PENITENZA – Sacramento della

 

PENITENZA (Sacramento della)

1.​​ Il sacramento della P. o Riconciliazione è oggetto di particolare interesse da parte del catecheta, sia in quanto contenuto notevole della C., sia in quanto occasione importante di essa (l’iniziazione al sacramento della P. — coincida cronologicamente o meno con l’iniziazione all’eucaristia — è infatti uno dei momenti decisivi dell’iniziazione alla vita cristiana e dell’educazione della fede), sia infine in quanto occasione e momento privilegiato per l’educazione di quella dimensione essenziale della fede che è la → conversione permanente.

2.​​ Per quanto riguarda i contenuti si deve dire che la C. della P. ha risentito come e più ancora di quella del → peccato di una cattiva utilizzazione delle categorie forensi, che una teologia legalistica e una concezione troppo giuridica del rapporto Dio-uomo le fornivano. Così sono stati interpretati in passato in chiave forense tanto i concetti di offesa di Dio che quelli di espiazione-riparazione, così come la natura giudiziale del sacramento stesso (cf DS 1709).

La conversione con i suoi atti è stata spesso vista come una condizione positivamente esigila da Dio per la concessione di un​​ perdono-condono​​ che sembrava produrre soprattutto gli effetti giuridici della remissione o cancellazione di un debito (debitum culpae e debitum poenae). Restavano così occultati da un lato il carattere assolutamente preveniente dell’iniziativa dell’amore misericordioso di Dio che ci perdona con vertendoci, cioè cambiandoci dentro, operando in noi una redenzione che è nuova creazione e nuova nascita, e dall’altro il carattere ontologico della negatività del peccato e della positività della redenzione.

Ma anche il carattere profondamente personale delle opzioni fondamentali di rifiuto di Dio e ritorno a lui, inerenti, secondo la concezione biblica, sia al peccato che alla conversione, passavano in secondo piano di fronte a una dottrina del peccato e delle “cose necessarie per ben confessarsi” che si prestava troppo a essere intesa in senso giuridico e cosistico. È probabilmente un po’ anche a questa presentazione inadeguata (almeno a livello di linguaggio) che si deve l’attuale crisi del sacramento, così profonda e diffusa, che fa seguito peraltro a molti decenni di prassi penitenziale sempre più segnati dalla routine e dal moralismo.

La ripresa del discorso biblico e del suo linguaggio vigorosamente personalistico ha portato alla rivalutazione del carattere interpersonale della conversione; il movimento liturgico ha portato invece a una rivalutazione della dimensione comunitario-ecclesiale del rito sacramentale. Purtroppo non sembra facile dare al rito un giusto equilibrio tra la dimensione personale (che non può essere soppressa) e quella comunitaria. La storia stessa del sacramento presenta d’altronde un passato di sconcertante pendolarismo nella accentuazione di queste due dimensioni (con una sopravvalutazione prima, con un certo occultamento poi, della dimensione comunitaria).

3.​​ Ma più ancora che al problema della trasmissione dei contenuti, la C. è interessata al problema dell’educazione degli atteggiamenti costitutivi della conversione cristiana, tanto più importante nell’attuale crisi della prassi sacramentale in quanto l’atteggiamento della conversione interiore non è soltanto condizione per la significatività ed efficacia salvifica del sacramento, ma anche retroterra psicologico imprescindibile per una ripresa della prassi sacramentale stessa.

Atteggiamento di conversione significa anzitutto coscienza realistica e matura del peccato. Il sentimento del peccato è il risvolto negativo di una coscienza morale vigile e delicata: esso inizia con quella particolare forma di disagio psichico che si chiama rimorso. Il rimorso non si limita a procurare angoscia e bisogno di autopunizione, ma diventa uno stimolo al ripensamento della propria posizione di fronte a Dio e quindi una piattaforma di conversione. Per questo il senso di colpa è sempre stato valutato positivamente dalla tradizione pedagogica cristiana, ritenuto voce di Dio che chiama il peccatore alla conversione.

Ma da Freud in poi, la pedagogia morale cristiana ha dovuto rimettere in questione tale valutazione e calibrare meglio il suo discorso. Freud ha collegato anche il senso di colpa alle esorbitanti pretese del super-ego e ne ha fatto quindi l’espressione di una coscienza morale immatura. Non solo ha smascherato il carattere irrazionale e autopunitivo del “senso patologico di colpa”, ma ha gettato il sospetto dell’autodistruttività su tutto l’universo della colpabilità. Anche se non sempre ascritto al campo della psicopatologia e della nevrosi, il sentimento di colpa è guardato oggi con diffidenza; ci si vede più un pericolo che un’occasione educativa.

