RABELAIS François

 

RABELAIS François

n. a Chinon nel 1494 - m. a Parigi nel 1553, umanista francese e critico dei costumi del suo tempo.

1. Ammiratore di​​ ​​ Erasmo, fa parte della generazione di umanisti come Agrippa,​​ ​​ Vives e Budé, che tentano di fissare le basi per l’educazione dell’uomo nuovo. La sua originalità brilla nel suo stile esilarante e sarcastico. R. utilizza la lingua popolare dei chierici erranti del basso​​ ​​ Medioevo. Attraverso i giganti protagonisti della sua famosa opera​​ Gargantua e Pantagruel​​ (1533-1564) ridicolizza l’educazione medievale impartita nelle scuole e nelle università. Gargantua fu educato da un famoso sofista della Sorbona chiamato Thubal Holofernes, che gli fece apprendere il​​ Donato,​​ il​​ Faceto​​ e l’Alanus in parabolis,​​ fino ai tredici anni. Con questi studi Gargantua divenne ogni giorno più pedante e vanitoso, cosa che non passò inosservata a suo padre. Quella educazione ottundeva la gioventù e non era utile all’apprendimento; la soluzione era cambiare sistema e iniziare la rieducazione di suo figlio. Il nuovo maestro Ponocrate gli fece un lavaggio del cervello per eliminare le conoscenze apprese in precedenza. Il suo programma era quello sostenuto da tutti gli umanisti del tempo: gr., lat., ebreo e arabo,​​ ​​ arti liberali (lasciando da parte l’astrologia), studio dell’Antico Testamento,​​ educazione fisica (equitazione, corsa, nuoto, scherma), storia e medicina gr., lat. e araba.

2. La pedagogia di R. era sostenuta dai grandi pedagogisti del suo tempo e dai metodi intuitivi che essi preconizzavano. La sua abbazia di Thélème, simbolo dell’utopia di R., che aveva come motto «Fai ciò che vuoi», preludeva ai principi naturalistici di​​ ​​ Rousseau. Eudemone, protagonista ideale dell’opera di R., educato secondo i suoi principi pedagogici, sa pensare con giudizio e parlare con buon senso; non è superbo, ma è sicuro delle sue idee e del suo modo di agire. Quando Gargantua lo conosce, si rende conto di non aver imparato a parlare e piange disperato, coprendosi il volto con il cappello: il tempo impiegato per la sua educazione era stato inutile e doveva cominciare di nuovo.

Bibliografia

a)​​ Fonti:,​​ Oeuvres complètes, par M. Huchon, Paris, Gallimard,​​ 2002. b)​​ Studi: Giraldi A.,​​ R. e l’educazione del principe,​​ Milano, APE, 1954; Leonarduzzi A.,​​ F.R. e la sua prospettiva pedagogica,​​ Trieste, Tip. Moderna, 1966; Cooper R.,​​ R. et l’Italie,​​ Genève, Droz, 1991; Bajtin M.,​​ La cultura en la Edad Media y en el Renacimiento: el contexto de F.R., Madrid, Alianza, 2005.

B. Delgado

image_pdfimage_print
RABELAIS François

RADIO

 

RADIO

Il binomio radio-catechesi indica un settore di attività e di studio che merita una attenzione maggiore di quanto non gliene venga concessa abitualmente. Perché la situazione cambi è indispensabile lavorare su due fronti: operare nel concreto con coraggio ed efficacia; compiere studi specifici per elaborare criteri capaci di guidare progetti e programmi.

1.​​ La comunicazione radiofonica.​​ La R. è nata all’inizio di questo secolo. Gli scienziati e i tecnici che misero a punto i primi apparecchi pensavano ad un rivoluzionario miglioramento del telegrafo, un​​ telegrafo senza fili​​ per l’appunto. Lo si pensava come uno strumento di comunicazione a due vie, capace cioè di collegare due emittenti tra loro. La sua utilità venne subito intuita e sfruttata dalle società commerciali, dai governi, dai comandi militari. L’idea che potesse esserci una potente stazione emittente con cui si colleghino molti apparecchi​​ soltanto​​ riceventi (comunicazione unidirezionale')​​ è venuta vent’anni dopo. Fu sfruttata come metodo per convincere la gente ad acquistare i ricevitori: ci si riuscì così bene (nel 1921 c’erano in USA 5.000 apparecchi; erano 10.000.000 nel 1929) che l’industria si impadronì della R. come ottimo veicolo pubblicitario. Le emittenti organizzarono i programmi in modo tale da avere un numero massimo di ascoltatori: in base a questo numero potevano contare su un budget proporzionalmente grande dovuto alla pubblicità. I contenuti erano notizie politiche di particolare rilevanza, sport, soprattutto varietà e musica di gusto popolare. La R. serviva per sentirsi in contatto con ciò che stava avvenendo (bisogno di informazione) e per divertire: alla dimensione più strettamente culturale non si offriva che uno spazio minimo.

Questa struttura è rimasta invariata fino ai nostri giorni: al posto dell’industria e della pubblicità ci​​ poté​​ essere un dittatore o una oligarchia, o un padrone, ma la R. è stata sempre pensata come un’emittente centrale che si rivolge ad un pubblico considerato massa di ascoltatori, non reale interlocutore. Gli sviluppi tecnologici, la miniaturizzazione degli apparecchi, il crollo dei prezzi, il perfezionamento delle trasmissioni con il conseguente aumento di canali disponibili, la relativa semplicità di gestione di una stazione hanno diffuso la R. in ogni paese del mondo, tanto che i nove decimi dell’umanità è in grado oggi di ascoltare messaggi R.

La situazione attuale è segnata da un doppio fenomeno:

— nei paesi sviluppati,​​ dopo una flessione dovuta all’avvento della TV, si osserva un ritorno all’ascolto R. su livelli pretelevisivi: la R. ha ridefinito spazi e funzione;

— ovunque​​ c’è la tendenza a volere una R. a dimensioni locali. Contrariamente a quanto si era profetizzato a proposito del “villaggio globale”, le singole comunità difendono gelosamente la loro originalità, la loro storia, e nella ricerca di spazi di comunicazione hanno trovato nella R. uno strumento duttile e accessibile. Da parte di alcuni osservatori questa è ritenuta la vera “idea nuova” da cinquant’anni a questa parte.

2.​​ Radio e programmi religiosi.​​ Può essere interessante ricordar che il primo esperimento riuscito di trasmissione della voce umana via R. fu quello del canadese Fessenden nel 1906: si trattava di una celebrazione religiosa dedicata al Natale. La R. divenne accessibile a un numero più largo di utenti dopo la prima guerra mondiale. Non soltanto programmi di contenuto religioso vennero inseriti nei palinsesti delle varie emittenti; sorsero anche parecchie stazioni R. dedicate esclusivamente a questo tipo di trasmissione. Non ebbero vita facile e molte dovettero chiudere a causa dei gravi costi e della concorrenza fortissima.

Attraverso gli anni e nei diversi paesi le emittenti religiose hanno avuto storie diverse. Oggi ci sono stazioni R. a scopo dichiaratamente religioso dotate di emittenti di grandissima potenza, le quali puntano a raggiungere un pubblico quanto mai diversificato (varie lingue), concretamente non ben valutabile nella sua consistenza numerica (esempi possono essere Radio Vaticana a Roma e Radio Veritas a Manila); ci sono poi R. di piccola e media potenza, legate a un territorio più ristretto, le quali privilegiano la parola di chi nella comunità è ufficialmente delegato alla C. e alla presentazione della Parola di Dio: queste di solito riescono anche ad essere — con varia efficacia — “voce” della popolazione che vive in quel territorio; in fine — come si è già detto — in molte nazioni si osserva la tendenza a far nascere R. che siano espressione della comunità concreta a servizio di tutte le esigenze umane più vere:​​ R. della comunità cristiana,​​ non solo strumento di diffusione di un messaggio religioso. In tutti questi casi la Chiesa rende un grande servizio: educazione religiosa, senso di appartenenza, cultura, informazione sanitaria; in alcuni casi poi — non troppo infrequenti — la Chiesa, grazie alla sua organizzazione e ai suoi contatti internazionali, diventa una specie di “santuario” dove trovano possibilità di vita forze innovatrici e feconde, a cui ben poco spazio verrebbe riconosciuto dalle autorità politiche locali. Quanto poi alla presenza nelle R. commerciali o statali, i programmi religiosi possono andare in onda su iniziativa della R. stessa, oppure su iniziativa di gruppi religiosi che utilizzano per questo tempi garantiti loro dalla legge (in alcuni stati una percentuale delle ore di trasmissione deve essere destinata a programmi di utilità pubblica); è tuttavia regola costante che tali programmi finiscano in fasce orarie assai infelici, sotto la pressione degli inserzionisti pubblicitari che esigono altri programmi per le ore di maggior ascolto.

