PREGHIERA
Enzo Bianchi
1. La problematica odierna attorno alla preghiera cristiana
1.1. La secolarizzazione e il primato dell’azione
1.2. Il risveglio religioso degli anni ’70
1.3. E oggi?
2. L’attuale situazione giovanile e la preghiera cristiana
3. La preghiera cristiana
3.1. L’ascolto
3.2. La contemplazione della presenza di Dio
3.3. Il dialogo e la comunicazione con Dio
4. Come pregare: indicazioni pastorali
4.1. Prima di pregare riconciliati con tuo fratello
4.2. Quando preghi, ritirati nella tua camera
4.3. Tutto ciò che chiederete nel mio Nome lo farò
4.4. Pregare con umiltà come il pubblicano
4.5. Pregare insieme, accordandosi con i fratelli
4.6. Pregare con fiducia
4.7. Pregare sempre senza stancarsi
5. Le difficoltà e gli ostacoli alla preghiera
5.1. Non ho tempo
5.2. Ho delle distrazioni
5.3. Sono incostante
5.4. Lavorare, impegnarsi è pregare
6. Conclusione
6.1. L’eucaristia, culmine della preghiera
6.2. Le Scritture, nutrimento della preghiera
6.3. Preghiera e silenzio
6.4. Aiutarsi a pregare
La vicenda della preghiera è intrinsecamente legata alla vicenda della fede e di conseguenza alla dinamica del fenomeno religioso nella storia e nella cultura. L'homo religiosus è universale e la preghiera appare come un’esperienza religiosa fondamentale nel cristianesimo e fuori di esso. Non è possibile quindi prendere in considerazione l’esperienza della fede senza giungere a considerare la preghiera che della fede è la capacità eloquente, la modalità parlante. Vivere da cristiano significa innanzitutto vivere nella preghiera cioè credere, aderire al Signore Dio stabilendo con lui un rapporto, una relazione dialogica, parlante, conoscitiva, penetrante, espressa dalla categoria biblica dell’Alleanza. Fede, speranza e carità, le tre virtù teologali, vengono proprio unite e vissute attraverso la preghiera nella quale il credente si rivolge a un tu personale, vivente, presente e operante che è il Signore, manifestando l’adesione a lui, l’attesa da lui di ogni bene, l’amore per lui: solo così si accede a una comunione (koinonia) che ha la sua fonte e la sua destinazione nella Triunità di Dio Padre, Figlio e Spirito santo.
1. La problematica odierna attorno alla preghiera cristiana
La realtà della preghiera quale si presenta nel mondo cristiano attuale e in special modo nel mondo giovanile non è di facile discernimento e di chiara lettura. Chi può dire con certezza se la preghiera va inesorabilmente scomparendo o se sta irresistibilmente riaffermandosi?
È sufficiente tentare una lettura della vicenda della preghiera negli ultimi decenni per rendersi conto, con un sentimento di sorpresa, dei cambiamenti e delle mutazioni imprevedibili nell’evoluzione avvenuta.
1.1. La secolarizzazione e il primato dell’azione
Il processo di secolarizzazione e l’assunzione di problematiche rivoluzionarie negli anni ’60 avevano messo fortemente in crisi la preghiera. Col movimento del ’68 molti giovani rifiutavano la preghiera come un dato del passato, un incentivo all’evasione dalla prassi, un alibi rispetto alle responsabilità e ai compiti urgenti dell’uomo nella storia. Si affermava con risolutezza il primato della prassi, dell’azione politica rispetto a ogni forma di contemplazione e tutta l’attenzione era rivolta all’incarnazione delle istanze evangeliche nel sociale e nel mondano. Il primato dell’azione portava a una stima quasi totalitaria del lavoro in questo mondo, del servizio tra gli uomini, della carità infraumana e l’affermazione del primato politico sociale collettivo prevaleva sulla solitudine, sul silenzio, sul deserto, che apparivano momenti di ripiegamento egoistico su sé stessi. Così culturalmente la preghiera diventava un elemento del passato e spiritualmente appariva come un ghetto stretto da cui uscire per essere cristiani efficaci nel mondo.
1.2. Il risveglio religioso degli anni ’70
Poi negli anni ’70 si assiste a un ritorno della preghiera e in generale a una riscoperta della spiritualità. È stato questo solo un ritorno al fenomeno religioso? Difficile discernerlo! La fatica dell’azione, l’impossibilità della rivoluzione permanente, della lotta continua, la mancanza di un risultato nella prassi di tanti cristiani militanti aprirono di fatto e abbastanza rapidamente a una nuova situazione, con esigenze nuove. La cosiddetta svolta a Oriente con i viaggi-pellegrinaggi in India, la scoperta di tecniche di preghiera e di meditazione orientale, il ritorno a un vivere il cristianesimo in senso movimentistico accompagnati in quegli anni dall’attuazione della riforma liturgica nella chiesa, parevano indicare un risveglio, un vero e proprio ritorno alla preghiera, testimoniato e reso visibile anche con il crescere di gruppi spontanei incentrati sulla preghiera, sulla lettura della Bibbia, e con un ricorso a differenti centri di spiritualità (comunità, monasteri) aperti all’ospitalità. Si assiste alla creazione di nuovi testi liturgici soprattutto nelle comunità monastiche e nelle comunità di base, il Salterio viene riscoperto, emerge un’attenzione alle espressioni corporali fino ad allora sconosciute, si dà spazio alla parola condivisa o, negli ambienti carismatici, a espressioni libere e inattese, qua e là appaiono iconi e ceri. La preghiera assume cioè dei connotati più esteriori, più comunitari e più sentimentali.
1.3. E oggi?
Ma già all’inizio degli anni ’80 (si consideri questa periodizzazione di fenomeni complessi soltanto indicativa e inevitabilmente approssimativa) l’evoluzione appare nuovamente mutata. L’interesse per l’Oriente, le tecniche di meditazione, lo yoga cristiano, lo zen appare di molto affievolito; nei movimenti carismatici l’attenzione è rivolta maggiormente allo straordinario di possibili guarigioni, appaiono nuovi luoghi di preghiera legati ad apparizioni e presso le comunità monastiche e i centri di spiritualità la preghiera è sempre più quella liturgica o quella legata alla «lectio divina» cioè alla preghiera fatta attraverso la lettura e la meditazione della Bibbia. Spontaneamente i giovani non ricercano più innanzitutto la preghiera, ma il dialogo sui temi drammatici che attraversano la coscienza giovanile, potremmo dire che ricercano forme diverse di accompagnamento spirituale, di direzione spirituale, di staretz e trovano la preghiera come un mezzo insostituibile e necessario per la loro vita. Parallelamente nascono scuole di preghiera organizzate dalle diocesi e sovente volute e guidate dai vescovi stessi in prima persona, mentre nei movimenti l’attenzione maggiore torna al tema della collocazione efficace del cristiano nel mondo e nella storia. Attualmente si registra dunque da un lato una crescente offerta da parte degli organismi istituzionali ecclesiali di scuole, corsi, occasioni di preghiera, ma dall’altro lato si ha l’impressione che la preghiera sia collocata all’interno delle domande riguardanti la vita spirituale. Nella chiesa la preghiera dominante e partecipata è sempre più quella liturgica o quella collettiva in assemblee e gruppi radunati con una finalità precisa: scoperta della vocazione, discernimento degli impegni da assumere, organizzazione della carità, proclamazione dei diritti dell’uomo, preghiera per la pace: dunque emergenza della preghiera collettiva fatta con finalità ecclesiali o sociali precise. Così, a noi pare che la preghiera personale sia sempre meno richiesta, insegnata e di conseguenza praticata.