Va detto peraltro che la consapevolezza del carattere ambiguo del senso di colpa è presente da sempre alla riflessione di fede. Già san Paolo distingueva tra una tristezza che è secondo Dio, e perciò opera salvezza, e una tristezza che produce morte (2​​ Cor​​ 7,9-10). Il senso di colpa è quindi soggetto a una educazione e a uno sviluppo graduale, che lo porta a una vera maturità umana e cristiana, ma è anche esposto al pericolo di deviazioni patologiche, o almeno di una fissazione a livelli infantili o adolescenziali. Immaturo è quel sentimento di colpa che è risvolto negativo di una coscienza infantile, cioè eteronoma e irrazionale, una coscienza che si identifica con il super-ego freudiano o con gli ideali narcisistici dell’adolescente.

4.​​ La maturazione del senso di colpa si muove quindi dall’eteronomia, che lo nutre con la paura della punizione, verso un’autonoma sensibilità ai valori, in coerenza con le proprie scelte di vita. Va dall’irrazionalità e dalla fallacia delle valutazioni materialistiche del bambino, verso una valutazione realistica e attenta al valore dell’intenzione soggettiva e degli atteggiamenti interiori. Va infine dal carattere magico e autopunitivo dei riti di espiazione dell’immaturo, verso atteggiamenti di autentico autorinnovamento morale e di conversione vera.

Sentimenti immaturi di colpa e perfino una vera patologia del senso di colpa possono del resto coesistere con il sentimento religioso e con la fede (soprattutto se anch’essa caratterizzata da tratti di infantilismo e di inautenticità). Questo non esclude che la fede sia per sé un elemento educativo del senso di colpa e che il credente trovi nella maturazione di una fede autentica la base più idonea per la maturazione di un senso di colpa anche umanamente maturo.

La fede aiuta il credente a vivere la coscienza del peccato, non nella disperazione della solitudine, ma nella serena certezza del perdono e di una inesauribile possibilità di ripresa e di ricominciamento. Per questa maturazione uno strumento educativo prezioso è proprio il sacramento della riconciliazione: attraverso la verbalizzazione, il dialogo confidente, la certezza del perdono, esso opera nella direzione di rendere più razionale, meno narcisistico e più costruttivo il senso di colpa. Il dialogo penitenziale può svolgere un’opera preziosa di chiarificazione, coscientizzazione e rasserenamento, facendo del senso di colpa una forza di rinnovamento.

5.​​ Ma la conversione include oltre alla coscienza del peccato la libera e profonda decisione di riorientare la totalità della persona al bene e a Dio. E una scelta di antipeccato. Non si può scegliere Dio senza scegliere contro il peccato: il convertirsi è contestuale al credere, e convertirsi è combattere contro il peccato una lotta che dura tutta la vita: nuovi cedimenti, debolezze, compromessi danno a questa lotta l’aspetto di un continuo ritorno a Dio.

Questa lotta contro il peccato include necessariamente quella forma di onesto riconoscimento della propria colpa che è la confessione dei peccati. Io non prendo veramente posizione contro il mio peccato fin che non ho il coraggio di chiamarlo per nome, di usare contro di esso l’arma della parola che dà corpo alla mia volontà di rinnegamento e di conversione. Naturalmente la conversione è principalmente un fatto interiore che mette in gioco gli strati più profondi della mia libertà. Detestare vuol dire revocare la decisione peccaminosa, operare una decisione altrettanto profonda ma in direzione opposta, dalla menzogna alla verità, dall’egoismo all’amore, dal male a Dio.

Poi c’è il proposito, cioè la progettazione della lotta futura contro il peccato, per sradicarlo totalmente dal nostro cuore e dalle strutture della nostra personalità; e questo esige naturalmente una certa ascesi, un autorinnegamento liberante.

6.​​ L’educazione di questi atteggiamenti è qualcosa di difficile e di graduale, che l’educatore affronta mettendosi in sintonia con l’iniziativa educatrice di Dio. I dinamismi educativi in gioco sono in fondo gli stessi di ogni altra forma di educazione morale e di educazione della fede.

