PASTORALE

 

PASTORALE

P. è l’insieme delle azioni che la comunità ecclesiale, animata dallo Spirito Santo, realizza per l’attuazione nel tempo del progetto di salvezza di Dio sull’uomo e sulla sua storia, con riferimento alle concrete situazioni di vita. La p. si interessa di problemi concreti. Essa è azione, prassi, organizzazione di risorse e progettazione d’interventi. Certamente però tutto questo è possibile solo all’interno di un’attenta e intensa riflessione, soprattutto teologica. La p. riflette sull’insieme delle azioni che la comunità ecclesiale pone per attuare la salvezza, per interpretarle, verificarle, riprogettarle. La dimensione pratica della p. la pone continuamente nella necessità di confrontarsi con tutte quelle discipline che, in qualche modo, si interessano degli stessi problemi e ne cercano soluzioni, eventualmente a​​ partire da preoccupazioni differenti. È tipico, a questo proposito, il confronto con 1’educazione sul piano pratico della comprensione e della soluzione dei problemi, a partire da una riflessione che li sappia comprendere ed interpretare. La definizione del tipo di rapporto da instaurare tra educazione e p. riguarda lo statuto delle due discipline. In questa voce, si propone un’ipotesi che assume come punto di riferimento il dato teologico relativo alla natura e ai compiti della p.

1.​​ Modelli diversi.​​ P. e educazione non sono la stessa realtà, dal punto di vista formale e sostanziale. Eppure sono molti e intensi i punti di contatto, come porta a supporre, almeno implicitamente, un certo modo di esprimersi comune tra gli addetti ai lavori. Per indicare i compiti e le responsabilità di coloro che sono impegnati nell’ambito della p. si utilizza spesso la formula: «educazione alla fede» (o «educazione della fede», come preferisce dire qualcuno). Il termine​​ ​​ educazione possiede una sua innegabile rilevanza tecnica, che le​​ ​​ scienze dell’educazione analizzano e precisano. È corretto attribuire questi riferimenti ai processi che riguardano la fede e il suo sviluppo? O, al contrario, si tratta di un modo di dire solo analogico? La tradizione p., vissuta e riflessa, offre differenti risposte a questi interrogativi.

1.1.​​ Primo modello: ricomprendere l’educativo a partire dal teologico.​​ Nel modello che per tanto tempo ha dominato il campo della p., si parla molto di educazione alla fede e s’insiste sugli interventi necessari per attuarla. In esso però la voce «educazione» è assunta solo in una visione analogica rispetto a quella caratteristica delle scienze dell’educazione. Il suo contenuto è derivato, quasi deduttivamente, dal dato teologico. Così, in ultima analisi, è svuotata ogni seria preoccupazione educativa nell’azione p. Questo modo di comprendere il rapporto tra teologia ed educazione è ormai in concreto superato nella riflessione e nella prassi p. Sono possibili però quelle sue rivisitazioni, accorte e intelligenti, che conservano l’abitudine di comprendere i problemi p. solo a partire dalle esigenze del dato teologico. Nella definizione delle procedure relative all’​​ ​​ evangelizzazione, per es., si insiste molto sulla dimensione oggettiva e veritativa dell’esperienza cristiana. È attivato un continuo confronto critico tra la sapienza dell’uomo e il dato della fede, quasi per restaurare quelle esigenze a carattere «apologetico», troppo frettolosamente accantonate nel recente passato. I giovani sono sollecitati ad apprendere, con pazienza e fermezza, i contenuti oggettivi della fede nella loro precisa codificazione linguistica. Si parte dall’ipotesi che l’educazione ad accogliere e a comprendere il linguaggio oggettivo della fede aiuti e sostenga la vita di fede, sotto il profilo della consapevolezza riflessa e del confronto con le varie istanze del sapere umano.

1.2.​​ Secondo modello: l’autonomia dell’educativo.​​ Il modello precedente ha una specie di rovescio della medaglia in quelle prassi che tendono a far prevalere l’educativo sopra ogni impegno p. La logica è semplice: la coscienza di quanto sia stretto il rapporto tra dimensioni antropologiche e teologiche porta a concludere che i compiti della p. sono già egregiamente assolti quando si realizza una corretta azione educativa. Prevale l’abitudine di chiamare le cose con i loro nomi concreti, evitando l’astrattismo del linguaggio religioso. Sono accolti i ritmi e i tempi dei normali processi evolutivi. La fiducia verso le scienze dell’educazione sollecita a programmare con serietà e competenza gli interventi adeguati. L’azione p. parte di conseguenza da una gerarchia di preoccupazioni e di esigenze, diversa da quella tradizionale. Molti problemi religiosi passano in secondo piano, per fare spazio ad altri, vissuti come più urgenti.

