivere e del ben morire», attinta dalla frequentazione del mondo e degli uomini più che dai libri. Analoghi orientamenti si trovano nel​​ De la Sagesse​​ di Pierre Charron (1541-1603). Nell’educazione dei figli il padre (lib. III 14) dovrà tendere «più alla s. che alla scienza e all’arte», «più a formare il giudizio e per conseguenza la volontà e la coscienza che a riempire la memoria e accendere l’immaginazione». È «saggio chi nei desideri, nei pensieri, nelle opinioni, nelle parole, nei fatti, nei comportamenti si regola con misura ed equilibrio». Lo plasma una morale e una pedagogia del «ne quid nimis», regolata dal principio «surtout pas trop du zèle».

Bibliografia

Charron P.,​​ De la Sagesse,​​ Paris, Villery, 1635;​​ Montaigne M. de,​​ Essais,​​ par M. Rat, Paris, Granier, 1952, 154-192 (XXVI: «De institution des enfants»);​​ Gregory​​ T.,​​ La s. scettica di P. Charron,​​ in «De Homine» 6 (1967) 163-182; Bosco D.,​​ Charron moralista: temi e problemi «de la Sagesse»,​​ in «Rivista di Filosofia Neoscolastica» 69 (1977) 247-278;​​ Brucker Ch.,​​ Sage et sagesse au moyen âge​​ (XIIe et XIIIe siècles). Étude historique,​​ sémantique et stylistique,​​ Genève, Librairie Droz,​​ 1987; Minois G.,​​ Storia della vecchiaia dall’antichità al Rinascimento,​​ Bari, Laterza, 1988.

P. Braido

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SAGGEZZA

SAILER Johann Michael

 

SAILER Johann Michael

Nato il 17-11-1751 a​​ Aresing,​​ Baviera, morto il 20-5-1832 a​​ Regensburg.​​ Studiò teologia a​​ Ingolstadt​​ e venne ordinato sacerdote nel 1775. Si oppose sempre più a una scolastica formalista ed estranea al mondo, alla formazione di un ghetto cattolico, a una apologetica zelante. S. voleva mettersi al servizio di una teologia e di una corrispettiva pastorale, che si nutrono di S. Scrittura, di liturgia e di Padri della Chiesa, e che fanno conoscere a persone di tutti i livelli sociali e di tutte le età “la salvezza di Dio che in Gesù Cristo è apparsa nel mondo”. Perciò compose anche numerosi scritti ascetici.

Come professore di (etica e di) teologia pastorale a​​ Dillingen​​ S. ebbe la possibilità — su richiesta del vescovo-principe di​​ Augsburg​​ — di esporre le sue idee circa questa nuova disciplina:​​ Vorlesungen aus der Pastoraltheologie, 3​​ vol.​​ (München, 1788-89, 1820-214. Ediz, ital.:​​ Pheologia pastoralis,​​ Parma, 1872-1874).​​ Il suo è il primo tentativo di elaborare la pastorale a partire dallo spirito della S. Scrittura e della tradizione vivente della Chiesa (“Padre della moderna teologia pastorale”). La sua​​ Katechetik​​ comprende due vol. (18204). Le diverse edizioni documentano il progressivo chiarirsi della propria posizione, come pure l’avversione nei confronti delle concezioni problematiche dell’ → illuminismo. L’educazione cristiana è feconda soltanto se si può radicare nel terreno di una vita cristiana. Al primo posto nella C. si trova quindi “l’essere del catechista”, poi viene la​​ percezione,​​ poi la​​ presentazione concreta​​ della (vita di) fede, e soltanto dopo tutto questo la​​ penetrazione razionale.​​ Per i piccoli viene in primo posto la narrazione (soprattutto quella biblica). Come catechismo è sufficiente il​​ JAinimus​​ di → Canisio; inoltre si devono utilizzare diversi libri (scolastici) di concezione storica (biblica). Occorre sempre verificare se la C. è su misura del fanciullo. Ci vuole pertanto una adeguata divisione secondo gruppi di età. Va rispettato anche lo specifico del luogo della C. (scuola, chiesa, C. privata). In linea di principio bisogna esprimere un giudizio scettico riguardo ai catechismi, poiché non sono in grado di offrire ciò che è decisivo: il “modello vivo”, lo “spirito vivo della verità”.

Le implicanze pedagogiche vengono ampiamente illustrate da S. in​​ tìber Erziehung fiir Erzieher​​ (Miinchen, 1807), libro che scrisse a Landshut, dove, fra l’altro, insegnò anche catechetica. L’uomo cristiano deve essere educato verso la maturità nella fede. Occorre spezzare la chiusura cognitivo-razionalistica in favore di una educazione che forma “la testa e il cuore” (cognitiva e affettiva) e promuovere l’uomo etico in modo che il suo ethos sia radicato nella religione, trovando in essa fondamento e meta. A questo fine S. sfrutta le migliori acquisizioni dell’illuminismo e della pedagogia contemporanea (per es. J. J. Rousseau, J. H. Pestalozzi), ripensate nello spirito del giovane romanticismo: primato della vita, concretezza intuitiva, didattica su misura del fanciullo, “metodo socratico” moderato.

Da tutte le parti, da cattolici e da protestanti, S. fu bollato, e anche lodato, come “illuminista” o come “reazionario ecclesiale”. Ciò nonostante divenne canonico del Duomo, dal 1821, poi vescovo di Regensburg, e in questo modo il “nobile S.” potè continuare meglio la pastorale che aveva sempre esercitato con zelo. Molti allievi in Germania, Austria e Svizzera insegnarono e lavorarono nel suo spirito (fra altri Chr. von → Schmid). Certo, una generazione più tardi la neoscolastica ottenne la vittoria (→ Deharbe), fino​​ a ehe​​ nel nostro secolo la​​ teologia​​ di S. fu riscoperta come​​ una fonte​​ zampillante.

Bibliografia

G. Fischer, J. M.​​ Sailer​​ und​​ J. H. Pestalozzi,​​ Freiburg, 1954; K.​​ Gastgeber,​​ Gotteswort durch​​ Menschenwort,​​ Wien, 1964; J.​​ Hofmeier,​​ Seelsorge und Seelsorger,​​ Regensburg, 1967; A.​​ Regenbrecht,​​ J. Ai. Sailers​​ «Idee der​​ Erziehung»,​​ Freiburg, 1961; H.​​ Schiel,​​ J. Ai. Sailer. Leben​​ und Briefe,​​ 2​​ Bände,​​ Regensburg, 1948-1952; G. Schwaiger – P. Mai (ed.),​​ J. M. Sailer​​ und​​ seine​​ Zeit,​​ Regensburg, 1982; F.​​ Weber,​​ Geschichte des Katechismus​​ in​​ der Diözese Rottenburg von der Aufklärungszeit bis zur Gegenwart,​​ Freiburg, 1939.

Eugen Paul

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SAILER Johann Michael

SAINT-SULPICE

SAINT-SULPICE

La tradizione dei catechismi di Saint-Sulpice di Parigi incomincia con il fondatore del seminario e della compagnia di Saint-Sulpice, Jean Jacques Olier. Parroco dal 1642 al 1652 della parrocchia del medesimo nome, allora enormemente estesa e con molta popolazione, famosa per “il numero e la gravità degli scandali” che vi si commettevano (C. Hamel), Olier decide di dividerla in 12 quartieri: 12 catechismi vengono quindi affidati ai seminaristi più grandi, che in questo modo accolgono ben presto 4000 fanciulli. Per la prima comunione, due catechismi speciali raggruppano nella chiesa tutti i candidati: uno di due mesi, per la prima comunione a Pasqua; l’altro di sei settimane, per la prima comunione a Pentecoste. Vengono pure organizzati nella chiesa, tre volte per settimana durante la quaresima, un catechismo per gli inservienti; un altro per i mendicanti, con elemosina all’uscita, più consistente per chi ha risposto meglio; un altro, tutti i venerdì dell’anno, per gli anziani; e altri ancora.

Sotto i successori di Olier i catechismi si sviluppano ulteriormente: l’accento è messo via via sulla C. di massa, raggruppando un numero imponente di fanciulli. Nel sec. XVIII incominciano i catechismi di perseveranza: perseveranza-giovani e perseveranza-ragazze, per coloro che hanno fatto la prima comunione. Dopo la Rivoluzione i catechismi riprendono molto presto. Il loro irradiamento va molto al di là di Parigi. Non soltanto vengono lungamente formati nelle aule di catechismo della parrocchia tutti i seminaristi di Saint-Sulpice, ma numerosi sacerdoti di Francia o dell’estero vengono in visita o vi fanno un tirocinio. Nel 1832 esce il libro di Faillon,​​ La Méthode de Saint-Sulpice dans la direction des catéchismes,​​ che spiega e codifica un’esperienza di due secoli: “Non vi sono due buoni metodi per fare il catechismo... in realtà ve ne è uno solo: quello di Saint-Sulpice, diventato celebre in tutto il mondo, che ha prodotto frutti ammirevoli ovunque sia stato applicato” (mons. Dupanloup).

Infatti, in questo metodo tutto è previsto affinché un catechismo riesca bene. Ci vuole anzitutto un ambiente, una cappella dove i fanciulli abbiano posti fissi ben dislocati. In questo quadro in cui tutto è ambientazione sacra, ordine, gerarchia, l’adunanza, di almeno due ore, deve svolgersi secondo uno scenario minuziosamente previsto, in sei tempi: 1) Interrogazione sul testo del manuale diocesano; 2) Recitazione di una pagina del Vangelo o di un capitolo del piccolo catechismo di​​ ​​ Fleury che narra la storia sacra;

3) Resoconto delle annotazioni, cioè delle analisi dell’istruzione dell’adunanza precedente, che i volontari hanno redatto a casa;

4) Istruzione, cioè, dopo un canto appropriato, spiegazione della lezione recitata all’inizio dell’adunanza; 5) Omelia sul Vangelo del giorno; 6) Avvisi su eventuali mancanze dei fanciulli, sulle feste della settimana, su qualche pratica essenziale della vita cristiana. Senza dubbio un certo livellamento era inevitabile, quando per es. un parroco di campagna, volendo applicare il famoso metodo, si trovava solo di fronte a un minuscolo gruppetto di fanciulli, invece di averne 300 o 400 riuniti attorno a 10 o 12 catechisti a Saint-Sulpice. Però è impossibile negare l’immenso fervore che si è sviluppato nella pratica del catechismo.

Per assicurare una perseveranza sempre più difficile in un mondo che sfugge alla Chiesa, la formula di Saint-Sulpice (e altrove) ha dovuto creare una nuova ambientazione: i catechismi inseriti nelle “opere” funzioneranno fino agli anni 1950-1960; ciascuna “opera” ha i propri svaghi, le sue feste, il suo luogo di culto... In questo modo, secondo il modello di Saint-Sulpice, i catechismi hanno occupato un grandissimo (forse troppo grande?) posto nella pastorale dei tempi moderni.

 

Bibliografia

Cantiques de Saint-Sulpice,​​ Paris, Haronval, 1829;​​ Cantìques de St.-Sulpice. Manuel des catéchismes de Vere communion et de persévérance,​​ Paris, Poussièlgue, 1859; J.​​ Colomb,​​ The Catechetical Method of Saint-Sulpice,​​ nel vol. G.​​ S. Sloyan​​ (ed.),​​ Shaping the Christian Message,​​ New York, Macmillan, 1958, 91-111; E. M.​​ Faillon,​​ Histoire des catéchismes de St.-Sulpice,​​ Paris, Gavone, 1831; In.,​​ Méthode de St.-Sulpice dans la direction des catéchismes,​​ Paris, Lecoffre, 1832;​​ Id.,​​ Vie de Mr. Olier,​​ Paris, Poussièlgue, 1841.

Elisabeth Germain

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SAINT-SULPICE

La tradizione dei catechismi di Saint-Sulpice di Parigi incomincia con il fondatore del seminario e della compagnia di Saint-Sulpice, Jean Jacques Olier. Parroco dal 1642 al 1652 della parrocchia del medesimo nome, allora enormemente estesa e con molta popolazione, famosa per “il numero e la gravità degli scandali” che vi si commettevano (C. Hamel), Olier decide di dividerla in 12 quartieri: 12 catechismi vengono quindi affidati ai seminaristi più grandi, che in questo modo accolgono ben presto 4000 fanciulli. Per la prima comunione, due catechismi speciali raggruppano nella chiesa tutti i candidati: uno di due mesi, per la prima comunione a Pasqua; l’altro di sei settimane, per la prima comunione a Pentecoste. Vengono pure organizzati nella chiesa, tre volte per settimana durante la quaresima, un catechismo per gli inservienti; un altro per i mendicanti, con elemosina all’uscita, più consistente per chi ha risposto meglio; un altro, tutti i venerdì dell’anno, per gli anziani; e altri ancora.

Sotto i successori di Olier i catechismi si sviluppano ulteriormente: l’accento è messo via via sulla C. di massa, raggruppando un numero imponente di fanciulli. Nel sec. XVIII incominciano i catechismi di perseveranza: perseveranza-giovani e perseveranza-ragazze, per coloro che hanno fatto la prima comunione. Dopo la Rivoluzione i catechismi riprendono molto presto. Il loro irradiamento va molto al di là di Parigi. Non soltanto vengono lungamente formati nelle aule di catechismo della parrocchia tutti i seminaristi di Saint-Sulpice, ma numerosi sacerdoti di Francia o dell’estero vengono in visita o vi fanno un tirocinio. Nel 1832 esce il libro di Faillon,​​ La Méthode de Saint-Sulpice dans la direction des catéchismes,​​ che spiega e codifica un’esperienza di due secoli: “Non vi sono due buoni metodi per fare il catechismo... in realtà ve ne è uno solo: quello di Saint-Sulpice, diventato celebre in tutto il mondo, che ha prodotto frutti ammirevoli ovunque sia stato applicato” (mons. Dupanloup).

Infatti, in questo metodo tutto è previsto affinché un catechismo riesca bene. Ci vuole anzitutto un ambiente, una cappella dove i fanciulli abbiano posti fissi ben dislocati. In questo quadro in cui tutto è ambientazione sacra, ordine, gerarchia, l’adunanza, di almeno due ore, deve svolgersi secondo uno scenario minuziosamente previsto, in sei tempi: 1) Interrogazione sul testo del manuale diocesano; 2) Recitazione di una pagina del Vangelo o di un capitolo del piccolo catechismo di → Fleury che narra la storia sacra;

3) Resoconto delle annotazioni, cioè delle analisi dell’istruzione dell’adunanza precedente, che i volontari hanno redatto a casa; 4) Istruzione, cioè, dopo un canto appropriato, spiegazione della lezione recitata all’inizio dell’adunanza; 5) Omelia sul Vangelo del giorno; 6) Avvisi su eventuali mancanze dei fanciulli, sulle feste della settimana, su qualche pratica essenziale della vita cristiana.

Senza dubbio un certo livellamento era inevitabile, quando per es. un parroco di campagna, volendo applicare il famoso metodo, si trovava solo di fronte a un minuscolo gruppetto di fanciulli, invece di averne 300 o 400 riuniti attorno a 10 o 12 catechisti a Saint-Sulpice. Però è impossibile negare l’immenso fervore che si è sviluppato nella pratica del catechismo.

Per assicurare una perseveranza sempre più difficile in un mondo che sfugge alla Chiesa, la formula di Saint-Sulpice (e altrove) ha dovuto creare una nuova ambientazione: i catechismi inseriti nelle “opere” funzioneranno fino agli anni 1950-1960; ciascuna “opera” ha i propri svaghi, le sue feste, il suo luogo di culto... In questo modo, secondo il modello di Saint-Sulpice, i catechismi hanno occupato un grandissimo (forse troppo grande?) posto nella pastorale dei tempi moderni.