Il primo resta quello di un amore accogliente e incondizionato. La comunità ecclesiale è chiamata per questo a farsi sacramento dell’amore incondizionato di Dio, amore che è all’origine della consapevolezza della negatività del peccato ma anche della fiducia nel perdono. La comunità ecclesiale, in quanto educatrice della conversione, mentre annuncia questo amore lo deve rendere in qualche modo sperimentabile. La confessione e prima ancora la C. che la prepara devono essere perciò un incontro con l’amore del Padre visibile nell’amore dei fratelli di fede.

Un altro dinamismo educativo è la testimonianza leale della verità morale. L’educatore della fede deve avere il coraggio di testimoniare umilmente ma fedelmente quella verità da cui egli stesso è giudicato, naturalmente con la gradualità imposta non solo dai ritmi di crescita del soggetto, ma anche dal rispetto della gerarchia interna delle verità.

L’impegno di testimoniare fedelmente una verità di cui non è padrone non esime l’educatore dal dialogo. Un dialogo vero, creativo e non puramente rituale, un dialogo di natura educativa entra a far parte dell’essenza di questo solo sacramento, quasi a sottolineare il carattere specificamente educativo della grazia sacramentale della P. Naturalmente, dialogare vuol dire accostare senza prevenzioni, ascoltare, insegnare, ma anche imparare e lasciarsi mettere in questione. Un ultimo dinamismo educativo importante per l’educazione della conversione permanente e della penitenza interiore è quello della responsabilizzazione, intesa come il rendere consapevoli della oggettiva e ontologica negatività del peccato, della sua distruttività umana, personale e sociale. In ognuno di questi dinamismi, la gradualità e l’appello alle reali energie di bene dell’educando sono attenzioni generali assolutamente necessarie a una pedagogia della conversione che voglia ispirarsi alla pedagogia di Dio.

Bibliografia

F. Boeckle et al.,​​ Matrimonio, Penitenza e Unzione,​​ Roma-Brescia, Herder-Morcelliana, 1971; B. Haering,​​ Shalom, pace. Il sacramento della riconciliazione,​​ Roma, Ed. Paoline, 1969; B. Haering et al.,​​ Pédagogie de la conjession,​​ Mulhouse, Salvator, 1967;​​ La Penitenza. Dottrina, storia, catechesi, pastorale,​​ Leumann-Torino, LDC, 1967; J.​​ Ramos-Regidor,​​ Il sacramento della Penitenza,​​ ivi, 1972; A. Snoeck,​​ Confessione e Psicanalisi,​​ Torino, Boria, 1965; A. von Speyr,​​ La confessione,​​ Milano,​​ Jaca​​ Book, 1977; K. Tilmann,​​ La catechesi della confessione,​​ Brescia, La Scuola, 1963;​​ Verso una rinnovata prassi penitenziale,​​ Brescia, Queriniana, 1983.

Guido Gatti

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PENITENZA – Sacramento della

PENSIERO

 

PENSIERO

In psicologia il termine p. viene utilizzato per designare tanto l’insieme dei fatti psichici quanto l’attività intellettuale-razionale dell’​​ ​​ uomo. Esso abbraccia cioè tutta una serie di processi cognitivi e attività psichiche superiori, spesso non facilmente descrivibili in modo sufficientemente preciso.

1. Con p. dunque si indica un’attività, o una serie di attività mentali, volte a stabilire la comunicazione con il mondo esterno, con se stessi e con gli altri e a costruire ipotesi sul mondo e sul nostro modo di pensare. Le diverse concettualizzazioni, definizioni e interpretazioni proposte per la natura e l’attività del p., strettamente dipendenti dagli orientamenti teorici e dalle metodiche di ricerca adottate dalle diverse scuole psicologiche, sono riassumibili nella contrapposizione tra​​ p.​​ razionale,​​ caratterizzato dall’impiego di procedimenti di tipo deduttivo-induttivo, e​​ p. intuitivo,​​ che procederebbe attraverso la riorganizzazione, vissuta come non mediata, del campo problematico; tra​​ p. creativo​​ e​​ p.​​ tradizionalmente ancorato o​​ rigido o stereotipato;​​ tra​​ p.​​ «produttivo»​​ e​​ p. cieco,​​ che procede cioè secondo il classico schema per «tentativi ed errori»; tra​​ p.​​ autistico,​​ dominato dai bisogni e dalle aspirazioni del soggetto e​​ p.​​ realistico,​​ teso a soddisfare le domande di realtà.