Certamente questa evoluzione descritta richiederebbe tempi e spazi più lunghi per una valutazione più certa e precisa: non resta altro che cogliere le linee di tendenza soprattutto nella situazione specifica della chiesa italiana. Non si può comunque non rilevare come la chiesa italiana in questi ultimi anni si sia impegnata soprattutto nell’organizzazione della carità, nell’assunzione di compiti di pace, di giustizia, di difesa dei diritti dell’uomo, insomma nel fare il bene secondo le esigenze odierne. Ma qui si corre un grande rischio: l’edificazione di una chiesa attiva, efficace, presente nelle diverse situazioni di bisogno, ma una costruzione in cui di fatto si antepone l’impegno prefissato e la propria osservanza dei comandamenti alla risposta obbediente, alla chiamata assoluta e libera del Signore. Anche questa tendenza pastorale ecclesiale può incidere fortemente sulla preghiera che deve restare luogo di incontro gratuito con il Signore, celebrazione dell’Alleanza, e che quindi deve sempre essere anche preghiera personale, quotidiana, perseverante di chi si appresta ad accogliere la chiamata del Signore senza predeterminare in antecedenza le prestazioni, l’obbedienza. Infine, non va dimenticato che la prassi della preghiera muta molto a secondo delle fascie sociali di credenti perché queste presentano indici di cristianizzazione molto diversi. Una tale analisi non rientra nei nostri compiti, ma non si dimentichi che i giovani delle grandi periferie e della campagna, non legati a movimenti e senza una vita parrocchiale, non sanno neppure più cosa sia la preghiera e quindi sono incapaci di mettersi in qualsiasi atteggiamento di preghiera, pur dicendosi a volte cattolici e credenti in Gesù Cristo. Ma anche qui appare come fede vissuta e preghiera siano intrinsecamente legati.
2. L’attuale situazione giovanile e la preghiera cristiana
Le nuove generazioni giovanili mostrano i segni di essere informate da un nuovo clima ideologico il cui orizzonte non è più la secolarizzazione, né l’ideologia rivoluzionaria né la morte di Dio né la svolta a Oriente.
Il clima culturale in cui crescono i giovani oggi è contrassegnato da una sempre maggiore lontananza da Dio e quindi dal problema della fede, un clima in cui — si potrebbe dire — rinascono gli dèi molteplici e diversi, un nuovo politeismo. Il giovane di oggi appare come un individuo che esperimenta in sé stesso molti sé, ognuno dei quali è percepito come dotato di vita propria che si esprime e vive senza alcun riguardo alla volontà centrale dell’io personale. La cultura dominante è sempre più politeistica, non conosce più il rigoroso e decisivo aut-aut, ma si rivolge sempre di più all’entrambi, all’et-et, all’e-e: questo e quello. Cielo e terra si popolano di dèi, di miti, di modelli che quando si manifestano nel vissuto sono sentiti come potenze che guidano e danno forma ai comportamenti sociali, intellettuali, personali: gli dèi come modelli di esistenza, simboli che permettono di spiegare, esprimere e anche celebrare i molteplici aspetti della realtà che apparirebbero altrimenti anarchici e sconnessi. In tale situazione non c’è posto per un Dio come riferimento unico che dà unità al vivere quotidiano e che esprime delle esigenze di ethos da vivere quotidianamente, e si rischia di andare incontro a una schizofrenia umana e spirituale, a una dissoluzione della persona perché gli stessi, sensi obbedienti allo stimolo di modelli contraddittori, finiscono per essere ammalati di senescenza e di impotenza precoci. Non a caso appare dunque tra i giovani, anche se non con piena consapevolezza, la domanda di senso e quindi l’attesa di una risposta al problema del significato. Significato della vita, del quotidiano, dell’impegno, dello studio, del lavoro, delle relazioni di tutto ciò che fa la vita di un giovane.
Se in questa ricerca di senso c’è il riferimento religioso questo avviene sempre di più a scapito della fede e appare come un ricorso a una dimensione culturale possibile e a volte ritenuta necessaria quale portatrice di valori umani.
La stessa domanda di una nuova qualità di vita, di un innegabile bisogno di senso che permane anche al di là della soddisfazione delle esigenze materiali della vita, non giunge a essere espressa in modo lucido e personale: molti giovani non sanno esprimere ciò che si portano dentro e spesso formulano desideri e progetti secondo le parole alla moda, accogliendo in modo passivo dalle epressioni socio-ambientali i modelli di autorealizzazione.
Lo stesso recupero del personale come cerniera tra il collettivo e il privato appare sconnesso, ma questo è dovuto a un «io» sfilacciato, impedito nella sua emergenza di io unificato, capace di essere soggetto autentico nel quotidiano rapporto con gli altri e con la società. Il meccanismo del consumismo, il mito della spontaneità e il primato dell’immagine (look) sociale si intrecciano a volte in modo così afono ma prepotente da impedire una ricerca personale di senso e quindi di salvezza. Tra i valori delle nuove generazioni vanno però visti la forte capacità oblativa, una forte tensione al dono che si esprimono sovente attraverso Lassociazionismo e il volontariato: si dedicano facilmente energie per impegni di rinnovamento della vita collettiva, si impegnano grandi spazi di tempo per affermazioni di alcuni valori quali la pace e l’ecologia, si vivono in modo profondo i problemi dell’emarginazione e della carità ai più bisognosi. Ma ci si può domandare se di fronte a tale situazione ci siano proposte convincenti e adeguate e se la chiesa sia in grado di fornire proposte educative umane e spirituali, sia cioè capace di trasmettere la fede di generazione in generazione.
La mancanza di maestri e di conseguenza di una cultura della presenza minaccia sempre di più la trasmissione della fede e non permette che si creino spazi non occasionali di apertura alla vita spirituale e di ricognizione del fatto cristiano.