Bibliografia

Cantiques de Saint-Sulpice,​​ Paris, Haronval, 1829;

Cantiques de St.-Sulpice. Manuel des catéchismes de 1ère communion et de persévérance,​​ Paris, Poussièlgue, 1859; J. Colomb,​​ The Catechetical Method of​​ Saint-Sulpice,​​ nel​​ vol. G. S. Sloyan (ed.),​​ Shaping the​​ Christian Message,​​ New York, Macmillan, 1958, 91-111;​​ E.​​ M. Faillon,​​ Histoire des catéchismes de St.-Sulpice,​​ Paris,​​ Gavone,​​ 1831; In.,​​ Méthode de St.-Sulpice dans la direction des catéchismes,​​ Paris, Lecoffre, 1832; In.,​​ Vie de Mr. Olier,​​ Paris, Poussièlgue, 1841.

Elisabeth Germain

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SAINT-SULPICE

SALESIANI

 

SALESIANI

Membri della Società salesiana, istituto religioso fondato da s. Giovanni​​ ​​ Bosco, nel 1859, dedicato principalmente all’educazione dei giovani, specialmente di quelli «più poveri e abbandonati».​​ 

1. Dal 1843 al 1846 a Torino don Bosco dà una graduale forma organizzata agli incontri domenicali con gruppi di giovani, in prevalenza immigrati, finché trova una sede stabile per il suo primo​​ ​​ «oratorio», intitolato a s. Francesco di Sales, nella zona di Valdocco, alla periferia nord-occidentale della città. Nel 1847 e nel 1849 dà vita ad altri due, sotto il patronato rispettivamente di s. Luigi Gonzaga e dell’Angelo Custode. A seguito di talune divergenze sorte nella loro conduzione, il 31 marzo 1852 mons. Fransoni, arcivescovo di Torino esule a Lione, emanava una​​ Patente​​ con la quale​​ deputava don Bosco effettivo «Direttore Capo spirituale dell’Oratorio di S. Francesco di Sales, a cui vogliamo siano uniti e dipendenti quelli di S. Luigi Gonzaga e del S. Angelo Custode». Don Bosco andava oltre. Tra il 1853 / 54 e il 1859 con somma discrezione egli concretava il progetto di fondare un istituto o società religiosa che garantisse stabilità e continuità all’opera degli «oratori»: sarà la «Società di san Francesco di Sales». Le​​ Memorie dell’Oratorio di S. Francesco di Sales​​ si fermano volutamente al 1854; dal 1854 incomincia per don Bosco la storia della congregazione (G. Barberis,​​ Cronichetta,​​ quad. 4 A, 38-41). La sera del 26 gennaio 1854 egli raccoglieva un piccolo gruppo di giovani, che si impegnavano, in prospettiva di un futuro voto, a un «esercizio pratico di carità» verso i giovani (MB V 9). A Roma nel 1858, in un’udienza concessagli da Pio IX il 9 marzo, don Bosco era incoraggiato a dare inizio a una società religiosa con eventuali voti da professare dopo un congruo tempo di prova. La iniziava a Torino nella «casa annessa» all’oratorio di Valdocco il 18 dicembre 1859 con 17 soci. Intanto incominciava ad elaborare le​​ Regole​​ o​​ Costituzioni,​​ sottoposte nel 1860 all’esame e all’approvazione dell’arcivescovo Fransoni e dal 1864 alla Santa Sede. Nel frattempo, dopo un triennio di prova, il 14 maggio 1862 i primi «ascritti» avevano professato i voti temporanei. Datato al 23 luglio 1864, giungeva da Roma in favore dell’incipiente congregazione il cosiddetto​​ Decretum laudis.​​ Soltanto il 1 marzo 1869, a seguito di ardue trattative, la Congregazione dei Vescovi e Regolari emanava il decreto di approvazione definitiva; più avanti, con decreto del 13 aprile 1874, la medesima Congregazione approvava anche il testo delle​​ Costituzioni.​​ L’iter​​ giuridico si perfezionava il 28 giugno 1884 con la concessione «per comunicazione» dei privilegi (facoltà connesse con la cosiddetta «esenzione») dei Redentoristi.

2. Soprattutto dai primi anni ’60 le vicende della Società dei S. di don Bosco (SDB) si intrecciano e quasi si identificano con la vita del fondatore, costantemente consacrato al primario impegno «educativo», pratico e teorico. Egli opera nel suo Istituto di consacrati in due direzioni principali: promuoverne e articolarne la «missione» mediante la diffusione, il consolidamento e l’animazione delle opere apostoliche ed educative; assicurarne il carattere specificamente «religioso», disporne le strutture essenziali, plasmarne lo «spirito», quello che egli finisce col definire «spirito salesiano», cioè di s. Francesco di Sales rivissuto da religiosi consacrati all’educazione giovanile e popolare con il particolare stile assistenziale e pastorale «preventivo» (​​ sistema preventivo), che esigeva «grande calma» e «straordinaria mansuetudine» (MO 133).

3. Le istituzioni educative e pastorali, giovanili e popolari, venivano man mano precisate e, infine, codificate nel primo capitolo delle​​ Costituzioni​​ approvate nel 1874, arricchite da testi successivi in base ad esperienze nuove (per es., dal 1875, la dimensione missionaria) o ad esigenze di maggior chiarezza. Vi sono interessati gli artt. 3-6: «Il primo esercizio di carità sarà di raccogliere giovanetti poveri e abbandonati per istruirli nella santa cattolica religione, particolarmente ne’ giorni festivi»: sono gli «oratori festivi», divenuti quasi dappertutto quotidiani; si affiancano presto gli «ospizi», case nelle quali ai giovani viene «somministrato ricovero, vitto e vestito; e mentre si istruiranno nelle verità della cattolica Fede, saranno eziandio avviati a qualche arte o mestiere» (art. 4); vengono pure aperti istituti o piccoli seminari per la formazione di giovani che «aspirano allo stato ecclesiastico» (art. 5); sono previste case per accogliere «quegli aspiranti allo stato ecclesiastico o religioso, i quali a motivo dell’età avanzata non potrebbero facilmente seguire altrove la loro vocazione»; grande sviluppo viene dato a collegi e scuole per giovani studenti (art. 5); sono pure stabilite attività pastorali per giovani e adulti con missioni popolari, esercizi spirituali e simili; parallelamente è assunto uno specifico impegno nel settore della stampa e dell’editoria scolastica e a sostegno della fede, minacciata dall’«empietà e dall’eresia» (art. 6); verrà successivamente codificato il lavoro nelle missioni estere. Le parrocchie, accettate in misure molto controllate fino a tempi recenti, costituiscono oggi una forma di impegno pastorale s. piuttosto accentuato.

4. Don Bosco, prete diocesano, mancante dell’esperienza personale della «vita consacrata», per dare volto «religioso» alle sue congregazioni, stabilirne le strutture, elaborarne le costituzioni, dovette molto presto prendere contatto con forme e istituti di «vita consacrata» preesistenti. Lo avvantaggiò la precoce familiarità con la storia ecclesiastica, attinse dalle costituzioni o regole di altre congregazioni, lesse autori più facilmente accessibili dal punto di vista culturale. Spiccano tra essi il gesuita Alfonso Rodríguez (1537-1616) e s. Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787); non mancano riferimenti a s. Francesco di Sales e a s. Vincenzo de’ Paoli. Se ne servì per introdurre sé e i primi collaboratori, in gran parte giovanissimi, nei meccanismi di animazione e di governo della vita religiosa s.: vocazione, consacrazione, missione, voti, vita comune, osservanza, perseveranza, pietà, carità fraterna, strutture, rapporti giuridici. Vi dedicò conferenze, esercizi spirituali, circolari, direzione spirituale, riunioni periodiche del personale dirigente (le «conferenze di s. Francesco di Sales» e autunnali, le riunioni del cosiddetto «capitolo superiore»), i capitoli generali (il primo è del 1877, seguiti da altre tre, lui vivente; l’ultimo è il XXV del 2002). Fu costante preoccupazione di don Bosco che l’approfondimento del carattere «religioso» della congregazione nonché pregiudicare potenziasse nei soci la capacità di incontro coi giovani, soprattutto «poveri e abbandonati», che doveva permanere assolutamente primario, originale e moderno.

5. La Società salesiana, costituita da ecclesiastici e laici, ebbe uno sviluppo piuttosto rapido, come si può rilevare dall’elenco dei membri che a partire dal 1870 viene pubblicato ogni anno a cura della direzione generale (trasferita da Torino a Roma nel 1971). Alla morte di don Bosco essa contava 680 professi perpetui, di cui 300 sacerdoti, 88 professi triennali, 267 novizi, presenti in 57 comunità distribuite in 10 nazioni. Essa risulta quadruplicata alla fine del rettorato del b. Michele Rua (1888-1910), mentre si moltiplicano le opere anche in Paesi di missione. Con don Paolo Albera (1910-21) i S. si stabiliscono in India e in Cina. Durante il rettorato del b. Filippo Rinaldi (1922-31) si ha un notevole aumento dei soci e delle opere. Ulteriori accrescimenti si hanno con il rettorato di don Pietro Ricaldone (1932-51), che porta i S. a 16.000 unità, ma soprattutto cura la formazione spirituale e culturale delle giovani leve, tra l’altro con la fondazione del Pontificio Ateneo Salesiano, dal 24 maggio 1973 Università Pontificia Salesiana. Il numero massimo – 21.614 soci professi e circa 1.200 novizi – è raggiunto nel 1967, dopo il rettorato di don Renato Ziggiotti (1952-65), all’inizio del governo di don Luigi Ricceri (1965-77).

Bibliografia

Bosco G.,​​ Costituzioni della Società di S. Francesco di Sales [1858]-1875.​​ Testi critici a cura di F. Motto, Roma, LAS, 1982; Ceria E.,​​ Annali della Società Salesiana​​ [1841-1921], 4 voll., Torino, SEI, 1941-1951; Stella P.,​​ Don Bosco nella storia della religiosità cattolica,​​ vol. I.​​ Vita e opere,​​ Roma, LAS, 1979; Braido P.,​​ L’idea della società salesiana nel «Cenno istorico» di don Bosco del 1873 / 74,​​ in «Ricerche Storiche Salesiane» 6 (1987) 245-331; Id.,​​ Don Bosco fondatore. «Ai soci S.»,​​ Roma, LAS, 1995; Wirth M.,​​ Da don Bosco ai nostri giorni. Tra storia e nuove sfide (1815-2000), Roma, LAS, 2000;​​ Linee teologiche,​​ spirituali e pedagogiche della Società Salesiana e dell’Istituto delle FMA nel periodo 1880-1922, in «Ricerche Storiche Salesiane» 23 (2004) 1-312 (n. monogr.); González J. G. et al. (Edd.),​​ L’educazione salesiana dal 1880 al 1922. Istanze ed attuazioni in diversi contesti. Atti del 4º Convegno Internazionale di storia dell’Opera salesiana, Ciudad de México, 12-18 febb., 2006, 2 voll., Roma, LAS, 2007.

P. Braido

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SALESIANI

SALUTE MENTALE

 

SALUTE MENTALE

Oggi si va facendo sempre più strada l’idea che la malattia o disturbo mentale è un problema sociale non solo per le complicazioni interpersonali che possono derivare da essa, ma soprattutto per il fatto che il contesto sociale ha sempre una sua causa più o meno rilevante nella genesi del disturbo, quindi rientra tra i fattori eziologici. Questo dato assume poi un’importanza primaria nella terapia di recupero e più ancora nella prevenzione dei disturbi mentali.

1.​​ Definizione.​​ Da quanto detto sopra consegue che la s.m. è il prodotto della sana costituzione soprattutto neurologica di un soggetto e dell’apporto ambientale che deve essere emotivamente, culturalmente e socialmente confacente. Possiamo definirla allora come: un soddisfacente equilibrio psichico che dia al soggetto umano: a) un senso profondo e permanente di benessere; b) una capacità produttiva (lavoro, studio ecc.) oggettivamente riconosciuta e apprezzata; c) un’affabilità di rapporti interpersonali tale da determinare legami affettivi stabili e profondi, opportunamente differenziati e promozionali. L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) intende la s.m. come la misura in cui da una parte un individuo o un gruppo sono capaci di realizzare le proprie aspirazioni e soddisfare i propri bisogni e dall’altra di cambiare o di adattarsi all’ambiente. La soddisfazione soggettiva è un elemento insostituibile ed è vera quando è capace di indurre anche negli altri il senso di gradevolezza persistente verso la vita individuale e collettiva. Quest’ultima annotazione mette in rilievo il dato che la s.m. permanente coincide con la qualifica di personalità sana che ha il senso della propria identità, un’adeguata valutazione di sé e degli altri e quindi del ruolo da svolgere, una capacità di auto ed eterogratificazione praticamente costante, atteggiamenti e comportamenti sostanzialmente costruttivi. La dinamica fiducia-donazione deve sostituire l’egocentrismo infantile e consentire l’autotrascendenza con rapporti interpersonali reciprocamente arricchenti.

2.​​ Sustrato biologico.​​ La sanità dell’organismo nella sua globalità, anche se non rappresenta una condizione assolutamente indispensabile, tanto è vero che ci sono tanti portatori di​​ ​​ handicap fisici con s.m. eccellente, tuttavia costituisce un ottimo presupposto per un buon funzionamento della mente. L’aforisma di Giovenale:​​ mens sana in corpore sano​​ mantiene bene la sua asserzione. È soprattutto la solida strutturazione e il valido funzionamento del sistema nervoso che contribuiscono a mantenere efficiente il funzionamento della mente. I recenti studi sui mediatori chimici e i recettori cellulari sulle funzioni degli elettroliti dei neuroni e dell’ambiente extra cellulare suggeriscono che il buon funzionamento nervoso e conseguentemente mentale dipendono anche dalla biochimica del cervello, oltre che dalla sua configurazione e strutturazione macro e microscopica. Ulteriori approfondimenti in questo campo contribuiranno certamente a rendere sempre più efficienti gli apporti dell’igiene mentale, come vedremo parlando di questa branca della Medicina.

3.​​ Sustrato antropologico.​​ L’​​ ​​ uomo è animale culturale a prole inetta ed ha uno sviluppo molto lento rispetto agli altri animali; da piccolo deve essere necessariamente accudito da altre persone per potersi realizzare a sua volta come tale. Vive non solo di entità materiali, ma anche di entità culturali che impara progressivamente a produrre. È fondamentale per il suo sviluppo e mantenimento integrali la qualità dell’ambiente culturale che lo circonda. L’io cresce e si mantiene integrando l’apporto del tu e a sua volta donandosi ad esso. Sono due sistemi aperti che vivono di scambi reciproci; quindi oltre alla validità del materiale di scambio occorre anche la validità della sua forma. Gli interventi educativi dovranno tener conto di tutto ciò.

4. Igiene mentale.​​ Dati questi presupposti, per il mantenimento della s.m. si mettono in atto gli accorgimenti dell’igiene generale e di quella particolare. In quest’ultima vanno privilegiati tutti i tentativi di rinforzare il sistema nervoso e tutte le modalità per favorire un buon adattamento. La s.m. va accudita con maggiore attenzione: nell’infanzia, nella preadolescenza e nel periodo senile. Il primo e il terzo momento sono delicati per la debolezza organismica e per l’insufficiente autonomia dei soggetti; l’intermedio perché il giovane ha il bisogno e il compito di affrontare senza protezionismi nuove situazioni, acquisire nuovi dati, vivere esperienze diverse da quelle già conosciute. In una società alla continua ricerca dell’espansione nell’esistenza e in cui i processi di selezione e le competizioni rientrano nel quadro più ampio della lotta per l’esistenza, si dovrebbero evitare l’eliminazione dei più deboli o squilibrati traumatici. Dove prevale la lotta selvaggia per l’esistenza è inevitabile che la s.m. dei meno adatti venga travolta.