2. L’interpretazione proposta dagli associazionisti, che prendendo in considerazione i processi elementari di p. avevano sottolineato i legami tra le impressioni sensoriali e la componente immaginativa, viene pienamente adottata dalla psicologia scientifica di fine Ottocento. La psicologia wundtiana, nella sua definizione di scienza della coscienza o della esperienza interna immediata, utilizzando «l’introspezione sperimentale», aveva programmaticamente limitato la propria indagine alla «percezione interna» degli eventi esterni, e si era concentrata sulle sensazioni e rappresentazioni immediatamente presenti alla coscienza, riducendo inoltre il p. ad una combinazione di elementi psichici. Per B. E. Titchener, ad es., che nega decisamente l’esistenza di un «p. senza immagini», i processi di p. vengono immediatamente ricondotti a sensazioni, immagini e affetti. L’applicazione dell’indagine scientifica alle attività intellettuali superiori riceverà un impulso fondamentale dalle investigazioni sui processi di apprendimento e di memorizzazione portate avanti da Ebbinghaus e dai ricercatori della scuola di Würzburg, che porranno il problema della natura e delle caratteristiche del p. – considerato un processo dinamico dotato di proprietà specifiche – in termini completamente differenti da quelli prospettati in chiave elementista e associazionista dalla scuola di Lipsia. Secondo O. Külpe (che dopo essere stato assistente di​​ ​​ Wundt fonda a Würzburg nel 1896 un laboratorio di psicologia),​​ ​​ Bühler (che affronta il problema della formazione dei concetti nel bambino e quello dei rapporti tra p. e linguaggio), N. Ach (che concettualizza la formazione dei concetti come un processo dinamico, non riducibile ad una semplice catena associativa tra sensazioni, idee e immagini), O. Seltz (che propone una concezione del p. come processualità e produttività) e A. Messer (che svolge una serie di ricerche di psicologia sperimentale sul p.), le leggi delle operazioni del p., implicando un determinismo particolare, sono totalmente differenti da quelle che regolano i processi sensoriali e immaginativi. È dunque pienamente plausibile fondare le attività volte alla soluzione di compiti mentali su un p. privo di immagini. Il funzionalismo studia il p., concettualizzato come un flusso continuo non scomponibile in immagini mentali, essenzialmente nella sua funzione adattativa, mettendone in luce le relazioni con la percezione, la motivazione e l’apprendimento. Per Carr, ad es., che considera le idee come sostituti di stimoli percettivi, il p. è determinante nel permettere all’organismo di adattarsi all’ambiente circostante. Nella sua formulazione watsoniana, il​​ ​​ comportamentismo, che rinuncia ad avvalersi dei dati di coscienza in quanto non indagabili sperimentalmente, riduce il p. – considerato da​​ ​​ Watson come «linguaggio rimasto allo stato subvocale a causa dell’insufficienza degli organi fonatori», come «null’altro che un parlare a noi stessi» – ad un fenomeno muscolare localizzato nell’area laringea, ad un «abito laringeo». Per il comportamentismo dunque lo studio del p. coincide con quello del linguaggio e viene quindi inteso come una risposta alla stimolazione ambientale. La scuola della​​ ​​ Gestalt, al contrario, considera il p. soprattutto dal punto di vista di un’attività volta alla soluzione dei problemi; ne mette in risalto gli aspetti creativi e le implicazioni percettive, rifiutando decisamente la prospettiva associazionistica ed empiristica, in favore di una concezione «globalistica» dei processi in gioco (M. Wertheimer, K. Duncker). Nella soluzione dei problemi – fortemente influenzata dai fattori motivazionali e da elementi derivanti dalle esperienze passate del soggetto – è cioè possibile schematizzare alcune fasi principali, che consistono innanzitutto nella riorganizzazione percettiva, gerarchicamente ordinata, del campo in esame, in processi di centramento e di ricerca di rappresentazioni migliori, e nella trasformazione del campo percettivo stesso che consente «una nuova visione della situazione più profonda che comporta cambiamenti nel significato funzionale degli elementi» (Wertheimer, 1960). I processi cognitivi implicati nell’attività di soluzione dei problemi sono stati oggetto di indagine da parte di J. S. Bruner, J. L. Goodnow e G. A. Austin (A study of thinking,​​ 1956), e​​ ​​ Piaget, J. Baldwin,​​ ​​ Lewin e​​ ​​ Vygotskij, seppure in prospettive teoriche differenti, riproponendo il problema della genesi della conoscenza, del rapporto tra la mente e il mondo esterno, nonché di quello tra p. e linguaggio. È comunque il​​ ​​ cognitivismo la corrente psicologica che in modo più significativo ha rivisitato le teorie tradizionali, nate in ambito filosofico, circa le procedure di astrazione, la verifica delle ipotesi, i processi deduttivi e induttivi attraverso cui il p. trova la sua articolazione. Partendo dal presupposto che la mente non si limita a registrare informazioni, ma le filtra e le elabora intervenendo in modo attivo, il cognitivismo ritiene: a) che i concetti non sono il prodotto dell’astrazione ma l’espressione del modo in cui l’esperienza è stata organizzata: essi sono dunque predittivi, nel senso che consentono di trattare gli eventi futuri se il soggetto li organizza con lo stesso stile di esperienza; b) che l’esperienza prende le mosse da un costrutto personale il quale funziona o da sistema chiuso che impedisce l’arricchirsi dell’esperienza stessa o da schema aperto che riduce la sua componente schematica man mano che accoglie i contenuti empirici bisognosi di una continua ristrutturazione della esperienza stessa; c) che i fattori emotivi influenzano le procedure logiche e d) che nella comunicazione il messaggio può essere alterato dal contesto comunicativo con conseguenti fraintendimenti e misconoscimenti che la logica utilizzata per la programmazione dei computer rende evidenti (H. Lindsay - D. A. Norman,​​ Human information processing,​​ 1972).