3.​​ Catechesi e radio.​​ In un tempo in cui il 90% dell’umanità utilizza la R. per sentirsi in contatto con la comunità e con gli avvenimenti in cui vive, è evidente che la radio fa cultura, partecipa cioè alla definizione del contesto di idee, fatti, comportamenti entro cui ciascuno di noi costruisce il suo vivere. La comunità cristiana non può rimanere estranea a quest’area di comunicazione, anche perché ha un preciso servizio da rendere:​​ ri-dire oggi​​ la Buona Notizia di Cristo. A questo proposito si possono proporre alcune osservazioni basilari.

a) Sembra un errore trasferire alla R. le forme di comunicazione religiosa sviluppatesi in strutture di comunicazione dove elemento caratteristico è la partecipazione fisica e la possibilità di interazione diretta: il pubblico di una R. non è il pubblico che ha scelto di andare in chiesa, a una determinata funzione; diversa è la forma di partecipazione e attenzione, diversa la modalità di fruizione (si sta guidando un camion, cuocendo un dolce, manovrando una gru...). Se invece la trasmissione R. di tipo religioso si fissa su moduli tipo “preghiera” o tipo “predica”, “lezione universitaria”, il pubblico si autoseleziona in modo drastico: non si raggiungerà nessuno che non sia già ultramotivato a questo tipo di messaggio. E così si continuerà a contare le pecore rimaste nell’ovile, piuttosto che andare a cercare le altre.

b) Fare comunicazione religiosa alla R., con il progetto di rivolgersi al grande pubblico, è una sfida vera e propria. La R. infatti è utilizzata dal pubblico come colonna sonora che ritma il tempo che trascorre, come sfondo entro cui si colloca la consapevolezza di quanto si sta facendo; a meno che non ci siano informazioni che si è motivati ad ascoltare con attenzione, i programmi si seguono con lo stesso impegno e la stessa concentrazione con cui si parla del più e del meno con un amico. È possibile fare C. accettando di incontrare un pubblico simile? A parte il fatto che non ci sono alternative (o si accetta il pubblico che c’è, o non si parla a nessuno), alcune esperienze positive dimostrano che il messaggio religioso può realmente essere accolto come la Buona Notizia, come la risposta che molti degli ascoltatori si aspettano da tempo di ascoltare per le domande che conservano nel fondo del cuore. L’elemento determinante sembra essere il rispetto dello strumento che si sta usando (si prende sul serio il tipo particolare di comunicazione entro cui ci si colloca) e il rispetto del pubblico che sta in ascolto.

Come esempi — non certo esclusivi — si possono ricordare le trasmissioni curate dal gruppo SERPAL per l’America Latina (scelta del genere radio-dramma, come la forma più adatta per motivare l’attenzione e la partecipazione del pubblico); oppure le conversazioni di G. Pristland alla BBC: un giornalista, laico, con una ricca e travagliata esperienza di vita, che in forma di conversazione parla delle verità religiose, ma come scoprendole all’interno del quotidiano, evitando sia il rischio di apparire “voce ufficiale”, sia la pretesa di costituirsi “osservatore-giudice”. A proposito di questo secondo caso vale la pena toccare un problema che meriterebbe di essere dibattuto: è bene, è giusto affidare un ruolo speciale di “comunicatore” a una persona non appartenente alla gerarchia, libera di parlare a nome proprio e per di più diventata personaggio? A un attento esame di come funziona la comunicazione R. infatti sembrerebbe che questa sia​​ l’unica via da percorrere-,​​ nessuno è disposto ad ascoltare qualcuno che gli parli del modo con cui si possa e si debba vivere, se questo “qualcuno” non ha una faccia familiare e non gode stima di persona autentica e libera (non è un portavoce ufficiale).

c)​​ Impegnarsi a raggiungere il grande pubblico è un servizio che va garantito, ma non è l’esclusivo. È doveroso pensare anche a programmi rivolti a pubblici più ristretti, motivati ad un approfondimento della problematica religiosa. È il caso dell’insegnamento a distanza. Al riguardo ci sono realizzazioni e progetti troppo riusciti per pretendere di inventare tutto da capo.

d)​​ La risposta alla sfida che la comunicazione R. pone all’operatore “religioso” oggi passa anche attraverso opzioni di tipo strutturale. Non basta cioè garantirsi uno spazio all’interno della programmazione della R. nazionale (commerciale o statale non importa); è necessario — per essere autentici e credibili — favorire modelli di comunicazione che rispettino il valore della persona, della comunità, della partecipazione. Spesso infatti la struttura dei media, la loro organizzazione, le finalità perseguite dal gruppo gestore non possono dirsi in nessun modo​​ cristiani.​​ In tal caso una eventuale collaborazione non può che apparire fortemente contraddittoria.

e)​​ Favorire poi la creazione di piccole R. a misura di comunità significa anche optare per un certo tipo di comunicazione all’interno della comunità cristiana, dove la corresponsabilità deve essere valore effettivamente riconosciuto. Ciò porterà forse ad un cammino di fede apparentemente più lento, espresso in un linguaggio meno formale, ma si avrà il vantaggio di far crescere cristiani capaci di dire la loro fede e di collaborare come adulti alla vita della comunità.

Bibliografia

P. Borgomeo et al.,​​ La Chiesa dell’aria. La radio come canale di presenza cristiana,​​ Roma, Ed. Paoline, 1981; G. Coacci,​​ Radio e tv locali. Una nuova frontiera per la cultura,​​ Brescia, La Scuola, 1978; G. Gamaleri,​​ Un posto nell’etere. Le radio locali in Italia,​​ Roma, Ed. Paoline, 1978; M.​​ Kaplun,​​ Producción​​ de​​ programas​​ de radio.​​ El Guión.​​ La​​ realización,​​ CIESPAL, 1978;​​ Locai radio. Hotv​​ communities can​​ partecipate,​​ numero monografico di “Media​​ Development”​​ 3 (1983); N.​​ I. Schwerz,​​ Analise metodológico-contenutistica de “Un tal Jesus”.​​ Modelo​​ SERPAL de catequese para​​ adultos,​​ Roma, Università Pontificia Salesiana (tesi di licenza), 1984; L. Waltermann,​​ La radio come pulpito,​​ in “Concilium”​​ 4 (1968) 3, 116-131.

Franco​​ Lever

image_pdfimage_print
image_pdfimage_print
RADIO

RAGIONAMENTO

 

RAGIONAMENTO

Se un tempo il r. umano è stato ordinariamente campo di indagine della riflessione filosofica oggi è diventato anche oggetto di studio della ricerca psico-pedagogica interessata a scoprire le modalità concrete e le strategie per migliorare le potenzialità soggettive del r.

1.​​ Il r. sillogistico.​​ Sebbene la capacità di r. sia molto complessa, variegata ed estesa, la ricerca si è focalizzata spesso sul r.​​ sillogistico​​ perché permette un esame più controllato delle capacità razionali dell’uomo. Il sillogismo è un r. che si compone di due premesse ed una conclusione e si è soliti evidenziare la distinzione esistente tra r. induttivo e deduttivo. Il primo è anche indicato come​​ reasoning up:​​ il processo mediante il quale da esempi o esperienze particolari si giunge ad affermazioni generali. Il secondo è descritto come​​ reasoning down:​​ un processo mediante il quale da premesse generali si giunge ad affermazioni particolari. Il sillogismo​​ deduttivo​​ è corretto se la conclusione è valida ovvero se questa è inclusa nelle premesse. Se le premesse sono vere anche la conclusione valida sarà vera. Se le premesse sono false anche la conclusione che è valida sarà falsa. Nel sillogismo deduttivo è necessario distinguere validità da verità della conclusione. Il r. sillogistico deduttivo può assumere tre diverse forme: categoriale, lineare e condizionale. I sillogismi​​ categoriali​​ sono chiamati così perché gli operatori di quantità (alcuni, tutti e nessuno) sono presenti sia nelle premesse che nella conclusione. I sillogismi​​ lineari​​ permettono di ordinare in modo chiaro e preciso più informazioni fornite in un modo concatenato. I sillogismi​​ condizionali​​ sono rappresentati da eventi che sono dipendenti o conseguenti al verificarsi di altri. Essi sono espressi mediante le proposizioni «se» e «allora». La prima parte del sillogismo è chiamata «antecedente»; la seconda «conseguente». Sull’interpretazione del modo in cui la mente giunge a delle conclusioni valide e sicure si sono sviluppate recentemente tre teorie: a) la mente umana sarebbe «naturalmente» fornita delle regole della logica formale (Rips, 1983); b) la mente agirebbe con regole inferenziali «sensibili al contenuto» o regole che fanno riferimento a «schemi di un ragionare pragmatico» (Cheng-Holyoak, 1985); c) la mente nel ragionare seguirebbe «modelli di rappresentazione del mondo» piuttosto che le strutture del linguaggio utilizzato per descriverlo (Johnson-Laird - Byrne, 1991).