5.​​ Collaborazione fra gli educatori.​​ Come per la s. in genere, per il mantenimento della s.m. occorre che le diverse agenzie educative siano efficienti e concordi per non determinare disorientamenti pericolosi o conflitti intrapsichici. Bisognerà dare nuovo vigore educativo alla famiglia, alla scuola, al lavoro. Molti autori sottolineano l’importanza anche di un’igiene mentale prenatale che favorisca la crescita del soggetto umano nel grembo materno: infatti una gravidanza ben condotta in un ambiente confortevole e moderatamente stimolante, in cui domini l’affetto e l’attenzione intelligente, è un ottimo presupposto per la s.m. del nascituro. La concordia, il rispetto, la presenza di valori adeguatamente gerarchizzati, il senso di responsabilità, la coerenza dei comportamenti, il coraggio nell’affrontare le difficoltà, l’ottimismo realista, sono fattori indispensabili per mantenere la s.m. Insistiamo su alcuni aspetti importanti e delicati: la necessità di scaricare le tensioni in modo innocuo e autenticamente rilassante, il sapersi divertire senza spendere molto in denaro o in fatiche, lo svolgere il proprio compito in modo sereno e non stressante, il saper sdrammatizzare senza banalizzare o ignorare i problemi, sono tutti accorgimenti efficaci per garantire la s.m. Aggiungiamo infine la particolare rilevanza di un buon funzionamento dei Centri di s.m. e dell’assistenza sanitaria in genere, di una buona politica sanitaria con eliminazioni di abusi, di pericoli e di rischi non necessari, di promozione della s.

Bibliografia

Lapenna G.,​​ Le professioni della s.,​​ Milano, Libreria Internazionale della Famiglia, 1976;​​ Lapellégérie H.,​​ Les trois trésors de santé,​​ Paris, Jacques Grancher Editeur,​​ 1977; Meda E.,​​ La ginnastica,​​ Torino, SEI, 1980; Rosi P.,​​ L’atletica,​​ Ibid., 1980; Wyss V.,​​ Più sport più s.,​​ Ibid., 1980; McCormick R.,​​ S. e medicina nella tradizione cattolica,​​ Torino, Edizioni Camilliane, 1986; Ornstein R. - R. Thompson,​​ Il​​ cervello e le sue meraviglie,​​ Milano, Rizzoli, 1987; White E.,​​ Cortical circuits,​​ Boston, Birkauser, 1989; Cairo M. T.,​​ Persona e s.,​​ Brescia, La Scuola, 1994; Martín Maldonado-Durán J. L.,​​ Infanzia e s. m.: modelli di intervento clinico, Milano, Cortina, 2005.

V. Polizzi

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SALUTE MENTALE

SALVEZZA

SALVEZZA

Che la S. occupi un posto centrale nell’economia del mistero cristiano è cosa troppo evidente. Questa economia, infatti, è interamente polarizzata attorno al “per noi uomini e per la nostra salvezza”​​ (Simboli della fede).​​ L’annuncio che al suo interno viene fatto agli uomini quale buona novella, è tale appunto perché è un annuncio di S. offerta in Cristo all’umanità. Di conseguenza anche la C., quale servizio alla maturazione della fede, ne risulta interamente polarizzata.

1.​​ Concezione classica.​​ Fino a non molto tempo fa la C. (E. Germain 1967;​​ Catechismo di Pio X,​​ ecc.), seguendo i dati forniti dalla teologia (Molari 1979), presentava una concezione della S. che, espressa in termini popolari, consisteva, negativamente, nel liberarsi dal peccato e quindi dall’inferno e dalla dannazione eterna e, positivamente, nell’andare in cielo. E questo andare in cielo significava che, dopo la morte (separazione dell’anima dal corpo) avvenuta in stato di grazia, l’anima, previamente purificata ove occorresse (purgatorio), entrava a godere per sempre la visione di Dio, mediante la quale raggiungeva la piena e definitiva soddisfazione di tutte le sue legittime aspirazioni. Anche il corpo, dopo il giudizio finale e la risurrezione della carne, le si univa nella sorte beata, subendo a questo scopo una profonda trasformazione che lo rendeva adeguato a tale situazione.

Questa concezione, ridotta così ai termini essenziali, connotava una serie di accentuazioni che contribuivano a darle la sua peculiare fisionomia: spiritualismo, in quanto per essa il vero soggetto della S. era l’anima, mentre al corpo tale S. arrivava solo per aggiunta; individualismo, in quanto pensava che la salvezza interessava singolarmente ogni anima, senza rapporto intrinseco con le altre; intimismo, in quanto riteneva che questa salvezza individuale delle anime non aveva a che vedere con ciò che capita al mondo; ultra-terrenismo, in quanto considerava che la vera

S. era quella che le anime ottengono oltre la morte, nell’aldilà; sacramentalismo, in quanto collegava strettamente la S. alla sfera sacramentale, e specialmente alla recezione degli “ultimi sacramenti”.

Una concezione della S. di questo tipo è oggi fortemente in crisi presso non pochi cristiani, e la C. l’ha in gran parte abbandonata. La ragione è che sono in crisi i presupposti culturali che la sorreggevano. Essa infatti era il risultato dell’inculturazione dell’intero cristianesimo nel mondo greco-romano, mondo nel quale la Chiesa entrò sempre più decisamente a partire dal sec. II. La visione dualista della realtà e dell’uomo, opportunamente criticata nelle sue espressioni estreme, è quella che fa da sfondo a detto modo di intendere la S. Tale visione oggi è stata sostituita da altre che sono andate sorgendo nell’umanità, in forza soprattutto delle nuove esperienze dell’uomo nel suo rapporto con la natura (GS 4.33.36b).

2.​​ La S. nella Bibbia.​​ In un momento di profonda metamorfosi culturale quale è il nostro, occorre tornare alle fonti bibliche per riscoprirvi il punto di partenza e cercarne una nuova inculturazione, in modo tale da superare il dramma che comporta la rottura tra Vangelo e cultura (EN 20). Per la C. tale operazione risulta indispensabile se vuole raggiungere i suoi destinatari.

Benché la Bibbia non fornisca mai in modo esplicito una concezione della salvezza, essa la presuppone dal momento che è tutt’intera un messaggio salvifico. La strada più viabile per scoprirla è quella di analizzare i suoi avvenimenti-chiave, che sono appunto degli avvenimenti di S.: l’esodo dall’Egitto per l’AT e la Pasqua di Cristo per il NT. In tutti e due la S. appare come un​​ processo​​ mediante e attraverso il quale un​​ soggetto umano​​ (Israele, Gesù)​​ esce​​ da una situazione umana negativa (schiavitù e oppressione, morte) ed​​ entra​​ in un’altra positiva (libertà e futuro, vita in pienezza). È un processo in cui il​​ protagonista principale​​ è Dio (Iahvè, il Padre), ma che ha come​​ co-protagonista​​ l’uomo stesso (il popolo, Gesù).

Ciò che risulta dall’analisi è che la salvezza per la Scrittura consiste sostanzialmente nel trionfo della Vita sulla Morte nell’uomo, singolo e collettivo, a opera di Dio e dello stesso uomo. Si tratta di una concezione che è ancora germinale e imperfetta nell’AT, ma che arriva alla sua pienezza di esplicitazione nel NT, con Cristo e in Cristo.

3.​​ Ricomprensioni attuali della S.​​ Di questa concezione biblica la C. contemporanea, ispirata alla teologia degli ultimi decenni, fa due riletture diverse benché non contrapposte, a partire da due diverse sensibilità culturali globali.

Una, di tipo esperienziale-personalista, legge i due termini in gioco dialettico (Morte-Vita) in chiave esistenziale-relazionale. È quella che prevale nella C. rinnovata delle Chiese europee (Catechismo olandese, Catechismi italiani e spagnoli più recenti, ecc.), dove l’accentuarsi del processo scientifico-tecnico acuisce pure il bisogno del personale e dell’intersoggettivo. Per essa la perdizione (o Morte) è fondamentalmente il fallimento esistenziale, concretizzato nella situazione di incomunicazione interpersonale con Dio e con gli altri, fallimento che può essere parziale e provvisorio o totale e definitivo (inferno). S. (o Vita) è invece l’autorealizzazione esistenziale, ottenuta mediante l’autocomunicazione (K. Rahner) personale con Dio e con gli altri per mezzo di Cristo, autorealizzazione che può anche essere parziale e provvisoria, ma che da parte di Dio è destinata a essere piena e definitiva (cielo). Alla luce di questa rilettura della S. vengono pure ricompresi gli altri contenuti del messaggio: Cristo, che di tale salvezza è il Mediatore unico; la Chiesa, che ne è il sacramento (LG), ecc.

L’altra rilettura viene fatta in chiave storico-prassica. Essa è presente soprattutto nella C. di certe Chiese del cosiddetto Terzo Mondo, e specialmente in quella delle → Comunità Ecclesiali di Base ivi sorte da qualche decennio. Per questa ricomprensione la perdizione (o Morte) è principalmente — benché mai esclusivamente — la situazione di emarginazione, sfruttamento, oppressione e addirittura repressione in cui si trovano le grandi masse dei poveri del mondo, come conseguenza delle ingiuste strutture create dall’egoismo collettivo di interi popoli o gruppi umani (peccato sociale o strutturale). S. (o Vita) è, invece, principalmente il superamento di tale situazione e la sua sostituzione con un’altra di segno opposto, nella quale non ci sia né emarginazione né sfruttamento né oppressione né repressione di sorta, ma solo fraternità, e questa non solo nell’ambito interpersonale, ma anche in quello dei rapporti con i beni materiali. Una S. che sarà sempre parziale e imperfetta nella storia, ma che è destinata ad essere, secondo il piano di Dio, piena e definitiva nel Futuro ultimo (utopia). Ovviamente, anche questa ricomprensione della S. comporta una nuova comprensione degli altri contenuti del messaggio cristiano.

Si potrà facilmente osservare come tutte e due queste riletture siano caratterizzate da accentuazioni che tendono a contrapporsi a quelle che abbiamo rilevato nella concezione classica della S.

È importante ricordare, concludendo, che il criterio per una rilettura dei contenuti del messaggio evangelico è quello della doppia fedeltà al dato rivelato e al destinatario dell’annuncio (EN), criterio che dovrà quindi guidare ogni reinterpretazione della concezione della S.

 

Bibliografia

Associazione Teologica Italiana,​​ La salvezza cristiana.​​ Atti del VI Congresso nazionale, Assisi, Cittadella, 1975; Y.​​ Congar,​​ Un popolo messianico. La Chiesa sacramento universale di salvezza,​​ Brescia, Queriniana, 1976; L. A.​​ Gallo,​​ La concepción de la salvación y sus presupuestos en Marie-Dominique Chenu,​​ Roma, LAS, 1976;​​ Id.,​​ La salvezza in Cristo oggi,​​ in A.​​ Amato -​​ G.​​ Zevini​​ (ed.),​​ Annunciare Cristo ai giovani,​​ ivi, 1980, 235-249; E.​​ Germain,​​ Parler du salut?​​ Aux origines d’une mentalité religieuse. La catéchèse du salut dans la France de la Restauration, Paris, Beauchesne, 1967; G.​​ Gozzelino,​​ La salvezza cristiana.​​ Sesto Congresso Nazionale. Atti, Roma 2-4 genn. 1975, in “Salesianum” 37 (1975) 613-632; G.​​ Greshiake,​​ L’uomo e la salvezza di Dio,​​ in K.​​ Neufeld​​ (ed.),​​ Problemi e prospettive di Teologia Dogmatica,​​ Brescia, Queriniana, 1983, 275-302;​​ M. Manzanera,​​ Teologia y salvación-liberación en la obra de G. Gutiérrez.​​ Explicación teórico-practica y valoración critica, Bilbao, 1978; C.​​ Molari,​​ Salvezza​​ (nella ricerca teologica), in​​ G. Barbaglio - S. Dianich​​ (ed.),​​ Nuovo Dizionario di Teologia,​​ Roma, Ed. Paoline, 19792, 1414-1438; E.​​ Schillebeeckx,​​ Il Cristo. La storia di una nuova prassi,​​ Brescia, Queriniana, 1980, 873-992.

Luis Gallo

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SALVEZZA

Luis A. Gallo

 

1. Attese giovanili e annuncio di salvezza

1.1. La concezione «tradizionale» della salvezza cristiana

1.1.1. La concezione

1.1.2. Principale influsso culturale

1.1.3. Caratteristiche della salvezza in questa concezione

1.1.4. Altri condizionamenti culturali

1.2. I giovani d’oggi e la salvezza

1.2.1. Tra i giovani in genere

1.2.2. Tra i giovani cristiani

2. Una rinnovata concezione della salvezza cristiana

2.1. Condizioni dì una rilettura della fede

2.2. La salvezza nelle fonti bibliche

2.3. Attuali riletture della salvezza cristiana

2.3.1. Salvezza intesa come comunione

2.3.2. Salvezza intesa come liberazione

2.4. Caratteristiche comuni e differenza tra te due rinnovate concezioni della salvezza

3. Quale concezione della salvezza per la pastorale giovanile?

 

Ci troviamo davanti ad una categoria veramente centrale e portante della pastorale, dal momento che questa ha strettamente a che vedere con l’azione di salvezza della Chiesa. Risulta facilmente controllabile che dal modo in cui viene concepita la salvezza dipende anche l’intero progetto pastorale in tutti gli ambiti, non escluso quello giovanile.

 

1.​​ Attese giovanili e annuncio di salvezza

Ancora qualche decennio fa i giovani — i giovani cristiani, si intende — avevano delle idee generalmente abbastanza chiare su ciò che significava «salvarsi» nel linguaggio della fede. E a queste idee adeguavano anche le loro attese. Nell’attuale situazione di pluralismo le cose sono invece profondamente cambiate. Sono cambiate per i giovani in generale, e sono cambiate anche per i giovani che si professano cristiani.

 

1.1. La concezione «tradizionale» della salvezza cristiana

 

1.1.1. La concezione

L’idea che, prima dei suaccennati cambiamenti, i cristiani in genere, e quindi anche i giovani cristiani, avevano della salvezza la si trova espressa in linguaggio popolare nella frase «andare in cielo». Salvarsi e andare in cielo erano praticamente equivalenti. E quell’andare in cielo significava che, dopo la morte avvenuta in stato di grazia santificante l’anima, separata ormai dal corpo corruttibile, giudicata e, se ne era il caso, debitamente purificata, se ne andava a contemplare per sempre Dio a faccia a faccia, in una visione beatificante che appagava ampiamente tutte le attese umane. Si aggiungeva che, dopo il giudizio finale, anche il corpo, risuscitato e debitamente trasformato, avrebbe raggiunto il cielo, riunendosi così all’anima per l’eternità. Allora la salvezza sarebbe realmente completa.

Nella cornice di tale concezione veniva interpretato anche il ruolo salvifico di Cristo. Lui è il Salvatore venuto al mondo da parte di Dio, colui cioè che fa all’umanità il dono della salvezza piena e definitiva. Lo è in quanto, nel passato, si offrì vittima per i peccati degli uomini sulla croce, riaprendo loro in questo modo le porte del paradiso chiuse dal peccato di Adamo; lo è anche in quanto, nel presente, comunica loro la grazia divina attraverso la Chiesa, specialmente nei sacramenti e per mezzo di essi.