3. Una nuova impostazione negli studi sul p. è stata proposta da quegli indirizzi di ricerca che fanno riferimento alla​​ teoria dell’informazione.​​ Utilizzando la simulazione su calcolatore e l’elaborazione di appositi modelli, questa prospettiva di ricerca sostiene l’analogia tra il funzionamento mentale e il funzionamento dei calcolatori elettronici e vede nel p. uno «strumento per l’elaborazione dell’informazione». Il comportamento quindi dipende da un programma che si organizza a partire da un insieme di processi di informazione elementare e che è sotteso da una serie di piani specifici, intendendo per piano «qualunque tipo di processo gerarchico nell’ambito dell’organismo in grado di controllare l’ordine in cui va eseguita una sequenza di operazioni» (G. A. Miller, K. H. Pribram, E. Galanter). In tal senso A. Newell e H. Simon (A human problem solving,​​ 1972) portano avanti lo studio delle strategie utilizzate nella soluzione di problemi ricorrendo ai resoconti verbali forniti dai soggetti relativamente ai loro processi mentali, aprendo così la via ad un nuovo filone di ricerche intorno ai processi metacognitivi, e cioè al complesso di idee e credenze che ogni individuo sviluppa nel corso della propria vita intorno ai propri processi cognitivi. Lo studio dei processi di p., condotto secondo «categorie naturali», impiegate dai soggetti in situazioni concrete, mette in luce l’organizzazione gerarchica dei concetti all’interno di una rete semantica, composta da reti e nodi concettuali studiabili sperimentalmente (J. Anderson,​​ Language,​​ memory and thought,​​ 1976). Particolare sviluppo ha avuto negli ultimi anni lo studio delle strategie di​​ ​​ problem solving​​ e di ragionamento (D. Kahneman e D. Tversky,​​ Judgment under uncertainty,​​ 1974), non senza ricadute nella didattica e nella messa in opera di strategie dell’apprendimento.

Bibliografia

Geymonat L.,​​ Storia del p. filosofico e scientifico,​​ Milano, Garzanti, 1976; Neisser U.,​​ Psicologia cognitivista,​​ Firenze, Martello-Giunti, 1976; Johnson-Laird P. N.,​​ La mente e il computer,​​ Bologna, Il Mulino, 1990; Kanizsa G.,​​ Vedere e pensare,​​ Ibid., 1991; Danzinger K.,​​ La costruzione del soggetto,​​ Roma / Bari, Laterza, 1995; Sternberg R. J. - E. E. Smith,​​ La psicologia del p. umano, Roma, Armando, 2000; Casadio C.,​​ Logica e psicologia del p., Roma, Carocci, 2006; Sacchi S.,​​ Psicologia del p., Ibid., 2007.