2. Il processo di induzione.​​ È così pervasivo nella vita di ogni giorno che si può dire che molte delle nostre conoscenze siano conclusioni di induzioni. La capacità della nostra mente di produrre generalizzazioni è fondamentale al nostro vivere e agire: ci permette di categorizzare esperienze e situazioni diverse, di agire velocemente sulla realtà individuando immediatamente le cause, gli elementi comuni o i principi che regolano certi eventi. L’induzione richiede due processi: la generazione dell’ipotesi e la sua valutazione. Data l’indefinibilità del numero di osservazioni necessarie per raggiungere una certezza e l’impossibilità di effettuarle tutte, non si è mai certi che l’ipotesi formulata sia corretta e il pericolo di errore non può mai essere evitato. In particolare si sbaglia nell’individuare leggi generali perché: a) si adottano strategie che tendono più a confermare che a rifiutare le ipotesi; b) si tende a cercare informazioni coerenti con le proprie convinzioni; c) la contiguità temporale porta facilmente al rilevamento di una relazione tra due stimoli o due esperienze; d) spesso eventi inaspettati sono presi maggiormente in considerazione se sono simili, ma un numero piccolo di eventi simili inaspettati può non essere sufficiente a suggerire l’esistenza di una condizione rilevante; e) la conoscenza valida in un dato momento struttura e limita le ipotesi.

3.​​ Il r. informale.​​ Molto comune nella vita quotidiana (ma frequente anche in molte aree di ricerca) sembra essere l’uso di un modo di ragionare​​ indicato come r. di ogni giorno o r. informale​​ (cioè non secondo le regole formali di una logica). Tale modo si esprime in un’affermazione (tesi) e in una sequenza di ragioni (argomentazioni) che intendono provare l’attendibilità dell’affermazione stessa. Le ragioni costituiscono il «perché» del r., la tesi il «che cosa». Quasi mai un r. informale possiede tutte le ragioni a favore né tutte le ragioni hanno la stessa forza probante, né le ragioni sono immutabili. Per questo l’attendibilità o la verità della conclusione non è sempre universalmente accettata, né può essere imposta con la forza di verità. In questo senso Polya (1958) parla di «plausibilità» o «non-plausibilità» di un r. Con ciò non si afferma che essa non potrebbe essere vera o che non possa essere utilizzata perché attendibile fino a prova contraria o che una conclusione possa essere migliore di un’altra che non gode di giustificazioni altrettanto forti ed evidenti.

4.​​ L’educazione della capacità di r.​​ La ricerca fornisce alcuni orientamenti per educare le capacità di un ragionare logico: a) avere fiducia nella ragione educando ad essere corretti nel ragionare; b) esercitare al r. stimolando l’esame e la validità intrinseca delle ragioni che vengono portate per una tesi; c) dare rigore logico al r.; d) valutare attentamente il peso e la varietà delle ragioni; e) conoscere non solo le regole di una logica formale, ma anche quelle del r. in specifiche aree, ecc. Ciò richiede un paziente controllo ed esercizio.

Bibliografia

Polya G.,​​ Les mathématiques et le raisonnement «plausible»,​​ Paris, Villards,​​ 1958; Johnson-Laird P. N.,​​ Modelli mentali,​​ Bologna, Il Mulino,​​ 1983; Rips L. J.,​​ Cognitive processes in propositional reasoning,​​ in «Psychological Review» 90 (1983) 38-71; Cheng P. W. - K. J. Holyoak,​​ Pragmatic reasoning schemas,​​ in «Cognitive Psychology» 17 (1985) 391-416; Johnson-Laird P. N. - R. M. J. Byrne,​​ Deduction,​​ London, Erlbaum, 1991; Garnham A. - J. Oakhill,​​ Thinking and reasoning,​​ Oxford, Blackwell, 1994.

M. Comoglio

image_pdfimage_print
RAGIONAMENTO

RAGIONE / RAGIONEVOLEZZA

 

RAGIONE / RAGIONEVOLEZZA

1. R. è termine dai molteplici, spesso contrastanti, significati: filosofico, teologico, pedagogico, scientifico, ecc. Dal punto di vista pedagogico si può parlare di educare sia al​​ ​​ ragionamento che alla ragionevolezza, ma, più in particolare, della funzione della ragionevolezza nel processo educativo. All’uno e all’altra si riferiscono più voci del dizionario: educare alla r. speculativa (nel significato classico-cristiano), cioè alla sapienza e all’amore e ricerca della sapienza (​​ filosofia), alla contemplazione (teoria); ed educare alla ragion pratica (nel significato classico-cristiano) (​​ prudenza,​​ ​​ saggezza).

2. Il termine ragionevolezza esprime qualcosa di contiguo al concetto di prudenza-saggezza. A rigore, però, vi si distingue quale concetto pedagogico piuttosto empirico, strumentale, esperienziale. Non a caso lo si trova adottato ed elaborato in chiave empiristica da​​ ​​ Locke nei​​ Pensieri sull’educazione​​ (1693) e assunto da un educatore militante, s. G.​​ ​​ Bosco, come uno dei tre principi fondamentali del​​ ​​ sistema preventivo: «Questo sistema si appoggia tutto sopra la r., la religione e sopra l’amorevolezza» (1877). In ambedue gli autori esso è trattato prevalentemente dal punto di vista metodologico: educare​​ con​​ ragionevolezza, ragionevolmente, più che educare​​ alla​​ ragionevolezza. Il secondo tipo di considerazione, semmai, può essere proprio di un tipo di educazione di ispirazione illuministica, prevalentemente inglese, come educazione a una morale, a una religione, a un cristianesimo «senza misteri», «razionale» e «ragionevole» (above reason​​ e​​ reasonable).

3. «Persuadere col ragionamento», «ragionar con i fanciulli» «creature ragionevoli», è il metodo che, secondo Locke, il padre dovrebbe praticare dopo che si sia assicurato la sottomissione del figlio con l’autorità. Non indica un «ragionare che muove da lontani principi», da adulti, ma l’adozione di​​ ragioni​​ su misura dei fanciulli, «adatte alla loro età e intelligenza, ed esposte con poche e semplici parole», «ovvie, al livello della loro mentalità e tali che essi le sentano e le tocchino con mano». Per questo, in sostanza, il mezzo «più semplice, facile ed efficace consiste nel porre sotto i loro occhi gli​​ esempi​​ di ciò che si vuole facciano o non facciano»,​​ «additati​​ nella condotta delle persone da loro conosciute e accompagnati da qualche​​ riflessione​​ sulla loro bellezza o sconvenienza» (Pensieri,​​ nn. 81-82).

4. Il discorso di don Bosco è teoreticamente meno elaborato ma contenutisticamente più ricco. La r.-ragionevolezza ispira diverse attività educative: a) «umanizzare» il giovane mediante il contatto concreto con i valori razionali e terreni: salute, istruzione, lavoro, inserimento sociale con precise capacità professionali e una sicura «onestà» personale e civile; b) creare solide «convinzioni» in campo religioso, morale, sociale, più pratico-vitali che astratte: pietà illuminata, controllo delle «passioni», ordine; c) «ragionare il giovane» con la fondatezza, l’essenzialità, la coerenza e la comprensibilità delle «motivazioni»; d) inoltre, «guadagnare il cuore del giovane», poiché il cuore, oltre che organo dell’amore e del volere, è principio dell’intendere e del comprendere; e) adottare metodi e mezzi educativi (disciplina, regolamenti, organizzazione della comunità educativa, interventi) ispirati a buon senso, semplicità, funzionalità, attenzione alle diversità delle «indoli».

Bibliografia

Sina M.,​​ L’avvento della r. «Reason» e «above reason» dal razionalismo teologico inglese al deismo,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1976; Pellerey M.,​​ La via della r.: rileggendo le parole e le azioni di don Bosco, in «Orientamenti Pedagogici» 35 (1988) 383-396.

P. Braido

image_pdfimage_print
RAGIONE / RAGIONEVOLEZZA

RAMAKRISHNA Sri

 

RAMAKRISHNA Sri

n. nel 1836 a Kamarpukur, villaggio del Bengala - m. nel 1886 nel tempio di Dakshineswar (Calcutta), maestro spirituale indiano.

1. Nato come Sambhuchandra prende poi il nome di R. da «Rama», settima incarnazione di Vishnu e «Krishna» (o Krsna), ottava incarnazione di Vishnu; ambedue sono figure mitologiche dell’​​ ​​ Induismo e rappresentano il divino umanizzato. R. è uno dei personaggi più rilevanti del XIX sec. Il suo insegnamento eclettico risulta dalla penetrazione di varie esperienze mistiche ed appare sintesi riuscita dell’Induismo. R. sa appena leggere e scrivere quando a nove anni riceve il cordone braminico, cioè l’investitura che gli permette di celebrare il culto della famiglia. Successivamente diviene sacerdote.