 

1.1.2. Principale influsso culturale

Un tale modo di concepire la salvezza portata da Cristo è già — malgrado la diffusa convinzione contraria, secondo la quale esso sarebbe stato sempre in vigore nell’ambito del cristianesimo — il risultato di una ricomprensione del dato di fede, fatta sotto l’influsso di diversi fattori culturali. Precedentemente ci sono stati infatti altri modi di pensarla (Molari,​​ Salvezza​​ 1421-1422; Greshake,​​ La trasformazione​​ 93-197); modi che, pur rispettando la sostanza in essa contenuta, la esprimevano in categorie differenti.

La reinterpretazione a cui ci riferiamo è, fondamentalmente, il risultato dell’inculturazione effettuata dai cristiani quando, entrando dopo i primi tentennamenti nell’ambito dell’Impero Romano, cercarono di calare il messaggio evangelico nella sensibilità in esso ampiamente diffusa. Si trattava di una sensibilità a più registri, ma prevalente tra essi era quello platoneggiante.

Semplificando al massimo le cose si può dire che la visione della realtà che proponeva tale sensibilità era caratterizzata da tre dualismi strettamente collegati tra di loro. Anzitutto quello​​ ontologico,​​ secondo il quale l’essere stesso veniva pensato come spartito in due strati, quello superiore e spirituale, considerato quale spazio del bene e della verità; e quello inferiore e materiale, ritenuto quale spazio dove hanno posto il male e la non-verità.

Poi quello​​ antropologico,​​ secondo il quale l’uomo risultava una realtà complessa costituita da una componente spirituale e da una componente materiale, in modo tale però che la prima, e cioè l’anima, si trovava in una situazione violenta relativamente alla seconda, perché il corpo circondandola la opprimeva e le faceva da «carcere o sepolcro». Le conseguenze di questa concezione antropologica nell’ambito psicologico e in quello gnoseologico sono facilmente immaginabili.

Il terzo dualismo era quello​​ soteriologico,​​ logica conseguenza dei due precedenti. La salvezza veniva pensata come la liberazione dalla materia e da tutti i condizionamenti da essa derivati. Come un ritornare alla primigenia condizione spirituale, al mondo di lassù, dove la contemplazione delle realtà superiori poteva soddisfare le sue più genuine aspirazioni. Di tale ritorno si poteva avere un anticipo imperfetto nella ricerca della verità attraverso la filosofia e della virtù ad essa collegata, ma la sua vera realizzazione avveniva solo con la morte, scioglimento pieno e definitivo dei vincoli della materia.

 

1.1.3. Caratteristiche della salvezza in questa concezione

Non risulta difficile capire quanto questo schema abbia influito nella concezione della salvezza cristiana sopra accennata.

I tre dualismi menzionati, ovviamente ridimensionati alla luce delle esigenze della fede, sono stati accolti nell’ambito della fede pensata e vissuta. Di qua anche alcune delle caratteristiche che accompagnano la salvezza in tale concezione. Essa viene vista, infatti, da una prospettiva accentuatamente spirituale, individuale, ultraterrena, astorica.​​ Spirituale,​​ in primo luogo. L’accento viene posto in essa chiaramente sull’anima. Ne è una conferma il linguaggio adoperato sia a livello popolare, dove la frase «salvare l’anima» esprime la meta suprema della vita credente, sia a livello più tecnico, dove la missione della Chiesa viene caratterizzata come un «guadagnare anime a Cristo o a Dio», e dove lavorare pastoralmente significa lavorare «per la salvezza delle anime».

Si constata in ciò l’impatto dei dualismi suaccennati sulla fede. Benché il cristianesimo non abbia mai accettato teoricamente il radicale dualismo ontologico tra spirito e materia — un dualismo che nel platonismo comportava anche un giudizio di valore in favore del primo e a sfavore della seconda —, nel suo vissuto ne restò però profondamente segnato. È vero che, leggendo già le prime pagine della Bibbia, i cristiani imparavano che anche il mondo materiale era stato creato da Dio, il quale chiamandolo all’esistenza aveva visto che «era molto buono»​​ (Gen​​ 1); ma l’influsso della sensibilità ellenistica dominante li portava spesso a svalutare, se non a disprezzare (manicheismo), quanto sapeva di materia. Ciò non poteva non influire sulla concezione della salvezza. Le espressioni popolari e pastorali sopra riportate, se bene intese, hanno la loro ragione d’essere: si voleva indicare con esse che la salvezza offerta nella fede è quella trascendente e definitiva, quella cioè che ha a che vedere con il destino supremo dell’uomo; ma sta di fatto che molto spesso tali espressioni hanno dato adito a interpretazioni spiritualizzanti e addirittura dualistiche, secondo le quali il vero oggetto della salvezza e quindi dell’impegno pastorale è l’anima dell’uomo, mentre al corpo e a quanto con esso si connette tale salvezza arriva solo indirettamente, «per estensione». In secondo luogo, l’ottica dalla quale si vede la salvezza è accentuatamente​​ individuale.​​ Una frase spesso ripetuta in questo contesto è quella programmatica, proposta anche quale sintesi di preoccupazione spirituale e pastorale «salva l’anima tua». Il vero soggetto della salvezza è l’anima dell’individuo, di ogni singolo individuo, e la salvezza totale e finale è la somma di tutte queste salvezze individuali. Naturalmente, il cristianesimo non poteva ignorare — e non lo ha mai ignorato di fatto — che il comandamento evangelico fondamentale, insieme a quello dell’amore di Dio, è quello dell’amore del prossimo. Il rapporto con gli altri è stato sempre quindi presente anche nella preoccupazione salvifica. Ma, spesso, solo estrinsecamente, quale occasione per l’attuazione della salvezza propria.

Oltre ad essere vista da una prospettiva prevalentemente spirituale e individuale, la salvezza in questa concezione è anche pensata come marcatamente​​ ultraterrena.​​ C’è infatti in essa una forte accentuazione dell’al di là, del dopo-la-morte, del «lassù» quale luogo della vera salvezza. Nessuno si può considerare veramente salvo finché rimane «nel corpo», in «questo mondo», «quaggiù». D’altronde, il momento della morte, concepita alla maniera greca come separazione dell’anima dal corpo, acquista una importanza decisiva nei confronti della salvezza: in esso si gioca, in definitiva, il destino eterno dell’uomo.

A dire il vero, la teologia aveva a un certo punto teorizzato il rapporto tra vita terrena e vita celeste in termini di germe (la grazia) e pianta (la gloria). Una tale teorizzazione portava a riconoscere la valenza e la consistenza salvifica dell’al di qua. Ma ciò non era stato in realtà molto recepito a livello di fede popolare. La dottrina sui meriti non aveva favorito nemmeno tale recezione. Spesso, infatti, non si percepiva la relazione intrinseca tra essi e la salvezza celeste. Conseguenza delle suaccennate accentuazioni era una visione marcatamente​​ astorica​​ della salvezza. Si sa quanto restia fosse la mentalità greca in genere nei confronti della storia. Tale atteggiamento era dovuto al fatto di vederla radicalmente collegata con la materia. Infatti, per essa c’è storia perché c’è tempo, e c’è tempo perché c’è materia. La storia d’altronde è segno di mutabilità nel tempo, e ogni mutabilità è a sua volta segno di imperfezione. L’essere spirituale, quello vero, non ha storia perché è al di fuori del tempo. La vera salvezza ha luogo quindi, secondo i greci, fuori del tempo, nell’eternità. Anzi, si potrebbe dire che salvarsi per loro significa salvarsi dalla storia, dal tempo, dalla mutabilità che comporta la materia.

Il cristianesimo si trovò necessariamente scomodo all’interno di una cultura eminentemente astorica come quella accennata. Esso, infatti, è essenzialmente storico, e tutta la sua «economia della salvezza» è concepita appunto come una «storia della salvezza». Il suo Dio si manifesta salvificamente in avvenimenti storici, dei quali quello iniziale, l’esodo dall’Egitto, e quello escatologico, la risurrezione di Cristo, sono veramente emblematici da questo punto di vista. Eppure, entrando nell’ambito della cultura ellenica, pur senza perdere il fondamentale marchio storico, il cristianesimo vissuto finì per assimilarne in gran parte le istanze. Così non stupisce che abbia pensato la salvezza senza quasi riferimento a quanto avviene nel mondo. Essendo prevalentemente spirituale, individuale e ultraterrena, questa salvezza la si può ottenere anche a prescindere da ciò che succede nella storia.

È vero che i cristiani sono stati spesso richiamati all’impegno nel mondo, nelle vicende storiche. Con il diffondersi dei movimenti laicali nel presente secolo tale richiamo diventò ancora più incalzante e divenne fonte di feconde realizzazioni. Ma, restando in vigore quel concetto di salvezza del quale ci stiamo occupando, l’impegno nel mondo rimaneva estrinseco alla salvezza stessa. In fondo, si trattava di impegnarsi nel mondo e nella storia in vista della salvezza della propria anima, dal momento che non facendolo si rischiava di perderla.

 

1.1.4. Altri condizionamenti culturali

Finora ci siamo soffermati sul fattore principale della interpretazione della salvezza cristiana a cui ci stiamo riferendo, e cioè il condizionamento culturale ellenico-platoneggiante. Ma nell’Impero Romano in cui entrò il cristianesimo c’erano ancora altri fattori che influirono su di essa.

C’era, come in tutto il mondo dell’antichità, un certo modo di pensare, frutto di esperienze millenarie, che contribuiva a tenere in gran parte l’uomo sottoposto al dominio della natura. Il fatto di ignorare il rapporto tra causa ed effetto nei fenomeni della natura e della storia, o di conoscerlo solo per approssimazione mediante una certa esperienza non rigorosamente razionale, faceva sì che gli uomini tendessero a concepire tali fenomeni come fatali. Ciò aveva come conseguenza che si sentissero più oggetti maneggiati da forze esterne e superiori che soggetti di quanto avveniva nel mondo naturale o sociale. Ricevevano perciò quanto capitava loro di bene come un dono, e quanto capitava di male come un castigo. L’atteggiamento davanti ai suaccennati fenomeni era quindi prevalentemente passivo, benché l’uomo, portato dalla sua capacità singolare, abbia sempre cercato di aprirsi un varco verso la padronanza della realtà in cui era immerso. Conseguenza di ciò era la presenza di un atteggiamento massicciamente religioso tra gli uomini e fra i popoli. Tra il concepire i fenomeni naturali e sociali come determinati da forze esterne e superiori e il pensare tali forze come divine non c’è che un passo, e questo passo veniva dato con naturalezza nell’antichità e fino a non molto tempo addietro. Ne scaturiva un tipo di religiosità a sfondo cosmico, segnato spesso più o meno notevolmente dalla dicotomia tra sacro e profano. Il mondo del sacro, del separato, abbracciava persone, cose, azioni, spazi e tempi riservati esclusivamente per il rapporto con il divino nell’ambito del culto. Era, quindi, anche la sfera della salvezza. Di un tale tipo di religiosità era pieno il mondo in cui irruppe il cristianesimo, e nel suo calarsi in esso non poteva non sentirne l’impatto, pur assumendo le dovute distanze critiche nei suoi confronti.

L’influsso di quanto è stato sopra descritto sulla concezione cristiana della salvezza si può scorgere in due suoi tratti caratteristici che si assommano a quelli già prima elencati. In primo luogo, c’è in essa la tendenza ad accentuare fortemente la dimensione di​​ dono​​ nell’ambito salvifico. Vi si coglie infatti la presenza di una forte insistenza sul fatto — innegabile d’altronde — che la salvezza è opera di Dio per mezzo di Cristo, che nessun uomo può salvarsi da sé stesso. È vero che già nei testi stessi del Nuovo Testamento si afferma la necessità della collaborazione dell’uomo con Dio per ciò che riguarda la sua salvezza; è vero anche che si trovano dei detti dei Padri in proposito e che diversi Concili affermano che la giustificazione del peccatore, che lo introduce nell’ambito della salvezza, richiede la collaborazione del peccatore stesso; resta però di fatto che l’accento viene posto prevalentemente sulla dimensione passiva della salvezza. Essa è più dono che compito.

In secondo luogo, si coglie la tendenza ad accentuare il carattere​​ cultuale, e alle volte addirittura sacrale, della salvezza. C’è infatti la tendenza a pensare che sia nella sfera del culto, specialmente sacramentale, dove la si può assicurare. Ne è una conferma l’importanza data al battesimo dei bambini, nella convinzione più o meno esplicita che il morire senza averlo ricevuto impedisca loro di entrare in cielo; come anche quella attribuita ai sacramenti dei moribondi, destinati ad assicurare il loro ingresso nel cielo.

 

1.2. I giovani d’oggi e la salvezza

Le profonde mutazioni storico-culturali in corso nel mondo attuale (cf​​ GS​​ 4-5) hanno avuto e continuano ad avere ampie ripercussioni sul modo in cui gli uomini in genere e i giovani in particolare si rapportano oggi al problema della salvezza. Distinguiamo, per facilitarne il trattamento, due ambiti; quello dei giovani in genere e quello dei giovani cristiani.

 

1.2.1. Tra i giovani in genere

In altri tempi, a dire il vero non molto lontani, in cui l’umanità era massicciamente religiosa, i giovani cercavano spontaneamente nella fede religiosa la soddisfazione delle loro attese di salvezza trascendente e definitiva. Nell’ambito europeo le risposte venivano date loro generalmente dalla fede cristiana, con quelle caratteristiche di cui si è prima parlato. Oggi invece le cose sono profondamente cambiate. L’influsso dei diversi fattori che hanno provocato il presente processo di trasformazione culturale, ha prodotto anche delle vaste mutazioni in questo contesto.

È facile constatare, al contatto con i giovani, che ci sono, infatti, al presente non pochi che non cercano più nella fede cristiana, rifiutata per diversi motivi che non è qui il caso di analizzare, la risposta alle loro attese di salvezza. Notevole in questo contesto, da un tempo a questa parte, il loro rivolgersi a movimenti di ispirazione orientale, segnati da tendenze accentuatamente mistiche o misticheggianti. Pensano di trovare in essi l’appagamento di certe esigenze di pienezza umana, che né la fede cristiana da loro conosciuta né altre forme umane di vita riescono a soddisfare. Per loro è salvezza questo immergersi nel mistero mediante la preghiera di contemplazione che la maggioranza di questi movimenti offrono come strada.

Una buona parte dei giovani d’oggi non cercano più neanche nelle religioni in quanto tali le risposte alle loro attese di salvezza. Si rivolgono piuttosto ad altre «agenzie salvifiche», se così possiamo esprimerci. Ricorrono per esempio al gruppo primario di forti rapporti interpersonali per salvarsi dalla solitudine e daU’incomunicazione, alla droga o alla violenza individuale o di gruppo per salvarsi dalla noia o dal non senso della vita, all’impegno politico per salvarsi dal senso di emarginazione e incapacità, alla competitività culturale o sportiva per salvarsi dalla sensazione di vuoto, alla sfrenatezza sessuale per salvarsi dal vuoto affettivo, ecc.

Ci sono poi dei giovani che semplicemente non cercano nessuna salvezza. Anzi, per loro questa è una categoria priva di senso. Sono i giovani che hanno trovato sostanziale soddisfazione nei valori già raggiunti, e che perciò escludono ogni coscienza di «perdizione»; sono, dalla parte opposta, i nichilisti moderni che, appunto perché rifiutano ogni valore, non sentono nessun bisogno di essere salvati da nulla.

