POLITICA

POLITICA

Bartolomeo Sorge

 

1. La politica

1.1. Importanza della politica

1.2. Fede, cultura, politica

1.3. Laicità della politica

1.4. Una duplice accezione di «politica».

2. L’impegno politico del cristiano

2.1. Ispirazione cristiana della politica

2.2. Responsabilità e autonomia politica dei laici

2.3. Pluralismo delle opzioni politiche

2.4. I partiti di ispirazione cristiana

3. L’impegno politico della comunità cristiana

3.1. «Scelta religiosa» e politica

3.2. Chiesa, Stato e società

3.3. La formazione dei laici alla politica

3.4. Per una spiritualità della polìtica

 

Nel dibattito postconciliare il rapporto tra fede e politica è divenuto centrale, non solo a livello di concrete implicazioni pastorali, ma anche a livello di analisi teorica e dottrinale. Cosicché non ci sembra esagerato affermare che come nella coscienza dei nostri giorni, di fronte alla grave crisi della politica, è maturata la convinzione che le conquiste della moderna democrazia potranno essere consolidate soltanto grazie alla sua «risurrezione», nello stesso modo nella coscienza ecclesiale di oggi è maturata ormai la persuasione del rapporto inscindibile che lega tra loro evangelizzazione e promozione umana, fede e politica.

Questa consapevolezza nuova porta con sé tutta una serie di gravi interrogativi e di questioni da chiarire, intorno ai quali non c’è ancora unanimità. Tuttavia, si deve riconoscere che il Concilio e l’ulteriore approfondimento post-conciliare hanno acquisito ormai alcuni punti fondamentali di dottrina e di prassi pastorale, che consentono di indicare, almeno nelle grandi linee,​​ l’identikit​​ di una nuova presenza dei cristiani e della comunità cristiana nel contesto di una società pluralistica e secolarizzata.

Perciò, dopo aver chiarito il concetto e la natura della politica e la sua importanza centrale nella vita sociale e personale di tutti, cercheremo di fare il punto sui più discussi problemi dell’impegno politico del cristiano nel nostro tempo e sulla natura e le prospettive di un rinnovato impegno politico della comunità cristiana.

 

1.​​ La politica

 

1.1. Importanza della politica

Uno dei segni del nostro tempo è certamente la riscoperta della politica e della sua centralità nella vita di ciascuno e della società. Dopo lunghi anni di crisi di una politica senz’anima, ridotta a mera ricerca del potere, e di fronte alle funeste conseguenze che una tale crisi ha portato con sé, stiamo assistendo a una vigorosa ripresa di rinnovamento e di impegno. Questa ripresa è particolarmente vivace nel mondo cattolico.

Infatti, ormai è largamente diffusa la consapevolezza che la politica è da considerare come una dimensione intrinseca della stessa esistenza umana, della vita d’ogni giorno. Tutti facciamo quotidianamente l’esperienza che le decisioni politiche, a qualsiasi livello intervengano e da qualsiasi parte siano prese, investono in ogni caso la nostra esistenza personale e comunitaria.

Dunque, l’importanza della politica nasce dalla natura stessa dell’uomo e della società, secondo il volere di Dio creatore: «È evidente — sottolinea il Concilio — che la comunità politica e l’autorità pubblica hanno il loro fondamento nella natura umana e perciò appartengono all’ordine prestabilito da Dio» (GS 74).

Lungo questa direzione si muove il costante insegnamento della Chiesa. Già Pio XI, in un discorso alla FUCI rimasto famoso, definì la politica come «il campo della più vasta carità, della carità politica, a cui si potrebbe dire null’altro, all’infuori della religione, essere superiore»​​ (Osservatore Romano,​​ 23 dicembre 1927, p. 3). E, ai nostri giorni, il Concilio ha ribadito in forma solenne la stima della Chiesa per la politica: «La Chiesa stima degna di lode e di considerazione l’opera di coloro che per servire gli uomini si dedicano al bene della cosa pubblica e assumono il peso delle relative responsabilità»; ed esorta che «coloro i quali sono o possono diventare idonei per l’esercizio dell’arte politica, difficile insieme e nobilissima, si preparino e si preoccupino di esercitarla senza badare al proprio interesse e al proprio vantaggio [...], si prodighino [...] al servizio di tutti, anzi, con l’amore e la fortezza richiesti dalla vita politica (GS 75). A sua volta, Paolo VI invita a «prendere sul serio la politica [che] è una maniera esigente — ma non è la sola — di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri» (OA 46). E, ancora più vicino a noi, il Sinodo sui laici del 1987 ritorna esplicitamente sul tema, aggiungendo che «l’impegno dell’azione sociopolitica dei fedeli si radica nella fede poiché questa illumina la totalità della persona e della sua vita»​​ (Messaggio al Popolo di Dio,​​ n. 11)

In altre parole, il servizio politico, se vissuto con disinteresse e carità, è l’arte più grande, perché attraverso una politica efficace, rettamente impostata, si influisce in modo determinante sulla esistenza umana; e non solo sui problemi che maggiormente affliggono la generazione presente (il lavoro, l’abitazione, la scuola, la salute, il tempo libero...), ma anche sul futuro del Paese e dell’umanità, data l’interdipendenza che ormai ci lega tutti in un unico destino. Le scelte politiche, infatti, non hanno soltanto una portata immediata sui problemi che sorgono giorno per giorno, ma producono effetti a lungo termine, coinvolgendo inesorabilmente le generazioni future.

Tuttavia, l’importanza della politica, pur essendo centrale e determinante, non va assolutizzata. Se «tutto è politica», nel senso che l’esistenza umana non può prescinderne, la politica però «non è tutto» per l’uomo. Certo, la politica assolve il compito di «coagulante sociale» (per dirla con una felice espressione dell’episcopato francese), in quanto serve a far coincidere le diverse attività umane e i diversi soggetti sociali in un progetto comune per la realizzazione del bene di tutti; ma la politica non può assorbire tutte le attività e le esigenze dell’uomo: si esplica, di natura sua, nel relativo (è «l’arte del possibile»!) e non sarà mai in grado di realizzare pienamente le aspirazioni trascendenti dell’uomo, il suo bisogno di Dio, che è quanto di più essenziale la persona umana avverte in sé.

 

1.2. Fede, cultura, politica

A questo punto, per avere una nozione chiara della natura della politica e delle sue implicazioni pastorali, giova approfondire il tipo di rapporto che intercorre tra fede, cultura e politica. Infatti, pur appartenendo a piani distinti, esse sono strettamente collegate tra loro.

La fede — spiega il Concilio — è l’adesione libera, con la quale l’uomo tutt’intero si abbandona a Dio, prestandogli il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà e acconsentendo alla di lui rivelazione (cf DV 5). Quindi, la fede è un dono soprannaturale di Dio, di origine trascendente.

La cultura invece — spiega ancora il Concilio — è una realtà profondamente diversa: è di origine umana e immanente, appartiene all’ordine naturale (cf GS 53ss). A differenza della fede, che poggia sulla Parola stessa di Dio immutabile ed eterna, la cultura deriva dall’uomo e poggia sugli eventi mutevoli della storia, varia col mutare degli uomini, del tempo e dello spazio.

La fede, dunque, non è una cultura, né può essere «ridotta» a cultura. Eppure la fede non può fare a meno della cultura; e la cultura non ha nulla da perdere, ma tutto da guadagnare, dall’incontro con la fede. Infatti, la rivelazione, alla quale aderiamo con la fede, contiene un messaggio di Dio all’uomo e sull’uomo, che riguarda indiscriminatamente tutti, credenti e non credenti a qualsiasi luogo e tempo appartengano. Perciò, la Parola di Dio, per essere da tutti compresa e liberamente accolta (con l’aiuto della grazia che non manca mai), deve farsi a tutti intelligibile mediante un processo di incarnazione, di traduzione del messaggio rivelato nelle diverse culture. È quel processo di «inculturazione» di cui parla Giovanni Paolo II nella​​ Catechesi tradendae​​ (n. 53), e di cui avevano già parlato (senza però usarne il termine) sia il Concilio (LG 13; AG 22; GS 44), sia Paolo VI nella​​ Evangelii nuntiandi​​ (n. 20). Ultimamente è ritornata ampiamente sul tema anche la Commissione Teologica Internazionale, nel suo documento:​​ Temi scelti d’ecclesiologia in occasione del XX anniversario del Concilio Vaticano II (La Civiltà Cattolica​​ 1985 IV 458-462). Insomma, l’evangelizzazione e il Vangelo non s’identificano con nessuna cultura e sono indipendenti rispetto a tutte le culture; però devono ispirarle tutte, affinché il messaggio di Dio, contenente la risposta agli interrogativi ultimi ed essenziali di ogni intelligenza e di ogni coscienza umana (quindi, di ogni cultura), non rimanga muto o incomprensibile. Quest’opera necessaria di inculturazione — spiega ai gesuiti il padre Pedro Arrupe nel​​ Documento sulla inculturazione​​ (14 maggio 1978) — consiste nella «incarnazione della vita e del messaggio cristiano in una concreta area culturale, in modo tale che questa esperienza [cristiana] non solo riesca a esprimersi con gli elementi propri della cultura in questione (il che sarebbe un adattamento superficiale), ma diventi il principio ispiratore, normativo e unificante, che trasforma e ricrea questa cultura»​​ (Acta Romana Societatis Jesu​​ XVII [1977-1979] 229-255).

Ma la cultura — che è l’insieme di valori e di comportamenti di un popolo o di un gruppo — non rimane mai un discorso astratto; si traduce inevitabilmente nelle istituzioni della convivenza civile, nelle strutture della città e dello Stato. Ora, il passaggio dalla cultura alle istituzioni e alle strutture pubbliche avviene attraverso la mediazione politica, la quale viene cosi ad assumere quella importanza centrale che dicevamo, fungendo da anello di congiunzione tra Paese reale e Paese legale, tra progetto e sua realizzazione, tra valori e ideali della gente e programmi dei partiti. Se la politica si corrompe, se l’anello si spezza, allora gli ideali e i valori restano utopia e la prassi politica diviene ricerca del potere, clientelismo, guerra tra correnti, fonte di scandali.

Perciò, se è necessario tenere ben distinti tra loro i piani della fede, della cultura e della politica, tuttavia non è possibile separare l’uno dall’altro. Un nesso inscindibile li tiene legati vicendevolmente: la «coerenza». La fede illumina la cultura, il discorso sull’uomo e sulla storia; a sua volta, l’antropologia ispirata cristianamente diventa l’anima di una prassi politica coerente con i valori della fede. Di conseguenza, come una medesima fede può ispirare culture diverse, senza identificarsi con alcuna, così la medesima fede può ispirare opzioni politiche diverse, senza che alcuna possa rivendicare l’esclusiva di rifarsi pubblicamente ai valori cristiani. L’unica condizione, necessaria e sufficiente che si richiede all’impegno politico del cristiano, è la «coerenza» delle sue scelte con i valori fondamentali della fede e di un’antropologia illuminata da quegli stessi valori.

 

1.3. Laicità della politica

La diversità del piano della fede da quello della politica e la necessità del piano intermedio delle mediazioni culturali che devono animare la prassi e l’impegno temporale del cristiano, nello stesso tempo, fondano e suppongono la «laicità» della politica.

Il Concilio ha chiarito definitivamente che le realtà temporali (e, tra queste, la politica), per volontà del Creatore, hanno una loro consistenza ontologica, una propria verità e bontà, un ordine proprio, leggi proprie e strumenti specifici, che sono autonomi, non mutuati dall’ordine e dal fine soprannaturale, al quale tuttavia sia l’uomo, sia ogni realtà temporale rimangono sempre orientati come al loro ultimo fine: «È in virtù della creazione stessa che le cose tutte ricevono la loro propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro ordine. L’uomo è tenuto a rispettare tutto ciò, riconoscendo le esigenze di metodo proprie di ogni singola arte o scienza» (GS 36; cf pure AA 31 b).

Ciò significa che dalla fede non si può dedurre direttamente un modello politico di società, di governo o di partito. La fede non offre ricette di organizzazione sociale, politica ed economica. Il Vangelo indica i valori da rispettare e da promuovere, come una bussola indica il Nord, affinché la politica serva veramente all’uomo; impegna i cristiani a incarnare nella storia concreta d’ogni giorno quei valori, a lottare per affermarli e difenderli; non dice, però, attraverso quali vie, con quali programmi, grazie a quali scelte pratiche ciò debba avvenire. La fede, insomma, mentre da un lato spinge i cristiani a non restare passivi o assenti ma a entrare attivamente nella vita sociale e politica, dall’altro lascia intatta tutta la fatica e responsabilità della ricerca, il rischio delle scelte; non si sostituisce alla competenza professionale, che ciascuno invece dovrà procurarsi studiando e operando come tutti gli altri, per poter compiere con cognizione di causa le necessarie mediazioni richieste dalla prassi politica. Queste, dunque, saranno sempre il frutto combinato di una duplice fedeltà: della fedeltà ai valori cristiani ispiratori, e della fedeltà alle regole proprie dell’arte politica, che appartengono all’ordine della ragione e della natura, non derivano direttamente dalla rivelazione soprannaturale.

Questo sano concetto di «laicità» vieta che la «coerenza» con la fede, richiesta ai cristiani operanti in politica, degeneri in confessionalismo o in clericalismo; esclude, cioè, che la politica venga fatta servire a fini diversi da quello che le è proprio: il bene temporale della comunità civile. Non è lecito mettere la politica al servizio degli interessi della Chiesa o considerarla uno strumento finalizzato all’evangelizzazione e alla salvezza delle anime! Il cristiano darà gloria a Dio, contribuirà alla credibilità del vangelo e aiuterà il prossimo a salvarsi, proprio nella misura in cui rispetterà la laicità dei processi politici, mirando a realizzare quel bene comune politico, il quale — come scrive Giovanni XXIII nella​​ Mater et magistra​​ — è «l’insieme di quelle condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani lo sviluppo integrale della loro persona» (n. 65).

Perciò non basta essere buoni cristiani per essere bravi politici. Per essere insieme e buoni cristiani e bravi politici, occorre essere uomini di sintesi vitale, capace di tradurre la «coerenza» con la fede nella «laicità» e nella professionalità della politica.

 

1.4. Una duplice accezione di «politica»

Sulla base dei chiarimenti che precedono, è possibile comprendere meglio la duplice accezione in cui il termine e il concetto di politica oggi sono comunemente usati.

In un primo senso, «politica» è intesa nella sua accezione più ampia, culturale, in quanto essa dice una data visione del mondo, dell’uomo e della storia. È la politica che potremmo definire «con la P maiuscola», perché viene prima, sta alla base della prassi po-

litica, cioè dei programmi, dei modelli di governo, dei partiti. Dunque, in senso lato, sono «politica» pure le attività sociali, assistenziali, di volontariato, di iniziativa culturale e religiosa, che non fanno capo direttamente ai partiti o a enti dello Stato, ma emergono spontaneamente dall’impegno dei «mondi vitali», dalla base sociale.