2. Prima di diventare maestro spirituale, R. è il discepolo che segue scrupolosamente quanto esposto nei 64 principali libri dei Tantra, i testi canonici della setta induista di nome Sakta, e la disciplina della negazione, propria del sistema filosofico-religioso del Vedanta. Nell’aspirazione a Dio, si trova circondato da molti devoti ai quali non offre un sistema di insegnamento, bensì la spinta a condurre una vita intensa, fondata su solidi principi a cui si deve credere al di là delle alterne fortune. R. non ha lasciato testi scritti. I suoi insegnamenti sono stati trascritti e raccolti da discepoli fedeli, primo fra tutti​​ ​​ Vivekananda. Secondo R. tanto il monaco quanto l’uomo comune devono osservare la disciplina​​ ​​ yoga, la meditazione e la preghiera, intesi come mezzi per divenire esempi credibili e persistenti; nessuno può essere il guru di un altro uomo, solo Dio è il guru e il maestro dell’universo.

3. L’insegnamento di R. è uscito dai monasteri dell’India ed è in tutto il mondo motivo ispiratore di centri educativi, scuole, istituti di formazione, ospedali.

Bibliografia

Herbert J. et al.​​ (Edd.),​​ Alla ricerca di Dio,​​ Roma, Astrolabio, 1963; Chistolini S.,​​ R. Vivekananda Gandhi. Maestri senza scuola,​​ Roma, Euroma-La Goliardica, 1992; Isherwood C.,​​ R. e i suoi discepoli, Parma, U. Guanda, 2004.

S. Chistolini

image_pdfimage_print
RAMAKRISHNA Sri

RANWEZ Pierre

 

RANWEZ Pierre

Padre P. R., SJ, nato a Namur il 30-8-1905, morto a Bruxelles il 7-4-1973, ha collaborato nel 1934-1935 alla fondazione del “Centre International Lumen Vitae”. La sua C. era incentrata suH’importanza decisiva del risveglio e dello sviluppo dell’atteggiamento religioso nell’ambito familiare. Egli sosteneva che l’educazione religiosa nella famiglia è all’origine di una autentica crescita umana e cristiana del fanciullo; per i genitori, acuendo il loro senso di responsabilità, è una via privilegiata per approfondire la propria fede. Da questa intuizione è nato il volume​​ Ensemble vers le Seigneur,​​ che P. R. scrisse con l’ausilio di famiglie e di educatori.

A partire dal 1955 P. R. organizzò un corso superiore di cultura religiosa per gli insegnanti di religione delle scuole primarie e secondarie nella parte francofona del Belgio. Il 3-10-1959 fondò la “École Supérieur de Catéchétique LUMEN VITAE”. Tenne il corso di catechesi familiare nel “Centre de Recherche Catéchétique” dell’università cattolica di Lovanio. Fu professore invitato all’Institut de Catéchèse dell’università Lavai (Canada), professore all’Istituto internazionale di catechesi e di pastoraleLumen Vitae”, direttore della École Supérieure de Catéchétique “Lumen Vitae” e membro di diverse

Commissioni interdiocesane riguardanti la C. P. R. aveva una straordinaria comprensione dell’infanzia. Il suo volume​​ A l’aube de la vie chrétienne​​ ne è riprova. Aveva pure una predilezione per l’infanzia con handicap mentale. Durante oltre 20 anni ha cercato, secondo modalità sempre rinnovate, di adattarsi alle loro capacità di comprensione, nell’ambito di un istituto medico-pedagogico.

Bibliografia

Principali pubblicazioni di P.R.:

Ã​​ l’aube de la vie chrétienne,​​ Bruxelles, Ed. Lumen Vitae, 1967. Trad. ital.:​​ L’alba della vita cristiana,​​ Leumann-Torino, LDC, 1968;​​ Ensemble vers le​​ Seigneur,​​ ivi, 1959. Trad. ital.:​​ Insieme verso il Signore,​​ Roma, Ed. Paoline, 1961;​​ Écoute, mon fils,​​ ivi, 1963. Trad. ital.:​​ Mamma, parlami di Gesù,​​ Leumann-Torino, LDC, 1964;​​ Enfant,​​ in​​ Dictionnaire​​ de Spiritualità,​​ vol. 4/1, Paris, Beauchesne, 1960, 714-727.

Scrisse numerosi articoli sulla rivista “Lumen Vitae” e su altre riviste sul tema della formazione religiosa nell’ambito della famiglia.

André Knockaert

image_pdfimage_print
image_pdfimage_print
RANWEZ Pierre

RAPPORTO EDUCATIVO

 

RAPPORTO EDUCATIVO

Aspetto centrale dell’​​ ​​ educazione. La relazione, la comunicazione e l’interazione cui dà luogo o che lo esprimono, evidenziano infatti come l’educazione, anche quando è rivolta al proprio sé (auto-educazione), si pone sempre nell’orizzonte di un «vivere in r.», all’interno di processi storici e di progetti personali e comunitari, nella concretezza dell’interazioni e dei processi di comunicazione interpersonale e sociale, siano essi intenzionali o meno; all’interno di strutture ed istituzioni; nel concreto farsi di società storiche; nella continua interazione con l’ambiente; nella dinamica dei processi produttivi, culturali, civili.

1. Un modo di intendere l’intera azione educativa.​​ A ben vedere la funzione educativa non è tanto funzione dell’educatore o dell’educando, ma piuttosto funzione di un r. tra persone, finalizzata ad uno scopo comune, sociale oltre che personale. In tal senso secondo alcuni il r.e. costituisce il punto di partenza obbligato e realistico di ogni riflessione e di ogni​​ ​​ ermeneutica pedagogica. Tradizionalmente ci si fissava sulle figure ed i ruoli delle persone che entrano in r. È stato questo il luogo privilegiato delle trattazioni riguardanti l’​​ ​​ educatore,​​ ​​ l’educando ed i rispettivi ruoli e funzioni all’interno del processo di sviluppo, di apprendimento e di formazione. È pure in quest’ambito che tradizionalmente veniva ad essere posto il discorso relativo alle cosiddette​​ ​​ antinomie educative, cioè alla serie di contrapposizioni che di fatto o di diritto si giudicano presenti nel r.e. in atto.

2. La centralità della relazione e della comunicazione.​​ Al presente, molte di queste questioni sono riprese a partire dal fenomeno e dai processi della​​ ​​ comunicazione umana. L’accento, più che sulle persone, è posto sul processo. Più che al r., staticamente visualizzato nei suoi aspetti e nelle sue intersezioni, l’attenzione va in primo luogo ai flussi interattivi ed alle ripercussioni che essi hanno sulla crescita delle persone. Tale approccio ha il merito di porre l’educazione nel contesto del vasto mondo dei simboli e dei linguaggi, in quello della cultura e delle sue dinamiche, e nel complesso mondo delle relazioni interpersonali e sociali (anche se oscura un po’ la dimensione di soggettività personale propria dei partner​​ del r.). Peraltro grazie agli studi scientifici e filosofici sul​​ ​​ linguaggio e sull’intersoggettività, si è potuto mettere in luce come il r.e. concorra all’emergenza della soggettività ed identità individuale e comunitaria. Oltre ad essere in qualche modo costitutiva dell’io di coloro che entrano in r., seppure in diverso grado e modo, oltre a farsi noti a se stessi e riconoscersi reciprocamente, nel r.e. si partecipa alla creazione del comune patrimonio d’idee, di valori, di modelli di comportamento e di espressione che diciamo​​ ​​ cultura. In tal modo si mette in risalto come l’educazione diventi momento di costruzione della comunità e del sentimento della cittadinanza.

3.​​ Nell’ambito della comunicazione,​​ delle relazioni e dei r. interpersonali.​​ Come nota​​ ​​ Dewey, ogni genuina comunicazione ha una valenza educativa, in quanto permette un allargamento e un mutamento della propria esperienza, dando adito ad una modificazione più o meno ampia dell’atteggiamento, del comportamento e della sistemazione mentale ed affettiva, sia che si trasmetta o si riceva una comunicazione. All’interno del r.e. ogni azione educativa può essere considerata una comunicazione mediata da simboli. Una tale affermazione, nella sua generalità, ha il vantaggio di essere comprensiva della molteplicità di forme in cui si può tradurre l’intervento educativo e si può esprimere il r.e. Vi può infatti rientrare qualsiasi intervento che, come la comunicazione, può essere intenzionale o solo funzionale, codificato o non del tutto codificato, derivante da fonti anonime o da persone concrete, direttamente o indirettamente, tramite parole o con altri mezzi. In tal modo si evidenzia che il r.e. soggiace alle regole ed al gioco, alle strutture ed alle dinamiche caratterizzanti l’incontro e la comunicazione tra persone, con tutte le sue difficoltà, interferenze, guasti: fino alle forme di vera e propria incomunicabilità, soggezione psicologica, reificazione personale, od altre forme patologiche. Similmente l’educazione appare come una relazione ed un processo interattivo (o, se si vuole, transattivo) nel senso che gli interscambi non sono riducibili alle sole intenzioni o contenuti verbali, ma implicano la creazione di atteggiamenti e di comportamenti globalmente personali con reazioni psicologiche e reinterpretazioni di sé, più o meno vaste, da parte dei partner del r., seppure in diverso grado e modalità d’incidenza. Per designare le polarità del r.e., la pedagogia tradizionalmente, parla in modo schematico di «educatore» e di «educando». In effetti le due polarità personali del r.e. possono essere interpretate unidimensionalmente e singolarmente, cioè come un r. di io-tu, globale o sotto qualche aspetto, naturalmente nel concreto di una situazione di vita; ma possono essere interpretate e vissute pluridimensionalmente e collettivamente, ad es. come individuo-gruppo, insegnante-classe, gruppo-gruppo, collettivo, comunità educativa di educandi e di educatori. Nel r.e. non è senza incidenza la specificazione del «genere» maschile o femminile della relazione, la quale richiede pertanto una sua differenziazione nell’interazione educativa. Anzi non è possibile mettere tra parentesi il carattere strettamente intersoggettivo del r., vale a dire la coscienza e il fatto di trovarsi di fronte a persone che hanno il loro «nome» e «cognome», per cui in sede di pratica educativa e didattica sarà necessaria una precisa attenzione all’​​ ​​ individualizzazione e alla​​ ​​ personalizzazione del r. stesso, non mai del tutto sovrapponibile alla interazione di gruppo o alle dinamiche collettive.