 

1.2.2. Tra i giovani cristiani

Uno degli effetti dell’impatto del cambio attuale è, tra i giovani che si professano in qualche modo cristiani, quello di far entrare in crisi in loro quel concetto «tradizionale» di salvezza di cui si è sopra parlato. Ovviamente, nel caso che essi non vivano schizofrenicamente la loro fede, trascinandosi dietro delle credenze cristiane espresse in sensibilità culturali eterogenee alle loro. Fenomeno d’altronde non totalmente estraneo in gruppi e movimenti nostalgici, per svariati motivi, del passato.

A non pochi giovani cristiani la formula «salvezza dell’anima» non dice ormai niente o quasi niente, precisamente perché sono crollati per loro, più o meno consciamente, i pilastri culturali sui quali reggeva quella interpretazione della salvezza cristiana. Una interpretazione che d’altronde, data la sua consonanza con le esigenze culturali dell’epoca, aveva prodotto dei frutti mirabili per la vita della Chiesa in tempi passati.

Non ci vuole molto per capire che, sia la visione ellenico-platoneggiante della realtà, sia il modo di intendere il rapporto tra l’uomo e la natura, sia ancora la concezione dicotomica tra sacro e profano sono al presente superate o in via di progressivo superamento. La concezione secondo la quale il vero mondo era quello spirituale, mentre invece quello materiale ne era solo un’ombra o addirittura una replica negativa, non ha più posto generalmente tra i giovani d’oggi. Diversi fattori sono intervenuti a farla scomparire. Non ultimo, quello del progresso scientifico-tecnico, che li ha messi a contatto diretto con la straordinaria potenzialità del mondo della materia. Se c’è oggi una tendenza prevalente è caso mai l’opposta.

A superare il dualismo antropologico hanno collaborato, tra l’altro, le ricerche realizzate nell’ambito psicologico. Ormai i giovani sanno che non ci sono nell’uomo fenomeni puramente spirituali, come non ci sono fenomeni puramente materiali. La valutazione positiva della corporalità umana è cresciuta enormemente ai loro occhi, e ciò ha provocato un’autentica rivoluzione anche nel campo della sessualità e dei valori ad essa connessi.

Perciò, continuare a fare della salvezza una questione prevalentemente spirituale, ultraterrena e astorica, è qualcosa che per loro non ha senso. Essi intuiscono che è l’uomo tutto intiero, in tutte le sue dimensioni, colui che deve venir salvato; che ciò che si usa chiamare «corpo» non è una specie di appendice a cui la salvezza portata da Cristo arriva solo «per estensione», ma ha una sua dignità che va rispettata anche e soprattutto dal punto di vista soteriologico.

Sono inoltre portati, come in genere tutti gli uomini di questo tempo, a non riporre la vera salvezza nell’al di là, nel dopo-la-morte, nel cielo, ma a riconoscere valenza e spessore salvifico già all’al di qua, al durante-questa-vita, alla terra. Anzi, in certi casi sembrano inclinati quasi a rovesciare le cose, dando maggior importanza agli impegni per la salvezza presente, mettendo fra parentesi quella escatologica e definitiva.

Tutto ciò perché in essi, come del resto in tutta l’umanità attuale, è cresciuto notevolmente il senso storico. Hanno acquisito, come diceva già la​​ Gaudium et Spes,​​ una visione accentuatamente dinamica ed evolutiva della realtà (5c); stanno respirando l’aria di un nuovo umanesimo (cf 55), caratterizzato dalla coscienza degli stretti vincoli che intercorrono tra gli uomini e tra i gruppi umani, e di questi con la natura, in modo tale che nulla succede nel singolo che non abbia qualche ripercussione nell’insieme e viceversa. Si capisce allora come siano portati a pensare la salvezza come un qualcosa che non si può raggiungere a prescindere da ciò che capita nel mondo.

Il senso storico ha ancora un altro risvolto, che non va disatteso. Dire storia significa dire futuro e libertà, ma significa anche dire responsabilità. Il fatto di prendere coscienza, per via dei progressi scientifico-tecnici, di aver sempre più il proprio futuro nelle proprie mani va accompagnato da una crescita nel senso di responsabilità. Se ci si può costruire da sé, e non si è «fatti» da altri, occorre decidere responsabilmente su ciò che si vuol fare di sé stessi. Questo acuisce negli uomini d’oggi, e specialmente nei giovani, la coscienza del proprio protagonismo.

Il che spiega perché l’insistenza su una concezione della salvezza come dono può trovare delle resistenze in essi. Preferiscono pensare alla salvezza come un compito. Accettano che sia Dio colui che salva mediante Cristo, ma sono consapevoli che ciò non toglie, anzi esige, l’impegno serio dell’uomo.

Per ultimo, anche la dimensione accentuatamente cultuale della salvezza è entrata oggi in crisi. Essa ha avuto a che vedere, in passato, con la dicotomia sacro-profano. Una dicotomia oggi ritenuta superata dalla stessa impostazione neotestamentaria del culto. La novità del culto cristiano, infatti, consiste tra l’altro in questo superamento grazie al quale ogni credente può rendere un «culto spirituale» a Dio sempre e dappertutto, avvalendosi delle realtà cosiddette profane e in forme completamente profane, un culto che fa poi da «materia» del culto liturgico-rituale.

In tale modo, i giovani arrivano spesso a capovolgere anche da questo punto di vista la concezione tradizionale della salvezza. Essi infatti attribuiscono molte volte più importanza, nella prospettiva salvifica, a ciò che fanno nella vita ordinaria che a ciò che fanno nel culto sacramentale.

 

2.​​ Una rinnovata concezione della salvezza cristiana

La problematica accennata nel punto precedente esige dalla Pastorale Giovanile lo sforzo di realizzare una rilettura della salvezza cristiana che possa essere proposta con speranza di accoglienza ai giovani d’oggi. Ciò pone anzitutto la questione dei criteri da seguire in tale impresa. L’abbordiamo brevemente prima di passare a vedere i tentativi in corso.

 

2.1. Condizioni di una rilettura della fede

In realtà, ciò che stiamo affrontando non è che un aspetto settoriale — certamente d’importanza decisiva — di una problematica molto più ampia e globale, quella della reinterpretazione dell’intera fede. Ne abbiamo fatto qualche cenno di passaggio precedentemente.

Che gli enunciati della fede vadano soggetti ad un processo di inculturazione è conseguenza del fatto che essi contengono la Parola di Dio rivolta agli uomini per la loro salvezza. Ora, se gli uomini fossero esseri immutabili, sempre uguali a sé stessi, tali enunciati non avrebbero bisogno di nessun cambiamento. Una volta pronunciati, resterebbero identici per sempre. Ma gli uomini sono esseri storici. E storici non solo nel senso che vivono nel tempo, ma anche nel senso che si evolvono nel tempo. Uno dei fattori che li fa evolvere è certamente il loro agire nei confronti della realtà nella quale sono immersi, un agire che modifica più o meno notevolmente tale realtà e che, di rimbalzo, produce delle modifiche in essi stessi. Detto in breve: l’uomo è un essere culturale.

La cultura, nei suoi risvolti antropologici e soggettivi, è — come segnalava già la​​ Gaudium et Spes​​ nel suo n. 53 — il modo in cui un determinato gruppo umano sente, pensa, vive e organizza la realtà. Una pluralità di fattori intervengono a far sì che la cultura intesa in questo senso non sia né uniforme né definitivamente stabile. Per questa ragione si può parlare di pluralismo culturale. Un pluralismo che è etnico-geografico, determinato cioè da un rapporto con lo spazio, ma che è anche storico, perché ha a che vedere con il tempo.

Se la Parola di Dio ha come destinatario o referente l’uomo concreto, non può non tenere conto del dato incontestabile appena enunciato. Per essa vige il principio di incarnazione espresso nel prologo del vangelo di Giovanni (1,14).

E incarnazione vuol dire, da questo punto di vista, inculturazione. Della problematica insita in questo principio se ne è occupato, come si sa, il Sinodo dei Vescovi del 1974, i cui risultati raccolse e sistematizzò Paolo VI nella Esortazione apostolica​​ Evangelii Nuntiandi.​​ Fu precisamente in questo documento che venne denunciata, quale «dramma del nostro tempo», la rottura tra Vangelo e cultura (cf £7V20c), e dove venne pure fatto un pressante appello al superamento di tale rottura. Nell’Esortazione apostolica sono enunciati anche i criteri supremi che devono guidare l’inculturazione del Vangelo in ogni epoca della storia. Sono concretamente due, in stretto collegamento tra di loro: la fedeltà al messaggio rivelato da una parte, e la fedeltà al destinatario dello stesso messaggio dall’altro. Vi si insiste, infatti, anzitutto sull’idea che tale messaggio non è proprietà di nessuno nella Chiesa, anzi che di esso si è solo amministratori e non padroni. Il che la porta anche ad asserire con enfasi che esso non sopporta né indifferenza, né sincretismi, ma comporta l’esigenza di una vigile fedeltà​​ (EN​​ 3.4.5.15. ecc.).

Ma insieme a ciò si sostiene, con non minore enfasi, che lo si deve comunicare tenendo conto della condizione culturale dei destinatari, in modo tale che possa venire accolto da essi con facilità e senza innecessari sforzi​​ (EN​​ 3.4. -15.20. ecc.).

Questi due criteri, validi per l’annuncio evangelico in genere, vanno tenuti presenti anche quindi per ciò che si riferisce alla salvezza, che di esso costituisce il vero nerbo.

 

2.2. La salvezza nelle fonti bibliche

Il primo criterio raccolto nellEvangelii Nuntiandi​​ implica un ricorso alle fonti del messaggio rivelato. Teologicamente tali fonti sono la Scrittura e la Tradizione (cf​​ Dei Verbum).​​ In realtà, approfondendo qualunque delle due si può arrivare a cogliere i dati della fede. Però, in momenti di profondi cambiamenti culturali come il nostro si rende indispensabile soprattutto il ricorso alle fonti originarie della Bibbia, appunto perché mentre le inculturazioni susseguenti costituiscono in tali circostanze più un ostacolo che un aiuto, in quelle bibliche il messaggio si può ritrovare nella sua freschezza originale.

La Scrittura non fornisce, come è ovvio, una definizione della salvezza che Dio offre all’uomo per mezzo di Cristo. Non è nel suo stile e non risponde all’indole culturale dei suoi autori. Essa però è chiaramente tutt’intera un messaggio di salvezza. Ciò vuol dire che, approfondendo qualunque delle sue pagine, si potrebbe arrivare a cogliere la concezione che essa ne ha. Un cammino più agevole invece è quello di analizzare i due avvenimenti centrali di ambedue i Testamenti, tutti e due appunto avvenimenti salvifici: l’esodo nell’Antico Testamento, e la Pasqua di Cristo nel Nuovo.

Da una tale analisi si ricavano dei dati fondamentali per i nostri scopi. Anzitutto e globalmente parlando, in tutti e due la salvezza appare come un processo, ossia come un passaggio da una situazione ad un’altra: situazione negativa, di «perdizione» la prima; situazione positiva, di «salvezza» precisamente, la seconda.

Di questo processo, inoltre, appaiono delineate le diverse componenti essenziali: il punto di partenza, il punto di arrivo, i soggetti che vi intervengono.

Il punto di partenza è, nell’avvenimento dell’esodo, la condizione disperata, di perdizione, del gruppo discendente di Abramo residente in Egitto. Viene descritta, in modo certamente schematico, dal libro dell’&otfo nel suo primo capitolo. Si tratta di uomini e donne ridotti in schiavitù, abitanti in una terra che non è di loro proprietà, e sottoposti inoltre a lavori pesanti e sempre più gravosi da parte di Faraone e i suoi. Già il loro presente può dirsi una condizione di morte per insicurezza, per oppressione e per sfruttamento; ma soprattutto il loro destino è un destino di morte: Faraone ha deciso di sopprimere tutti i figli maschi, che costituiscono per la mentalità dell’epoca la vera riserva di futuro e di vita​​ (Es​​ 1,16).

Nell’avvenimento della Pasqua neotestamentaria, a sua volta, il punto di partenza o di uscita è la condizione in cui la cattiveria degli uomini, specialmente dei capi politici e religiosi di Israele, ha posto Gesù di Nazaret. È una condizione di morte molteplice: corporale, certamente, ma anche psichica, sociale e addirittura religiosa. Il sepolcro in cui viene collocato dopo il supplizio della croce è come un emblema di tale situazione: una grande pietra è rotolata sul suo ingresso.

Il punto di arrivo del processo di salvezza nell’esodo dell’AT è la nuova condizione in cui vengono a trovarsi coloro che escono dall’Egitto dietro la guida di Mosè. La Bibbia utilizza diversi generi letterari per descriverla, ma i suoi elementi sostanziali sono facilmente identificabili. Essi si scrollano d’addosso la schiavitù e l’oppressione faraonica, riescono ad avere una terra propria, a costituire un popolo padrone di sé stesso e in comunione di alleanza con Dio, e vanno incontro ad un futuro di libertà e di vita.

Nella Pasqua tutto ciò acquista, secondo le testimonianze neotestamentarie, dimensioni di pienezza insospettata nella persona di Gesù Cristo, paradigma d’altronde dell’intera umanità. Dio, per la potenza del suo Spirito, lo strappa dal sepolcro e lo introduce nella pienezza definitiva della Vita. Egli diventa così «il Vivente per i secoli dei secoli»​​ (Ap​​ 1,17).

Nei due avvenimenti il protagonista principale, iniziatore assoluto del processo di salvezza, è Dio. Ma non ne è protagonista unico, poiché gli stessi uomini salvati vi sono coinvolti attivamente. Si può dire che essi sono salvati e salvatori di sé stessi allo stesso tempo. Ciò vale già per l’esodo, nel quale Mosé prima, ma anche l’intero popolo poi, agiscono in ordine alla propria salvezza; ma vale soprattutto per la Pasqua, nella quale Gesù, mediante tutto il suo operare prepasquale, prepara implicitamente la propria risurrezione.

Da questa elementare analisi, che si potrebbe estendere a tutti gli altri avvenimenti salvifici narrati dalla Bibbia, appare già con sufficiente chiarezza cosa intenda essa per salvezza: è il passaggio dalla Morte alla Vita o, in altre parole equivalenti, la vittoria della Vita sulla Morte. Dove «Morte» significa tutto ciò che è negatività per l’uomo, in tutte le sue dimensioni, e «Vita» significa, per opposizione, tutto ciò che è positività per lui. Come si vede nell’avvenimento decisivo della Pasqua, che resta per noi definitivamente emblematico, nel volere di Dio questo processo è destinato a raggiungere il superamento totale e definitivo della Morte nel futuro escatologico; ma, come si constata già nell’esodo e poi anche nell’attività prepasquale di Gesù di Nazaret, esso ha già consistenza e realtà nel presente.