La seconda accezione, quella più comune, in cui viene usato il termine «politica» è nel senso della «prassi politica», propria dei partiti, dei sindacati, del governo, della pubblica amministrazione...

Ci si riferisce, cioè, a un preciso programma di cose da fare, alla traduzione tecnica delle istanze della base sociale, da coordinare in vista del bene comune.

È la politica che potremmo definire «con la p minuscola», perché viene dopo, concretizza attraverso le necessarie opzioni pratiche quel discorso sull’uomo, quella scala di valori che costituiscono la «cultura» politica, ispiratrice della «prassi».

Dunque, Politica (con la P maiuscola) e politica (con la p minuscola) sono due aspetti o momenti distinti ma inseparabili dell’unica realtà «politica».

La causa principale della crisi della «politica» nel nostro tempo, che ha portato alla degenerazione della partitocrazia, è nata proprio dalla innaturale frattura tra prassi e cultura politica.

Un partito, un sindacato, un ente pubblico che rompe il suo collegamento con il retroterra sociale e culturale è destinato a degenerare, a «bloccarsi» e, alla lunga, a perire. Una prassi politica non più ispirata e vivificata dai valori della gente, dalla cultura della base sociale, non è più nemmeno politica!

Di qui l’urgenza del discorso che oggi andiamo facendo sulla necessità di restituire un’anima alla politica. Solo con una «risurrezione» della politica, che rimetta il cittadino (e non i partiti, i sindacati o gli enti pubblici) con i suoi veri problemi e con i suoi valori al centro del sistema, sarà possibile il rinnovamento dei corpi intermedi, che nonostante tutto restano insostituibili nella nostra democrazia rappresentativa, e soprattutto sarà possibile passare dalla «democrazia bloccata» a una «democrazia matura», come tutti giustamente auspichiamo.

 

2.​​ L’impegno politico del cristiano

 

2.1. Ispirazione cristiana della politica

In che cosa consiste allora l’ispirazione cristiana della politica? La fede esercita una duplice funzione verso la politica, presa nel suo aspetto e di cultura politica e di prassi.

La prima funzione è quella di coscienza critica della politica. Grazie alla luce che la rivelazione cristiana getta sull’uomo e sulla storia, la fede diventa come uno specchio nei confronti del servizio politico. Non che in essa si trovi l’indicazione concreta del cammino da fare; ma nel senso che la coerenza con i valori evangelici diviene elemento essenziale di verifica della bontà del cammino, del programma, delle scelte che i politici autonomamente e responsabilmente compiono. Così, la fede da un lato induce a condannare e a rifiutare con forza tutto ciò che è contro il bene dell’uomo, smascherando le deviazioni anche quando talvolta sono presentate come una crescita o una «conquista di civiltà»; d’altro lato, la fede, essendo trascendente e non identificandosi con nessuna ideologia, apre gli occhi a cogliere tutto ciò che va nel senso vero dell’uomo, induce a favorire quanto di buono c’è in ogni elaborazione culturale e politica, mette in luce quanto nella società pluralistica unisce e serve a costruire una città a misura d’uomo, aperta alle istanze trascendenti.

Accanto a questa funzione critica e di discernimento, la fede esercita verso la politica una seconda funzione: profetica e creativa; cioè, nel pieno rispetto della laicità delle necessarie mediazioni, suggerisce positivamente scelte coraggiose e aperte. La «coerenza» con i valori cristiani non consiste soltanto nel fatto di garantirsi che in un programma o in una data scelta non vi sia nulla che contraddica i valori della fede o dell’etica; sta soprattutto nello stimolo a trovare risposte nuove ai problemi nuovi e ad elaborare programmi costruttivi ed efficaci per venire incontro alle sfide del cambiamento, inventando e creando soluzioni positive adeguate.

Tutto ciò, nel pieno rispetto della laicità della politica. La luce e le forze che vengono dalla fede vanno mediate attraverso scelte tecnicamente e professionalmente valide, tali cioè che possano essere condivise e attuate sul piano razionale e della efficienza politica, da parte anche di chi non crede.

 

2.2. Responsabilità e autonomia politica dei laici

Il Concilio ha rivalutato pienamente questo ruolo «laico» della mediazione politica dei cristiani. A lungo i fedeli laici sono stati considerati meri esecutori passivi, in campo temporale, delle direttive elaborate dalla Gerarchia ecclesiastica. Per due ragioni. La prima era che i problemi sociali erano ritenuti una questione essenzialmente etica e quindi di esclusiva competenza della Gerarchia; la seconda era che i fedeli laici, fino al Concilio, venivano considerati «ausiliari della Chiesa» (come li definisce Pio XI nella​​ Quadragesimo anno,​​ 152).

Il Concilio, da un lato, ha riconosciuto che i problemi sociali, accanto alla dimensione etica, ne hanno altre di natura economica, politica e culturale, per le quali la Gerarchia non ha una particolare competenza; d’altro lato, ha rivalutato la responsabilità e l’autonomia del fedele laico, il quale riceve direttamente da Cristo (nel battesimo e nella confermazione) la missione di animare tutta la realtà temporale con i valori evangelici, attraverso le sue specifiche competenze: non più quindi mero esecutore passivo delle disposizioni della Gerarchia in campo sociale, ma collaboratore attivo dei Pastori nel momento stesso della elaborazione della «dottrina sociale», con l’apporto della propria esperienza e competenza professionale e scientifica (cf AA 31 b).

«Passare all’azione — scrive Giovanni XXIII nella​​ Mater et magistra​​ — è un compito che spetta soprattutto ai Nostri figli del laicato [...], in virtù del loro stato»; seguano sempre la loro coscienza rettamente formata secondo l’insegnamento sociale del Magistero, ma rispettino l’autonomia e la legittima laicità della politica: «Svolgano le attività temporali secondo le leggi a esse immanenti per il raggiungimento efficace dei rispettivi fini» (n. 241). A questo insegnamento avrebbe fatto eco il Concilio: i fedeli laici «non pensino che i loro pastori [...] a ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, possano avere pronta una soluzione concreta o che proprio a questo li chiami la loro missione: assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità» (GS 43).

È perciò una falsa concezione di obbedienza alla Chiesa quella di coloro che non danno un passo se il vescovo non parla o se il parroco non appoggia! Questa mentalità clericale ha fatto ormai il suo tempo. I fedeli laici sono responsabili e autonomi nelle scelte politiche che devono compiere. Certo, agiranno sempre guidati da una coscienza rettamente formata, cioè illuminata dal vangelo e dal magistero sociale della Chiesa, ma la fatica e il rischio delle mediazioni da compiere rientra nella loro specifica vocazione battesimale. Ciò non toglie che spetta poi ai Pastori il grave dovere di valutare e di verificare la coerenza o meno con il vangelo delle scelte e dei comportamenti che i fedeli laici autonomamente e responsabilmente assumono.

 

2.3. Pluralismo delle opzioni politiche

La laicità della politica e l’autonomia delle scelte politiche che i fedeli laici legittimamente compiono fondano, già di per sé, la legittimità del pluralismo in politica. Tuttavia, a queste considerazioni occorre aggiungerne un’altra: è la natura stessa della politica a postulare il pluralismo delle opzioni.

La politica, infatti, è una realtà complessa, sempre condizionata concretamente da situazioni sociali, culturali, economiche e di altra natura. Cosicché, se i cristiani hanno il dovere di agire politicamente in coerenza con il vangelo e con l’insegnamento della chiesa, tuttavia è normale che legittimamente differiscano sul giudizio da dare circa l’opportunità, l’apprezzamento prudenziale, le priorità e l’efficacia di un programma di partito o di governo. In questo senso, Paolo VI giustamente conclude: «Nelle situazioni concrete e tenendo conto delle solidarietà vissute da ciascuno, bisogna riconoscere una legittima varietà di opzioni possibili. Una medesima fede cristiana può condurre a impegni diversi» (OA 50).

Quindi, per il cristiano, il pluralismo delle opzioni politiche è espressione normale di libertà, e si spiega con resistenza di limiti obiettivi in ogni processo conoscitivo, con i diversi condizionamenti che influiscono su ogni decisione opinabile. Chi potrebbe mai pretendere di possedere una conoscenza perfetta delle situazioni entro cui opera o delle possibilità che si offrono per risolvere un problema complesso, delle priorità da fissare? Perciò è legittimo che vi siano pareri differenti, che si propongano soluzioni diverse o addirittura in contrasto tra loro, nonostante ci si rifaccia tutti ai medesimi valori cristiani. Pretendere di possedere l’analisi politica perfetta e volerne derivare l’obbligo per tutti di scegliere un determinato programma politico significa dimenticare o disattendere la natura stessa dell’arte politica, che è di natura sua mutevole e contingente; significa dare valore assoluto a scelte o a programmi che di natura loro non possono essere che relativi. Il pluralismo, dunque, non solo è legittimo, ma utile e necessario ai fini della stessa attività politica, perché attraverso il confronto e il dialogo si giunge meglio a comprendere ciò che veramente serve al bene comune. Ovviamente il pluralismo ha i suoi limiti. Vi è anzitutto il limite rappresentato dai valori fondamentali della fede e dell’uomo, i quali non possono essere compromessi da chi in politica vuole ispirarsi all’ideale cristiano. È la questione della «coerenza», di cui abbiamo detto. Perciò, ogni programma, partito o sistema che rispetti e promuova tutti i diritti fondamentali della persona e della società può essere condiviso dai cristiani. Ma sarebbe sbagliato ridurre il discorso sul pluralismo al solo fatto che in una determinata scelta politica non vi sia nulla che contrasti con la fede e la morale. Pluralismo non è sinonimo di indifferentismo, non è un atteggiamento qualunquistico, per cui un programma vale l’altro, purché non contenga nulla di male. L’ideale evangelico è molto esigente, è qualcosa di più di un mero atteggiamento difensivo; è soprattutto proposta, è creatività. Pertanto chi vuole impegnarsi in politica, ispirandosi ai valori cristiani, deve valutare bene se un dato programma consenta in positivo la piena incisività, la ricca fecondità del fermento evangelico.

 

2.4. I partiti di ispirazione cristiana

Col discorso del pluralismo è strettamente legato quello della militanza dei cattolici in un partito di ispirazione cristiana.

Conviene, anzitutto, rivendicare la legittimità della esistenza di un tale partito. Essa riposa su due ragioni fondamentali: sul fatto che il messaggio cristiano, pur essendo essenzialmente religioso, può contribuire moltissimo a trovare la risposta ai gravi problemi della promozione umana sul piano laico della politica; e sul fatto che in regime democratico l’associazione è necessaria affinché i valori in cui si crede possano efficacemente affermarsi e servire alla costruzione della società pluralistica.

Ora, lo strumento attraverso cui i cittadini possono partecipare responsabilmente alla elaborazione della politica nazionale è soprattutto l’associazione in partito, oltre le mille forme di aggregazione nel sociale e nei settori prepartitici, di natura prevalentemente volontaristica, assistenziale, culturale e formativa.

Quindi, è del tutto normale che cittadini, desiderosi d’ispirare il loro servizio politico agli ideali cristiani, si uniscano in partito. E la storia ha dimostrato largamente l’utilità dei partiti d’ispirazione cristiana ai fini di una democrazia da costruire e da difendere.

Ma una cosa è dire che è legittima resistenza di uno o più partiti d’ispirazione cristiana, un’altra cosa è pretendere di dedurre dalla fede la necessità dell’esistenza di un «partito cattolico», al quale soltanto potrebbero aderire i fedeli laici. È questa una vecchia tentazione, caratteristica della mentalità integrista, che non muore mai. «I due termini [“partito” e “cattolico”] — scriveva già don Luigi Sturzo settant’anni fa — sono antitetici; il cattolicesimo è religione, è universalità; il partito è politica, è divisione» (Il partito popolare,​​ vol. I: 1919-1922, Zanichelli, Bologna 1956, p. 76). La fede non ha partiti, non può né deve averne! E se è vero che in situazione di emergenza, qualora fossero in pericolo fondamentali valori dell’uomo, potrebbe rendersi necessaria e obbligante l’unità politica dei credenti, ciò avverrebbe solo per ragioni contingenti e straordinarie. Ecco perché non è lecito ad alcuno appropriarsi del nome cristiano o arrogarsi la rappresentanza della Chiesa in politica, chiedendo il consenso sul programma per motivi religiosi e confessionali. Sarebbe questa una indebita strumentalizzazione della fede, facendone un uso ideologico. Il consenso intorno a un eventuale partito d’ispirazione cristiana va chiesto e meritato non in nome della comune appartenenza a una fede o a una chiesa, ma in virtù dell’efficacia politica del programma proposto e della coerenza, onestà e competenza politica degli uomini che pubblicamente ispirano il loro servizio agli ideali evangelici.

Queste acquisizioni della coscienza cristiana dopo il Concilio pongono perciò il problema del rinnovamento dei partiti d’ispirazione cristiana, che dovrà avvenire attraverso un modo maturo di vivere l’ispirazione evangelica, senza cedere a forme di neointegrismo, ma rivendicando la laicità e la aconfessionalità del partito, la responsabilità e l’autonomia delle sue scelte, nella coerenza sempre con il proprio patrimonio ideale: si tratta, così, di aprire il partito a tutte le forze vive del Paese, superando la tentazione di farne il partito degli «interessi cattolici». Un partito d’ispirazione cristiana nasce per servire al bene comune di tutti indistintamente i cittadini, con un programma che sia valido in sé e accettabile da ogni uomo di buona volontà.

 

3.​​ L’impegno politico della comunità cristiana

 

3.1. «Scelta religiosa» e politica

Il rapporto fede-politica non interpella soltanto i singoli credenti; il suo approfondimento pone interrogativi nuovi pure alle comunità cristiane e alla chiesa in quanto tale. Una delle acquisizioni più importanti del Concilio in tema di rapporti chiesa-mondo e fede-politica è stata certamente «riscoperta» (per dire così) della natura essenzialmente religiosa della chiesa e della sua missione: «La missione propria, che Cristo ha affidato alla sua Chiesa, non è di ordine politico, economico e sociale: il fine infatti che le ha prefisso è di ordine religioso» (GS 42). Di conseguenza, la responsabilità specifica della chiesa in quanto tale in campo politico non può essere che di natura pastorale. Non, quindi, un attegiamento di neutralità di fronte ai problemi, né tanto meno assenza o fuga; ma chiara presa di posizione ogni qual volta lo esigano giustizia e carità, per indicare in Cristo il senso ultimo e completo delle vicende umane, per condannare senza mezzi termini violenze e soprusi, specialmente quelli contro i più poveri ed emarginati, per incoraggiare e appoggiare sul piano etico e religioso le scelte politiche a favore dell’uomo, della sua dignità e libertà.