3. La preghiera cristiana
«Tu ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore non ha pace finché non riposa in te». Questa espressione di Agostino così celebre e tanto ripetuta di generazione in generazione indica bene quello che si è voluto come fondamento della preghiera cristiana dall’epoca dei grandi Padri fino ad oggi. Il desiderio che l’uomo ha in sé, desiderio del bonum supremo si esprime innanzitutto attraverso la preghiera quale movimento del cuore umano verso l’infinito, l’eterno, l’assoluto. La preghiera ha trovato così una definizione accolta sostanzialmente seppur con sfumature diverse, da tutti gli autori spirituali di Oriente e di Occidente. Così il Damasceno, che raccoglie e fissa la tradizione orientale, definisce la preghiera «una elevazione dell’anima a Dio»; così Tommaso d’Aquino, sintetizzando la tradizione occidentale, la interpreta come «un domandare a Dio accompagnato naturalmente dall’elevazione delPanima a lui». Questa definizione della preghiera nello spazio della ricerca di Dio da parte dell’uomo oggi appare se non smentita almeno insufficiente anche perché le nuove generazioni sono allergiche alle concezioni ascendenti e verticali presenti in tutta la spiritualità cristiana.
La presenza del Dio vivente è data, non plasmata o raggiunta dall’uomo e all’uomo spetta l’accoglienza della sua venuta epifanica come del suo ritirarsi nel silenzio o nel nascondimento. Il Dio della rivelazione biblica è il soggetto, è il Dio vivente che non sta al termine di un nostro ragionamento, non si trova nella logica dei nostri concetti ma nei suoi atti, nei suoi interventi che lo mostrano un Dio alla ricerca dell’uomo. È Dio che vuole e stabilisce un dialogo con noi, è Dio che dalla Genesi fino all’Apocalisse viene, cerca, chiama, interroga l’uomo. Il Dio che ci ha amato per primo (1 Gv 4,19), parla, inizia il dialogo nella storia e l’uomo di fronte a questa autorivelazione di Dio reagisce nella fede attraverso la benedizione, la lode, l’azione di grazie, l’adorazione, la domanda, la confessione del proprio passato, cioè attraverso la preghiera che vuole sempre essere obbedienza a chi ha parlato ed esprimersi quale adesione, speranza, carità.
È tenendo conto di questa prospettiva biblica che vorremmo qui delineare la preghiera cristiana, specificatamente cristiana: è una prospettiva che fa emergere sempre e chiaramente come, se anche la preghiera si manifestasse come ricerca di Dio, in profondità essa rimarrebbe sempre una risposta mossa dall’impulso della grazia, rimarrebbe sempre e essenzialmente dono di Dio. Così l’« io» che si eleva a Dio è definitivamente decentrato nella preghiera e il protagonista, il soggetto resta il Dio che ci ha cercato per primo, il Dio che si è rivolto a noi mentre noi eravamo nemici, ribelli nei suoi confronti (cf Rm 5,6-10).
3.1. L’ascolto
In quest’ottica la preghiera cristiana e innanzitutto ascolto: operazione semplice ma non per questo facile, anzi faticosa, che richiede capacità di silenzio, lotta contro gli idoli molteplici che ci abitano. Se la preghiera non è solo espressione dell’umano desiderio, se essa è accoglienza di una presenza come nella rivelazione biblica, allora è innanzitutto ascolto. Dio parla: questa è l’affermazione fondamentale che attraversa tutte le Scritture, è la «cosa grande», fondamentale senza la quale noi non potremmo avere nessuna relazione personale con Dio (cf Dt 4,32 ss). Con assoluta decisione, con libera iniziativa, gratuitamente Dio si rivolge a noi per farci entrare in relazione con lui, per instaurare un dialogo che abbia come termine la comunione.
La cosa grande che è come un sigillo per il popolo dei chiamati da Dio è che Dio parla, chiama: questo fa dei credenti il popolo dell’ascolto e svela la vocazione permanente: chiamati ad ascoltare. Non a caso la preghiera ebraica è ritmata dallo «Shemà Israel» dall’«Ascolta, Israele», comando ripetuto più volte nella legge la quale invece raramente chiede di parlare a Dio. Se la preghiera come desiderio di Dio, elevazione dell’anima a Dio presenta un moto ascendente di parole verso il cielo, l’ascolto è finalizzato a una discesa della parola di Dio, a una conoscenza della sua volontà in cielo come in terra. L’orante cristiano è innanzitutto un ascoltatore, colui che presta l’orecchio a Dio. Per questo «ascoltare è meglio del sacrificio» (1 Sam 15,22) , meglio cioè di ogni altro rapporto Dio-Uomo che poggi sul fragile fondamento dell’iniziativa umana. La preghiera cristiana autentica germoglia dove c’è l’ascolto, quando noi siamo ricondotti a riconoscere una presenza: «Parla, Signore, che il tuo servo ascolta!» (1 Sam 3,10), atteggiamento questo che noi siamo purtroppo tentati di capovolgere sempre in «Ascolta, Signore, che il tuo servo parla!».
L’ascolto è preghiera e ha il primato assoluto, è momento ontologico della vita cristiana perché riconosce l’iniziativa di Dio, l’essere Dio il soggetto del nostro incontro con lui: non è passività ma attiva risposta, è l’azione per eccellenza della creatura nei confronti del suo Creatore e Signore. Avere un cuore ascoltante (leb shomea, cf 1 Re 3,9) è la situazione necessaria per la preghiera, la condizione per essere capaci di dialogare e vivere la comunione con Dio. Allora anche la nostra preghiera di domanda è generata dalla volontà di Dio manifestata nella sua Parola e il dialogo con Dio si fa autentico ed efficace.
3.2. La contemplazione della presenza di Dio
L’ascolto di Dio attraverso la sua Parola accolta, conservata e meditata nel cuore del credente non può far altro che indicare in noi una presenza, la presenza del Dio vivente, più intima di quanto noi possiamo esserlo a noi stessi. La preghiera diventa allora scoprire la nostra intima verità, cioè che Dio è presente in noi, non come frutto della nostra ricerca, ma come sorgente della nostra vita perché la sua presenza è anteriore al nostro sforzo di essergli attenti, la sua presenza ci precede sempre; non come risultato del nostro desiderio, ma come dono e consegna di Dio stesso attraverso la sua Parola. Tutte le Scritture testimoniano un’iniziazione all’accoglienza della presenza di Dio, all’ospitalità dell’Emmanuele, il dono di Dio con noi, fino all’incarnazione quando la Parola, il Figlio ha posto la sua dimora in mezzo a noi e in noi. Ascoltare diventa così accogliere il Signore e accettare che lui venga con il Padre mediante lo Spirito Santo a porre la sua dimora in noi (cf Gv 14,23).