 

2.3. Attuali riletture della salvezza cristiana

Se si osserva bene, in realtà la concezione della salvezza che abbiamo qualificato come «tradizionale», quella che la faceva consistere nell’«andare in cielo», era già una ricomprensione di quanto abbiamo trovato nella Bibbia a partire, come si è visto, da una determinata sensibilità culturale di tipo prevalentemente ellenistico. «Salvare l’anima» era, per quei cristiani, ottenere il trionfo pieno e definitivo della Vita sulla Morte, la realizzazione piena della Pasqua di Cristo in ognuno. Vita e Morte erano interpretate da essi in un modo caratteristico, determinato appunto dai condizionamenti della cultura del tempo. Se la Vita era il cielo, concepito sostanzialmente come visione beatifica di Dio, la Morte era l’inferno, inteso come perdita definitiva di tale visione, con tutto ciò che essa significa per l’uomo. Salvarsi era quindi sfuggire l’inferno ed entrare in cielo. Di tale Vita-cielo e di tale Morte-inferno si dava già un anticipo imperfetto sulla terra, nella misura in cui l’anima era in grazia o in peccato rispettivamente. Uscire dal peccato — mortale, s’intende — significava già in qualche modo salvarsi, benché provvisoriamente e condizionatamente, dalla perdizione. Al presente sembrano essere due principalmente le sensibilità culturali più diffuse nell’umanità, e quindi anche tra i giovani. Due sensibilità che esigono, in forza del secondo criterio evidenziato dallEvangelii Nuntiandi​​ per l’annuncio del Vangelo, la realizzazione di una rilettura dell’intera fede, e di conseguenza anche della concezione della salvezza.

 

2.3.1. Salvezza intesa come comunione

La prima è la​​ sensibilità esistenziale-personalista,​​ presente soprattutto nei paesi più progrediti dell’umanità dal punto di vista scientifico-tecnico. È, come si sa, il risultato convergente di diverse correnti di pensiero che, reagendo alla tendenza prevalentemente oggettivizzante della cultura classica, contribuirono a produrre quella svolta soggettivizzante che pose l’uomo come essere personale al centro della loro riflessione e quale ottica della medesima. Esse pensano la persona in chiave essenzialmente relazionale, definendola quale libertà in ricerca di autorealizzazione e di autenticità nel dialogo e nella comunione interpersonale. Una tale svolta si mostrò carica di conseguenze anche per l’ambito della fede, dove il tentativo di reinterpretare l’intero messaggio rivelato diede origine ad un modo nuovo di fare teologia, che dimostrò la sua fecondità soprattutto in occasione della celebrazione del Vaticano II.

Per ciò che riguarda la nostra tematica, lo sforzo di ricomprensione portò a una rilettura in questa chiave del concetto biblico della salvezza come vittoria della Vita sulla Morte (cf per es. Flick-Alszeghy,​​ Il peccato originale​​ 227-267). Vita viene in esso a significare la piena e definitiva realizzazione della persona, il raggiungimento della sua totale autenticità. Realizzazione e autenticità che si ottengono a loro volta mediante la completa e definitiva comunione interpersonale con Dio e con gli altri, e che costituiscono il «cielo». Per contrapposizione, la Morte o perdizione consiste nel fallimento pieno e definitivo della persona, nell’impossibilità assoluta di raggiungere la sua autenticità. Fallimento esistenziale che consiste a sua volta nell’impossibilità di entrare in comunione con Dio e con gli altri, e che costituisce «l’inferno». Sfuggire tale inferno-fallimento e raggiungere il cielo-realizzazione, è salvarsi.

Di tale Vita-realizzazione-esistenziale e di tale Morte-fallimento-esistenziale pieni e definitivi si può avere un anticipo imperfetto già nel presente, nella misura in cui la persona è in grazia-comunione o in peccato-non-comunione con Dio e con gli altri. Salvarsi, in questo senso parziale, significa passare dalla non-comunione con Dio e con gli altri alla comunione con loro, uscire dalla chiusura e del ripiegamento egoistico su sé stessi e aprirsi all’amore dell’Altro e degli altri. Una salvezza vera e reale, anche se ancora imperfetta e provvisoria.

È naturale che, rinnovata la concezione della salvezza in questo modo, anche il ruolo salvifico di Cristo venga visto sotto una nuova luce. Egli viene confessato come il Salvatore precisamente perché nel passato, mediante la sua esistenza comunionale con Dio e con gli altri, di cui la Pasqua è veramente il vertice, restituì agli uomini la capacità di realizzarsi e di trovare la loro autenticità che il peccato del primo uomo e i propri peccati personali — rottura di comunione verticale e orizzontale —avevano loro tolto. Ma è confessato come il Salvatore anche perché, nel presente, agisce attraverso il suo Spirito perdonando i peccati e donando la grazia, e cioè la comunione con Dio e con gli altri. Di questa salvezza la Chiesa è chiamata ad essere il «sacramento, ossia segno e strumento» nel mondo​​ (LG​​ 1).

 

2.3.2. Salvezza intesa come liberazione

L’altra sensibilità culturale oggi predominante è diffusa prevalentemente nei paesi poveri dell’umanità attuale. La condizione di emarginazione economica, sociale, politica e culturale in cui giacciono questi milioni di uomini e donne, e la progressiva presa di coscienza delle vere cause di tipo strutturale che la producono, hanno sviluppato fra essi, da qualche tempo in qua, una forte​​ sensibilità storico-prassica: guardano infatti alla realtà da un’ottica di trasformazione; sono convinti che la realizzazione delle persone, anche per ciò che riguarda i loro rapporti interpersonali, è fortemente condizionata dal modo in cui sono organizzati i rapporti sociali e le strutture nelle quali essi si cristalizzano, rapporti e strutture che a loro volta sono strettamente condizionati dal modo di rapportarsi con i beni materiali. Perciò sostengono che è imprescindibile una prassi storica di trasformazione che prenda di mira tali rapporti e le loro cristallizzazioni strutturali e, dove ce ne sia bisogno, li elimini sostituendoli con altri. L’impatto di questa sensibilità sulla fede non si fece aspettare. Tanto più che diversi di questi paesi poveri sono ancora massicciamente cristiani. Ne scaturì un nuovo modo di interpretarla, che si espresse a livello popolare come rilettura della Bibbia, con le conseguenze che ne derivarono per la vita di fede, e a livello di riflessione sistematica come tentativo di un nuovo modo di fare teologia, conosciuto come «teologia o teologie della liberazione».

Relativamente al nostro tema si deve constatare che anche all’interno di questa sensibilità prassica e storica si fece lo sforzo, più o meno esplicito, di ripensare la concezione biblica della salvezza come trionfo della Vita sulla Morte (cf per es. Gutiérrez,​​ Teologia​​ 147-184). E, come nella sensibilità precedentemente accennata, la rilettura dei due termini in gioco portò a una sua nuova ricomprensione. Infatti, qui per Morte s’intende principalmente la condizione di emarginazione, schiavitù, oppressione e sfruttamento in cui si trovano i milioni di uomini e donne dei paesi in questione; ma anche, e di rimbalzo, la condizione emarginatrice, schiavizzante, oppressiva e sfruttatrice in cui si trovano quei gruppi umani che, mediante rapporti e strutture ingiuste, creano la condizione dei primi.

Come si vede, si tratta di una Morte collettiva, ma che congloba in sé le innumerevoli morti dei singoli nei diversi aspetti dell’esistenza umana, dal più elementare, quello biologico, fino al più alto, la comunione personale con Dio.

Come è logico nell’ambito di questa sensibilità, l’accento viene posto principalmente sugli aspetti strutturali di questa condizione di Morte, nella convinzione che essi ne siano la causa principale, benché non unica.

Per contrapposizione alla Morte, così concepita, la Vita viene pensata come quella condizione dell’umanità in cui tale Morte è completamente eliminata. Quindi, quella condizione in cui non ci sono più rapporti emarginatoti, schiavizzanti, oppressori e sfruttatori tra gli uomini. In ciò consiste il «cielo». Liberarsi come umanità da questa Morte ed entrare definitivamente in questa Vita, è raggiungere la salvezza.

Di per sé sembrerebbe questa una visione esclusivamente orizzontale. In realtà, non è così. Essa ha una portata verticale.

Ciò che svela la sua verticalità è l’affermazione, biblicamente accertata (1​​ Gv​​ 3,1-20; 4,11-12;​​ Gc​​ 1,27; ecc.), che il rapporto di figliolanza nei confronti di Dio passa attraverso quello della fraternità, una fraternità che ha il suo inizio imprescindibile nella condivisione dei beni materiali. La Vita o il cielo è quindi quella condizione in cui l’umanità, e in essa ognuno dei singoli individui umani, raggiunge la piena maturità dei suoi rapporti fondamentali: con Dio, nella figliolanza; con gli altri esseri umani, nella fraternità; con la realtà infraumana, nella padronanza armonica e amichevole.

In realtà, nell’ambito di questa rilettura — come d’altronde già nella precedentemente accennata — l’attenzione viene più portata sulla salvezza presente che su quella escatologica o definitiva. Si è infatti convinti che quella condizione futura e possibile, perché oggetto della promessa di Dio, di liberazione dalla Morte e di acquisizione della Vita può e deve venir anticipata al presente. Ciò avviene sempre che, nei diversi aspetti della realtà umana, le situazioni collettive di emarginazione, oppressione e sfruttamento vengono eliminate e vengono sostituite da altre di segno opposto. È la salvezza parziale, però vera e reale, alla quale viene dato il nome di «liberazione». Si tratta di liberazioni di innegabile portata intramondana, dal momento che hanno a che vedere con aspetti economici, sociali, politici e culturali, ma che, viste alla luce dalla fede svelano la loro densità teologale e acquistano un senso escatologico. Esse anticipano, imperfettamente e provvisoriamente, la salvezza piena e definitiva.

Alla luce di questa rilettura della salvezza viene anche ripensato il ruolo salvifico di Cristo. Egli è precisamente il Salvatore-liberatore. Lo è stato nel passato, durante la sua vicenda storica, profondamente segnata dal suo impegno per il regno di Dio, che si manifesta concretamente nell’impegno per la salvezza concreta da ogni forma di emarginazione, schiavitù e sfruttamento, anche nei loro risvolti strutturali. La sua morte, poi, segnala il vertice di tale impegno, e la sua risurrezione è la conferma piena e definitiva da parte di Dio di quanto è avvenuto nella sua vicenda storica. La sua condizione di totale maturità nei rapporti con Dio come Figlio, con gli uomini come Fratello, e con la realtà infraumana come Signore, è l’anticipo di quanto è chiamata a raggiungere l’umanità intera.

Ma Gesù Cristo è anche il Salvatore-liberatore nel presente in quanto comunica agli uomini, mediante il suo Spirito, la capacità di impegnarsi seriamente nelle stesse cose per le quali ha lavorato, lottato e morto lui stesso. Ovviamente, tenendo conto dei cambi avvenuti nella realtà. Di questo impegno liberatore la Chiesa è chiamata a essere un segno chiaro ed efficace in mezzo al mondo.

 

2.4. Caratteristiche comuni e differenze tra le due rinnovate concezioni della salvezza

Una serie di accentuazioni, rispondenti alla sensibilità culturale in cui vengono fatte le due riletture della salvezza appena accennate, ne tratteggiano più chiaramente la concezione.

C’è, anzitutto, in tutte e due un’insistenza sull’integralità della salvezza. Tanto l’ottica esistenziale e personalista quanto quella prassica e storica, hanno abbandonato decisamente la concezione dualistica dell’uomo e la conseguente tendenza spiritualista. Perciò, ne integrano a pieno diritto la dimensione corporale. Non pensano più, quindi, a una «salvezza dell’anima», ma a una salvezza dell’uomo tutto intero. Per tutti e due, di conseguenza, Cristo non è più semplicemente il «salvatore delle anime», ma il «salvatore dell’uomo» nella sua completezza.

Si coglie però anche una differenza tra le due all’interno di questa comune accentuazione, una differenza di non poco rilievo. La prima centra la sua attenzione sopra i rapporti intersoggettivi e si occupa di conseguenza poco o nulla del ruolo che in essi gioca il rapporto con le realtà non personali; la seconda invece centra la sua attenzione su quest’ultimo e rimanda i primi a un secondo piano. In ambedue si dà un’accentuazione della consistenza salvifica dell’al di qua, del mondano, del prima-della-morte. La salvezza, infatti, è per esse una realtà che inizia nel presente, benché sia destinata a trovare la sua pienezza nel futuro. Il cielo si fa nella terra, sembrerebbero dire. Ancor di più, si constata in esse una certa tendenza a privilegiare nella loro attenzione la salvezza in processo anziché la salvezza in realizzazione definitiva. C’è però pure qui una differenza notevole al di là della loro coincidenza di base. Per la rilettura esistenziale la salvezza presente è di tipo marcatamente personalista e intersoggettivo, tanto da comportare il rischio di un intimismo privatizzante che non prende in seria considerazione i condizionamenti materiali nella realizzazione delle persone; per quella prassico-storica invece tale salvezza è di tipo accentuatamente socio-strutturale, con il conseguente rischio di esteriorismo e massificazione che arriva a trascurare la sua dimensione personale e interpersonale. Inoltre, tutte e due le riletture superano quella concezione ritualista della salvezza che, influenzata dalla dicotomia tra il sacro e il profano, la vincolava strettamente alle celebrazioni cultuali e specialmente ai sacramenti. Per esse, infatti, è tutta la vita dell’uomo, senza distinzione di sorta, che può diventare salvezza in Cristo. Anzi, si può constatare che tutte e due privilegiano in certo qual senso il profano come ambito salvifico. Per esse infatti è nella vita dove si fa la salvezza che poi il culto liturgico-sacramentale celebra in svariati modi.

All’interno di questo comune superamento si coglie però una differenza. La rilettura esistenziale-personalista assume una prospettiva intersoggettiva nell’interpretazione della vita cultuale e sacramentale. Per essa, i sacramenti sono «incontri» con Dio e con i fratelli in Cristo, incontri che celebrano appunto la comunione esprimendola e potenziandola. L’altra rilettura invece pensa i momenti di culto in stretta vincolazione con la prassi storica, anzi come sua «celebrazione». Essi sono i momenti in cui la comunità ecclesiale celebra la liberazione in corso, in vista della liberazione piena e definitiva.

C’è infine un tratto nel quale sembra esserci più differenza che comunanza tra le due reinterpretazioni. Lo si ritrova nell’ambito del rapporto tra dono e compito nella concezione della salvezza. È ovvio che quella prassica accentui fortemente la dimensione di responsabilità nella trasformazione liberatrice della realtà, e che quindi metta anche più fortemente l’accento sulla dimensione di compito nella salvezza. Senza negare che sia Dio il suo autore primo, ribadisce l’idea che questo non toglie nulla alla responsabilità dell’uomo, anzi la sollecita. La reinterpretazione esistenziale-personalista invece è più portata a sottolineare il carattere di dono della salvezza, appunto perché sa che la comunione implica sempre un dono dell’altro.

 

3.​​ Quale concezione​​ della salvezza​​ per la pastorale giovanile?

Esaminate così le cose, si pone una questione realmente fondamentale alla Pastorale Giovanile: quale concezione della salvezza proporre ai giovani d’oggi? La risposta è carica di conseguenze se è vero, come è stato detto inizialmente, che la salvezza apportata da Cristo e l’asse attorno al quale gira tutta l’azione pastorale.

All’interno di questa globale questione trova posto una prima problematica, previa e radicale: quella che solleva la non esistenza della domanda sulla salvezza nei giovani. Non raramente, infatti, come l’abbiamo già anticipato, se ne trovano alcuni che non se la pongono, perché non sentono bisogno alcuno di salvezza. Dato che non si sentono perduti, non possono neanche sentire la necessità di salvarsi o, tanto meno, di venir salvati.

La realtà è, però, che tale domanda se la portano esistenzialmente dentro, sia pure implicita e sommessa. Il loro non sentirne il bisogno ne è già un segno. Compito primo della Pastorale Giovanile sarà, quindi, aiutarli a prendere coscienza di tale bisogno. Non imponendo loro delle astratte costruzioni dottrinali, ma portandoli ad approfondire la loro stessa esperienza. Per raggiungere questo scopo sembra indispensabile aiutarli a scoprire il valore della vita, e a dire il loro sì ad essa. Sembra essere questa la condizione indispensabile per qualunque ulteriore crescita di coscienza in ordine alla salvezza.