Questa nuova consapevolezza del modo suo specifico di rendersi «presente» alla politica ha fatto sì che la Chiesa superasse definitivamente la vecchia concezione del «collateralismo» partitico, per aprirsi alla cosiddetta «scelta religiosa». Questa non consiste affatto nel disinteresse per la politica, per andarsi a rinchiudere nelle sagrestie o nel tempio; induce anzi a una rinnovata e coraggiosa presenza nel mondo, libera da ogni connivenza col potere, forte della parola di Dio e della povertà evangelica. In virtù della natura essenzialmente religiosa della sua missione, la comunità cristiana si autoesclude dall’intervenire direttamente nella prassi politica partitica (la politica con la «p» minuscola!): non perché sia una cosa «sporca» o immeritevole di attenzione, ma perché non potrebbero divenire «di parte» quanti, in virtù di una particolare vocazione, sono chiamati a «testimoniare l’Assoluto» indistintamente a tutti. Ciò non impedisce affatto alla Chiesa di seguire e di giudicare sul piano etico-religioso programmi, scelte, carenze e realizzazioni di governi e di partiti: è anzi suo preciso dovere alzare la voce; e ciò più di una volta, le susciterà contro difficoltà e incomprensioni. Nulla poi impedisce che vescovi sacerdoti, religiosi, operatori pastorali e quanti si consacrano direttamente al servizio ecclesiale in modo speciale (come nel caso dei membri dell’Azione Cattolica), in quanto cittadini e a titolo personale, abbiano la propria opinione politica ed esercitino i propri diritti-doveri come tutti gli altri.

La «scelta religiosa» bene intesa, dunque, è condizione essenziale per poter svolgere più liberamente ed efficacemente la missione propria della chiesa. Essa fa della comunità cristiana il luogo privilegiato d’incontro, di unità e di comunione tra fratelli in Cristo, intorno alla parola di Dio, all’eucaristia e al vescovo, al di là delle legittime differenze di sensibilità culturale e di opzioni politiche diverse.

 

3.2. Chiesa, Stato e società

Movendo dalla «scelta religiosa» della comunità cristiana, il Concilio ha aperto un discorso nuovo sui rapporti tra chiesa e stato, tra chiesa e società.

Per quanto riguarda il rapporto tra chiesa e stato, il Concilio non si è limitato a ribadire la necessaria piena autonomia di ciascuno nel proprio ordine, ma ha chiesto alla comunità cristiana di rinunciare a essere, o anche solo ad apparire, un interlocutore privilegiato dello stato: la chiesa — leggiamo nella GS 76 — «non pone la sua speranza nei privilegi offertile dall’autorità civile. Anzi essa rinuncerà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso potesse far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni».

Le ragioni pastorali (oltre quelle dottrinali teoriche) di questo «distacco» sono essenzialmente due. La prima è che la chiesa vuole riprendersi tutta la sua libertà, per poter meglio intervenire, senza legame alcuno e restando sul piano etico-religioso che le è proprio, ogni qual volta lo richiedano la sua missione evangelizzatrice e le diverse situazioni storiche. In secondo luogo, la libertà piena nei confronti dello stato è premessa necessaria affinché la chiesa sia in condizione di accogliere con credibilità e disinteresse tutti coloro che a essa si rivolgono come a madre e maestra, senza secondi fini e senza esclusione alcuna. Tuttavia, «autonomia» non significa rottura; libertà dai privilegi non significa estraneità. Infatti la chiesa, avendo la rilevanza sociale e istituzionale, non può rinunciare a uno specifico statuto — di diritto e di fatto — di fronte allo stato. Ma si tratta di instaurare un rapporto diverso, tutto esclusivamente teso a collaborare insieme per la promozione dell’uomo e per il bene comune. Così, paradossalmente, la rinuncia al trattamento di favore, quale esisteva ai giorni dello stato confessionale, anziché nuocere, rende la chiesa non più lontana o estranea allo stato, bensì più interna di prima alla vita del Paese. Infatti, grazie alla «scelta religiosa», si aprono alla comunità cristiana nuovi orizzonti di servizio alla società, dove potrà, con maggiore credibilità e libertà, animare i settori prepolitici, esercitando soprattutto quella pedagogia della fede e quell’opera di formazione delle coscienze e delle intelligenze che sono proprie della sua missione religiosa. Così, in virtù della sua «scelta religiosa», la chiesa può rivolgersi liberamente a tutti: stato e società, partiti e sindacati, autorità e cittadini semplici; in particolare può impegnarsi al servizio del bene comune, incoraggiando i fedeli laici a prepararsi e a rendersi presenti in politica, sostenendo con la sua forza morale le battaglie fondamentali in favore della dignità dell’uomo, della vita e della famiglia, e per vincere le nuove povertà.

Ecco, dunque, come la chiesa fa politica! Non scendendo sul campo della lotta per il potere tra i partiti, ma annunziando la salvezza di Cristo, illuminando i problemi dell’uomo con la luce della parola di Dio, formando uomini nuovi, capaci di orientare poi le scelte di prassi politica secondo i valori fondamentali di un umanesimo integrale, aperto a Dio. Questo significa fare politica «con la P maiuscola», contribuendo così a «dare un’anima» alla politica in crisi, nel pieno rispetto della laicità e del legittimo pluralismo delle opzioni possibili.

Ciò non esclude che in casi di emergenza, qualora fosse l’unica voce in grado di intervenire a difesa dei diritti e della dignità della persona umana, di fronte all’assenza o all’impossibilità per altre forze d’intervenire, la comunità cristiana possa essere chiamata, in funzione di «supplenza», a svolgere un ruolo «politico» che non le è proprio, dopo un serio discernimento (cf Sinodo dei Vescovi 1971,​​ Il sacerdozio ministeriale e la giustizia nel mondo,​​ p. II, c. 1).

 

3.3. La formazione dei laici alla politica

Dopo tutte le riflessioni fatte, si può veramente concludere che il maggior contributo della chiesa al superamento della crisi della politica, alla sua «risurrezione» con lo sguardo al domani, è quello di un impegno nuovo per preparare i laici a una rinnovata presenza nella società e in politica.

Da questo punto di vista, acquista valore di un «segno dei tempi» lo sforzo formativo espresso recentemente dalle comunità cristiane mediante le scuole di formazione all’impegno socio-politico. E non è un caso che l’esempio sia venuto da Palermo, cioè da una frontiera dove la fede si confronta con la vita in modo drammatico, dove il futuro germoglia vigoroso da un passato pieno di contraddizioni e di contrasti violenti.

Ma, dinanzi alle acquisizioni del Concilio e dinanzi alle sfide delle profonde trasformazioni sociali di oggi, occorre avere il coraggio di inventare risposte nuove, che prefigurino quel modo nuovo con cui la chiesa è chiamata a farsi presente nella realtà pluralistica e secolarizzata dei nostri giorni. Così, per esempio, non avrebbe senso dare vita a «scuole di dottrina sociale» riservate solo ai credenti o a «scuole di partito» che diverrebbero una forma rinnovata dell’antico «collateralismo». Questo è un momento in cui la chiesa deve pensare in grande, preoccupandosi più del mondo da salvare che del tempio da costruire. Le comunità cristiane dovranno sempre più aprirsi a essere luogo di crescita e di formazione, offrendo non solo ai battezzati, ma a tutti gli uomini di buona volontà, la possibilità di confrontarsi concretamente con il messaggio cristiano. L’impegno di formare coscienze e intelligenze al servizio politico non può conoscere altre frontiere che quelle del bene comune del Paese. Si tratta, cioè, di aiutare i nuovi quadri politici e amministrativi di domani a realizzare nella propria vita, grazie al tirocinio di una preparazione seria, la sintesi necessaria tra carica ideale ed etica e professionalità.

 

3.4. Per una spiritualità della politica

Infine, non si può omettere il fatto che, nel cristiano impegnato in politica, l’ispirazione ideale ed etica (la quale — come abbiamo detto — è l’anima di ogni servizio politico) diviene vera e propria spiritualità. Ciò significa che la testimonianza cristiana in politica non passa soltanto attraverso la competenza professionale; così come non basterebbe — da sola — la sincerità e l’autenticità dell’esperienza di fede. In politica vale in modo ancor più esigente quanto si richiede dal cristiano in ogni sua attività: la «sintesi vitale» tra coscienza religiosa e professionalità. Anzi, quanto più il politico oggi è chiamato al confronto e alla collaborazione con appartenenti a ideologie diverse, tanto maggiori dovranno essere siala «coerenza» del cristiano, sia la sua capacità di mediazione e di dialogo. Ora, solo una matura spiritualità della politica consentirà di raggiungere questa necessaria «sintesi vitale» tra fede e storia. Pertanto, gli orientamenti fondamentali di una spiritualità della politica si possono ricondurre a tre principali.

Il primo è vivere la politica come una vera e propria «vocazione», cioè come parte integrante della stessa vocazione battesimale: «Tutti i cristiani — insiste il Concilio — devono prendere coscienza della propria speciale vocazione nella stessa comunità politica; essi devono essere d’esempio, sviluppando in sé stessi il senso della responsabilità e la dedizione al bene comune» (GS 75). Il fine ultimo della vocazione cristiana, come quello di ogni uomo, è l’Assoluto, è Dio. La politica, dunque, nonostante la sua importanza, non costituirà mai per il cristiano un assoluto a cui sia lecito sacrificare tutto; sarà invece il campo ideale per testimoniare che difficoltà e tentazioni di un cammino tra i più impervi non possono impedire il raggiungimento della perfezione e della santità. Infatti, vale anche per il cristiano in politica il comando del Signore: «Siate perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste» (Mt 5,48), riecheggiato ai nostri giorni dal Concilio: «Tutti i fedeli, di qualsiasi stato o grado, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità: da questa santità è promosso, anche nella società terrena, un tenore di vita più umano» (LG 40). Vale, dunque, anche per i cristiani impegnati in politica la possibilità di raggiungere la perfezione non «nonostante la loro attività temporale», ma anzi proprio «grazie» ad essa (cf LG 41). Il secondo orientamento di fondo per una spiritualità della politica si traduce nello «stile» evangelico di vivere l’esercizio del potere come servizio. Certo, il potere è una componente essenziale della politica, e sarebbe puerile disconoscerlo. Tuttavia, per il cristiano fanno legge l’esempio e l’insegnamento esplicito del Signore: «I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così; ma [...] chi governa [sia] come colui che serve; [...] Io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,25ss). In concreto, vivere la politica come servizio significa avere forte il «senso dello stato», dare la precedenza sempre al bene comune e agli interessi più generali, senza indulgere a interessi personali o corporativi, senza guardare a sacrifici. Perciò, esercitare il potere in spirito di servizio significa immettere nella costruzione della città dell’uomo il cemento della solidarietà e dell’amore, che porta a privilegiare le classi meno abbienti e più emarginate, i poveri d’ogni condizione, condividendone sinceramente i problemi, le lotte e le speranze.

Infine, una matura spiritualità della politica si esprime nello spirito di discernimento, necessario per non scadere in un piatto pragmatismo e in una deteriore «ragion di stato», che non esita a posporre valori e comportamenti etici fondamentali al raggiungimento di fini immediati e utilitari. Si suppone perciò, nel cristiano che fa politica una mentalità nuova: «Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2). Il cristiano politico dovrà escludere dalla propria vita il ricorso a metodi meschini e immorali di comportamento, di amministrazione, di lotta politica; nello stesso tempo, dovrà ispirare il proprio servizio a quei valori fondamentali dell’uomo e della convivenza civile che sono patrimonio non solo della fede, ma della coscienza di ogni persona retta. Una spiritualità della politica è, insomma, essenzialmente una spiritualità di condivisione e di incarnazione, è una spiritualità che trasforma e rinnova, è una spiritualità del dialogo, che — come ripete il Concilio — impegna «i cattolici a cooperare con tutti gli uomini di buona volontà nel promuovere tutto ciò che è vero, tutto ciò che è giusto, tutto ciò che è santo, tutto ciò che è amabile» (AA 14).

Così, la spiritualità della politica non rinchiude nel ghetto, non usa della ispirazione cristiana come di un muro divisorio, né vi scorge un elemento di contrapposizione ideologica; conduce invece al superamento della logica di potere, apre a orizzonti di collaborazione programmatica in favore dei bisogni reali della gente, soprattutto dei più poveri ed emarginati, si traduce in logica di servizio. In una parola, solo un’autentica spiritualità può rendere il cristiano «sale della terra» e «luce del mondo» in uno dei campi più ardui ma più fecondi della testimonianza evangelica, qual è la politica.

 

Bibliografia

I cattolici e la politica, AVE, Roma 1976;​​ I cristiani nel mondo postmoderno: presenza, assenza, mediazione?, La Civiltà Cattolica, Roma 1983;​​ Cristiano e società, Piemme, Casale Monferrato 1988;​​ Il discorso sociale della Chiesa da Leone XIII a Giovanni Paolo II, Queriniana, Brescia 1988;​​ Evangelizzazione e culture oggi in Italia, Cappelli, Bologna 1980;​​ Fede e politica, CE.DOC, Brescia 1976; Lazzati G.,​​ La città dell’uomo, AVE, Roma 1984; Id.,​​ Laicità e impegno cristiano nelle realtà temporali, AVE, Roma 1985; Id.,​​ Per una nuova maturità del laicato, AVE, Roma 1986; Pintacuda E.,​​ Breve corso di politica, Rizzoli, Milano 1988;​​ Quale impegno politico?, F1SC, Roma 1974; Sorge B.,​​ La ricomposizione dell’area cattolica in Italia, Città Nuova, Roma 1979; Id.,​​ Il dibattito sulla ricomposizione dell’area cattolica in Italia, Città Nuova, Roma 1981; Tonini G.,​​ La mediazione culturale: l’idea, le fonti, il dibattito, AVE, Roma 1985.

image_pdfimage_print

 