4.​​ La specificità del r.e.​​ All’interno del mondo dei r. interpersonali, il r.e. si specifica per modalità particolari e per gli scopi che regolano la relazione e la comunicazione interpersonale. In primo luogo il r.e. presuppone una situazione relazionale fondamentalmente e specificamente​​ asimmetrica,​​ nel senso che i partner del r. non solo giocano ruoli ed assolvono funzioni diversificate, ma intervengono in condizione di disparità per ciò che riguarda le diverse esigenze vitali e per ciò che concerne esperienza di vita, attitudini, maturità personale, cultura. Si tratta di una disparità specifica, non assoluta, né necessariamente a tutti i livelli, e quindi con la possibilità che risulti inesistente o addirittura capovolta nel tempo o sotto qualche altro aspetto della vita personale. Ad un’attenta riflessione essa si mostra inoltre complementare, nel senso che nel r.e. può trovare esaudimento il bisogno-aspirazione dei partner di partecipare al patrimonio sociale di cultura e di sentirsi coinvolti nel comune e generale processo di trasformazione e di liberazione personale e comunitaria (che fa da orizzonte di senso al r.e.). In un tale contesto sono da assumere le espressioni di​​ ​​ Freire, altrimenti piuttosto eccessive nella loro perentorietà, secondo cui «nessuno educa nessuno, nessuno si educa da solo, tutti si educano insieme nel r. con il mondo». In secondo luogo il r.e. (e la corrispettiva comunicazione e relazione) è da considerare come una​​ particolare «relazione di aiuto»​​ (​​ Rogers). Essa nasce da una «domanda» (più o meno implicita o chiara, individuale e spesso decisamente sociale) che appella ad un sostegno, ad un venire incontro in vista della promozione personale e della buona qualità della vita propria ed altrui («responsabilità educativa»), anche se più che una semplice «risposta» riveste le forme di una «proposta» che legge, interpreta, educa la domanda stessa in r. all’integralità delle istanze da essa avanzate. In tal modo l’aiuto diventa un voler il bene dell’educando. E ciò è constatabile nella​​ particolare tonalità affettiva​​ presente nel r.e., tale che fa parlare di «amore educativo» (con una sua base istintuale emozionale, denominabile​​ eros​​ educativo, e una sua espressione sentimentale, denominabile «affetto educativo»). Come in ogni altra forma di amore umano, specie quando il r.e. raggiunge una certa consistenza relazionale, è facile che in esso si producano momenti di dolore e di gioia, di sofferenza e di soddisfazione, di crisi e d’incomprensione profonda, di sentimento e di odio, di riconoscenza e di rancore, di attaccamento e di distacco, di gelosia e di indifferenza, di calore e di freddezza, di tenerezza e di aggressività, di incomprensione profonda e di finissima empatia, di momenti caldi e di routine noiosa, di differenza e di consonanza intellettuale ed emotiva, etica e religiosa, di vero e proprio transfert psicologico.

5.​​ I​​ caratteri del r.e.​​ L’evidenziazione delle peculiarità del r.e. permette di delineare agevolmente i suoi tratti essenziali. Esso va inteso anzitutto come un​​ r. teleologico,​​ cioè orientato secondo finalità, verso il conseguimento di obiettivi, con contenuti, appunto educativi, in quanto rivolti allo sviluppo e la formazione personale (e in tal senso differenziabili, almeno intenzionalmente e formalmente – anche se magari non materialmente – da finalità, obiettivi e contenuti di altro tipo, ad es. economici, politici, ecclesiali, ecc.). L’intenzionalità educativa può essere sperimentata e vissuta in forma cosciente ed esplicita, ma anche in forma implicita ed indiretta o anche sotto forma vitale, immediata e intuitiva; o ancora a livello di coscienza collettiva, cioè come modo culturale di comportamento (che si produce in costumi, usanze, comportamenti e che è oggettivata nelle istituzioni del sistema sociale di formazione). Essa specifica e regola la relazione, la comunicazione e la dinamica del r.e. È pure evidente che il r.e. si realizza quando c’è effettiva comunicazione ed interazione personale in un quadro intenzionalmente educativo. Il​​ carattere dialogale​​ del r.e. è oggi particolarmente sentito dalla coscienza contemporanea. Tuttavia, anche in questo caso, non significa che l’incontro non vada soggetto a tensioni tra le polarità del r.e. Anzi il carattere dialogale può conseguire alla decisione di dare sbocco positivo ad esse. In effetti fa parte del r.e. una intrinseca​​ dimensione dialettica:​​ ad es. nella linea del «controllo» lungo le polarità di dominanza-sottomissione, di autorità-libertà; oppure nella linea dell’«emozionalità» lungo le polarità di distacco-accettazione, di disistima, rifiuto, distacco o all’opposto di stima, calore, simpatia; o ancora nella linea della «possibilità di educazione» lungo le polarità di auto / etero-educazione, direttività / non direttività, educazione negativa / educazione positiva, auto-realizzazione / condizionamento. Il gioco dialettico del r.e. mette pure in luce l’aspetto dinamico​​ e​​ processuale​​ di esso, nel senso che si attua nel tempo, all’interno della vicenda storica delle persone e dei gruppi storici socialmente organizzati, e pertanto implica momenti privilegiati e di crisi; cicli e periodi soggetti a crescita ed a regressioni, a fissazioni e sviluppi; un laborioso apprendimento, pratico oltre che conoscitivo; una certa disciplina di vita, mentale, affettiva, volitiva e comportamentale; una gradualità ed un certo ordine di successione di contenuti, di atti, di metodi, di tecniche e di mezzi educativi; l’esperienza assimilativa ed elaborativa di quanto viene appreso; ed infine un certo residuo di tensione, non ulteriormente componibile, ma sempre suscettibile di trattamento in presenza di elementi di novità o di mutamento di intenzioni e di volontà. Ad evidenziare il carattere dinamico del r.e., nella tradizione pedagogica si è venuto a dire che etero-educazione ed auto-educazione stanno tra loro in r. inversamente proporzionale: la prima tende a diminuire e proporzionalmente l’altra ad aumentare. Al limite si può arrivare a dire che il r.e. sa che il suo «destino» è di «morire» come tale, quando e nella misura in cui ormai chi è soggetto educando ha competenza di guidare in proprio la crescita personale: un traguardo che non ha tempo stabilito, né unico. In molti casi il r. interpersonale continua. Quello che era l’educatore continua ad essere il padre, la madre, il sacerdote, l’amico, l’amica, il consigliere, il compagno, il concittadino con cui si fa strada insieme nella vita comune (e corrispettivamente quello che era l’educando continua ad essere il figlio, la figlia, ecc.).

6.​​ La situazionalità del r.e.: il fattore ambiente.​​ Nella sua dinamica il r.e. s’intreccia con i flussi comunicativi e con le procedure relazionali dell’ambiente in cui esso si compie come evento. L’attenzione all’​​ ​​ ambiente, non solo geo-fisico (l’habitat),​​ ma sociale, culturale, simbolico (vale a dire quello che si viene a creare nella mente di ognuno a seguito delle stimolazioni provenienti dalla comunicazione interpersonale e sociale) è caratteristica della tradizione pedagogica. Infatti il r.e. si dà sempre all’interno di situazioni di vita informali o appositamente strutturate; e quindi assume carattere differente a seconda di esse e del come esse sono vissute. Il r.e. si realizza normalmente in​​ ​​ istituzioni che accanto alla finalità educativa assolvono ad altre finalità (ad es., in famiglia, in parrocchia, nel sindacato, nel partito) o in istituzioni appositamente organizzate e strutturate (scuola, associazioni educative, giardini d’infanzia, collegi, convitti, università, convegni, seminari, corsi, lezioni) od anche in istituzioni non direttamente educative (associazioni sportive, associazioni ricreative, teatro, luoghi d’incontro, ecc.). Quanto alla dimensione storico-temporale si possono distinguere r.e. relativamente duraturi (come capita nel r. madre / figlio) e r.e. episodici, ma non per questo magari meno importanti o di minore efficacia educativa: si pensi a certi incontri, a certe conversazioni o dialoghi con amici, o con persone, o con grandi personaggi o «immaterialmente» con un libro e oggi «virtualmente» con le star della comunicazione tramite mass-media e new-media.