Una volta fatto questo passo, resta da affrontare l’altra problematica, quella riguardante il tipo di salvezza in Cristo da proporre. È chiaro, anzitutto, che non si può continuare ad annunciare ai giovani d’oggi la salvezza «dell’anima» o «delle anime» se non tradendo la loro sensibilità culturale. Farlo sarebbe condannare l’annuncio al fallimento e forzare i giovani a ritornare culturalmente indietro per poter confessare Cristo quale loro Salvatore. Procedimento, in fondo, simile a quello dei giudaizzanti delle prime ore della Chiesa, che identificavano l’inculturazione giudaica del messaggio di salvezza con il messaggio stesso.

Date le sensibilità prevalenti nel mondo odierno, sembra che la proposta deve venir fatta rifacendosi alle due riletture sopra analizzate. Ma ciò fa ritornare la domanda in un altro modo: quale di queste due rinnovate concezioni proporre in concreto? La risposta implica un’opzione. Un’opzione che però non va fatta ciecamente, ma con ragionevolezza. E in questo caso la ragionevolezza consiste nell’accertare in quale chiave culturale viene fatta, sia pure implicitamente, la domanda. Secondo quanto abbiamo detto sopra, la linea che predomina nell’ambito europeo è quella esistenziale-personalista. Di per sé, dunque, vi si dovrebbe annunciare la salvezza in questa «lunghezza d’onda». Essa dovrebbe venir proposta ai giovani come realizzazione esistenziale, ottenuta mediante la comunione interpersonale con Dio e con gli altri attraverso Cristo. Ma qui interviene un altro elemento, di una certa rilevanza. Sinora abbiamo insistito, stimolati dalle istanze​​ dell’Evangelii Nuntiandi,​​ sul bisogno di venire incontro alla domanda posta dai destinatari dell’annuncio evangelico.

C’è però da tener anche presente un altro aspetto, insito nel primo criterio di fedeltà al messaggio rivelato: la sua inculturazione deve essere critica. Il Vangelo, incarnandosi nelle culture, lo fa effettuando al loro interno un discernimento. Infatti, non sempre tutto ciò che esse portano con sé è compatibile con la proposta di Cristo. La domanda, quindi, dei destinatari va anche «educata» oltre che soddisfatta.

Ci si dovrebbe domandare, per ciò che riguarda la nostra problematica, se una proposta di salvezza cristiana in chiave esistenziale e personalista svolga davvero questo ruolo educativo. Abbiamo fatto notare, nell’esporre le grandi linee di questa sensibilità culturale, la sua tendenza all’intimismo e la dose di astrattezza che la contrassegna. Essa non prende in considerazione con sufficiente serietà e concretezza realtà umane che pesano fortemente sulla situazione di perdizione dell’umanità, quelle cioè che in questo momento producono la Morte per fame, per emarginazione e per sfruttamento di milioni di uomini e donne. L’insistenza sul personale e l’interpersonale finisce spesso per fare da colonna di fumo che non permette di cogliere le cause di ordine strutturale che producono tale Morte. Ciò si ripercuote sulla rilettura della salvezza cristiana.

Se le cose stanno così, sembra che la proposta di una salvezza cristiana in chiave prassica e storica possa non solo venire incontro alla domanda dei giovani del mondo povero ed emarginato, ma offrire anche un correttivo alla stessa domanda dei giovani del mondo ricco e benestante. Essi dovrebbero essere portati a scoprire che la propria realizzazione esistenziale, provvisoria o definitiva che sia, non può avvenire senza un impegno per la realizzazione esistenziale di tutti, anche e soprattutto di coloro che al mondo sono più emarginati e trascurati, degli «ultimi». Sarà '

un modo in cui potranno capire l’importante detto evangelico secondo il quale «chi ama la propria vita in questo mondo, la perde; chi invece perde la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (Gv 12,24). Da parte sua, l’istanza personalista ed esistenziale potrà offrire un correttivo al rischio di massificazione e spersonalizzazione che minaccia l’impegno prassico-storico. Essa potrà aiutare i giovani impegnati nella trasformazione salvifica delle situazioni di Morte, a ricordare che lo scopo ultimo di ogni sforzo di cambio, anche collettivo e strutturale, è la Vita in pienezza di ogni essere umano, senza eccezione.

 

Bibliografia

Congar Y.,​​ Un popolo messianico. La Chiesa, sacramento di salvezza. La salvezza e la liberazione, Queriniana, Brescia 1976; Flick M.-Z. Alszeghy,​​ Il peccato originale, Queriniana, Brescia 1972, 227267; Greshake G.,​​ La trasformazione delle concezioni soteriologiche nella storia della teologia, in Aa.Vv., Redenzione ed emancipazione, Queriniana, Brescia 1975, 89-130; GutierrezG.,​​ Teologia della liberazione. Prospettive, Queriniana, Brescia 19732, 147-184; Lohfink N.,​​ Salvezza come liberazione in Israele, in Aa.Vv., Redenzione ed emancipazione 3965; Metz J. B.,​​ Redenzione ed emancipazione, ibid. 152-177; Molari C.,​​ Salvezza. Nella ricerca teologica, in Barbaglio G. - S. Dianich (a cura), Nuovo Dizionario di Teologia, Paoline, Roma 19792, 1414-1438;​​ Salvezza cristiana, Cittadella, Assisi 1975; Schnackenburg R.,​​ La liberazione secondo Paolo nell’odierno orizzonte del problema, in Aa.Vv., Redenzione ed emancipazione 66-88.

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SALVEZZA

Che la S. occupi un posto centrale nell’economia del mistero cristiano è cosa troppo evidente. Questa economia, infatti, è interamente polarizzata attorno al “per noi uomini e per la nostra salvezza” (Simboli della fede).​​ L’annuncio che al suo interno viene fatto agli uomini quale buona novella, è tale appunto perché è un annuncio di S. offerta in Cristo all’umanità. Di conseguenza anche la C., quale servizio alla maturazione della fede, ne risulta interamente polarizzata.

1.​​ Concezione classica.​​ Fino a non molto tempo fa la C. (E. Germain 1967;​​ Catechismo di Pio X,​​ ecc.), seguendo i dati forniti dalla teologia (Molari 1979), presentava una concezione della S. che, espressa in termini popolari, consisteva, negativamente, nel liberarsi dal peccato e quindi dall’inferno e dalla dannazione eterna e, positivamente, nell’andare in cielo. E questo andare in cielo significava che, dopo la morte (separazione dell’anima dal corpo) avvenuta in stato di grazia, l’anima, previamente purificata ove occorresse (purgatorio), entrava a godere per sempre la visione di Dio, mediante la quale raggiungeva la piena e definitiva soddisfazione di tutte le sue legittime aspirazioni. Anche il corpo, dopo il giudizio finale e la risurrezione della carne, le si univa nella sorte beata, subendo a questo scopo una profonda trasformazione che lo rendeva adeguato a tale situazione.

Questa concezione, ridotta così ai termini essenziali, connotava una serie di accentuazioni che contribuivano a darle la sua peculiare fisionomia: spiritualismo, in quanto per essa il vero soggetto della S. era l’anima, mentre al corpo tale S. arrivava solo per aggiunta; individualismo, in quanto pensava che la salvezza interessava singolarmente ogni anima, senza rapporto intrinseco con le altre; intimismo, in quanto riteneva che questa salvezza individuale delle anime non aveva a che vedere con ciò che capita al mondo; ultra-

terrenismo, in quanto considerava che la vera S. era quella che le anime ottengono oltre la morte, nell’aldilà; sacramentalismo, in quanto collegava strettamente la S. alla sfera sacramentale, e specialmente alla recezione degli “ultimi sacramenti”.

Una concezione della S. di questo tipo è oggi fortemente in crisi presso non pochi cristiani, e la C. l’ha in gran parte abbandonata. La ragione è che sono in crisi i presupposti culturali che la sorreggevano. Essa infatti era il risultato dell’inculturazione dell’intero cristianesimo nel mondo greco-romano, mondo nel quale la Chiesa entrò sempre più decisamente a partire dal sec. IL La visione dualista della realtà e dell’uomo, opportunamente criticata nelle sue espressioni estreme, è quella che fa da sfondo a detto modo di intendere la S. Tale visione oggi è stata sostituita da altre che sono andate sorgendo nell’umanità, in forza soprattutto delle nuove esperienze dell’uomo nel suo rapporto con la natura (GS 4.33.36b).

2.​​ La S. nella Bibbia.​​ In un momento di profonda metamorfosi culturale quale è il nostro, occorre tornare alle fonti bibliche per riscoprirvi il punto di partenza e cercarne una nuova inculturazione, in modo tale da superare il dramma che comporta la rottura tra Vangelo e cultura (EN 20). Per la C. tale operazione risulta indispensabile se vuole raggiungere i suoi destinatari.

Benché la Bibbia non fornisca mai in modo esplicito una concezione della salvezza, essa la presuppone dal momento che è tutt’intera un messaggio salvifico. La strada più viabile per scoprirla è quella di analizzare i suoi avvenimenti-chiave, che sono appunto degli avvenimenti di S.: l’esodo dall’Egitto per l’AT e la Pasqua di Cristo per il NT. In tutti e due la S. appare come un​​ processo​​ mediante e attraverso il quale un​​ soggetto umano​​ (Israele, Gesù)​​ esce​​ da una situazione umana negativa (schiavitù e oppressione, morte) ed​​ entra​​ in un’altra positiva (libertà e futuro, vita in pienezza). È un processo in cui il​​ protagonista principale​​ è Dio (Iahvè, il Padre), ma che ha come​​ co-protagonista​​ l’uomo stesso (il popolo, Gesù).

Ciò che risulta dall’analisi è che la salvezza per la Scrittura consiste sostanzialmente nel trionfo della Vita sulla Morte nell’uomo, singolo e collettivo, a opera di Dio e dello stesso uomo. Si tratta di una concezione che è ancora germinale e imperfetta nell’AT, ma che arriva alla sua pienezza di esplicitazione nel NT, con Cristo e in Cristo.

3.​​ Ricomprensioni attuali della S.​​ Di questa concezione biblica la C. contemporanea, ispirata alla teologia degli ultimi decenni, fa due riletture diverse benché non contrapposte, a partire da due diverse sensibilità culturali globali.

Una, di tipo esperienziale-personalista, legge i due termini in gioco dialettico (Morte-Vita) in chiave esistenziale-relazionale. È quella che prevale nella C. rinnovata delle Chiese europee (Catechismo olandese, Catechismi italiani e spagnoli più recenti, ecc.), dove l’accentuarsi del processo scientifico-tecnico acuisce pure il bisogno del personale e dell’intersoggettivo. Per essa la perdizione (o Morte) è fondamentalmente il fallimento esistenziale, concretizzato nella situazione di incomunicazione interpersonale con Dio e con gli altri, fallimento che può essere parziale e provvisorio o totale e definitivo (inferno). S. (o Vita) è invece l’autorealizzazione esistenziale, ottenuta mediante l’autocomunicazione (K. Rahner) personale con Dio e con gli altri per mezzo di Cristo, autorealizzazione che può anche essere parziale e provvisoria, ma che da parte di Dio è destinata a essere piena e definitiva (cielo). Alla luce di questa rilettura della S. vengono pure ricompresi gli altri contenuti del messaggio: Cristo, che di tale salvezza è il Mediatore unico; la Chiesa, che ne è il sacramento (LG), ecc.

L’altra rilettura viene fatta in chiave storico-prassica. Essa è presente soprattutto nella C. di certe Chiese del cosiddetto Terzo Mondo, e specialmente in quella delle → Comunità Ecclesiali di Base ivi sorte da qualche decennio. Per questa ricomprensione la perdizione (o Morte) è principalmente — benché mai esclusivamente — la situazione di emarginazione, sfruttamento, oppressione e addirittura repressione in cui si trovano le grandi masse dei poveri del mondo, come conseguenza delle ingiuste strutture create dall’egoismo collettivo di interi popoli o gruppi umani (peccato sociale o strutturale). S. (o Vita) è, invece, principalmente il superamento di tale situazione e la sua sostituzione con un’altra di segno opposto, nella quale non ci sia né emarginazione né sfruttamento né oppressione né repressione di sorta, ma solo fraternità, e questa non solo nell’ambito interpersonale, ma anche in quello dei rapporti con i beni materiali. Una S. che sarà sempre parziale e imperfetta nella storia, ma che è destinata ad essere, secondo il piano di Dio, piena e definitiva nel Futuro ultimo (utopia). Ovviamente, anche questa ricomprensione della S. comporta una nuova comprensione degli altri contenuti del messaggio cristiano.

Si potrà facilmente osservare come tutte e due queste riletture siano caratterizzate da accentuazioni che tendono a contrapporsi a quelle che abbiamo rilevato nella concezione classica della S.

È importante ricordare, concludendo, che il criterio per una rilettura dei contenuti del messaggio evangelico è quello della doppia fedeltà al dato rivelato e al destinatario dell’annuncio (EN), criterio che dovrà quindi guidare ogni reinterpretazione della concezione della S.

Bibliografia

Associazione Teologica Italiana,​​ La salvezza cristiana.​​ Atti del VI Congresso nazionale, Assisi, Cittadella, 1975; Y. Congar,​​ Un popolo messianico. La Chiesa sacramento universale di salvezza,​​ Brescia, Queriniana, 1976; L. A. Gallo,​​ La​​ concepción​​ de la​​ salvación y sus presupuestos en​​ Marie-Dominique Chenu,​​ Roma, LAS, 1976; In.,​​ La salvezza in Cristo oggi,​​ in A. Amato – G. Zevini (ed.),​​ Annunciare Cristo ai giovani,​​ ivi, 1980, 235-249; E. Germain,​​ Parler du salut?​​ Aux origines​​ d’une​​ mentalité​​ religieuse. La catéchèse du salut dans la​​ France​​ de la Restauration, Paris, Beauchesne, 1967; G. Gozzelino,​​ La salvezza cristiana.​​ Sesto Congresso Nazionale. Atti, Roma 2-4 genn. 1975, in “Salesianum” 37 (1975) 613-632; G. Greshake,​​ L'uomo e la salvezza di Dio,​​ in K. Neufeld (ed.),​​ Problemi e prospettive di Teologia Dogmatica,​​ Brescia, Queriniana, 1983, 275-302; M. Manzanera,​​ Teologia​​ y salvación-liberación en​​ la​​ obra​​ de G.​​ Gutiérrez.​​ Explicación teórico-práctica y valoración crítica, Bilbao, 1978; C.​​ Molari,​​ Salvezza​​ (nella ricerca teologica), in G. Barbaglio – S. Dianich (ed.),​​ Nuovo Dizionario di Teologia,​​ Roma, Ed. Paoline, 19792, 1414-1438; E. Schillebeeckx,​​ Il Cristo. La storia di una nuova prassi,​​ Brescia, Queriniana, 1980, 873-992.

Luis Gallo

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SALVEZZA

SANTI

SANTI

Riccardo Tonelli

 

1. Perché i santi?

1.1. I santi in alcuni modelli teologici

1.2. I santi nella prospettiva dell’Incarnazione

2. Ogni parola su Dio è sempre parola umana

2.1. La diversità come ricchezza espressiva

2.2. La diversità come limite culturale

3. Cose vecchie e cose nuove dal proprio tesoro

4. La parola del concilio

 

1.​​ Perché i santi?