POLITICA

1.​​ Potere politico e​​ ​​ formazione.​​ Vi è connessione tra esercizio del potere politico e processo educativo. L’azione p. implica necessariamente una concezione dell’uomo e della società (eguaglianza e perequazione sociale, tolleranza e pacifica convivenza, p. culturale e difesa delle minoranze, ecc.). La formazione non può sfuggire a quei modelli politici con cui nella prassi deve misurarsi (assetto istituzionale, distribuzione del potere, ripartizione dei ruoli, ecc.). Da una parte l’esercizio del potere comporta scelte di indirizzo e di intervento, con conseguente incremento ad una cultura della p. che è anche ricerca e formazione Dall’altra il conseguimento di un’istruzione superiore o di nozioni speciali si configura come una condizione primaria, tale da permettere la strada al successo e a vere e proprie posizioni di potere. Politologi e attori politici svolgono ruoli concettualmente distinti, tuttavia non separabili, talora assommati in una stessa persona se questa appartiene ad uno schieramento politico. Infatti la p. è​​ arte​​ e​​ scienza:​​ arte come tecnica, tattica e prudenza insieme; scienza come elaborazione di strutture conoscitive. Da​​ ​​ Socrate in poi, gli aspetti politici dell’educazione vengono messi in risalto sotto questo o quel profilo. Per​​ ​​ Platone vi è coincidenza tra formazione dei filosofi e formazione dei reggitori della​​ polis.​​ Nella storia occidentale, con l’avvento del concetto di​​ societas,​​ i grandi movimenti politici sono stati preceduti, accompagnati o seguiti dalla fondazione di istituzioni educative. Circa gli studiosi del nesso tra p. e educazione possiamo partire da J. Locke e​​ ​​ Rousseau, per giungere a W. von Humboldt e J. S. Mill e terminare con i più vicini ai problemi del nostro tempo: da M. Weber a M. Horkheimer, J.​​ ​​ Maritain e J. Rawls. L’idea di p. come vocazione, l’umanesimo integrale e il neocontrattualismo uniscono e distinguono p., formazione e giustizia. Ugualmente la teoria critica non mirava al puro aumento del sapere, bensì all’emancipazione dell’uomo. Ulteriori contributi sono ricavabili tuttora dalla riflessione di​​ ​​ Gramsci sul nesso tra azione educativa e prassi p. L’esercizio del potere può assumere due aspetti nei riguardi dell’universo educativo. Si può parlare di una p.​​ educante​​ oppure di una p.​​ educativa.​​ Nel primo caso, la p. stessa, in quanto ordinamento della società secondo un orientamento valoriale, pone le premesse dell’educazione, intesa come iniziazione etica e civile. È in una società, e più precisamente entro istituzioni giuste, che un soggetto esistente diviene soggetto responsabile, consapevole, storico. Ciò che è accidentale o precario è elemento costitutivo delle singole realtà, problematiche per natura e definizione rispetto a determinati obiettivi da spostare sempre più avanti e in vista di valori perennemente da realizzare. La p. esercita una sua funzione educante proprio perché indirizzata, con forte realismo, nelle sue espressioni più nobili, verso quei fini che, per largo consenso, sono fondamentali per ogni assetto sociale: libertà, razionalità, democrazia, uguaglianza, sicurezza, progresso, solidarietà. Tuttavia l’indagine circa i risultati deve essere avalutativa, ossia imparziale e oggettiva a prescindere dai motivi ideali a cui si sono richiamati gli attori politici. L’Occidente del secondo dopoguerra, nei casi felici della ricostruzione e della pace, ha mostrato la tendenza verso una​​ paideia​​ fatta, come dev’essere, di cultura (coltivazione e tutela di beni artistici e scientifici) e di civiltà (ordinamento razionale delle istituzioni, sulla base dei diritti dell’uomo e del cittadino). Ora, la connessione tra p. e educazione non è mai un punto di partenza, bensì una meta perenne. Finanche le situazioni migliori possibili presentano punti di frizione. Se poi guardiamo ad archi di tempo secolari, se non addirittura millenari, scorgiamo non poche fratture tra esercizio del potere e disegno ordinato della società. La classe p., in ogni epoca, mira a interessi politici. Entro questa prospettiva la formazione, la cultura, la scienza possono essere strumentalizzate per il potere o a favore dell’immagine di chi lo detiene. Il mecenatismo è prodigo di benefici per poche persone ed ignora il rimanente della società. L’assolutismo illuminato si ispira alla ragione che, in primo luogo, è ragione di Stato. Il tiranno che erige monumenti perenni, a testimonianza della propria gloria, opprime chi non si piega ai suoi voleri. Ogni forma di protezionismo culturale e formativo, a favore di individui o di ceti privilegiati, tende alla egemonia e alla censura. Se la cultura ufficiale, in nome di un ugualitarismo di facciata, è omologata, vengono ostacolate la irriducibilità e singolarità di ciascuna persona e ogni forma di creatività individuale o collettiva. La p.​​ educativa,​​ almeno così come viene intesa comunemente in senso riduttivo, si occupa di quelle particolari istituzioni sociali che, insieme a vari apparati di supporto, hanno per scopo l’istruzione di vario livello ed indirizzo. Se non sono accettabili, per nessun campo politico, l’improvvisazione e il dilettantismo, tanto più questa affermazione vale per coloro che gestiscono strutture e risorse per la formazione delle coscienze. Sono facilmente prevedibili effetti perversi, a danno di intere generazioni, quando gli attori politici sono impreparati e quando vi sono contraddizioni tra successive gestioni. Per ogni caso ed ogni situazione l’impatto dottrinale o ideologico è indubbio, se non addirittura funzionale. Però va colto esso stesso come oggetto d’indagine per i segnali che fornisce e le conseguenze che provoca. Inoltre tutte le iniziative politiche cadono su realtà dinamicamente complesse, rese tali dai rapporti di forza esistenti tra ceti e gruppi sociali che esprimono interessi e aspettative più o meno maturi e livelli culturali di base più o meno elevati. Per queste ed altre ragioni non esistono istituzioni e modelli educativi trasferibili da una situazione nazionale all’altra, anche se si possono costruire criteri e paradigmi per valutare differenti situazioni e confrontarle. Un discorso parallelo, integrativo e complementare a quello della p. educativa è quello sulla​​ ​​ educazione sociopolitica. Con quest’ultima espressione ci riferiamo sia alla maturazione dei cittadini in quanto tali sia ad una vera e propria materia scolastica. Uno dei fini dell’educazione, considerata sotto questo profilo, è la formazione dei soggetti e dei gruppi sociali alla cultura p., fatta di concettualizzazione e di determinate conoscenze. Si possono avere opinioni diverse, o anche diametralmente opposte, circa i medesimi fatti o eventi politici. Però le regole del discorso devono essere uguali per tutti perché universali e le regole del gioco devono essere rispettate da tutti perché pattuite. La conoscenza di ciò che è negativo in una determinata situazione non è lo scopo ultimo dell’educazione sociopolitica; occorre anche sapere perché si ritiene negativo questo o quello. Se è inammissibile una pedagogia di Stato, è altrettanto illecito che la classe p. contraddica con i suoi interventi le linee di sviluppo, scientificamente fondate, dell’azione educativa. Di qui la necessità di definire i compiti degli attori politici nel campo della formazione. Non occorre che costoro siano esperti di pedagogia: è necessaria la consapevolezza da parte loro dei rapporti tra scopi e scelte, tra scelte e risultati, tra risultati e successivi interventi in un campo specifico dell’azione p. Neppure si chiede che dirigenti scolastici e insegnanti siano scienziati della p. per il fatto di svolgere una funzione pubblica che, in quanto tale, ha rilevanza p. Si chiede però che siano consapevoli di tale rilevanza. I problemi della scuola rimangono velleitari se vengono ignorate quelle premesse politiche che sole permettono di affrontarli.

2.​​ La scienza p. dell’educazione.​​ La scienza p. dell’educazione rappresenta un netto progresso rispetto alla p. educativa, genericamente intesa. Essa studia la funzione educativa degli atti politici e i risvolti politici dei fenomeni educativi. È una disciplina applicata a quelle istituzioni e a quegli interventi che possono favorire per tutti i cittadini la migliore educazione possibile. Pertanto per scienza p. dell’educazione si intende l’insieme ordinato di dottrine e teorie che regolano sia le scelte di grande rilievo (programmazione, riforme, investimenti, ecc.) sia i provvedimenti concreti (organizzazione, gestione, dirigenza delle scuole, ecc.) per l’educazione dei singoli e l’elevazione culturale dei gruppi sociali. Essa è una specializzazione della scienza p. generale. Con l’espressione onnicomprensiva​​ volontà p.​​ possiamo denominare sia l’imperio della classe p. sia l’influenza della classe dominante sulle istituzioni formative, scolastiche ed extrascolastiche. La classe p. è composta dalle persone collocate in sedi politiche (parlamento, governo, partiti politici). La classe dominante è composta da coloro che, pur non ricoprendo cariche politiche, esercitano le loro attività entro istituzioni non-politiche ma con indubbi riflessi politici (grande finanza, industria culturale, ordini professionali, corpi accademici, centri di informazione, ecc.). Possiamo usare l’espressione​​ valenza p.​​ per denotare gli aspetti politici dell’educazione, per quanto riguarda sia gli educatori (esercizio di un’autorità legittimata da determinati principi e regolata da una legislazione speciale), sia gli educandi (arricchimento delle loro capacità e abilità con conseguente arricchimento della loro personale forza contrattuale; riconoscimento del loro​​ status​​ di studenti con diritti di partecipazione e integrazione; flessibilità dei piani di studio con «crediti» e opzioni). Il diritto all’educazione, in tutte le sue forme, è il riconoscimento globale di questi aspetti politici dell’educazione. Nei Paesi di consolidata tradizione democratica la formazione tende ad emancipare le persone e ad esaltarne le caratteristiche. Di qui lo spazio concesso a percorsi mobili (uscite e rientri, curricoli individualizzati, sistema dei crediti, ecc.). Nei Paesi del socialismo reale, fino alla fine degli anni Ottanta, gli interessi individuali erano subordinati a quelli collettivi. Di qui una stretta correlazione tra programmazione educativa e pianificazione economica. Per comprendere la varietà dei modelli e delle strutture occorre rifarsi a ragioni storico-politiche.

3.​​ Prospettive di sviluppo.​​ Lo scopo della scienza p., nella mente dei suoi fondatori, consiste nella scoperta e dimostrazione di quelle leggi o tendenze costanti che regolano l’ordinamento politico (Mosca, 1895). La sua natura, oltre che teorica, è operativa. La scienza p. dell’educazione, un suo settore tendenzialmente autonomo, ne condivide la vocazione pragmatica (Izzo, 1994). Dalla scienza p. generale essa acquisisce l’approccio sistemico a particolari aspetti della realtà sociale. Pertanto essa prende l’avvio dai temi di fondo: i rapporti di potere, la formazione delle decisioni, la legittimità delle leggi, la legalità delle norme, la discrezionalità degli atti. Riprende anche alcune distinzioni categoriali, quali consenso, assenso e dissenso; classe p., dominante e dirigente; potere, autorità e dominio, ecc. Sotto questo profilo si arricchiscono di significato e divengono comprensibili alcune espressioni pedagogiche, come educazione compensatrice, pari opportunità, libertà didattica, ecc. Gli studi sulla p. educativa, condotti fino a farne una scienza, sono stati incrementati dallo Stato sociale e dalla conseguente evoluzione delle politiche sociali. Per comprendere il passaggio da condotte empiriche ai fondamenti di una vera e propria scienza p. dell’educazione, si può partire da una classificazione che di recente si è andata precisando nel campo della politologia. È ufficio della p. generale (politics)​​ gestire interventi ordinari e affrontare eventi straordinari. Alle singole condotte politiche (policies)​​ spetta garantire unitarietà d’indirizzo e di programmazione nei singoli settori specifici (difesa, interni, esteri, ecc.), con buone approssimazioni circa gli effetti prevedibili. Però è da preventivare anche l’imprevedibile, giacché non è sopprimibile ogni elemento di accidentalità o di disordine. Ciò che è precario costituisce elemento costitutivo dell’esperienza sociale e p. Per quanto concerne la realtà educativa, va detto che essa è fatta di persone consapevoli, ciascuna a sua misura, dei propri bisogni. Rimangono inavvertite spesso le reali necessità. Lo scopo politico è quello di sollecitare nelle persone la coscienza dei propri bisogni reali e di elevare i livelli delle loro aspettative, mediante interventi coordinati di natura sociale. Rispondere soltanto a domande esplicite, ancorché arretrate, significa consolidare l’esistente. L’educazione rientra nelle materie delle​​ social policies​​ (insieme all’assistenza, alla sanità, alla previdenza sociale, ecc.), dando luogo appunto alla cosiddetta​​ educational policy.​​ Con quest’ultima espressione non si intende «p. educativa» nel senso comune (l’opera dei ministri o degli amministratori), bensì condotta p., basata scientificamente, a proposito di ciò che è «educazionale». E per educazionale si intende la somma degli interventi o dei provvedimenti che, pur non essendo direttamente educativi (per es., la valutazione della «produttività» scolastica), promuovono l’azione educativa in ogni sua espressione. Fondare o gestire razionalmente le istituzioni formative sono atti squisitamente politici. La razionalità delle istituzioni lascia campo all’attività professionale dei dirigenti e dei docenti. La p. educazionale non detta precettistiche pedagogiche. Designa e assegna ruoli (attori politici, funzionari amministrativi, esperti, e via di seguito). Ogni​​ policy​​ ha un’importanza equivalente rispetto a tutte le altre. Tuttavia la​​ educational policy,​​ a giusto titolo, può essere considerata preminente e prioritaria perché permette al cittadino di fruire al meglio dei servizi erogati da tutte le altre condotte politiche. Questa affermazione è convalidata da una recente teoria circa la massimizzazione dei fini. I fini delle varie condotte politiche sono molteplici e, oltre certi livelli di incremento, divengono tra loro contraddittori. Per es., «i processi sociali congruenti con la massimizzazione del valore di sicurezza non sono necessariamente adeguati anche come strumenti per la realizzazione del valore di libertà o di uguaglianza» (Fisichella, 1994, 52). Fanno eccezione i fini educativi, che non presentano alcuna contraddizione con nessun altro fine sociale, ma addirittura, quando sono perseguiti nel modo migliore possibile, permettono di regolare e valutare tutti i fini sociali.

Bibliografia

Laporta R., «P., pedagogia, scienza dell’educazione», in F. Bertoldi et al.,​​ Pedagogia fra tradizione e innovazione,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1979, 145-154; Mosca G.,​​ Elementi di scienza p.​​ (1a​​ ediz. 1895), Torino, UTET, 1982; King E., «Educational policies in the European Region», in M. Debeauvais (Ed.),​​ National educational research,​​ Paris, Unesco, 1990, 30-47; Fisichella D.,​​ Epistemologia e scienza p.,​​ Roma, NIS, 1994; Izzo D.,​​ L’educazione come p. sociale,​​ Napoli, Liguori, 1994; Delors J. et al.,​​ Nell’educazione un tesoro, Parigi / Roma, Unesco / Armando, 1997; Izzo D.,​​ Organizzazione,​​ formazione e dirigenza scolastica, Pisa, ETS, 1999; Bertolini P.,​​ Educazione e p., Milano, Cortina, 2003; Bellatalla L. - G. Genovesi - E. Marescotti,​​ La scuola in Italia tra pedagogia e p. (1945-2003),​​ Milano, Angeli, 2004; Mazzoni V. - M. Schenetti,​​ Educazione e p. Che fare?, Bologna, CLUEB, 2004.

D. Izzo

image_pdfimage_print
image_pdfimage_print
POLITICA

POLONIA

 

POLONIA

Dal termine della guerra (1939-1945), la C. polacca si è fatta strada fra difficoltà molto consistenti. Non è possibile comprenderne le caratteristiche senza prendere in considerazione i nuovi condizionamenti socio-politici e culturali della nazione. È una C. strettamente legata con la Chiesa e con la società. Pur esprimendosi in diverse tendenze, essa possiede una organizzazione omogenea, con formule differenziate.