Ascoltare il Figlio non significa solo entrare nell’en Christô, dimorare in lui, ma diventare sua dimora, cioè avere Cristo in noi fino a esclamare: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (cf Gal 2,20). Solo allora si può discernere la qualità della nostra fede cristiana come ammoniva Paolo invitando i cristiani a mettersi alla prova: «Non riconoscete che Gesù Cristo è in voi?» (cf 2 Cor
13,5) . Siamo qui al cuore del processo della preghiera cristiana, mistero della nostra relazione filiale con Dio, mistero della nostra comunione personale con il Figlio Gesù Cristo, mistero del nostro assenso allo Spirito Santo che dà voce ai nostri gemiti (cf Rm 8,26). Ecco la presa di coscienza, la vera gnosis, conoscenza di una relazione profonda con il Dio che ci attende, ci attira e quindi ci abita: una relazione personale che tende all’Alleanza e quindi alla comunione con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Solo così Dio non è lasciato fuori dalla nostra vita e dalla nostra esistenza, solo così si vive l’amore che viene da Dio e a Dio ritorna, solo così non si separa la preghiera dalla fede e non la si isola dal sentire, dal volere, dall’agire: la preghiera non è uno spazio a parte, non è un’isola, ma una dimensione di ogni atteggiamento umano, un modo di vivere. Altrimenti permane la contraddizione strana per cui molti cristiani dicono di credere in Dio e poi lo pregano così in pochi, così poco e così male. La preghiera cristiana consiste dunque nel vivere una relazione con Dio Padre attraverso il Figlio nello Spirito Santo e acquista una dimensione divina, teandrica: lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza (cf Rm 8,26) e quale Spirito di Cristo ci pone in lui, il Figlio, ci fa pregare nel suo Nome quali figli e ci fa rivolgere a Dio chiamandolo «Abbài». Al Padre, per Cristo, nello Spirito Santo! Senza questa qualità divina e trinitaria non c’è vera preghiera cristiana. Noi non preghiamo la Trinità ma piuttosto preghiamo in essa, coinvolti nella comunione di vita e di amore che è la stessa relazione trinitaria. Inabitanti da Dio siamo attirati all’identificazione con il Figlio perché Cristo è l’io del mio io, l’io autentico che vive in me, al posto del mio io. E perché questo avvenga c’è l’intercessione eterna di Gesù glorificato: «Padre, siano una cosa sola: come tu Padre sei in me ed io in te, siano una cosa sola in noi» (Gv 17,21).
3.3. Il dialogo e la comunione con Dio
Dall’ascolto, attraverso la scoperta di una Presenza, noi passiamo nella preghiera al dialogo, alla comunione con il Signore.
Ma proprio in questo processo la preghiera appare un’attività delicata che, radicandosi nel nucleo più profondo del nostro essere, può essere manipolata. Attraverso l’ascolto prendiamo atto della presenza di Dio in noi, ma questo itinerario deve portarci a farci passare al Padre. Se la vita è adattamento all’ambiente, la preghiera che è vita spirituale in atto, è adattamento al nostro ambiente ultimo che è la realtà del Dio vivente in cui tutto e tutti sono contenuti, realtà di Dio che non è separata da questa creazione, da questo nostro mondo, da questa nostra vita. Lo Spirito opera sempre, così come operano sempre il Padre e il Figlio (cf Gv 5,17), e viene in aiuto alla nostra debolezza versando nei nostri cuori la capacità di riconoscerci figli, di riconoscere tutti e tutto come voluti, creati e amati da Dio. Questo significa riconoscere l’agape di Dio che diventa in noi amore per gli uomini tutti, compassione con tutte le creature fino all’amore dei nemici. Comunione con Dio quale partecipazione all’agape di Dio che ama tutti noi che siamo peccatori e nemici suoi per natura (cf Rm 5,6).
Telos, fine della preghiera è l’agape e tutti i modi di pregare, tutte le nostre preghiere, così necessarie ed essenziali, appaiono solo degli accidenti. La preghiera sboccia così nella contemplazione che non è visione di Dio, perché Dio nessuno l’ha mai visto (cf Gv 1,18), perché noi camminiamo alla luce della fede e non della visione (cf 2 Cor 5,7), ma che è visione, per grazia, del suo amore su ogni creatura. Dio brilla allora nei nostri cuori per fare risplendere la conoscenza della sua gloria che è sul volto di Cristo (cf 2 Cor 4,6) e noi partecipiamo del suo sguardo su tutta la storia e su tutte le creature. Il nostro occhio diventa contemplativo, cioè partecipa all’occhio di Dio, ricco di amore e di misericordia. L’autentico orante è condotto a partecipare alla macrothymia di Dio, alla rivelazione, all’apocalisse di tutte le cose. L’orante diventa dioratico, vede che tutto è grazia, tutto è dono di Dio e si fa viscere di misericordia nelle viscere di misericordia di Dio di fronte al male e al peccato che contraddicono l’agape. Se la preghiera è autenticamente cristiana, se sgorga dall’ascolto di Dio, se si apre alla sua presenza e se diventa comunione con lui fino a vivere il rapporto di Alleanza, allora il suo frutto è la carità, l’agape, l’amore per Dio, per gli uomini e per questa creazione. Dio è vivente e presente oggi nella vita del credente come lo è stato nel passato e come — ci testimonia la speranza — sarà presente nel futuro dell’uomo e del mondo al di là della morte. La preghiera tende a farsi vita, permea tutta l’esistenza del credente, e il credente non fa più preghiere ma diventa preghiera, senza più patire una schizofrenia tra il pregare e l’operare, tra il quotidiano e Poltre la morte, tra la sua vita nel mondo e la sua appartenenza battesimale alla chiesa dei santi chiamati alla Gerusalemme celeste.
4. Come pregare: indicazioni pastorali
Le difficoltà e i malesseri che i cristiani provano oggi nel pregare non sono nuovi nella vicenda dei credenti. La preghiera ha sempre fatto problema, e già i discepoli sentirono il bisogno di essere istruiti su di essa, al punto di chiedere a Gesù: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli» (Lc 11,1). Tutta la spiritualità cristiana testimonia dunque questa difficoltà di fronte alla quale i maestri, i padri hanno consegnato insegnamenti e indicazioni rinnovando spesso i modi e le forme della preghiera. Oggi forse il male è più acuto perché la difficoltà non verte tanto sul come pregare ma sul perché pregare. È il frutto questo di una scristianizzazione profonda e di una forte lontananza di Dio dalla vita quotidiana. Tuttavia per riscoprire la preghiera cristiana autentica occorre, oltre a una nuova evangelizzazione, restare obbedienti ad alcune costanti assolute che ci vengono dalle Scritture e dalla grande Tradizione cattolica. Per essere autentica la preghiera cristiana abbisogna innanzitutto dello Spirito Santo che la susciti, la guidi, la accompagni, la faccia diventare preghiera di Cristo al Padre. Non è operazione facile in realtà dire Padre a Dio e invocarlo dandogli del tu: è necessario lo Spirito santo, il vero protagonista dell’incontro dialogico io-tu, colui che permette di dire: «O Dio, tu sei il mio Dio... di te ha sete l’anima mia» (Sal 63,2). Anche Paolo testimonia che nell’operazione della preghiera occorre lo Spirito Santo perché noi non sappiamo come pregare, né cosa domandare ed è solo lo Spirito che, versato nei nostri cuori, intercede e prega con insistenza per noi (cf Rm 8,14-16 e 26). Senza epiclesi, senza invocazione dello Spirito non c’è preghiera autentica perché nessuno può dire a Dio «Abbà-papà» (cf Rm 8,15) e nessuno può confessare che Gesù è Signore (cf 1 Cor 12,3). Ogni preghiera è implicitamente un’epiclesi: il maestro resta lo Spirito, sia per entrare nella comunione divina, sia per avere accesso insieme ai fratelli gli uni e gli altri presso il Padre (cf Ef 2,18), là dove c’è la fonte della vita (cf Sai 36,10). Nell’unico Spirito, cioè non fuori di lui, la nostra preghiera non è più pio esercizio artificiale, un duetto irreale, un rivolgersi a una nostra proiezione.