F. Ortu - N. Dazzi

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PENSIERO

PENSIERO CRITICO

 

PENSIERO CRITICO

Il p.c. è parte integrante della più vasta area dell’attività cognitiva relativa ai processi del riflettere, pensare e inventare.

1. Negli ultimi anni l’argomento ha suscitato un notevole interesse sia perché molti studenti, pur avendo molte più informazioni che nel passato, si adattano a ciò che vedono o sentono senza sottomettere ad analisi e a ponderata valutazione idee o opinioni, sia perché oggi è più che mai necessario rispondere con prontezza alle continue trasformazioni del mondo del lavoro e della società in generale. In proposito si possono individuare due orientamenti della ricerca. R. H. Ennis definisce il​​ critical thinking:​​ «una riflessione ragionevole focalizzata sul decidere che cosa credere o fare» (Ennis, 1987, 10). Secondo questo autore il p.c. richiede in primo luogo di saper chiarificare, sapersi focalizzare su un problema, saper analizzare gli argomenti, saper porre domande e risposte stimolanti; e ad un livello più elevato saper definire concetti e valutare definizioni in base alla forma in cui si presentano, saper utilizzare strategie adatte per definire un contenuto, identificare assunzioni, decidere azioni da intraprendere, interagire con altri. In secondo luogo il p.c. significa saper dare il giusto peso al proprio argomentare, saper giudicare la credibilità di una fonte, saper osservare e giudicare le osservazioni che vengono presentate. Infine esso vuol dire saper fare inferenze corrette, saper fare e valutare le deduzioni, saper indurre e svolgere corrette induzioni, esprimere giudizi di valore. Tutte le abilità e le disposizioni conseguenti sono interdipendenti e interattive tra di loro. R. Paul (1990) invece connette il p.c. con la consapevolezza del radicamento del p. in strutture e sistemi linguistici e culturali. Il p.c. è quindi pigliar coscienza del fondamento multilogico dei propri p.; è prendere in seria considerazione le alternative che si presentano; entrare in contatto empatico con un modo di pensare diverso dalle proprie prospettive. Ciò suppone di essere capaci di porsi «domande socratiche», portare alla luce le caratteristiche salienti del proprio p., analizzare e valutare concetti o termini problematici, ricostruire i punti di vista alternativi, ragionare da diverse prospettive e razionalmente identificare e considerare la forza e la debolezza di ognuna di esse.

2. Pur nella varietà delle posizioni, alcuni punti sembrano tuttavia abbastanza chiari: a) l’educazione al p.c. è un’abilità molto complessa perché non si limita all’educazione di processi mentali, ma include anche altri tratti e atteggiamenti della mente e della persona. Ad es. Paul (1990) parla anche di umiltà, coraggio, empatia, integrità, perseveranza, fiducia nella ragione e imparzialità rispetto ai punti di vista; b) l’educazione al p.c. richiede il possesso e il corretto uso di abilità e processi mentali di alto livello, soprattutto delle capacità logiche, di​​ ​​ problem solving​​ e creative; c) il p.c. richiede strategie di pianificazione, di direzione, di controllo e di valutazione; d) un’educazione al p.c. non sembra avvenire attraverso un aumento della quantità dei contenuti, né si tratta di una materia scolastica specifica. È invece importante che ogni insegnante nell’ambito della sua materia sappia insegnare a pensare in modo critico e prima ancora che sia egli stesso capace di p.c.

Bibliografia

Ennis R. H., «A taxonomy of critical thinking dispositions and abilities», in B. Baron - R. J. Sternberg (Edd.),​​ Teaching thinking skills: theory and practice,​​ New York, Freeman and Company, 1987, 9-26; Paul R. W., «Critical and reflective thinking: a philosophical perspective», in B. F. Jones - L. Idol (Edd.),​​ Dimensions of thinking and cognitive instruction,​​ Hillsdale, Erlbaum, 1990, 445-494; Boncori G.,​​ Educare la capacità critica,​​ Roma, CRISP, 1995; Center for Critical Thinking,​​ Critical thinking workshop handbook,​​ Santa Rosa, Foundation for Critical Thinking,​​ 1996; Valletta J.,​​ P.c. e azione educativa, Lecce, Pensa Multimedia, 2007.

M. Comoglio

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