1.​​ Passata dalla scuola alla parrocchia, tornata per un breve periodo nell’ambito della scuola, la C. ha di nuovo lasciato la scuola e si è stabilmente inserita nella famiglia, nella parrocchia e nei movimenti ecclesiali. Nell’immediato dopoguerra, la base legale dell’insegnamento cat. erano i principi del Concordato del 1925. L’art. 13 del Concordato affermava: a) L’IR avrà luogo in tutte le scuole e sarà obbligatorio per tutti gli allievi, eccetto gli studenti universitari, b) Gli insegnanti di religione, presentati dall’ordinario del luogo, saranno nominati dalle autorità scolastiche.

Nel 1945 il Concordato venne abolito. Non essendovi altra base legale, l’IR fu alla mercé di provvedimenti particolari occasionali. Già nello stesso anno apparve una disposizione che dichiarava non più obbligatorio l’IR nella scuola. Gli allievi potevano ottenere l’esonero, se i genitori lo richiedevano. La nuova Costituzione dello Stato, proclamata nel 1952, conteneva il principio della separazione fra Chiesa e Stato. In virtù di essa, l’IR nella scuola fu abolito. La C. si trovò di fronte all’alternativa: lottare per il ricupero della posizione perduta, oppure cercare un nuovo luogo. Fu scelta la seconda soluzione. All’inizio la C. assunse la forma di incontri pastorali in chiesa, durante i quali, sotto la forma di qualche funzione paraliturgica, si faceva una certa C. per gruppi di fanciulli o di adolescenti. Con l’andar del tempo si organizzò una pastorale cat. più sistematica, fatta nell’ambito della parrocchia, strettamente collegata con la Chiesa, e condotta particolarmente con la Parola di Dio e con la liturgia. Questa C. conservava in larga misura le forme del lavoro didattico e pedagogico, anche se modificate e adeguate alla nuova situazione.

La C. polacca partecipa alle tensioni fra l’atteggiamento ateo dello Stato e quello religioso del popolo. Essendo una forma di servizio della Parola nella Chiesa, essa educa l’atteggiamento personale e sociale dei giovani, che vivono sotto il sistema socialista, il quale si presenta come ateo. Nel togliere la religione dalla scuola e nei tentativi di controllare la C. parrocchiale, si cercava di diminuire l’influsso della C., di minarne la buona organizzazione e di giungere gradualmente alla sua totale liquidazione. L’unanime e coerente atteggiamento dei catechisti e della società ha fatto sì che tutti questi tentativi siano falliti. La C. attraverso queste difficoltà si è rafforzata ed è diventata maggiormente influente. Nel 1956 si riottenne, per breve tempo, l’IR nella scuola, con carattere facoltativo, ma esso venne nuovamente soffocato da provvedimenti amministrativi. Così nel 1981, quando apparvero nuove possibilità, si preferì rinunciarvi, e mantenere la C. nella sua attuale collocazione, in forme ormai fiorenti e positive.

2.​​ La C. polacca, pure essendo aperta alle nuove esperienze e riflessioni, si difende dalle divagazioni e si tiene nell’aurea via di mezzo. Partecipando ai problemi dei vari ambienti sociali, aderendo allo sviluppo della cultura, essa si concentra sulla formazione dell’atteggiamento religioso. Il principio della fedeltà a Dio e all’uomo, un moderato progresso e l’equilibrio dei fattori sembrano essenziali nel creare i concetti, nel programmare i contenuti e nell’elaborare i metodi. Essa è attenta alla trasformazione del popolo e della cultura. Nello stesso tempo contribuisce alla formazione dei cristiani, a farli cioè buoni polacchi e buoni cristiani. Ha anche una portata politica, nel senso che completa le opinioni diffuse dai mass-media, o forma le linee principali del pensiero e delle attività sia a livello dei singoli che dei gruppi sociali.

Nella storia della Polonia del dopoguerra sono sorte tre tendenze cat., ciascuna con la sua fondazione teoretica (che si rispecchia nella bibliografia annessa all’articolo) e le sue attuazioni pratiche: teologico-didattica, biblico-liturgica e antropologica. I partigiani della prima insistevano sulla trasmissione sistematica del deposito di fede, sull’analisi teologica delle formule e sull’assimilazione delle definizioni essenziali. I rappresentanti della seconda mettevano in rilievo l’importanza della Bibbia e della liturgia nella C., e trattavano la C. come una predicazione della Parola di Dio e una introduzione dei catechizzati alla vita liturgica della Chiesa. Secondo loro un contatto personale e comunitario con Cristo, creato attraverso i valori biblico-liturgici, è più importante che una trasmissione delle verità rivelate. I fautori della terza tendenza aprono la C. al catechizzato e al suo ambiente per concentrarsi sui problemi esistenziali dell’uomo e per contribuire, risolvendoli, alla formazione di un atteggiamento maturo di fede.

Oggi la C. integrale gode di un notevole successo. Essa si fa strada nella Chiesa e nel mondo, forma una identità della persona e una comunione interpersonale, trasmette la Rivelazione divina e l’esperienza dell’uomo, sviluppa la cultura e approfondisce la fede, sostiene la continuità e intensifica la pluralità delle forme e dei metodi di influsso. La Commissione Episcopale per la C. suggerisce le linee generali dell’organizzazione, prepara i programmi e approva i manuali. Vige finora il programma del 1971, fatto in due versioni, e rivolto ai fanciulli e ai giovani. Le due versioni del programma permettono di optare per una di esse, ma nel medesimo tempo, specialmente per i catechisti che cambiano diocesi, creano non poche difficoltà. La sezione cat. della Curia vescovile è responsabile per lo stato e l’organizzazione della C. sul territorio della diocesi. Nelle grandi parrocchie, il controllo della C. e la formazione permanente dei catechisti sono affidati a un sacerdote direttore della C.; in quelle piccole questa funzione è affidata al parroco.

I catechisti provengono dal clero diocesano e religioso, dalle religiose e dai laici, e la loro distribuzione nelle singole diocesi è varia, ma in generale gli ecclesiastici sono più numerosi dei laici. Questi ultimi tendono alla definizione di un loro adeguato statuto, ma per ora sono in linea di massima dipendenti dal parroco del luogo. I catechisti ricevono la loro formazione cat. nei grandi seminari, in centri per la formazione di catechisti e nelle facoltà teologiche. La formazione a livello di specializzazione si ha nell’Università Cattolica di Lublino e nell’Accademia di Teologia Cattolica a Varsavia. Le confessioni non cattoliche hanno i propri centri di formazione dei catechisti.

La C. ha luogo nei locali parrocchiali; dove non c’è la chiesa, essa si svolge nelle case private. I fanciulli e i giovani vengono alla C. prima o dopo la scuola o in un altro tempo conveniente. Prevale la forma della C. sistematica (due ore alla settimana per i fanciulli e un’ora settimanale per i giovani). Inoltre, ci sono incontri cat. per gruppi minori (biblici, liturgici, caritativi), la C. per gli studenti universitari e quella familiare, il neocatecumenato, il movimento delle Oasi e quello dei pellegrinaggi. La partecipazione alla C. dei bambini di scuola materna, dei genitori, degli adolescenti, dei giovani, degli studenti e degli adulti è abbastanza grande, però è difficile fornire dati precisi. In media, più del 90% degli adolescenti viene alla catechesi, e il 60-80% dei giovani. Gli altri gruppi non sono ancora stati studiati sotto questo aspetto.

Bibliografia

J. Bagrowicz,​​ Katecheza przedszkolna w Polsce,​​ in “Ateneum Kaplanskie” 70 (1978) 71, 119-132; P. Bednarczyk (ed.),​​ Katechizm Religii Katolickie,​​ Paris, 1977; F. Blachnicki,​​ Katechetyka fundamentalna,​​ Lublin, Katolicki Universytet Lubelski, 1970; J. Charytanski,​​ Elementy tresciowe programu katechezy dia dzieci i mlodziezy,​​ in “Collectanea Theologica” 42 (1972) 3, 75-87; M. Finke,​​ Odnowa katechetyczna,​​ in​​ Pod tchnieniem​​ Ducha​​ Swietego,​​ Poznan, 1964, 557-590; W. Kubik,​​ Podrecznik do katechizacji dzieci najmlodszych,​​ Warszawa, Akademia Teologi! Katolickiej, 1983; M. Majewski,​​ Propozycja katechezy integratrici,​​ Lódz, Wydawnictwo Salezjanskie, 1978; R. Murawski,​​ Katecheza wierna Bogu i czlowiekowi,​​ in “Katecheta” 18 (1974) 18, 196-201;​​ Polonia,​​ in​​ Scuola e religione,​​ vol. 1:​​ Una ricerca internazionale,​​ Leumann-Torino, LDC, 1971, 353-370; H. Schultze – H. Kirchhoff (ed.),​​ Christliche​​ Erziehung​​ in Europa,​​ vol. 5:​​ Polen,​​ Stuttgart, Calwer, 1977; J. Tarnowski,​​ Prekatecheza egzystencjalna,​​ Katowice,​​ 1983.

Mieczyslaw Majewski

image_pdfimage_print
image_pdfimage_print
POLONIA

POPOLARE – Catechesi

 

POPOLARE (Catechesi)

Per C. “popolare”​​ o​​ C. “al popolo” si è intesa, da Trento in poi, l’istruzione cat. data a tutti i fedeli in chiesa, la domenica e nei giorni festivi, da parte del parroco, ad un’ora conveniente per i fedeli. Il Concilio di Trento (sess.​​ 5a,​​ 17 giugno 1546) trattò​​ dell’istruzione religiosa del popolo cristiano,​​ prescrivendo che i parroci “nutrissero il popolo loro affidato, secondo la propria e la loro capacità, con le parole della salvezza, insegnando ciò che a tutti è necessario sapere per salvarsi, spiegando con brevità e facilità di discorso quali sono i vizi da evitare e le virtù da seguire, perché possano sfuggire al castigo eterno e raggiungere la gloria celeste”. Ciò venne fatto quasi sempre attraverso una predicazione pomeridiana che attingeva di solito al →​​ Catechismo Romano​​ (1566). In alcune diocesi tuttavia venne prescritto che la predicazione indirizzata a tutti concludesse la riunione, ma che essa fosse preceduta da una vera e propria lezione cat., anche per il gruppo degli adulti.

L’enc.​​ Acerbo nimis​​ di Pio X (15 aprile 1905) riprese questa legislazione, precisandola come segue: “Tutti i parroci e chi ha cura d’anime, oltre la consueta omelia sul Vangelo, ... spiegheranno il catechismo ai fedeli adulti, in modo facile e adatto all’intelligenza degli uditori, in quell’ora che ciascuno stimerà più opportuna per la frequenza del popolo, fuori però del tempo in cui si ammaestrano i fanciulli. In questo dovranno fare uso del catechismo tridentino e procederanno con tale ordine che, nello spazio di un quadriennio o quinquennio, trattino tutta la materia del Simbolo, dei Sacramenti, del Decalogo, dell’Orazione domenicale e dei Precetti della Chiesa”. Si veda pure il CJC del 1917, can. 1332.

La prescrizione ritorna nel decreto “Provido Sane Consilio” del 12 gen. del 1935, ma non nel CJC del 1983. Quest’ultimo insiste molto sull’omelia e invita, per la C. vera e propria, a trovare iniziative adatte secondo la Chiesa locale, a motivo delle mutate circostanze di vita (domenica impegnata nella distensione dopo una settimana di lavoro; dissolversi della realtà generica “popolo dei fedeli” e prevalere delle differenziazioni sociali, ecc.) per cui, dalla fine degli anni ’50, in Italia come in altri paesi, questo tipo di C. non venne più frequentato. Non erano mancate, nel periodo precedente, numerose iniziative editoriali in aiuto al predicatore-catechista, come pure programmi dettagliati stabiliti da numerose diocesi ed esperimenti nuovi, come ad es. quello dell’ → Azione Cattolica in Italia, e di altri pionieri isolati, che avevano tentato in vario modo di ravvivare questa C. popolare.

Bibliografia

A. Del Monte,​​ La catechesi in azione cattolica e l’azione cattolica nella pastorale della catechesi,​​ in «Presenza Pastorale» 40 (1970) 5-6, 405-424; A. Murari,​​ Le stagioni catechistiche di Ostuni,​​ Torino, LDC, 1959; L. Pignatiello,​​ Per un rinnovamento della catechesi agli adulti,​​ Roma, Ed. Paoline, 1962.

Ubaldo Gianetto

image_pdfimage_print
image_pdfimage_print
POPOLARE – Catechesi

portatori di HANDICAP

 

HANDICAP: portatori di

Non è sempre facile trovare il vocabolo più adatto per esprimere una realtà, soprattutto se questa è complessa e tocca le persone. Così succede nel caso di cui ora ci occupiamo. Le persone con h. sono quelle che o fin dalla nascita o in seguito a evento morboso o traumatico presentano una menomazione fisica, sensoriale o psichica che impedisce o rende loro più difficile vivere una vita autonoma e indipendente.

1.​​ Uso terminologico.​​ La terminologia usata per riassumere questo concetto con migliore o peggiore fortuna, è stata molto varia: deficiente, minorato, anormale, subnormale, ipodotato, ecc. sono tutti termini usati e criticati. L’elenco è più ampio se lo restringiamo al campo dell’h. mentale, cominciando dalla classica distinzione tra idiozia, imbecillità e debolezza. Sempre nel campo dell’h. mentale, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, già nel 1954, propose il termine di «insufficienza mentale». Successivamente si è andato affermando, perché ritenuto più socialmente accettabile e meno carico di prognosi negativa, il termine handicappato o persona portatrice di h., sia esso fisico, sensoriale o mentale. Ultimamente ha prevalso la dizione «diversamente abile». Alle tre categorie sopra indicate (fisico, sensoriale e mentale) si farà ora riferimento, dando maggior rilievo alla problematica relativa alle persone con h. mentale.

2.​​ Gli h. fisici o motori.​​ Ne sono portatrici quelle persone che per difetto di sviluppo congenito o acquisito sono diventate deficitarie nell’uso del corpo e delle membra. Una classificazione di questi h. motori può essere fatta a seconda dell’origine cerebrale, spinale, muscolare o osseo-articolare. È evidente che ciascuno di questi tipi di minorazione pone problemi specifici per l’influsso che esercita sulla​​ ​​ personalità o sul comportamento del soggetto e per le possibilità di​​ ​​ recupero che offre. Le conseguenze di queste minorazioni sullo sviluppo globale della persona sono collegate alla loro gravità, agli eventuali disturbi associati e possono produrre insicurezza e sensi di esclusione e di abbandono. L’azione di recupero e riabilitazione, oltre che essere tempestiva, deve mirare ad un recupero funzionale, a dare alla persona il massimo possibile di autonomia e indipendenza ed a garantire una valorizzazione personale e sociale. È importante sottolineare, però, che l’h. non porta necessariamente al disadattamento ma che il disadattamento è solo uno dei modi di vivere l’h.