Solo con l’epiclesi la nostra preghiera diventa un profondo riorientamento di tutta la nostra esistenza secondo la coordinata trinitaria: ad Patrem, per Christum, in Spiritu Sancto. Lo Spirito ci rende sempre più conformi al Figlio nel suo essere rivolto verso il Padre e la preghiera diventa semplicemente la dimensione profonda della nostra vita cristiana, né più né meno: specchio e riflesso della nostra vita secondo lo Spirito Santo. Per questo la vera preghiera è tanto filiale con Dio, quanto fraterna con Gesù Cristo e gli uomini, e possiede un’oggettività che le impedisce di obbedire a impulsi psichici, allo spontaneismo, all’essere trascinata e sballottata da idoli muti sotto l’impulso del momento (cf 1 Cor 12,27).
Evidentemente la preghiera appare dunque difficile, faticosa, semplice ma non facile, un’operazione ecclesiale, un’attività che soltanto Dio conosce pienamente nella sua verità.
Pregare animati dallo Spirito Santo e in obbedienza a lui è un dato ineliminabile della preghiera cristiana e per restare fedeli a questo occorre però anche pregare secondo l’insegnamento di tutte le Scritture la cui voce è risuonata pienamente nell’insegnamento di Gesù. Alla domanda dei discepoli «insegnaci a pregare» (cf Lc 11,1 ) Gesù non ha risposto con una formula ma con un insieme di indicazioni sparse come semi nei quattro evangeli e poi raccolte nella orazione del Padre nostro: in verità il Pater è una preghiera consegnataci da Matteo e da Luca quale sintesi di parole del Signore presenti in tutto il suo insegnamento. Più che una formula o un modello il Pater è una traccia, una matrice, un’iniziazione alla preghiera del discepolo, un canone e non una formula: chiamare Dio Abbà-papà, la richiesta del compimento della sua volontà e della venuta del Regno, il riconoscimento del pane che viene oggi da Dio, la domanda del perdono e della liberazione dal Maligno sono temi presenti in tutta la paraclesi gesuana.
È essenziale quindi alla preghiera autentica accogliere le indicazioni, i consigli per pregare dati da Gesù ai discepoli e da questi ascoltati, conservati, consegnati alle comunità cristiane e quindi tramandati, vissuti dai credenti fino a essere editi come Scrittura negli evangeli. Noi crediamo che queste indicazioni di Gesù siano anche oggi le linee spirituali e pastorali essenziali per la preghiera cristiana.
4.1. Prima di pregare riconciliati con il tuo fratello (Mt 5,23-24)
Nel momento stesso in cui il cristiano si rivolge a Dio chiamandolo Padre deve ricordarsi che questa invocazione non la può dire da solo ma la esprime con dei fratelli. Dice «Padre» ma aggiunge subito «nostro». Essere solidali con i fratelli nella fede e con gli uomini tutti è condizione essenziale per accedere alla comunione trinitaria. La riconciliazione con il fratello, con il vicino, il prossimo e la solidarietà con loro fino all’amore del nemico, alla volontà di fare il bene a chi fa il male o contraddice (cf Me 11,25) è l’atteggiamento che accompagna ogni inizio di dialogo con il Signore: se si dimentica questo preliminare si depaupera la preghiera di energie spirituali. Il telos, lo scopo della preghiera che è la comunione non deve essere contraddetto da una situazione di divisione, di odio, di tensione nell’orante. Come si può pretendere di dialogare con Dio che ci ha amati mentre eravamo nemici (Rm 5,9-10), di parlare con lui che non si vede, se non si sa perdonare e non si vuole comunicare con il fratello che si vede (cf 1 Gv 4,20)?
4.2. Quando preghi ritirati nella tua camera (Mt 6,6)
Il credente vive la sua fede nella comunità, esprime la sua fede nella liturgia, preghiera di tutta la chiesa e deve pregare insieme agli altri fratelli e sorelle vivendo la preghiera comune come la migliore scuola di preghiera personale. Egli non deve intraprendere un cammino nuovo e mai percorso, ma riceve dalla chiesa il canone della preghiera: i Salmi, la lettura delle Scritture, l’intercessione, il Padre nostro e il culmine della preghiera stessa: l’Eucaristia. La liturgia soprattutto è l’ambiente vitale in cui crescere nella fede e nella comunione con il Signore. Tuttavia la preghiera comune non è sufficiente: abbisogna di interiorizzazione, della gratuità di chi dà del tu a Dio personalmente, anche se gli altri non sono fisicamente accanto a lui. Pregare nella solitudine, in disparte non è un invito all’individualismo ma è un incontrare Dio personalmente, facendosi figli nel segreto del cuore, nella vita interiore, accettando su di sé quello sguardo penetrante del Dio che conosce, guarda, parla a ciascuno in modo irripetibile e specifico. La preghiera personale è allora l’occasione di rivolgersi a Dio con libertà, di accogliere nello svolgersi del tempo la sua presenza, di percepire il suo approssimarsi, il suo stare alla porta e bussare (cf Ap 3,20), il suo visitarci. Un orante che si nutre solo di preghiera comune rischia di fare di questa soltanto un’esperienza di appartenenza al gruppo, una dichiarazione di sé stesso di fronte agli altri.
Oggi è proprio la preghiera personale che è tralasciata e che pare soffrire dell’incapacità di articolarsi in dialogo con Dio, ma questa situazione a lungo termine svuota e finisce per rendere impossibile la stessa preghiera comune liturgica. L’invito di Gesù non è solo un antidoto all’ipocrisia di chi prega per farsi vedere ma indica un modo di dialogo amoroso, conoscitivo, penetrante e personalissimo con Dio. Nella pastorale molti sforzi sono dedicati all’iniziazione liturgica, ma purtroppo non sono accompagnati oggi da un’adeguata trasmissione e insegnamento della preghiera personale, che dev’essere inculcata fin dall’infanzia. Chi non riceve un’iniziazione alla preghiera personale dai genitori o dagli educatori fin da piccolo difficilmente potrà nutrirsene nell’età matura e potrà far crescere la sua fede in un Dio vivente, presente nell’esistenza quotidiana. Oggi più che mai i cristiani sanno parlare di Dio, ma sanno anche, come nelle generazioni cristiane passate, parlare a Dio?