7.​​ Condizioni e condizionamenti del r.e.​​ Per solito questa costitutiva ed originaria connessione del r.e. con il mondo della natura, della civiltà, delle strutture e delle istituzioni economiche, sociali, culturali, comunicative, politiche e religiose viene considerata quasi solo come limite e condizionamento del processo formativo e dell’intervento educativo. Altrettanto viene detto dell’apparato strutturale bio-psichico soggettivo. Ma tale modo di vedere è decisamente improprio. Infatti la​​ ​​ corporeità umana nella sua struttura biopsichica, l’ambiente geo-fisico originario o variamente manipolato dal lavoro umano, le istituzioni culturali, sociali, politiche, economiche, religiose, le strutture della comunicazione interpersonale e sociale, i processi storici di sviluppo, sono, in senso proprio, condizioni normali ed essenziali dell’essere e del porsi del r.e. Anzi si può affermare che il r.e. dilapida i propri tesori se non dispone di tempo e di luoghi, di mezzi e di strutture pertinenti per svilupparsi. È pur vero che tali condizioni, in sé normali, possono diventare in concreto sorgente di condizionamenti, d’impedimenti, di limiti e di determinismi, che interferiscono negativamente nel processo e nel r.e. o lo rendono perlomeno arduo, dando luogo a squilibri, fissazioni o regressioni di personalità; oppure a forme varie di handicap o di insensibilità, frigidità, inerzia, passività, fissazione, egoismo. Ad altro livello possono configurarsi come massicce interferenze sociologiche, culturali, economiche, politiche, istituzionali, tecniche, come quando parliamo di esclusione sociale, di massificazione, di omologazione, di manipolazione, di alienazione, di oppressione, di discriminazione, di pressione, di angoscia. Ma è nei confronti di tale fondamentale ambiguità delle possibilità e delle​​ ​​ risorse, che va esercitato il carattere correttivo, integrativo o promozionale dell’intervento educativo e della ricerca pedagogica (​​ autorità educativa e​​ ​​ interazione educativa).

Bibliografia

Franta H.,​​ Interazione educativa,​​ Roma, LAS, 1977; Postic M.,​​ La relazione educativa,​​ Roma, Armando, 1983; Pati L.,​​ Pedagogia della comunicazione educativa,​​ Brescia, La Scuola, 1984; Porcheddu A.,​​ Insegnamento e comunicazione,​​ Teramo, Giunti e Lisciani, 1984; Perucca Paparella A.,​​ Genesi e sviluppo della relazione educativa,​​ Brescia, La Scuola, 1987; Caroni V. - V. Iori,​​ Asimmetria nel r.e.,​​ Roma, Armando, 1989; Bombi A. S. - G. Scittarelli,​​ Psicologia del r.e., Firenze, Giunti, 1998; Canevaro A. - A. Chieregatti,​​ La relazione di aiuto. L’incontro con l’altro nelle professioni educative, Roma, Carocci, 1999; Postic M.,​​ La relación educativa: factores institucionales, sociológicos y culturales, Madrid, Narcea,​​ 2000; Di Santo A. M. (Ed.),​​ Pensieri e affetti nella relazione educativa, Roma, Borla, 2002; Stella A.,​​ La relazione educativa. Complessità,​​ transazione e intenzione nel r. educatore-educando, Milano, Guerini, 2002; Masoni M. - B. Mezzani,​​ La relazione educativa, Milano, Angeli, 2004.

C. Nanni

image_pdfimage_print
RAPPORTO EDUCATIVO

RAPPORTO INTERPERSONALE

 

RAPPORTO INTERPERSONALE

1.​​ La C. si svolge sempre attraverso un processo di comunicazione. La comunicazione interpersonale è, in genere, il medio preferito per il processo cat. Nella C., come nelle forme della comunicazione interpersonale, occorre distinguere due dimensioni: quella​​ contenutistica,​​ che riguarda gli aspetti intenzionali della comunicazione cat. (per​​ es.​​ le mete da raggiungere, i contenuti, i materiali didattici, ecc.), e quella​​ relazionale,​​ che comprende il comportamento di contatto delle persone in interazione.

Circa quest’ultimo aspetto della comunicazione cat., va osservato anzitutto che il comportamento di contatto costituisce la situazione sociale o la piattaforma comunicativa. Questa, a sua volta, deriva dalla vicendevole interazione delle persone in comunicazione. Le esperienze delle persone, nel contesto della comunicazione cat., non soltanto influiscono sull’andamento dell’interazione reciproca, ma incidono anche sulla percezione e la valutazione degli aspetti contenutistici della C. Questo ci induce a considerare la necessità, da parte dei responsabili della C., di curare, oltre gli aspetti contenutistici, anche il comportamento intersoggettivo dei partecipanti, al fine di permettere sia uno svolgimento ottimale della comunicazione cat. nel medio interpersonale, sia la creazione di una piattaforma comunicativa che consenta autentiche relazioni personali.

La cura del comportamento interpersonale, in funzione della piattaforma comunicativa, segue i criteri dell’opportunità e dell’efficienza psicologica e delle vicendevoli relazioni. Le trattazioni degli argomenti circa la cura dei comportamenti interpersonali sono comprese nelle diverse categorie pedagogiche: rapporto interpersonale, interazione personale, piattaforma comunicativa, relazioni reciproche.

Sebbene i singoli catechisti facciano quotidianamente l’esperienza che la riuscita della loro attività dipende in prevalenza dal grado in cui riescono a stabilire contatti significativi con le persone in interazione, e nonostante si postuli da tempo, nel campo della C., la necessità di far riferimento a una teoria del comportamento interpersonale, finora possiamo disporre soltanto di singoli contributi (per​​ es.​​ circa la personalità del catechista, il suo atteggiamento) riguardo la creazione di una piattaforma comunicativa positiva per un ottimale svolgimento della C.

Tali contributi sono validi per facilitare autentiche relazioni personali nella comunicazione cat., tuttavia riteniamo che l’aspetto relazionale di questo tipo di interazione debba comprendere l’intero medio interpersonale nella sua pluridimensionalità. In questo senso viene superata la visione abbastanza consueta secondo la quale le relazioni sociali nella comunicazione cat. dipendono prevalentemente dalla personalità del catechista, e si viene a conoscere più facilmente la totalità sociale dell’interazione.

2.​​ In questa totalità del rapporto interpersonale possiamo, fondamentalmente, distinguere tre strutture comunicative: a) le relazioni del catechista con i gruppi di riferimento; b) il rapporto del catechista con le persone alle quali si indirizza la sua attività; c) le relazioni interpersonali all’interno del gruppo dei partecipanti. Queste tre strutture comunicative non sono isolate tra loro, ma​​ interdipendono​​ e vengono a costituire la piattaforma comunicativa nel processo della comunicazione cat.

Riferendoci alla prima struttura comunicativa, che riguarda il rapporto personale del catechista con i gruppi di riferimento (per​​ es.​​ scuola, parrocchia, gruppo dei genitori) e coi colleghi, c’è da dire che quanto più l’interazione e i contenuti della C. sono concordati tra il catechista e i gruppi di riferimento e quanto più egli stabilisce un contatto di cooperazione (per es. aiuti vicendevoli, scambio di idee) con gli altri catechisti con i quali collabora, tanto più si crea un rapporto collegiale che meglio dispone il catechista a corrispondere alle aspettative di ruolo, fornendogli sostegno ad una interazione più soddisfacente nello svolgimento del proprio compito.

La seconda struttura comunicativa catechista-partecipanti costituisce la dimensione più importante nel processo della comunicazione cat.

La creazione di relazioni interpersonali significative dipende, anzitutto, da come il gruppo percepisce il catechista nei confronti dei contenuti da lui esposti.

Le persone in interazione sperimentano, verso il catechista, apertura e fiducia nella sua comunicazione quando percepiscono che egli stesso si impegna a comprendere il messaggio cristiano e a trasmetterlo nel rispetto degli altri. Qualora il catechista manifestasse atteggiamenti autoritari, di indifferenza (per es. moralizzando, diagnostizzando, persuadendo), sorgerebbero facilmente disturbi comunicativi nel gruppo e diverrebbe difficile creare una positiva piattaforma comunicativa.