3. Gli h. sensoriali.​​ Si riferiscono, in modo particolare, alle minorazioni visive e a quelle uditive, nelle principali gradazioni di gravità (ciechi e ambliopi per gli h. visivi, sordomuti e sordastri per gli h. uditivi). Anche queste deficienze sensoriali pongono problemi di sviluppo equilibrato e armonico delle persone che ne sono portatrici e richiedono interventi psicopedagogici adeguati. Gli interventi di recupero nel caso di h. sensoriali hanno alla base due tipi di azione: l’utilizzo ottimale dei resti sensoriali e il potenziamento della cosiddetta supplenza sensoriale. I resti sensoriali vanno bene utilizzati anche con eventuali protesi, eccetto nei casi in cui una loro sovrastimolazione possa essere nociva. La supplenza sensoriale, e cioè la sostituzione delle funzioni di un senso con il potenziamento degli altri, è un fenomeno ben conosciuto, anche se le spiegazioni di esso non sono unanimi: c’è una superiorità compensatoria di tipo organico (non è stato mai dimostrato)? c’è un migliore utilizzo degli altri sensi con risultati non raggiunti nella normalità? c’è un arricchimento degli altri sensi dovuto alla necessità di rispondere ad esigenze della vita quotidiana? Queste ultime ipotesi sembrano più accettabili della prima. Nell’intervento rieducativo lo scopo è quello di portare la persona con h. sensoriale il più vicino possibile a fare tutto ciò che fanno coloro che di h. sensoriale non soffrono.

4.​​ L’h. mentale.​​ Nel campo dell’h. particolare rilievo assume l’h. mentale o insufficienza mentale. Si tratta di un problema complesso e difficile. È complesso il concetto, sono complesse le ripercussioni sullo sviluppo globale della personalità, sono complesse le modalità di intervento così come sono complesse le posizioni più o meno ideologicizzate che conducono ai vari tipi di azione di recupero. Tre distinzioni iniziali vanno fatte per aiutare la comprensione del concetto di h. o insufficienza mentale: insufficienza congenita, precoce e insufficienza acquisita; già Esquirol distingueva, a suo tempo, tra demente e deficiente: il primo è un uomo privato dei beni che possedeva, il secondo si è trovato sempre nella povertà. Bisogna distinguere inoltre tra insufficienza mentale e insufficienza affettiva: la frequente interazione tra sviluppo intellettivo e sviluppo affettivo può condurre a diagnosi sbagliate. Molti casi, diagnosticati inizialmente come insufficienze mentali si sono dimostrati in seguito a trattamento psicoterapeutico forme di​​ ​​ autismo o di​​ ​​ psicosi infantili. C’è infine da distinguere tra vero h. e falsa anormalità, dovuta quest’ultima, in particolare, a fattori estrinseci allo sviluppo, e cioè a forme di abbandono intellettuale, morale o fisico.

5.​​ L’identificazione e la successiva classificazione delle forme di h. mentale.​​ Sono andate cambiando nel tempo passando da impostazioni diagnostiche legate ad un solo sintomo ad impostazioni più complesse: si passa, per es., da una diagnosi basata sul linguaggio, all’età mentale o al quoziente di intelligenza, all’esame globale della personalità e del comportamento. Si arriva così al cosiddetto «quoziente di sviluppo» di A. Gesell, quoziente che si ricava dall’analisi di quattro aspetti della personalità: comportamento motorio, comportamento linguistico, comportamenti di adattamento e comportamento personale e sociale. Occorre perciò affermare che l’h. mentale così come è multideterminato è anche multidimensionale. Ragionando in questo modo, P. Parent e C. Gonnet affermano che la nozione di debolezza mentale non ha l’unità concettuale che qualche volta le è attribuita e R. Zazzo sottolinea che «la debolezza mentale non è definibile soltanto per il ritmo intellettuale di crescita». Questa concezione più dinamica del concetto di h. mentale ha favorito il superamento della irrecuperabilità ed ha stimolato pedagogisti ed educatori ad un maggiore impegno sul piano scolastico ed educativo.

6. Dalla diagnosi al recupero.​​ Le migliori possibilità di recupero sono legate alla precocità dell’intervento; da ciò nasce l’esigenza di una diagnosi precoce. Questa può essere soltanto il risultato di una stretta collaborazione tra genitori, asili di infanzia e scuole materne e servizi socio-sanitari per l’infanzia. I genitori vanno aiutati a superare tre grossi ostacoli che ritardano il recupero: la non accettazione dell’h., l’ansia per il futuro del figlio, l’iper-protezionismo. La​​ ​​ famiglia, pertanto, diventa la prima struttura per il recupero delle persone portatrici di h. mentali. La famiglia dovrà successivamente accompagnare l’azione svolta da altre strutture di recupero, come i centri di riabilitazione, la scuola ed i centri di​​ ​​ formazione professionale. L’azione integrata di famiglia, scuola, formazione professionale, servizi sociali e di riabilitazione deve portare al raggiungimento di un obiettivo, meta di tutto l’impegno educativo e rieducativo: l’inserimento sociale e lavorativo della persona portatrice di h. All’azione della famiglia, prima struttura di riabilitazione e inserimento, si aggiunge in un secondo momento la scuola, dalla materna alle superiori. Sono stati ormai superati i tempi degli istituti medico-psico-pedagogici, delle scuole speciali (rimangono, evidentemente, istituzioni specializzate per i gravissimi), delle classi speciali e delle classi differenziali.

7.​​ H. e scuola.​​ L’attenzione sistematica della scuola al problema del recupero dei soggetti portatori di h., e in particolare di h. mentale, risale alla fine dell’Ottocento ed ai primi anni del Novecento. Nomi internazionalmente illustri della psichiatria e della pedagogia italiana hanno messo le basi degli interventi istituzionali di recupero. Basti ricordare S. De Sanctis, M.​​ ​​ Montessori, G. Montesano, C. Bonfigli. Del 1899, infatti, è la creazione della Lega Nazionale per la Protezione dei Fanciulli deficienti. Alla costituzione della Lega fece seguito, nel 1900, la prima Scuola Magistrale Ortofrenica a Roma e, nel 1901, il primo Istituto Medico-Psico-Pedagogico. L’azione di recupero scolastico vide fasi alterne di interesse e di routine e solo alla fine degli anni sessanta, in concomitanza con la rivoluzione socio-culturale di quegli anni, assunse rilievo e ottenne un riconoscimento legislativo a cui, pur lentamente, ha corrisposto un’adesione convinta e partecipe della scuola in particolare e della società civile in generale. La lotta all’​​ ​​ emarginazione di ogni tipo portò anche ad una riflessione sui problemi dell’h. e alla necessità di muoversi nella direzione del superamento di ogni intervento sostanzialmente o apparentemente discriminatorio. Nel 1971 la L. n. 118 del 30 marzo, all’art. 28 afferma, anche se con qualche limitazione legata alla gravità dell’h., che l’istruzione dell’obbligo deve avvenire nelle classi normali della scuola pubblica. Questa normativa fu perfezionata e meglio specificata nella L. 517 del 1977. Dalla scuola si ampliò l’azione di lotta all’emarginazione nella formazione professionale, nell’inserimento lavorativo, nelle varie manifestazioni di vita sociale. All’insegna della deistituzionalizzazione si è lavorato per favorire un’integrazione sociale delle persone a rischio: si è trattato, dall’inizio degli anni settanta ad oggi, di un’azione di grande portata civile, anche se condotta a volte senza condizioni che ne garantissero l’efficacia. Si è lavorato con carenza di strutture adeguate e con operatori sociali e scolastici non sempre opportunamente e adeguatamente preparati.

8.​​ Formazione professionale e h.​​ Oltre al lavoro della scuola, va anche riconosciuto il contributo dato dalla formazione professionale per favorire un inserimento lavorativo delle persone con h., nella convinzione che un vero inserimento sociale (obiettivo ultimo dell’azione di recupero) non può essere raggiunto se non si ottiene anche un inserimento lavorativo rispettoso della dignità della persona. Gli interventi tendenti all’inserimento lavorativo hanno potuto avvantaggiarsi di notevoli contributi dell’Unione Europea che, non solo finanziariamente, ma anche con la promozione di scambi di esperienze tra i paesi membri, ha facilitato l’arricchimento a livello di metodologie, tecniche, strumenti e preparazione degli operatori. L’obiettivo «integrazione» nasce dalla centralità della persona e dalla conseguente esigenza di aiutare i portatori di h. ad un recupero di dignità, di autonomia e di protagonismo che, senza ignorare difficoltà oggettive, non parta da posizioni pregiudiziali di totale o parziale irrecuperabilità. A questo riguardo, e lasciando ad altre voci gli aspetti operativi di integrazione scolastica, lavorativa e sociale (​​ sostegno educativo, recupero, rieducazione), vanno sottolineate alcune essenziali esigenze.

9. L’integrazione sociale degli handicappati.​​ Va detto in primo luogo che nessuna vera integrazione sociale della persona con h. è possibile se non esiste accettazione da parte della società in cui deve integrarsi e se da parte della popolazione civile la persona con h. non viene accolta con le sue limitazioni: infatti non c’è integrazione senza accettazione. È anche importante ricordare che per quanto riguarda le possibilità di recupero della persona con h. non è possibile fare delle prognosi a priori: non si possono porre limiti iniziali all’intervento educativo. Va infine detto che occorre prestare particolare attenzione alla parte sana della persona handicappata; a volte, l’attenzione all’aspetto deficitario corre il rischio di far dimenticare lo sviluppo di altre capacità e potenzialità. Sempre in riferimento all’integrazione sociale vanno segnalate tante iniziative oggi esistenti che favoriscono il recupero e l’inserimento di queste persone, tra cui, l’organizzazione nazionale e internazionale di gare e olimpiadi che prevedono la loro partecipazione.

Bibliografia

Zazzo R.,​​ Une recherche d’équipe sur la dé­bilité mentale,​​ in «Enfance»​​ 4-5 (1960) 333-497; Zavalloni R.,​​ La pedagogia speciale e i suoi problemi, Brescia, La Scuola, 1967; Pesci G.,​​ Handicappati e scuola in 7 paesi europei,​​ Roma, Armando, 1977; Bellomo L. - L. Ribolzi,​​ L’inserimento degli handicappati nella scuola dell’obbligo,​​ Bologna, Il Mulino, 1979; Edgerton R.,​​ Il ritardo mentale,​​ Roma, Armando, 1979; Comassi M.,​​ Per l’inserimento degli handicappati nella scuola. Leggi e disposizioni amministrative ordinate e commentate,​​ Pisa, Edizioni del Cerro, 1981; Pavone M. - M. Tortello,​​ Handicappati,​​ scuola,​​ enti locali,​​ Firenze, Nuova Guaraldi Editrice, 1983; Morganti E. (Ed.),​​ Gli handicappati dopo la terza media,​​ Bologna, Cappelli, 1984; Vico G.,​​ Handicappati,​​ Brescia, La Scuola, 1984; Gatto F.,​​ Educazione,​​ scuola,​​ diversità,​​ Roma, Herder, 1991; Ceppi E.,​​ I minorati della vista. Storia e metodi delle scuole speciali,​​ Roma, Armando, 1992; Meazzini P.,​​ Psicopatologia dell’h.,​​ Milano, Masson, 1996; Battaglia A. et al.,​​ Figli per sempre,​​ Roma, Carocci, 2002.

M. Gutiérrez

image_pdfimage_print
portatori di HANDICAP

PORTFOLIO

 

PORTFOLIO

1. Il p. nasce da riflessioni e problematiche sorte nel vissuto scolastico e nella società degli ultimi decenni. I rapidi cambiamenti hanno portato a una revisione del concetto di​​ ​​ apprendimento tradizionale che appare ormai troppo ristretto all’ambiente entro il quale è prodotto e valutato. Molti autori in questi anni hanno sottolineato l’importanza di avvicinare il concetto di apprendimento così come è inteso nel mondo della scuola al concetto di apprendimento così come è inteso nella vita reale. In questa nuova scuola gli studenti dovrebbero essere impegnati ad apprendere conoscenze ma soprattutto a dimostrare come le sanno usare in contesti veri, concreti.

2. Il p. è uno strumento utilizzato nella vita reale da professionisti per raccogliere la documentazione del lavoro che hanno svolto. Introdotto nella scuola, ha assunto una ricchezza di connotazioni e di descrizioni estremamente ampia. Il p. è una raccolta e una antologia sistematica, organizzata, finalizzata, di prestazioni e lavori dello studente in una o più discipline scolastiche, di criteri utilizzati per selezionarli e per giudicare il loro valore accompagnati da autoriflessioni dello studente, ricchezza di evidenza riguardo a ciò che lo studente è in grado di fare e come è in grado di farlo, commenti dell’insegnante. Il suo scopo è quello di raccontare la storia dell’impegno, del progresso e del miglioramento dello studente, per controllare lo sviluppo delle conoscenze, delle abilità e delle attitudini da acquisire in una specifica disciplina, per manifestare interessi, sforzi e per illustrare vari aspetti connessi al processo di apprendimento. Alla raccolta possono contribuire più persone: insegnante, studente, genitori o altri. Lo scopo è quello di incoraggiare nello studente l’attitudine all’autovalutazione del proprio progresso, lo sviluppo del senso di autoefficacia, l’autopercezione delle proprie abilità, le attribuzioni di successo e di fallimento, la scelta di obiettivi e di attività, la responsabilità nel proprio apprendimento.

Bibliografia

Arter J.,​​ Using portfolios in instruction and assessment: State of the art summary,​​ Portland, OR, Northwest Regional Educational Laboratory, 1990;​​ Paulson F. L. - P. R. Paulson - C. A. Meyer,​​ What makes a p. a p., in «Educational Leadership»​​ 48 (1991)​​ 60-63; Arter J.- V. Spandel,​​ Using p. of student work in instruction and assessment, in «Educational Measurement: Issues and Practices»​​ 11 (1992) 36-44; Johnson N. J. - L. M. Rose,​​ Portfolios: Clarifying,​​ constructing and enhancing,​​ Lancaster, PA, Techonomic Publishing, 1997; Wiggins G.,​​ Educative assessment. Designing assessments to inform and improve student performance, San Francisco, CA, Jossey-Bass Publishers, 1998; Comoglio M.,​​ Insegnare e apprendere con il p., Milano, RCS-Fabbri Editore, 2003; Johnson R. S. - J. S. Mims-Cox - A. Douyle-Nichols,​​ Developing portfolios in education. A guide to reflection,​​ inquiry and assessment, Thousand Oaks, CA, Sage, 2006.