4.3. Tutto ciò che chiederete nel mio Nome lo farò (Gv 14,13)
Pregare è anche chiedere a Dio ciò di cui abbiamo bisogno, ma chiederlo nel Nome di Gesù. Questo significa da un lato unire la nostra preghiera a quella di Gesù, ma soprattutto accordare la nostra alla sua preghiera, avere gli stessi sentimenti e gli stessi pensieri che furono in lui (cf Fil 2,5).
Fine della preghiera è ottenere che noi facciamo la volontà di Dio e non che Dio faccia la nostra volontà e realizzi i nostri desideri. Non le nostre preghiere trasformano il disegno di amore di Dio su di noi, ma sono i doni che Dio concede nella preghiera a trasformare noi. Ecco perché se si prega nel Nome di Gesù, siamo sicuri di essere esauditi, avendo posto come primato su tutto la volontà di Dio che si compie in noi e in tutte le creature del cielo o della terra (cf Me 11,24; Gv 16,21-24 e 15,16). Se si prega nel Nome di Gesù, sconcertante ma vero, si è già esauditi e a questo esaudimento occorre credere perché tutto diventa possibile a colui che crede (cf Me 9,23; 1 Gv 5,14). Chi nel pregare si mostra sballottato tra fiducia e scetticismo non riconosce di fatto che Dio possiede la potenza di compiere infinitamente di più di ciò che noi domandiamo o pensiamo (cf Ef 3,20-21).
4.4. Pregare con umiltà come il pubblicano (cf Lc 18,9-13)
L’orgoglio, il disprezzo degli altri, la sopravvalutazione di sé stessi sono tutti impedimenti alla preghiera. «Abbi pietà di me peccatore» è la verità, la prima parola per rivolgersi a Dio. Nessuna esaltazione di sé stessi di fronte al Dio tre volte santo, bensì la conoscenza e il discernimento del proprio peccato. Quando avviene questo riconoscimento del peccato allora si compie il grande miracolo come insegnano i padri del deserto: «Chi riconosce i propri peccati è più grande di chi risuscita un morto» (Isacco il Siro). Nell’evangelo di Luca, discepolo attento alla preghiera, il modello è proprio il pubblicano, il peccatore giustificato nel suo presentarsi a Dio nell’umiltà, e Pietro appare il primo discepolo perdonato già fin dalla sua vocazione quando discernendo Gesù come Signore gli grida: «Allontanati da me che sono un peccatore» (Lc 5,8).
La relazione tra Dio e l’uomo nella preghiera va posta nella verità: il Creatore e la creatura, il Padre e il figlio prodigo, il Medico e il malato, il santo e il peccatore.
4.5. Pregare insieme, accordandosi con i fratelli (Mt 18,19-20)
Anche quando è solitaria la preghiera deve giungere alla solidarietà e quando è possibile dev’essere preghiera fatta insieme, perché Cristo Signore ha assicurato la sua presenza in tale situazione.
L’accento dell’esortazioine di Gesù cade sull’accordarsi, sul fare un cammino verso una profonda comunione di sentimenti per presentarsi insieme davanti a Dio. Così la prima comunità cristiana nata dalla Pentecoste vive dell’unione fraterna, del praticare insieme la preghiera (cf At 2,42-48) tendendo a un solo cuore, a una sola anima. Nella preghiera non si tratta solo di unire le voci in differenti domande, lodi, ringraziamenti, ma di unire il cuore di tutti.
Arte difficile quella dell’accordarsi, ma non si può pregare insieme senza questo faticoso cammino di riconoscimento dell’altro, della sua alterità, della sua differenza, dei suoi doni e del suo servizio nella chiesa. Senza cancellare le differenze e senza inglobare con voracità la preghiera dell’altro, si tratta di accogliere la richiesta dell’altro nell’unica ricerca del Regno che viene, dando unanimità alla preghiera non attraverso il consenso, ma attraverso la conversione dei pensieri propri in quelli che furono in Cristo Gesù. Purtroppo non si tiene abbastanza conto di questo accordarsi pregando che è la prima ed elementare istanza per vivere la comunione nella comunità e nella chiesa.
4.6. Pregare con fiducia (Mt 6,7-9)
È un consiglio importante che precede l’insegnamento del Padre nostro. La preghiera cristiana non è come quella dei pagani che affaticano gli dèi moltiplicando le parole e fidandosi di esse. La fiducia va posta in chi ci chiama alla preghiera e ci parla: Dio, il Padre. La preghiera filiale non si misura dunque sulle ripetizioni e sulla lunghezza (cf Le 12,40), ma sulla fede, sulla confidenza che la anima. Dio sa e conosce ciò di cui abbiamo bisogno e nessun orante può pensare che Egli dia pietre al posto del pane. Noi, noi sì siamo cattivi, ma Dio è buono (cf Le 11,913 e 18,19).
Nessuna paura per chi è realmente figlio di Dio, per chi sa di mettere la sua preghiera nelle mani di chi è avvocato nostro presso il Padre, per chi ha ricevuto l’unzione dello Spirito. Se anche la sua coscienza lo rimproverasse, Dio è più grande del cuore e ci permette di stare davanti a lui con parresia. Senza parresia non c’è vera preghiera cristiana (cf 1 Gv 3,18-22 e 5,14-15) perché essa sta alla base della fiducia che anima la comunità cristiana.
4.7. Pregare sempre senza stancarsi (cf Lc 18,1 e 21,34-36)
La preghiera richiede perseveranza, continuità. Più volte Gesù e poi gli apostoli hanno chiesto la preghiera senza interruzione, ciò non significa impegnarsi nel ripetere continuamente formule o invocazioni, ma un’esistenza sempre aperta alla comunione con Dio. Per non entrare in tentazione, per non essere sorpresi dalla venuta del Signore, occorre vivere nella vigilanza, nell’attesa, nel ricordo di Dio in modo da diventare preghiera: dalle preghiere alla preghiera.
Pregare sempre è un’impossibilità, ma bisogna tendere a questo senza stancarsi non perché Dio vuole che noi lo importuniamo, ma perché la nostra insistenza è segno della nostra fede.
Pregare sempre nel domandare ma anche nel ringraziare (cf Col 4,2) e quindi nell’adorare, nel lodare, nel riconoscere il Dio vivente presente nell’esistenza umana. La preghiera è una lotta per essere sempre consapevoli della presenza di Dio in noi, della comunione di vita con il Signore vivente, della carità come spazio dell’incontro autentico con gli uomini. Pregare sempre per dar voce a ogni cosa, perché l’universo è un oceano di preghiere che sale a Dio, preghiere inarticolate, gemiti di ogni creatura al suo Creatore in attesa della manifestazione dei figli di Dio (cf Rm 8,19).