Tuttavia il rapporto tra catechista e partecipanti dipende fondamentalmente da come il catechista stabilisce il suo contatto con le persone alle quali si indirizza la sua attività cat.

Il contatto diventa significativo da parte del catechista se egli riesce a controllare le sue dinamiche inconsce (per es. essere libero dalle proiezioni ed evitare di entrare in controtransfert), se è capace di avere una percezione interpersonale discreta (per es. non è soggetto a percezione stereotipa), se è in grado di nutrire positivi atteggiamenti umani (calore umano autentico, cordialità, comprensione), se dispone di sufficienti competenze comunicative (per es. essere capace di comunicare in modo diretto, percepire i conflitti e trattarli in modo cooperativo), se riesce a gestire la comunicazione regolativa o la disciplina, in collaborazione con le persone in interazione e, infine, se partecipa in modo attivo e autentico all’interazione stessa. Circa quest’ultimo aspetto c’è da dire che l’impegno autentico non soltanto metacomunica l’interesse del catechista per i partecipanti alla C., ma fornisce anche una testimonianza vissuta della sua relazione esperienziale con Dio. Per cui le qualità processuali sopraindicate che caratterizzano il contatto personale del catecheta con gli alunni, facilitano non soltanto la comunicazione circa Dio e il mondo, ma aiutano a creare le condizioni perché si costituisca anche un rapporto tra i partecipanti alla C. e Dio.

La terza struttura comunicativa riguarda le relazioni interpersonali tra i membri del gruppo, ai quali è indirizzata la C. Quando, per es., in questo gruppo esistono dei “cliques” o sottogruppi che interagiscono per raggiungere un loro interesse, quando gli alunni stabiliscono degli standards e delle norme sulla comunicazione in divergenza con quelli concordati nel gruppo catechista-partecipanti, allora facilmente sorgono dei disturbi comunicativi nello svolgimento del processo cat.

Di fronte all’importanza delle reciproche relazioni nel gruppo dei partecipanti, può accadere che il catechista debba curare l’interazione nel gruppo per facilitare la comunicazione cat. Le reciproche relazioni nella comunicazione cat., in cui il medio è la comunicazione interpersonale, interdipendono, quindi, con le strutture comunicative del catechista verso i suoi gruppi di riferimento e con le relazioni interpersonali nel gruppo dei partecipanti.

Resta infine da osservare che la teoria circa le relazioni interpersonali per la comunicazione cat. dovrebbe basarsi sui contributi della comunicazione pragmatica (intesi qui come contributi sull’opportunità ed efficienza psicologica del comportamento relazionale delle persone), relativi alle singole qualità processuali al fine di costituire una significativa piattaforma comunicativa; il modo con cui quest’ultima viene impostata riguarda, comunque, la disciplina della catechesi stessa. Soltanto in questo caso si verrà a creare una teoria che da un lato si fonda sulle leggi del comportamento interpersonale, e dall’altro rispecchia l’interpretazione dell’intersoggettività nel senso cristiano, cioè quello comune che ha come principio il rapporto con Dio stesso.

Bibliografia

H.​​ Dreesmann,​​ Unterrichtsklima,​​ Weinheim, Beltz,​​ 1982; A. Exeler,​​ Der Religionslehrer als Zeuge,​​ in “Katechetische Blätter» 106 (1981) 3-14; H.​​ Franta,​​ Atmosfera scolastica, relazioni sociali nella classe,​​ Roma, LAS, 1985; H. Franta – G. Salonia,​​ Comunicazione interpersonale, teoria e pratica,​​ Roma, LAS, 1979; R.​​ Tausch –​​ A.​​ Tausch,​​ Erziehungspsychologie,​​ Göttingen,​​ C. J.​​ Hogrefe,​​ 1977’.

Herbert Franta

image_pdfimage_print
image_pdfimage_print
RAPPORTO INTERPERSONALE

rappresentazione della CONOSCENZA

 

CONOSCENZA:​​ rappresentazione della

Rispetto al passato, in cui prevaleva la ricerca di tipo filosofico sulla natura della c., gli studiosi contemporanei sembrano preferire la ricerca su come la c. sia rappresentabile, su come si trovi nella mente umana, su quanti e quali tipi di c. l’uomo disponga, su come la c. muti, si trasformi, venga acquisita o rimanga nella memoria a lungo termine. Possiamo immaginare la mente come la sede nella quale conserviamo, elaboriamo, organizziamo, inventiamo c. e informazioni. Nel 1972 Tulving ipotizzò un doppio archivio di c.:​​ episodiche​​ e​​ semantiche.​​ Le prime sarebbero c. che si riferiscono a esperienze personali spazialmente e temporalmente definite. Le seconde, di natura più astratta, esprimono l’essenza di qualcosa e su di esse si possono compiere operazioni logiche e inferenziali che non è possibile fare sulle prime. La distinzione di Tulving ha indotto gli studiosi ad analizzare altri tipi di c.

1.​​ Le c. dichiarative.​​ I vari tipi di c. riferentisi a «qualcosa» sono in genere indicati come c.​​ dichiarative.​​ Esse includono tutte le informazioni, sia sensoriali che semantiche che possediamo del mondo che ci circonda. Sono di diversa provenienza e di diverso livello di astrazione; possono appartenere ad un’identica area di significato o di oggetti ed essere in vario modo collegate tra loro o richiamarsi a vicenda. In ogni caso costituiscono la rappresentazione che abbiamo delle cose, degli eventi o delle situazioni del mondo e dell’ambiente nel quale viviamo. Hanno una importanza straordinaria perché ci permettono di muoverci velocemente nella grande complessità della realtà circostante, di categorizzare, di formulare ipotesi, di inferire, di comunicare, ecc. Paivio (Clark-Paivio, 1987) ha sostenuto che, oltre ad un archivio per le informazioni episodiche e semantiche, vi sia nella memoria anche un archivio di​​ immagini.​​ La sua tesi è sostenuta da varie ricerche, anche se non è mancato chi non ha condiviso questa posizione. L’esigenza di ipotizzare differenti processi ed archivi si è inizialmente fondata sulla constatazione che parole ed immagini hanno una realtà profondamente diversa. Le prime sono rappresentazioni simboliche di caratteristiche fonetiche; sono costituite da unità separabili e combinate secondo un ordine sequenziale. Il linguaggio verbale deve essere necessariamente sequenziale, pena la perdita di significato. Diverso è il codice visivo, dove le parti e le unità sono integrate, formano un continuo, sono analoghe agli oggetti reali, sono rappresentazioni olistiche e le varie parti non possono essere distinte, come invece accade per le lettere di una parola. L’uso di moderne metodologie di analisi ha fornito in questo campo dati di estremo interesse. Le rotazioni di immagini mentali hanno presentato caratteristiche assai simili a quelle che avvengono nella realtà. Il tempo necessario per esaminare un’immagine mentale si è dimostrato più o meno lungo a seconda della distanza dell’elemento da trovare dal punto di partenza. I processi connessi a compiti di immaginazione o percettivi, indagati mediante la tecnica del controllo del flusso ematico con emissione di positroni (PET) sembrano essere localizzati in specifiche parti della corteccia cerebrale (Kosslyn et al., 1993). Il movimento svolto o previsto è stato riscontrato corrispondente alla combinazione di vettori di cellule neuronali che indicano la direzione. In generale questo tipo di c. sembrerebbe globalmente possedere intrinsecamente le proprietà degli oggetti e degli eventi; avere una funzione importantissima per il riconoscimento di qualche cosa che viene percepito; mantenere informazioni che al momento dell’acquisizione possono essere riconosciute come poco importanti.

2.​​ Le c. semantiche.​​ Un secondo tipo di rappresentazione di c. è quella simbolica e riferibile all’area dei significati, ai contenuti semantici. La ricerca ha presentato molti modelli di rappresentazione semantica differenziantisi per l’ampiezza dell’unità che intendono rappresentare (parole, frasi, unità più complesse) e per il modo di rappresentarle. Tutti i modelli hanno la caratteristica comune di usare dei simboli: alcuni rappresentano le c. gerarchicamente a forma d’albero o di rete, altri attraverso un elenco a cui vengono associate procedure per la loro interpretazione. La proposizionale è stata la modalità più comune e diffusa. Questa modalità, rispetto a quella per immagini che mantiene «intrinsecamente» la struttura dell’oggetto rappresentato, usa un sistema arbitrario e simbolico e per questo mantiene «estrinsecamente» la struttura della c. rappresentata. A sostenere l’idea che la rappresentazione sia in grado di descrivere con una certa attendibilità le c. nella mente hanno contribuito diverse ricerche evidenziando come testi con lo stesso numero di parole richiedessero più tempo di lettura se contenevano un maggior numero di proposizioni oppure che il tempo di ricupero di parole lette in testi variasse a seconda che le parole si trovavano nella stessa proposizione o in proposizioni diverse. Questa modalità di rappresentazione ha avuto una grande diffusione sia nel campo della ricerca psicologica che educativa (costruzione delle mappe semantiche, educazione alla lettura e comprensione, apprendere da testo scritto), perché si è dimostrato un procedimento estremamente efficace e flessibile per rappresentare c. non riducibili a quelle concettuali, ma dotate di una complessità tale da essere assimilabili a quelle espresse in testi linguistici. La stessa linea di ricerca ha rilevato anche la presenza nella mente di c. complesse indicate con vari nomi:​​ script,​​ frame,​​ schemi,​​ mental model,​​ cognitive map.​​ Esse hanno in comune la particolarità di contenere le caratteristiche con cui un certo oggetto o evento abitualmente si presenta. Lo​​ script​​ ad es. rappresenta c. complesse costituite da una sequenza temporale di scene, il​​ frame​​ o lo schema rappresentano in genere scene (una stanza) che condividono elementi (muri, soffitto, pavimento, mobilio, quadri, luce, ecc.), forma (rettangolare o squadrata), grandezza (tra i 16 e i 25 mq.) ecc. I​​ mental model​​ rappresentano c. proposizionalmente descrivibili, ma per alcuni miste anche a rappresentazioni analogiche, varianti da persona a persona, da situazione a situazione, esperienze vissute.