M. Comoglio

image_pdfimage_print
PORTFOLIO

PORTOGALLO

 

PORTOGALLO

Gli avvenimenti ecclesiali degli ultimi decenni e la pubblicazione di alcuni documenti sono stati di grande importanza per il movimento cat. nel Portogallo. Là si trovano in gran parte i fattori e gli elementi del rinnovamento operato e ancora in corso, tanto a livello di idee come delle strutture e delle attività svolte, che caratterizzano la situazione cat. attuale nel paese.

1.​​ L’evoluzione del movimento cat. in Portogallo: principali fattori e elementi di rinnovamento.​​ In una breve​​ panoramica retrospettiva,​​ fino al 1950, sono da ricordare per la loro importanza: il Concilio plenario portoghese (1926), che concretizzò per il paese gli orientamenti del Codice di Diritto Canonico e i documenti pontifici; gli influssi dei movimenti cat. di altri paesi; la nascita della Congregazione delle Missionarie Riparatrici del S. Cuore di Gesù, che hanno la C. come proprio carisma; l’azione delle “Noelistas”, dell’Azione Cattolica portoghese e del Seminario di Cristo Rei dos Olivais, a Lisbona. Nei​​ decenni seguenti​​ meritano menzione particolare: a)​​ 1950-1960:​​ la creazione del Segretariato Naz. di C. (1950) e l’organizzazione dei relativi Segretariati diocesani; l’introduzione della scuola di catechetica nei seminari; la pubblicazione del Catechismo nazionale (1953-1956); l’apparizione di altre pubblicazioni di appoggio alla C. in diverse diocesi, b)​​ 1960-1970:​​ la pubblicazione, da parte dell’episcopato, delle basi per la C. elementare in Portogallo (1961); la prima grande inchiesta cat. nazionale (1962); una maggiore attenzione alla formazione cristiana dei fanciulli e degli adolescenti nella scuola; lo spirito rinnovatore del Concilio Vaticano II; l’organizzazione di corsi di formazione di catechisti e la preparazione di nuovi catechismi (1967-1970); la specializzazione di agenti di pastorale cat., negli Istituti superiori dei principali centri europei, c)​​ 1970-1980:​​ un nuovo dinamismo, a partire dalla pubblicazione del DCG (1971); una maggiore attenzione alla formazione cristiana e alla C. degli adolescenti e dei giovani, grazie alla creazione dei Segretariati Nazionali dell’educazione cristiana della gioventù (1973) e dell’insegnamento della Chiesa nelle scuole (1976); l’analisi della situazione cat. e un nuovo impulso rinnovatore, a partire dal Sinodo della C. (1977) e dalla CT (1979) di Giovanni Paolo II. d)​​ Dopo il 1980​​ sono da sottolineare: gli sforzi per la preparazione delle basi di un progetto globale di C.; la dinamizzazione pastorale delle scuole cattoliche per lo studio e l’applicazione degli ideali e progetti educativi propri; l’opzione dell’episcopato “per il primato della pastorale della fede come linea di forza del movimento rinnovatore conciliare della Chiesa portoghese nei prossimi anni”. Così, lungo questi decenni, c’è stato un rinnovamento nella concezione della C. e dei suoi metodi (un nuovo modello); nella formazione degli educatori; nell’attenzione al soggetto, secondo le diverse età e luoghi dove vive; nei materiali e strutture di appoggio. Da sottolineare: a) il passaggio da una C. dottrinale e nozionistica a una C. più kerygmatica, biblica e liturgica, orientata al nucleo fondamentale dell’esperienza cristiana; b) un maggiore adattamento al soggetto, che tiene conto della sua esperienza e stabilisce programmi per una formazione progressiva, continua, vissuta e partecipata; c) la riscoperta della C. come processo permanente che deve accompagnare la persona in tutte le età e fasi della vita, nella complementarità delle sue diverse forme (familiare, parrocchiale, scolastica).

2.​​ L’insegnamento della religione nella scuola.​​ La Chiesa in Portogallo ha fatto un notevole sforzo perché la scuola sia luogo di evangelizzazione e approfondimento della fede per le nuove generazioni, specialmente per mezzo dell’insegnamento della religione e morale cattolica (IR).

— Statuto giuridico e organizzazione scolastica.​​ L’IR è impartito nelle scuole pubbliche in forza del Concordato tra il Portogallo e la Santa Sede (7-5-1940), confermato nel Protocollo Addizionale del 15-2-1975. Sintetizzando la legislazione vigente, il decreto-legge 323/83 del 5 luglio stabilisce i seguenti principi generali: a) L’orientamento della materia (programmi, testi, presentazione e formazione degli insegnanti) è di esclusiva competenza della Chiesa, b) L’insegnamento è curricolare, con un’ora settimanale, nelle scuole di grado primario (cf Portaria 1077/ 80), preparatorio, secondario e di formazione degli insegnanti del ciclo primario e medio. È impartita agli alunni i cui genitori, tutori, o essi stessi, se hanno già compiuto 16 anni, non dichiarano niente in contrario. Il voto non può avere mai effetti negativi in ordine al passaggio alla classe superiore.

— Finalità e idee sull’​​ → IR​​ scolastico,​​ nella recente evoluzione. Si è sperimentata una certa evoluzione nel modo di concepire e realizzare gli obiettivi dell’IR: inizialmente, l’IR costituiva una forma di C. simile a quella parrocchiale, anzi spesso al posto di questa. Poi, specialmente in alcuni ambienti, è diventato uno spazio di formazione umana, vista alla luce della fede cristiana. Finalmente si è arrivati a una sintesi, che sta alla base degli attuali programmi e testi di insegnamento. La Commissione Episc. di Educazione Cristiana così sintetizza questa nuova visione nella Nota Pastorale del 2-6-1980: “L’IR non punta direttamente ad una C. sistematica. Suo scopo è soprattutto illuminare col messaggio cristiano le scoperte che gli alunni vanno facendo, per mezzo delle diverse discipline, sull’uomo, la vita e il mondo; e fornire così una sintesi tra fede e cultura, tra fede e vita. Deve facilitare un maggior apprezzamento dei valori morali e svegliare una maggiore coscienza e impegno nella promozione di una società più armonica e più fraterna”. Nello stesso anno, l’Episcopato stabilì che i programmi dell’IR comprendessero “i punti fondamentali del mistero cristiano, i valori morali che ne derivano e le prospettive cristiane, sia delle questioni fondamentali trattate nelle diverse discipline, sia degli avvenimenti che toccano più da vicino la vita degli alunni”.

3.​​ Organizzazione della catechesi.

— A livello nazionale.​​ Il Segretariato Nazionale di Educazione Cristiana (SNEC), creato dall’Episcopato nel dicembre 1980, è l’organo esecutivo della relativa Commissione Episcopale, per lo stimolo e coordinamento dell’educazione della fede nei diversi ambiti ed età. Lo SNEC comprende 5 dipartimenti: infanzia e adolescenza, gioventù, adulti, insegnamento della Chiesa nelle scuole (pubbliche), e scuola cattolica. I Segretariati Nazionali esistenti finora diventano così dipartimenti specializzati nel nuovo Segretariato unificato.

— A livello diocesano.​​ La Coni. Episc. ha raccomandato, nelle diverse diocesi, la creazione di forme adeguate corrispondenti alla struttura nazionale, in modo da assicurare un vero coordinamento della pastorale cat. Ordinariamente le diocesi sono raggruppate in zone o​​ regioni,​​ con incontri e attività proprie. Queste strutture intermedie e gli incontri nazionali assicurano uno stretto collegamento con lo SNEC.

— A livello parrocchiale.​​ Ogni parrocchia, secondo le sue possibilità e con l’aiuto dei rispettivi servizi diocesani, organizza le diverse forme di C. (fanciulli, adolescenti, giovani e adulti) e promuove la formazione degli educatori della fede (genitori e catechisti) per i diversi gruppi di età. Anche se ancora domina la C. dei fanciulli, cominciano a moltiplicarsi in molte parrocchie i gruppi di preparazione alla confermazione e di C. sistematica per adolescenti, giovani e adulti.

Bibliografia

Catequese​​ para o Homen de Hoje,​​ Lisboa, SNEC, 1980;​​ Conferência Episcopal Portuguesa,​​ Mensagem dos Bispos ao Povo de Deus no aniversário da visita do Santo Padre,​​ Lisboa, Secretariado Geral, 1983; Id.,​​ Carta Pastoral sobre a renovação da Igreja em Portugal,​​ ivi,​​ 1984;​​ Igreja-Educação-Escola,​​ Lisboa, SNEC, 1981; “A mensagem”,​​ rivista bimensile, Segretariato​​ Diocesano​​ di​​ Porto,​​ dal​​ 1956; “Voz da​​ Catequese”,​​ rivista mensile, Segretariato Diocesano di Lisbona, dal 1954.

Antonio José​​ Cavaco Carrilho

image_pdfimage_print
image_pdfimage_print
PORTOGALLO

POSITIVISMO E EDUCAZIONE

 

POSITIVISMO E EDUCAZIONE

1.​​ Il P. come movimento culturale.​​ Il complesso movimento culturale che si è soliti definire con il termine di P. si sviluppò a partire dai primi decenni del XIX sec. in Francia, in Inghilterra, in Germania e infine anche in Italia, riflettendo e intrecciandosi con i processi di modernizzazione che stavano trasformando in modo radicale la vita produttiva e sociale. Si trattò di un’epoca complessivamente pacifica sul piano dei conflitti militari e segnata da importanti scoperte in campo scientifico e tecnologico che determinarono un forte rinnovamento e incremento della produzione, dall’ampliamento dei mercati e il potenziamento dei trasporti, dal moltiplicarsi del fenomeno dell’urbanesimo, dai progressi in campo medico che debellarono antichi flagelli e migliorarono le condizioni di vita specie dei ceti popolari. Questi importanti mutamenti socio-economici si accompagnarono alla definitiva affermazione della borghesia imprenditoriale sia sul piano politico sia sul piano del costume e dei valori.

1.1.​​ Sotto il profilo teorico​​ alcuni tratti di fondo comuni consentono l’identificazione del P. come movimento culturale. Il primo carattere è rappresentato dal primato assegnato al «fatto» inteso come unica esperienza verificabile: ciò che è, è ciò che appare come osservabile. La realtà non è che un tessuto di fatti, cioè di accadimenti verificabili. Ne consegue che il modello di conoscenza sperimentale basato sulla capacità di previsione secondo leggi scientifiche costituisce il modello positivo di tutto il sapere (non solo, dunque, delle scienze naturali, ma valido anche per lo studio dell’individuo e della società). Si profila così la possibilità di una nuova era storica e di una nuova società organizzata secondo il modello scientifico-sperimentale concepito come alternativo e, dunque, incompatibile con altri modelli culturali e sociali di tipo, per es., religioso o metafisico (Saint-Simon, Comte). Il secondo tratto caratteristico è dato dalla concezione evolutiva a base naturalistica dei fenomeni umani e sociali. La storia dell’uomo e della società non sarebbe che un ininterrotto processo evolutivo che è via via passato da forme di vita e di organizzazione sociale più semplici a forme via via sempre più complesse (Spencer, Darwin). L’età positivistica è pervasa da un ottimismo generalizzato che scaturisce dalla convinzione di un progresso inarrestabile (talvolta pensato come frutto dell’ingegnosità umana, talaltra come necessità automatica) verso condizioni di benessere diffuso in una società pacifica e percorsa dal principio della solidarietà. Salvo qualche eccezione (per es. Stuart Mill), il P. è dunque segnato da una fiducia spesso acritica, sbrigativa e superficiale nella stabilità e nella crescita senza ostacoli governata dalla scienza.

1.2.​​ Al​​ ​​ naturalismo evolutivo​​ corrispondono sul piano etico-sociale istanze antimetafisiche ed anti-confessionali, fortemente critiche e liberistiche, ma che tuttavia non sfuggono, a loro volta, a esiti deterministici (​​ Ardigò, Lombroso). L’uomo è visto quasi come un epifenomeno della natura. L’etica è ridotta per lo più a socialità, ovvero alla disposizione a seguire le leggi che governano la società e a viverle come dovere (​​ Durkheim). Sul versante politico la cultura positivista manifesta aspetti non meno ambivalenti, d’un lato valorizzando gli ideali umanitari e progressisti tipici della democrazia e, dall’altro, imprimendo nei fatti alla società liberale uno sviluppo condizionato dagli interessi della borghesia produttiva, per lo più di sentimenti moderati e conservatori.

2.​​ Il​​ P. come movimento pedagogico.​​ Nel P. si coglie un forte interesse per l’educazione e la pedagogia e molti dei suoi più autorevoli esponenti si occupano di tematiche formative (Spencer, Durkheim, Bain, Ardigò). La pedagogia è concepita come scienza sociale per eccellenza ed è reputata come una delle forme scientifiche della trasformazione sociale nella misura in cui essa sa ristrutturarsi in senso positivo e sperimentale. La scuola, a sua volta, è considerata in maniera strettamente funzionale con l’organizzazione della società ed è perciò vista come lo strumento attraverso cui è possibile promuovere i processi di modernizzazione sia sul piano della mentalità individuale sia a livello di comportamenti collettivi. L’analisi pedagogica non si svolge tuttavia in quelle forme lineari che l’adozione del metodo sperimentale e i protagonisti stessi potrebbero far ritenere, ma si articola sul piano teorico in forme alquanto complesse, oscillando tra tendenze dogmatiche e istanze critiche. Anche in sede pedagogica si registrano due linee di sviluppo della pedagogia positivistica: una linea dogmatica in cui prevale l’identificazione della scientificità con la scienza evolutiva, intesa come unico criterio di verità, con la congruente riproposizione di una nuova metafisica al posto di quella che si voleva combattere (per quanto riguarda l’Italia all’interno di questo orizzonte culturale si collocano autori come Ardigò, Angiulli, De Dominicis, Siciliani). Un’altra linea di sviluppo privilegia invece il metodo critico, la dimensione sperimentale, il confronto con la realtà in vista dello sviluppo dell’uomo e della società e non per la scienza presa per se stessa, con un approccio, dunque, più umanistico e storico (​​ Gabelli, Marchesini, Pasquali,​​ ​​ Villari) e meno condizionato da pregiudiziali di tipo ideologico. Gli studi e le ricerche più recenti individuano in questa seconda linea di sviluppo l’esito più significativo e produttivo del P. pedagogico sul piano storico.