5. Le difficoltà e gli ostacoli alla preghiera
Molti sono le difficoltà denunciate di fronte alla preghiera e variano in relazione alla situazione sociale, alla maturità spirituale, all’impegno e al lavoro svolti, all’età. Con particolare riferimento ai giovani le difficoltà più attestate sembrano essere quelle della mancanza di tempo, del sorgere di molte distrazioni durante la preghiera, del non essere capaci di sostenere a lungo il ritmo della preghiera, dell’autogiustificazione che fa di ogni lavoro o impegno un equivalente della preghiera.
5.1. Non ho tempo
La difficoltà più frequente in cui ci si imbatte a proposito della preghiera è quella del tempo. Non c’è tempo, non ho tempo. In parte questo è vero: la vita odierna, soprattutto urbana, è segnata dalla velocità, dalla molteplicità, da ritmi lavorativi e di impegni che non sono più quelli dell’antico tempo biblico. E tuttavia denunciare la mancanza di tempo è quasi sempre un alibi, una cattiva scusa: infatti è risaputo, ad esempio, che sono molte le ore passate dai credenti davanti alla televisione.
È urgente denunciare a questo proposito che colui che afferma di non aver tempo per pregare confessa in realtà di essere un idolatra: non lui è il padrone che determina il suo tempo e lo ordina, ma al tempo è alienato. Il cristiano deve resistere, deve opporsi all’ideologia del lavoro e della produttività alienante e deve trovare il tempo per ascoltare Dio e dialogare con lui.
Ordinare il tempo è il comando primario nella fede ebraico-cristiana. Riservare del tempo per Dio, distinguere dei tempi tra gli altri destinati al lavoro o allo svago è il significato del ritmo sabatico, delle feste, dei ritmi della preghiera.
L’ascolto di Dio è cosa seria quanto il lavoro sulla terra e quindi non si possono impegnare per la preghiera soltanto ritagli di tempo: essa necessita di tempi forti, tempi che devono avere la precedenza sul resto. Sacrificio interamente consumato per Dio, possibile a tutti è proprio l’offerta a Dio del tempo, quel tempo che è il bene più prezioso posseduto dall’uomo sulla terra. D’altronde chi dice di credere alla vita eterna, alla vita al di là della morte, come fa a sperimentare questa sua fede nell’esistenza se non consacra del tempo per entrare in comunione con Dio qui e ora? L’aspetto della disciplina del tempo non è marginale, non è un aspetto pratico secondario, ma è centrale per la preghiera. Senza la scelta di un ritmo e di tempi adatti non è possibile pregare: questo significa darsi dei tempi prefissati e restarvi fedeli, significa anche pregare non solo quando se ne ha voglia, quando ci si sente emozionalmente di farlo, ma fare della preghiera la fatica di ogni giorno, il cibo per la vita nello Spirito.
5.2. Ho delle distrazioni
Avere distrazioni fa parte della psiche e ci vuole molto esercizio per sapersi concentrare unificando i pensieri, la mente, il cuore e il corpo: operazione di crescita, di maturità umana, di igiene mentale prima di essere operazione spirituale.
Pregando si incontrano sempre distrazioni, in misura maggiore o minore, ma neanche queste possono essere una scusa per non pregare. Già Agostino ammoniva: «Se occorresse pregare senza distrazioni quale speranza resterebbe?» Le distrazioni non tolgono efficacia alla preghiera perché essa resta un atto di amore. Certamente occorre lottare contro di esse, ma senza farne un’ossessione: sovente occorre saperle integrare nella preghiera, trasformarle in occasioni di preghiera tendendo così a un’unificazione sempre più profonda della nostra mente. Capovolgendo le distrazioni in occasioni di preghiera questa ci perderà in unità ma potrà guadagnarci in ricchezza.
Un errore è quello di cercare di svuotarsi, di creare in sé il nulla quando si tratta invece di riempirlo della presenza di Dio. È la presenza di Dio che libera dalle distrazioni, è la contemplazione della sua immagine gloriosa e potente che è sul volto di Cristo che libera dagli sguardi su sé stesso, non la volontà o lo sforzo di chi prega: strategia della Presenza contro le presenze che ci abitano e che dominano in noi fino a diventare mostruose. Comunque per pregare senza essere troppo tentati dalle distrazioni occorre operare una rottura con quel che si faceva o che assorbiva la mente, occorre sorvegliare l’attitudine corporea, cercare di prendere consapevolezza della presenza di Dio e soprattutto non tralasciare di pregare.
5.3. Sono incostante
Anche questa obiezione non deve stupire: tutti conoscono periodi di aridità in cui non si riesce più a pregare e ci si scoraggia fino a pensare impossibile la preghiera. La preghiera non è isolata dalla vita, dalle vicende, dai fatti e resta sempre l’eloquenza di una relazione tra due esseri viventi: l’orante e Dio. Conosce dunque brezze, calme, tempeste e bonacce: nulla è guadagnato definitivamente nella vita di preghiera e nulla è perso per sempre. Occorre perseveranza, molta pazienza con sé stessi e molta disciplina o ascesi per non darsi strutture patologiche nel rapporto con il Signore: ricorrere a Dio solo nel bisogno, tentare il dialogo solo quando si soffre di solitudine o di angoscia, tener presente Dio solo quando si vive una situazione poetica o estetica è impedire alla preghiera di diventare matura, robusta, autentica. Pregare è costoso, è faticoso non solo perché richiede impegno e perseveranza ma ancor più perché suppone un passo di conversione dei desideri e delle volontà umane al disegno di Dio che a volte ci contraddice dolorosamente. Prima o poi capita a ogni orante di avvertire nella preghiera una contraddizione profonda tra la propria volontà e quella di Dio: sono i tempi in cui Dio sembra lontano e non si vede più con chiarezza il suo volto amoroso e paterno. La preghiera diventa una prova e tanto più uno prega tanto più si scatenano i «nemici», quelle forze irrazionali e ostili a Dio che abitano le profondità del cuore non ancora evangelizzate. Occorre allora la perseveranza, il pregare senza stancarsi, l’attesa dei tempi di Dio e offrire comunque il tempo della preghiera anche se non si riesce più a pregare, offrire comunque la presenza del corpo atono, offrire l’aridità del cuore. Vicinanza, lontananza, presenza, assenza sono momenti che si richiamano: senza un’esperienza non sarebbe possibile gustare neppure l’altra.