Nella sua lunga storia, la comunità ecclesiale ha sempre riservato un’attenzione speciale ai suoi santi. Ha circondato di devota venerazione la dimora in cui essi attendono il ritorno definitivo alla pienezza di vita; ha trasformato in luogo di preghiera e di culto le tombe di coloro che hanno testimoniato nel sangue la fede e la speranza; ha edificato solenni monumenti celebrativi dove i suoi figli più grandi hanno consumato la liturgia della loro vita.

I santi sono diventati così, un po’ alla volta, la festa della Chiesa. Sul ritmo del loro ricordo essa ha tracciato il suo calendario.

In un tempo come il nostro, sospettoso e saccente, molti se ne chiedono il perché. A tante cose del passato abbiamo saputo rinunciare, per affermare meglio il nostro bisogno di futuro.

 

1.1. I santi in alcuni modelli teologici

Sono molte e differenti le ragioni che esprimono la figura e la funzione dei santi nell’esperienza cristiana. Se sfogliamo con un po’ di senso critico le agiografie, ci accorgiamo presto di un dato: il modo con cui viene raccontata la vita dei santi e, di conseguenza, l’accentuazione di dimensioni speciali della loro figura e funzione sono strettamente collegati con il modo in cui viene compreso e vissuto il mistero santo di Dio. Quando di Dio si mette in risalto soprattutto la sua alterità irragiungibile e la sua numinosità, i santi sono presentati come «intermediari»: coloro che assicurano un collegamento tra la povertà dell’uomo e la grandezza di Dio.

La qualità della loro vita assicura una accondiscendenza speciale da parte di Dio, fino a coprire, nelle diverse situazioni, con la loro presenza mediativa, l’abisso che ci separa da lui. Anche la loro potenza taumaturgica è vista da questa prospettiva. Proprio perché la loro voce può raggiungere il trono di Dio e viene accolta positivamente, essi sono capaci dì piegare la mano di Dio verso le dure esperienze della nostra quotidiana esistenza. Se invece prevale una visione etica dell’esistenza cristiana, i santi rappresentano soprattutto i modelli più riusciti delle virtù del cristiano. Di solito poi la qualità di queste virtù è molto legata alle prospettive culturali dominanti. Le vite dei grandi santi vengono riscritte ad ogni svolta culturale o vengono utilizzate come elemento di controllo o di resistenza rispetto a questi mutamenti. Per altri santi si realizza una continua operazione di recupero o di messa tra parentesi, in rapporto alla loro funzionalità etica.

Nei tempi in cui è molto accentuato lo scollamento tra la riflessione teologica e la vita vissuta, la pietà popolare affida ai santi il compito, urgente, di restituire a Dio un volto più concreto e accessibile. Essi diventano così quasi delle divinità potenti, di cui però si può parlare e con cui si può trattare. Quando nell’esperienza cristiana predomina una visione teologica che contrappone in modo duro l’ambito del profano a quello del sacro, i santi rappresentano coloro che hanno avuto il coraggio della decisione coerente fino alla radicalità. Essi hanno fatto il salto decisivo e hanno abbandonato progressivamente tutto per accedere alla libertà di Dio. E così il calendario dei santi si riempie di monaci e di monache e la spiritualità che essi propongono diventa un pressante invito alla «fuga dal mondo». Certo, non mancano altre figure, dalla vita meno radicale. La loro presenza però è spesso giustificata dal fatto che essi hanno realizzato spiritualmente quello che non hanno potuto assicurare fisicamente.

 

1.2. I santi nella prospettiva delPincarnazione

Bastano questi pochi accenni per convincerci che si può parlare dei santi in modi davvero diversi. Uno stile non esclude l’altro, certamente. Quello che si privilegia dice però, in termini abbastanza stretti, il modello teologico globale a cui ci si ispira di fatto.

La comunità ecclesiale italiana, in un momento importante di verifica del suo progetto catechistico e pastorale, nel clima del rinnovamento conciliare, ha scelto l’evento dell’Incarnazione come criterio fondamentale della sua testimonianza salvifica (cf​​ RdC​​ 77). L’Incarnazione viene così proposta non solo come una delle grandi dimensioni dell’esistenza di Gesù Cristo; dice anche quell’esperienza che ci permette di comprenderla tutta, da una prospettiva unitaria e globale. L’Incarnazione propone un modo preciso di riconoscere la figura e la funzione dei santi. Lo ricordo, richiamando temi già sviluppati in altro contesto (cf Incarnazione).

Confessiamo con trepidazione che la ragione della nostra fede e il fondamento della nostra speranza è Dio. Egli è un evento che non possiamo descrivere con le nostre parole sapienti né possiamo catturare nel sottile esercizio della nostra ricerca, anche se è, nello stesso tempo, la roccia su cui si costruisce tutta la nostra vita.

Il Dio ineffabile e invisibile si è fatto «volto» e «parola» in Gesù di Nazareth. Il silenzio è stato definitivamente infranto: il Dio lontano è diventato colui che ha posto la sua casa tra le nostre. La sua parola risuona, in parole umane, per la vita degli uomini. Questa esperienza sostiene la fede e la speranza del credente. Lo testimonia, con una vena polemica, il salmista: gli dei a cui si affidano i pagani hanno la bocca, ma non parlano, hanno gli occhi, ma non vedono; il Dio d’Israele non ha bocca, ma è parola, non ha occhi, ma vede il suo popolo con lo stesso sguardo d’amore con cui una madre segue suo figlio (cf​​ Salmo​​ 115).

Questo progetto insperato di dialogo e di incontro non riguarda solo Gesù di Nazareth. Lui è il volto e la parola definitiva di Dio. La sua parola continua però a risuonare, nelle pieghe della storia di tutti i giorni: nella vita di ogni uomo Dio si fa ancora volto e parola, per sollecitare, accogliere, salvare.

La parola di Dio e il suo volto si manifestano nel nostro volto e nella nostra parola con una intensità diversa. Abbiamo persino la possibilità di spegnere la sua parola e di travolgere il suo volto. Nelle nostre storie Dio si fa vicino nella misura in cui «assomigliamo» a Gesù di Nazareth: nella misura cioè in cui la nostra umanità si realizza in pienezza e verità, così come è l’umanità piena e definitiva di Gesù.

Se pensiamo alla nostra storia personale, è facile la crisi: ogni giorno tradiamo la nostra immagine. Così riduciamo al silenzio Dio e spegniamo per tanti nostri amici la sua presenza di vita.

I santi sono quei nostri compagni di viaggio che ci rendono Dio più vicino, perché nella loro umanità brillano più intensamente i segni dell’umanità piena di Gesù.

Nella loro vita il volto e la parola di Dio risuonano più alti, provocanti e convincenti. Grazie a loro ci sentiamo tutti un po’ di più immersi nell’amore di Dio, lo sentiamo un po’ di più Padre nostro. In loro siamo sollecitati in termini più suasivi a schierarci dalla parte della vita nel drammatico conflitto tra morte e vita; e scommettiamo più coraggiosamente sulla vittoria conclusiva della vita. Abbiamo perciò bisogno dei santi per sentirci ancora figli di Dio: per vedere l’invisibile e per comprendere l’ineffabile.

I santi continuano nel tempo la Rivelazione di Dio all’uomo. La loro funzione attraversa la sostanza stessa del processo salvifico.

 

2.​​ Ogni parola su Dio è sempre parola umana

Chi comprende la funzione dei santi in questo modello teologico, è difeso dal rischio grave di rendere assoluto quello che invece è segnato dal limite.

La​​ Dei verbum,​​ infatti, commentando il processo di Rivelazione, ha ricordato che ogni parola di Dio è sempre nel segno della povertà della parola umana: «Le parole di Dio, espresse con lingue umane, si son fatte simili al parlare dell’uomo»​​ (DV​​ 13).

Questa costatazione che, nella prospettiva dell’Incarnazione, vale per le parole che nella Chiesa si pronunciano ogni giorno per continuare il dono di salvezza, riguarda anche la figura e la funzione dei santi. Essi sono volto e parola di Dio nella fragilità della parola umana, che dà espressione al mistero santo. Molte e importanti sono le conseguenze che ne scaturiscono. Ne ricordo due.

 

2.1. La diversità come ricchezza espressiva

Nessuna parola umana può dire da sola tutta la verità. Solo nella convergenza di molte e differenti parole possiamo avvicinarci, con un approccio timido e provvisorio, a quella verità che resta collocata sempre più avanti dei nostri passi più avanzati.

Per questo, il pluralismo dei modelli e delle espressioni linguistiche è il riconoscimento, gioioso e sofferto, della struttura stessa della verità.

Quando vogliamo dare volto e parola al mistero santo di Dio, restiamo sempre prigionieri del nostro limite: è il nostro modo di possedere e di esprimere la verità.

Solo Gesù è la parola unica e definitiva. Ogni altro uomo è invece un frammento espressivo di quella verità a cui ci avviciniamo soltanto nella pluralità delle manifestazioni.

I santi, quelli che la Chiesa riconosce ufficialmente e i tanti che restono sprofondati nell’abbraccio di Dio, sono «diversi» perché il mistero santo Dio non può essere avvicinato se non nella convergenza di molte e differenti espressioni vitali.

 

2.2. La diversità come limite culturale

Questa diversità nasce da fattori di carattere culturale. È importante riconoscerlo per le risonanze pratiche che il dato comporta. L’ineffabile Parola di Dio si fa parola per l’uomo diventando parola d’uomo, come dichiara il passo già citato della​​ DV.

Parola d’uomo significa parola detta nello stile di ogni parola umana: prendendo dimora all’interno di una cultura, fra le tante in cui abita l’esistenza e il linguaggio dell’uomo. Lo stesso evento risuona in espressioni diverse, perché chi le pronuncia assume dal contesto un determinato intreccio di valori, orientamenti, stili di vita, modelli di comportamento, che riconosce come significativi per sé.

La diversità, preziosa per riconoscere la distanza incolmabile tra la parola pronunciata e l’evento che si vuole esprimere, dice nello stesso tempo il limite e la relatività delle espressioni. Le differenti parole (quelle dette e quelle vissute) indicano il peso condizionante della cultura umana, anche nel momento in cui ci carichiamo del compito affascinante di dare voce all’ineffabile e di dare volto all’invisibile.

Del resto poi basta uno sguardo anche veloce all’elenco ufficiale dei santi per costatare come sia davvero intenso il rapporto tra i modelli culturali assunti dalla Chiesa in un determinato momento storico e la figura dei santi: la loro qualità, i criteri soggettivi di selezione, il risalto dato a particolari atteggiamenti della loro vita.

 

3.​​ Cose vecchie e cose nuove dal proprio tesoro

Nella prospettiva che abbiamo tracciato poco sopra, riconosciamo l’importanza irrinunciabile di parlare di Dio, del suo amore e del progetto di salvezza con la parola, concreta e vicina, di Gesù di Nazareth, di Maria, dei santi. Essi rappresentano la mediazione necessaria per fare un discorso cristiano su Dio: sono infatti, a titoli diversi, suo volto e parola, il luogo privilegiato in cui si fa proposta di salvezza per noi.

Dalla prospettiva dell’Incarnazione ritroviamo però anche l’esigenza di un approccio critico e selettivo. Essi (ancora una volta a livelli diversi) sono il volto e la parola di Dio pronunciata in parole umane: un modo sempre caduco e relativo, perché abitato dalla cultura, teologica e antropologica, che dominava la scena della loro storia.

Chi li fa risuonare oggi in termini solo ripetitivi, più o meno li tradisce. Rende stranamente sovraculturale quello che essi invece hanno vissuto come esperienza dentro una precisa cultura. Sottrae dalla storia coloro che sono invece la presenza di Dio nella storia quotidiana.

Non li celebriamo solo per ricordarli. Li ricordiamo per lasciarci affascinare dalle cose meravigliose che Dio ha compiuto per noi e farci provocare dai suoi progetti su noi. Per questo, celebriamo il ricordo dei santi «riattualizzandoli». Riattualizzarli significa realizzare un’operazione a carattere ermeneutico, capace di far dialogare cultura ed evento. L’approccio ermeneutico è la via stretta che la comunità ecclesiale è chiamata a percorrere con coraggio. Lo fa con gioia e con trepidazione. Avverte di essere provocata proprio sul terreno della sua missione. Nella parola, eloquente e significativa, dei suoi figli più grandi, essa annuncia l’evangelo del Dio di Gesù, perché tutti abbiano la vita, «una vita vera e completa» (Gv 10,10). Introdurre una coscienza ermeneutica anche nella agiografia, significa ritrovare, nell’esistenza concreta dei santi, quella dimensione speciale dell’evento di Dio che essi hanno espresso nella loro vita (la diversità come ricchezza), liberarla dal rivestimento espressivo che essi hanno assunto dal tempo in cui sono vissuti (diversità come limite culturale) e ridire tutto questo secondo modelli culturali capaci di risultare ancora significativi oggi, per fare risuonare come salvifico l’evento del mistero di Dio che ciascuno di essi è. L’operazione è rassicurata da una esigenza irrinunciabile. Il soggetto è la comunità ecclesiale, animata verso l’unità e sostenuta nella verità dal ministero di quei fratelli maggiori che lo Spirito di Gesù ha posto come «maestri» e «guide».

Molti santi possono essere riproposti senza eccessivi interventi di riattualizzazione. Essi hanno saputo esprimere così intensamente il mistero di Dio nella loro vita che i segni della cultura del tempo li hanno appena sfiorati. In questi casi fortunati, è soprattutto urgente ritrovare la freschezza della loro vita, superando eventualmente il racconto che di essa è stata tramandato.

Può darsi invece che qualche santo non resista al vaglio di questo intervento critico. Ci si accorge, alla prova dei fatti, che il rivestimento culturale prevale troppo sull’evento che tenta di esprimere. Una comunità, fedele allo Spirito che è novità e futuro, non se ne rammarica eccessivamente e nemmeno giudica in modo saccente il proprio passato. A chi cerca senso per la vita e salvezza, la comunità ecclesiale ha sempre un pane da spezzare e da condividere. Come il saggio della parabola evangelica, essa sa trovare dal suo tesoro cose vecchie e cose nuove. Ne possiede in abbondanza: le parole umane in cui si fa vicina la parola di Dio sono tante e tanto ricche.

 

4.​​ La parola del concilio

Così ci sentiamo fedeli al Concilio. Ha suggerito riflessioni molto stimolanti sulla figura e la funzione dei santi nell’esperienza cristiana.

Reagendo ai primi sintomi dell’onda iconoclasta di questi nostri giorni, il Concilio ha dichiarato così la fede ecclesiale sulla funzione pastorale dei santi: «Nella vita di quelli che, sebbene partecipi della nostra natura umana, sono tuttavia più perfettamente trasformati nell’immagine di Cristo, Dio manifesta vividamente agli uomini la sua presenza e il suo volto. In loro è Egli stesso che ci parla, e ci mostra il contrassegno del suo Regno, verso il quale, avendo intorno a noi un tal nugolo di testimoni e una tale affermazione della verità del Vangelo, siamo potentemente attirati»​​ (LG​​ 50).

 

Bibliografia

Bo V.,​​ Santi (devozione), in Dizionario di pastorale della comunità cristiana, Cittadella editrice, Assisi 1980, 520-522; Brovelli F.,​​ Culto dei santi, in Dizionario teologico interdisciplinare, Marietti, Torino 1977, 662-666; Guerra A.,​​ Santidad, in Conceptos fondamentale de pastoral, Ediciones Cristiandad, Madrid 1983, 916-925; Molinari P.,​​ Santo, in Nuovo dizionario di spiritualità, Edizioni Paoline, Roma 1979, 1369-1386;​​ Santità di ieri e santità di oggi, Ave, Roma 1968.

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