3.​​ La valutazione storiografica del P.​​ È opportuno, a questo punto, aprire una breve parentesi per accennare al fatto che in campo storiografico la valutazione del P. sia come fenomeno culturale sia, più specificamente, come movimento pedagogico è stata a lungo controversa ed è ancora oggi motivo di discussioni. Su di esso sono pesati il giudizio di netta e complessiva condanna dell’​​ ​​ idealismo, le riserve del​​ ​​ marxismo che lo ha a lungo guardato con diffidenza in quanto ideologia tipicamente borghese (anche se non sono mancate venature positiveggianti più che significative nei movimenti socialisti europei) e, infine, le critiche ad una visione spesso acritica della scienza e del metodo scientifico avanzate negli ambienti scientifici del primo Novecento ben più scaltriti dei positivisti tardo-ottocenteschi sul piano epistemologico. Né hanno giovato sul piano della ricostruzione e dell’analisi storica, a loro volta, i tentativi compiuti da una parte della storiografia di formazione tardo-positivista volti ad una acritica e un po’ scontata difesa del movimento. Il graduale stemperarsi delle polemiche anche contingenti e il moltiplicarsi delle ricerche su singoli aspetti hanno contribuito, con il trascorrere del tempo, a sgombrare il campo da molti fraintendimenti e sospetti e, soprattutto, hanno consentito una migliore conoscenza del P. non solo in quanto pura teoria, ma nei suoi vari apporti specifici in campo sociale, giuridico, medico, pedagogico e così via. Ciò ha permesso una valutazione più serena dei risultati effettivamente raggiunti e, dunque, meno condizionata da pregiudizi di parte. Anche per quanto riguarda il campo dell’educazione e della scuola gli studiosi sono concordi nel rilevare che gli apporti più significativi sono venuti non tanto sul piano dall’elaborazione teorica (spesso esposta a tendenze dottrinarie) quanto dall’individuazione e dall’approfondimento di alcuni nuovi ambiti di ricerca che hanno consentito alle prassi educative di compiere significativi progressi. In primo luogo va ricordato che le ricerche sperimentali in medicina e in psicologia applicate all’educazione hanno, per es., permesso di aprire la strada ad una conoscenza più puntuale e meno approssimativa del fanciullo, dal funzionamento della sua intelligenza ai meccanismi di apprendimento. Se certe semplificazioni e riduzioni delle funzioni intellettive ci sembrano oggi sconcertanti e improponibili, non si può dimenticare che i fondamentali apporti della scuola psico-pedagogica di​​ ​​ Binet,​​ ​​ Claparède,​​ ​​ Decroly e, più tardi,​​ ​​ Piaget non sarebbero stati possibili se non avessero potuto avvalersi dei risultati raggiunti per via sperimentale nell’ultimo Ottocento in campo neuro-fisiologico. Per restare ancora sulla conoscenza del fanciullo, va inoltre richiamato come la cultura positivista abbia opportunamente valorizzato la dimensione che oggi diremmo della corporeità promuovendo, da un lato, migliori pratiche igieniche, maggiori cure alimentari, una più avvertita attenzione alla salute fisica (in sostanza una concezione più sana dell’esistenza) e, dall’altro, sostenendo con grande vigore (in ciò aiutata da una visione militar-nazionalista del quadro politico complessivo) l’introduzione dell’educazione fisica nella scuola, giudicata necessaria integrazione dell’educazione intellettuale e morale. Sul piano dei metodi didattici la valorizzazione delle pratiche induttive promosse una visione meno libresca e mnemonistica della scuola, più vicina alle «cose» e meno basata sulle parole e sul ragionamento astratto, andando oltre le consuetudini didattiche di metà Ottocento ancora in larga misura affidate alla ripetizione e alla memorizzazione. Occorre peraltro avvertire che non tutte le realizzazioni furono all’altezza delle affermazioni di principio e delle esperienze dei maestri più esperti e competenti. Non a torto​​ ​​ Lombardo-Radice avrebbe denunciato agli inizi del nuovo secolo una diffusa mentalità «pedagogistica», incapace di alzarsi al di sopra della semplicità dell’esperienza, polemicamente contrapposta alla mentalità «pedagogica» capace invece di misurarsi anche con la riflessione teorica. L’ottimismo progressista del P. congiunto con le scoperte mediche e quelle psicologiche consentirono, infine, un approccio scientificamente più corretto e articolato al problema dell’handicap mentale e fisico e una visione meno punitiva e più rieducativa (anche se l’esperienza pratica non andò oltre il perfezionamento delle forme di segregazione) della devianza infantile e giovanile.

4.​​ L’interesse per la scuola.​​ Resta da richiamare un’ultima questione e cioè il forte interesse che la cultura positivista manifestò in genere per il problema scolastico. La ragione va ricercata in alcuni dati storici: le trasformazioni tecnologiche e produttive che sollecitavano una manodopera più istruita; la sempre maggiore circolazione della cultura scritta; le spinte emancipative (spesso di matrice anarchica e socialista) che agitavano, talora in modo disordinato, i ceti popolari; le resistenze della Chiesa alla modernità laica giudicata come un pericolo per la fede religiosa; il bisogno di stabilità della società borghese impegnata nell’espansionismo coloniale; la legittimazione dei valori borghesi come valori sociali egemoni. La scuola fu prospettata sia come potente occasione di modernizzazione sia come strumento di socializzazione politica collettiva e, dunque, nel medesimo tempo fattore di progresso, emancipazione e di controllo sociale. L’analisi del​​ ​​ funzionalismo sociologico si può considerare a tal riguardo esemplare: attraverso la scuola, opportunamente ristrutturata su basi scientifiche, era possibile orientare e guidare i comportamenti individuali e sociali liberandoli da quegli atteggiamenti e sentimenti che non risultavano funzionali alla civiltà moderna (ignoranza, superstizioni, senso fatalistico della vita) e promuovendo quelli che ne erano invece elemento costitutivo (fiducia nel progresso, disponibilità al nuovo, iniziativa personale). Alla scuola era inoltre fatto carico di sostenere i sentimenti di lealtà, ordine e disciplina necessari per lo sviluppo ordinato della società borghese sia mediante la circolazione e interiorizzazione dei valori nazionali (con il passaggio dalla fedeltà al gruppo, al clan, alla famiglia alla fedeltà alla nazione) e sia attraverso la promozione di quei codici di comportamento anche individuali che la borghesia liberale aveva posto a base del suo accreditamento come classe egemone (lealtà, rispetto delle apparenze, laicità nel modo di guardare all’esistenza, paternalismo). Da queste premesse scaturirono le politiche scolastiche del secondo Ottocento destinate a segnare un tornante significativo nella storia sociale e civile dei paesi europei e anglosassoni: affermazione e generalizzazione dell’​​ ​​ obbligo scolastico inteso come «minimo garantito» di sapere per ciascun cittadino; netta distinzione tra la scuola per tutti e la scuola destinata alle élites dirigenti; diretto intervento dello Stato in campo scolastico (con la creazione, in alcuni casi, di veri e propri sistemi scolastici statali, come in Francia e in Italia); laicizzazione dei programmi; potenziamento del sapere scientifico pur in un quadro di perdurante primato ancora assegnato alla cultura classica.

Bibliografia

Spirito U.,​​ Il pensiero pedagogico del P.,​​ Firenze, Giuntine-Sansoni, 1956; Bertoni-Jovine D. - R. Tisato (Edd.),​​ P. pedagogico italiano,​​ 2​​ voll., Torino, UTET, 1973-1976; Cambi F.,​​ La pedagogia borghese nell’Italia contemporanea,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1974; Santucci A. (Ed.),​​ Scienza e filosofia nella cultura positivistica,​​ Milano, Feltrinelli, 1982; Papa E. R. (Ed.),​​ Il​​ P. e la cultura italiana,​​ Milano, Angeli, 1985; Chiosso G., «La questione scolastica in Italia: l’istruzione popolare», in R. Lill - F. Traniello (Edd.),​​ Il​​ «Kulturkampf» in Italia e nei paesi di lingua tedesca,​​ Bologna, Il Mulino, 1992, 335-388.

G. Chiosso

image_pdfimage_print
POSITIVISMO E EDUCAZIONE

POSTMODERNO / POSTMODERNITÀ

 

POSTMODERNO /​​ POSTMODERNITÀ

Più che una delimitazione cronologica, sia l’aggettivo sostantivato che il sostantivo astratto, starebbero ad indicare una situazione, uno stato, una condizione, una sensibilità letteraria, artistica, filosofica e culturale in genere che si va distanziando dalla​​ ​​ modernità.

1. Il condizionale è d’obbligo, in quanto si ha a che fare con un termine, carico di emozionalità contrapposta, quasi una parola d’ordine, di indubbia presa sui mass media e sull’immaginario collettivo, a cui vengono assegnati significati diversi fino all’ambiguità. Usato già in saggi letterari spagnoli e statunitensi di critica letteraria degli anni ’30-40 e dallo storico A. Toynbee nel 1947 in​​ A study of history,​​ per indicare una nuova fase storica successiva all’età moderna, il termine ha avuto fortuna con il saggio del filosofo francese J.-F. Lyotard (La condition postmoderne,​​ 1979) e in sede letteraria con il saggio del critico statunitense I. Hassan (The question of post-modernism,​​ 1981).

2. Secondo i teorici del p. la cultura moderna, vale a dire la visione del mondo e della vita, tipica della vicenda storica delle società dell’Occidente post-medioevale, sarebbe giunta al suo tramonto. La condizione postmoderna renderebbe manifesti i limiti e le sue configurazioni culturali ispirate all’umanesimo antropocentrico, che ha nella scienza e nella tecnica le sue massime espressioni di razionalità e nella capacità di trasformazione industriale e di azione politica le vie per costruire il proprio destino storico ed intramondano; ed evidenzierebbe la non assolutezza delle sue grandi narrazioni («meta-racconti» nella terminologia di Lyotard), specie quelli dell’​​ ​​ illuminismo, dell’idealismo, del positivismo e del marxismo, che a loro modo legittimavano filosoficamente, eticamente e politicamente l’egemonia culturale dell’Occidente. O perlomeno metterebbe in risalto che, rispetto a una «modernità solida», con le sue strutture consolidate, prevarrebbe una «modernità liquida», caratterizzata dai flussi, dai processi, dalla costante innovazione, conseguente all’irrompere delle tecnologie informatizzate, dalla globalizzazione dell’esistenza e del mercato e culturalmente dal declino della metafisica. Il sapere risulterebbe irrimediabilmente frammentato, ipotetico, situato, costituzionalmente​​ in itinere,​​ insormontabilmente storico-culturale. Contenutisticamente assisteremmo alla motiplicazione delle​​ Weltanschauung​​ e delle fedi, che danno spettacolo di sé e che diventano piuttosto merce di consumo massmediologico, senza che nessuna possa di diritto imporsi alle altre come più vera. Al massimo può trovare pragmaticamente maggior accoglienza rispetto alle altre. Più che un sapere che definisce, avremmo a che fare con un sapere che parla, narra, racconta delle cose-eventi o di sé, che interpreta e produce nuove o rinnovate comprensioni (che «sfondano» le comprensioni precedenti, più che «fondare» posizioni) o semplicemente che opera «tecnologicamente» sul reale o lo «simula virtualmente».

3. Considerato da Habermas come segno della crisi in cui versa il progetto emancipativo della modernità, esaltato o bollato come «pensiero debole» (che si appoggia ed oltrepassa la critica culturale di Nietzsche e Heidegger), tacciato di rimettere in corso posizioni pre-moderne o reazionarie, il p. esprime a suo modo il vasto​​ ​​ pluralismo e la complessità sociale contemporanea. In tal senso costituisce un utile termine di confronto per la pratica educativa e la ricerca pedagogica, chiamata oggi, sempre più, a non fermarsi a soluzioni tecniche, ma a ripensare globalmente la cultura formativa.

Bibliografia

Lyotard J.-F.,​​ La condizione postmoderna,​​ Milano, Feltrinelli, 1981; Vattimo G. - P. A. Rovatti (Edd.),​​ Il pensiero debole,​​ Ibid., 1983; Vattimo G.,​​ La fine della modernità,​​ Milano, Garzanti, 1985; Habermas L,​​ Il discorso filosofico della modernità,​​ Roma / Bari, Laterza, 1987; Bauman Z.,​​ Modernità​​ Liquida, Ibid., 2002; Chiurazzi G.,​​ Il p., Milano, Mondadori, 2002; Ambrosi E.,​​ Il bello del relativismo, Venezia, Marsilio, 2005; Bauman Z.,​​ Il disagio della p., Milano, Mondadori, 2007.

C. Nanni

image_pdfimage_print
POSTMODERNO / POSTMODERNITÀ

POVEDA Pedro

 

POVEDA Pedro

n. a Linares nel 1874 - m. a Madrid nel 1936, sacerdote ed educatore spagnolo.

1. Fonda scuole per emarginati a Guadix (1902); propone la creazione di un’Istituzione che dia impulso all’educazione a livello nazionale​​ (Ensayo de un proyecto pedagógico para la fundación de una Institución Católica de Enseñanza,​​ Gijón,​​ 1911); fonda l’Istituzione Teresiana ad Oviedo (1911). L’antropologia​​ pedagogica di P. parte dalla sua spiritualità di incarnazione: «la persona di Cristo, la sua natura e la sua vita costituiscono la norma sicura per arrivare ad essere santo... essendo allo stesso tempo con l’umanesimo verità» (1965, 249-250). La persona umana raggiunge il suo massimo, cioè l’essere «eminentemente umana», nella sua unione con Dio. Da qui deriva l’insistenza sulla​​ immagine​​ di Dio in Cristo: sulla​​ vocazione,​​ Consejos a las profesoras y alumnas de las primeras Academias de Santa Teresa​​ (1912);​​ Andad como conviene a la vocación,​​ in​​ Jesús Maestro de oración​​ (1922); e sulla​​ temporalità,​​ Alrededor de un proyecto​​ (1913);​​ El estudio de la pedagogía en los seminarios​​ (1916).

2. La riflessione sul suo tempo sensibilizza P. sui conflitti tra individuo e società, sulla problematica tra fede e scienza e sulle nuove caratteristiche della condizione femminile. Ad essi ispira la sua proposta pedagogica che si sviluppa a partire dai punti seguenti: il principio della​​ comunicazione,​​ come risposta alla socialità umana, concretamente alla necessità di relazione e partecipazione,​​ Hablemos de las alumnas​​ (1935); il principio di​​ libertà-responsabilità​​ come spazio umano in cui, attraverso la formazione ai valori, si decide l’educazione e il significato della vita; il principio della​​ parità-differenza,​​ fatta salva l’uguaglianza ontologica e teologica riguardo all’origine, alla natura e al fine dell’uomo e della​​ ​​ donna, come pure alla loro differenza. P. dà la priorità al​​ clima formatore​​ costantemente ricostruito a partire dai valori della fortezza e dell’allegria.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ P.P.,​​ Obras. Creí por esto hablé;​​ edición crítica y estudio de M.ª D. Gómez Molleda, Madrid, Narcea, 2005. b)​​ Studi: Galino Carrillo A. ( Ed.),​​ Humanismo pedagógico de P.P. Algunas dimensiones, Ibid., 2000; Valle López Á. del,​​ La pedagogía de inspiración católica, Madrid, Síntesis, 2000.

Á. Galino - Á. Del Valle

image_pdfimage_print
POVEDA Pedro
image_pdfimage_print