5.4. Lavorare, impegnarsi è pregare
Unito alla contestazione della preghiera come evasione dalla prassi e momento di disimpegno troviamo l’alibi di chi afferma che lavorare è pregare. In realtà questo slogan molto diffuso è falso perché l’uomo non può compiere insieme operazioni diverse; e poi basterebbe l’osservazione: perché quasi tutti sono disposti a lavorare e così pochi sono disposti a pregare? Per il cristiano lavorare senza che il lavoro, l’impegno sia avvolto dalla preghiera è compiere un’attività neutra, senza peso spirituale, un’attività pronta a degenerare in attivismo sterile e a volte addirittura in azione folle, non generata dalla pace, non radicata nel profondo del cuore. È la preghiera invece che diventa azione quando essa è il luogo del riconoscimento di Dio e dei fratelli, quando chi prega ha il cuore in Dio. Chi non conosce il volto di Dio nella preghiera non lo riconoscerà neanche quando nell’azione — magari la più costosa e generosa — questo volto gli apparirà attraverso il volto delle vittime e degli umiliati. Anche Paolo ammonisce che senza l’agape perfino il distribuire beni ai poveri o dare il corpo al martirio è nulla, non giova (cf 1 Cor 13,3): e l’agape non si consegna senza la preghiera. Non si faccia dunque automaticamente dell’azione una preghiera e soprattutto non si separi preghiera e azione, vita di fede e prassi nel mondo, delegando la preghiera ai monaci e ai solitari contemplativi. È vero che molti cercano Dio nella preghiera per sfuggire più o meno coscientemente alla durezza della vita fraterna, alle responsabilità comuni, e di essa fanno un alibi per sfuggire alla prassi evangelica, ma non per questo si deve tralasciare la preghiera, vera iniziazione all’azione nel mondo secondo la volontà del Signore. Senza situarsi nel disegno di Dio non è possibile realizzarlo operando e lavorando nel mondo.
6. Conclusione
Le difficoltà e gli ostacoli alla preghiera che abbiamo denunciato e i suggerimenti che abbiamo fornito richiederebbero di essere accompagnati anche da indicazioni che facciano crescere, irrobustire, rendere piena la preghiera cristiana; ma in questo tentativo non si giungerebbe mai a essere esaustivi. Sembra comunque utile ricordare, anche se in modo succinto, alcune necessità.
6.1. L’eucaristia, culmine della preghiera
Innanzitutto non si deve dimenticare mai che il culmine della preghiera resta l’eucaristia che invece è sovente troppo separata dalla preghiera ordinaria e personale. La preghiera deve tendere alla celebrazione eucaristica che ci associa intimamente al ringraziamento che Cristo fa al Padre nello Spirito Santo e che abbisogna della quotidiana preghiera in ogni momento. È nell’eucaristia che si trovano tutti gli elementi della preghiera: la richiesta del perdono, l’ascolto della Parola, la confessione della fede, il rendimento di grazie e la lode, l’adorazione e la memoria dell’azione di Dio Creatore e Redentore, l’adorazione del Padre nostro, la celebrazione dell’Alleanza. L’eucaristia resta fonte comune di ogni preghiera: la vita infatti deve accordarsi con l’eucaristia e l’eucaristia plasmare la vita e la preghiera cristiana.
6.2. Le Scritture, nutrimento della preghiera
Le Scritture sono il nutrimento essenziale di ogni preghiera. «L’uomo non vive di solo pane, ma di ogni parola che esce dalla bocca del Signore» (Dt 8,3; cf Pr 9,5). Attraverso la Parola, scelta da Dio come strumento decisivo della sua comunicazione al suo popolo e della sua stessa comunicazione con esso, passa la conoscenza autentica del Signore e la salvezza da lui donata. Pregare la parola è dunque il mezzo essenziale per conoscere il Signore e poter in questa conoscenza-amore celebrare l’Alleanza. Ogni Scrittura infatti ci parla di Cristo, Io rende presente nel popolo e nel credente che la legge, la ascolta, la prega e la contempla. Basterebbe che ogni giorno il giovane cristiano leggesse, ascoltasse, meditasse e pregasse un brano della Scrittura per avere una vita di fede robusta e crescere accompagnato da benedizioni ed energie spirituali. Leggere le Scritture quotidianamente significa iniziarsi alla conoscenza del Signore e crescere nel suo amore conoscendo la sua volontà. Le Scritture sono libri per la lettura del popolo di Dio, ma devono essere pregate perché tra la loro lettura e i tentativi di obbedienza alla volontà di Dio da esse espressa c’è la preghiera. Senza di essa la Parola di Dio non fa incontrare colui che è il Vivente che parla personalmente e richiede di essere seguito.
6.3. Preghiera e silenzio
La preghiera si nutre anche di silenzio: silenzio come assenza di parole e di rumori per discernere e ascoltare la Parola, ma anche silenzio che accoglie la presenza di Dio. Il silenzio è un’esigenza umana ben prima che spirituale, un’esigenza che oggi potremmo definire addirittura ecologica perché necessaria a un’igiene interiore, per ridare unità al proprio essere che rischia la dissipazione nell’eccesso di parole, nell’eccesso di suoni disarmonici ripetuti in modo ossessivo e insistente nella nostra esistenza odierna. L’ascolto della Parola deve avvenire nel silenzio perché Dio è Parola e Silenzio e la preghiera senza silenzio manca di discrezione, di sobrietà, diventa pettegolezzo spirituale. Ma chi oggi richiama a questo grande valore della tradizione spirituale cristiana?
6.4. Aiutarsi a pregare
Infine occorre aiutare e sostenere la preghiera con tutto ciò che può essere utile: pregare con il corpo, con gesti, restando in piedi, in ginocchio, prostrati, con le mani alzate. Il corpo va integrato nella preghiera affinché essa sia opera della mente, del cuore, della carne dell’orante in un’unità sempre maggiore. Quanto allo spazio esterno, possono accompagnare la preghiera le invocazioni del Signore e dei santi capaci di provocare contemplazione: le iconi soprattutto, pitture per pregare, ma anche opere moderne, statue... E — perché no? — pregare con i fiori, con qualche cero le cui fiammelle creano un’atmosfera di attenzione e di raccoglimento: questi sono accidenti, mezzi, ma non andrebbero tralasciati se sono di aiuto né andrebbero sopravvalutati generando un estetismo molto esteriore, un vero impedimento all’essenziale che è rincontro con il Signore. Ma pregare con tutte le creature che ci circondano, le creature del cielo e della terra, è immergersi nell’oceano di lode e preghiera che attraversa l’universo. Ogni cosa può entrare nella preghiera se diventa per noi motivo di lode e di eucaristia.
La preghiera resterà sempre una lotta, sarà sempre molto mancante, ma questo è dovuto al fatto che nella preghiera l’uomo incontra Dio, l’oscurità incontra la luce, il peccato incontra la santità.
Il credente deve sempre ridire al Signore: «Insegnami a pregare», fino al giorno in cui vedrà faccia a faccia il suo Signore, sarà il Figlio davanti al Padre, in piena partecipazione alla vita divina tramite la Spirito Santo.
Bibliografia
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