3.​​ Le c. procedurali.​​ Dalle c. semantiche vanno distinte le c.​​ procedurali.​​ Esse riguardano azioni, cioè tutte quelle informazioni che una persona possiede relativamente al modo di fare qualcosa. Ad es., sono c. procedurali quelle suggerite da un insegnante ad un alunno perché impari ascrivere, a memorizzare, a calcolare. Le c.-azioni sono rappresentabili attraverso l’indicazione delle​​ procedure​​ che devono essere eseguite (Anderson, 1983). La ricerca su questo tipo di c. non è stata amplissima anche perché l’efficacia del suo uso è stata immediata e grandissima. Le evidenze più forti sono venute dall’osservazione delle persone affette da amnesia: esse perdono la memoria delle c. dichiarative, ma non di quelle procedurali. Anche gli errori commessi da studenti nelle prestazioni cognitive spesso rivelano un errore o un deficit nella c. procedurale che dovrebbe guidarli nella loro attività. La teoria della c. procedurale ha avuto anche una interessante applicazione nell’apprendimento di abilità. Secondo Anderson (1987) un’abilità verrebbe inizialmente appresa come dichiarativa e solo con l’esercizio e il transfer diventerebbe automatizzata e sarebbe archiviata nella memoria procedurale a lungo termine. L’automatizzazione nelle prestazioni spiegherebbe le differenze tra esperti e principianti. Gli esperti avendo automatizzato le c. dichiarative necessarie per l’esecuzione del compito possono attuare le loro prestazioni in modo più rapido alleggerendo il peso della memoria lavoro. Le conseguenze educative e le possibilità esplicative di molti comportamenti sono state amplissime. Nel campo educativo la teoria della c. procedurale offre un modello di riferimento per stabilire obiettivi di apprendimento, comprendere gli errori di prestazioni e suggerire come intervenire.

4.​​ La c. esplicita e la c. implicita.​​ Se invece di osservare le c. a partire dalla loro realtà, le si considera attraverso il modo in cui possono essere acquisite, esse si distinguono in esplicite e implicite. Le prime sono c. sia dichiarative che procedurali il cui momento di acquisizione è conscio e ricuperabile; le seconde, al contrario, sono quelle il cui ricordo non è posseduto dal soggetto anche se questi dimostra di possederle e di utilizzarle. Sebbene vi possa essere una relazione tra i due tipi di c., alcuni dati di ricerche sembrano dimostrare che esse sono mantenute in archivi diversi (Schacter, 1987; Schacter - Tulving, 1994).

5.​​ Conclusione.​​ La rappresentazione delle c. costituisce certamente la novità maggiore prodotta dalla ricerca cognitivista di questi ultimi decenni. Essa è anche al centro dell’interesse di un nuovo ambito di studi rappresentato dal connessionismo che invece di assumere come «paradigma» interpretativo la metafora del computer assume il cervello. Da questo punto di vista la c. è il prodotto di molte interazioni tra molti elementi semplici come i neuroni tali da formare delle «reti neurali».

Bibliografia

Tulving E. - W. Donaldson (Edd.),​​ Organization of memory,​​ New York, Academic Press, 1972;​​ Skill acquisition: compilation of weak-method problem solutions,​​ in «Psychological Review» 94 (1987) 192-210; Clark J. M. - A. Paivio, «A dual coding perspective on encoding processes», in M. A. McDaniel - M. Pressley (Edd.),​​ Imagery and related mnemonic processes: theories,​​ individual differences and applications,​​ New York, Springer-Verlag, 1987, 5-33; Schacter D. L.,​​ Implicit memory: history and current status,​​ in «Journal of Experimental Psychology: Learning, Memory, and Cognition» 13 (1987) 501-518; Kosslyn S. M. et al.,​​ Visual mental imagery activates topographically organized visual cortex: PET investigations,​​ in «Journal of Cognitive Neuroscience» 5 (1993) 263-287; Schacter D. L. - E. Tulving (Edd.),​​ Memory systems 1994,​​ Cambridge, MIT Press, 1994.

M. Comoglio

image_pdfimage_print
rappresentazione della CONOSCENZA

RATIO STUDIORUM

 

RATIO STUDIORUM

Metodi e pratiche pedagogiche sperimentati ripetutamente nei collegi della Compagnia di Gesù (​​ Gesuiti) durante quattro secoli, che furono radunati e vagliati per costituire una norma strutturata della pedagogia, senza negare la convenienza degli opportuni accomodamenti ai luoghi, tempi e persone. Il preposito generale C. Acquaviva ordinò la sua redazione definitiva nel 1599; in essa s’integravano gli esperimenti pratici del Collegio di Messina e quelli del Collegio Romano, in accordo con la parte IV delle​​ Costituzioni. A​​ partire dal 1832, la​​ r.s.​​ dovette essere adattata per proteggerla dalle ingerenze dei poteri pubblici.

1.​​ Struttura fondamentale.​​ Questa impostazione degli studi divide l’insegnamento in tre tappe:​​ studi umanistici,​​ filosofia​​ e​​ teologia.​​ A​​ loro volta, gli studi umanistici si dividevano in tre categorie:​​ grammatica,​​ studi letterari​​ e​​ retorica.​​ La grammatica era divisa ancora in​​ infima,​​ media​​ e​​ suprema.​​ Ogni livello stabiliva gli autori classici che dovevano essere spiegati (Cicerone, Virgilio, Orazio, ecc.). Come materie complementari, la​​ storia​​ e​​ l’erudizione.​​ Il corso di​​ filosofia​​ si divideva in: 1)​​ logica​​ e​​ metafisica generale,​​ con​​ matematica elementare; 2)​​ cosmologia e psicologia,​​ insieme alla​​ fisica​​ e alla​​ chimica;​​ 3)​​ teodicea​​ ed​​ etica,​​ con l’aggiunta della​​ matematica​​ e della​​ storia naturale.​​ Gli studi di​​ teologia​​ erano impostati secondo la​​ scolastica,​​ in particolare​​ ​​ Tommaso d’Aquino, insieme alla​​ teologia​​ Positiva: Sacra Scrittura​​ (Nuovo e Vecchio Testamento),​​ Canoni​​ e casi di teologia morale (casus conscientiae).

2.​​ Fondamento pedagogico.​​ La r.s. è la risposta metodologica ad alcuni principi e finalità previ che costituivano l’ideale educativo dei primi gesuiti: l’umanesimo cristiano. Ignazio di​​ ​​ Loyola sperimentò il valore e la necessità della formazione accademica che lo preparò alla fondazione di un Ordine religioso eminentemente educativo. Ritenne basilare un atteggiamento attivo del discepolo, coadiuvato dall’esperienza del maestro, sottolineando perciò l’importanza della relazione maestro-discepolo, nonché il progredire dello studente grado per grado.

Bibliografia

a)​​ Fonti: R. atque institutio s. S. I.​​ (1586, 1591, 1599), Roma, IHSI, 1986, ediz. in MHSI, 129;​​ La «r.s.». Il metodo degli studi umanistici nei collegi dei gesuiti alla fine del secolo XVI,​​ a cura dei Gesuiti de «La Civiltà Cattolica» e di San Fedele, Milano, 1989. b)​​ Studi:​​ Trossarelli F.,​​ La pedagogia dei Gesuiti dalla tradizione ad oggi,​​ Roma, 1973; Bertrán M. Ma,​​ «Introducción», in C. Labrador et al.,​​ La «r.s.» de los jesuitas,​​ Madrid, Universidad Comillas,​​ 1986;​​ R. atque institutio studiorum Societatis Iesu. Introduzione e traduzione​​ di​​ A. Bianchi, testo latino a fronte, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 2002.

F.-J. de Lasala

image_pdfimage_print
RATIO STUDIORUM
image_pdfimage_print