1.3.​​ Terzo modello: la separazione netta degli ambiti.​​ Lo stimolo della «teologia dialettica» si è fatto sentire presto anche nell’ambito della p. Alcune sue indicazioni, particolarmente incisive, hanno trovato facile risonanza in operatori di p., reattivi rispetto all’eccessiva pedagogizzazione della fede e della vita cristiana. Alla base sta l’affermata irriducibilità del mondo della fede al mondo profano e la constatazione teologica che nella Rivelazione c’è solo un discorso soteriologico, estraneo ad ogni interesse educativo. Dio è Dio; egli è il totalmente altro, colui che è nascosto e avvolto nel mistero. All’assoluta e somma superiorità di Dio va contrapposta l’estrema e infinita inferiorità dell’uomo. Cito alcune indicazioni pratiche che, in qualche modo, si ispirano a questa prospettiva teologica: il rifiuto di ogni mescolamento dell’educativo nell’ambito della p.; l’affermazione che l’unica preoccupazione veramente urgente è quella in fondo più semplice: moltiplicare le occasioni di contatto tra Dio e l’uomo. Di qui l’insistenza sui momenti di preghiera, sulle celebrazioni liturgiche e sacramentali, sull’ascolto della Parola di Dio; la contestazione, almeno pratica, dell’esistenza di un problema originale di «p. giovanile», come se i giovani avessero titoli e difficoltà particolari rispetto alla salvezza di Dio; l’enfasi sulla comunità di fede e di vita ecclesiale come luogo, accogliente e pervasivo, dove tutti i problemi possono essere risolti.

1.4.​​ Quarto modello: la scelta educativa in​​ uno «sguardo di fede».​​ Esistono modelli p. in cui è facile riconoscere una fiducia nell’educazione, costruita a partire da una teologia della Rivelazione. La Parola di Dio, offerta della Rivelazione, assume una sua speciale visibilità umana per farsi conoscere, per rendersi vicina e accessibile all’uomo in vista della fede. C’è quindi un aspetto della Rivelazione, inseparabile da quello trascendente, che è alla portata delle capacità di apprendimento dell’uomo. Esiste, in altre parole, un visibile, rivelatore dell’invisibile, un contenente veicolo al contenuto, un significante che conduce al significato. Per questo è affidato all’educazione un contributo irrinunciabile anche per la p.: il visibile è il luogo di presenza del mistero e via privilegiata per entrarvi.

2.​​ Una prospettiva.​​ Chiariti i termini, si può entrare nel merito, alla ricerca di soluzioni. È certo che la risposta deve nascere da una chiara meditazione sulla fede perché la questione riguarda la natura dell’esperienza di fede e non solo le modalità pratiche della sua trasmissione.

2.1.​​ Leggere il processo nella logica dell’Incarnazione.​​ Consideriamo l’evento che dà origine alla decisione di fede: la Rivelazione. Essa rappresenta il punto centrale per sapere se si può parlare di educabilità della fede ed eventualmente in che senso. Il contenuto della Rivelazione è Gesù Cristo: il mistero di Dio in Gesù Cristo. E cioè l’alleanza: un’alleanza d’amore fra tre Persone nell’unità di una stessa vita (ciò che Dio è); un’alleanza d’amore tra Dio e l’uomo per la realizzazione della salvezza (ciò che Dio fa); un’alleanza d’amore tra gli uomini e Dio nella e per la fede (ciò che Dio attende). Quest’annuncio presenta un carattere trascendente. Si possono prendere seriamente le esigenze dell’educazione, quando ci poniamo al servizio di un evento di questa natura? Non è possibile rispondere in astratto, dimenticando il modo con cui di fatto Dio ha voluto realizzare la Rivelazione. La Tradizione ci sollecita a pensare alla Rivelazione alla luce e nel mistero dell’Incarnazione, perché l’evento di Gesù il Cristo ne rappresenta il contenuto e il modello più radicale. Il riferimento all’Incarnazione ci ricorda che la Parola di Dio è «incarnata»; assume, in altre parole, una sua visibilità. Questo visibile è la vita umana, quell’esistenza concreta e quotidiana che forma l’oggetto delle cure educative. Nella Rivelazione è importante distinguere tra il dono di Dio e il modo con cui questo dono si rende presente, vicino, provocante. La presenza di Dio è sempre «mistero» santo, sottratto ad ogni possibilità di manipolazione e di comprensione esaustiva. Dal dono di Dio scaturisce l’appello alla libertà e responsabilità d’ogni uomo. Tutto questo investe innegabilmente il dialogo diretto e immediato tra Dio e ogni uomo e tocca quelle profondità dell’esistenza umana che sfuggono ad ogni processo educativo. Dono e chiamata si realizzano però «in parole umane»: assumono una dimensione di visibilità storica e quotidiana, legata a quelle regole educativo-comunicative, che sono oggetto anche delle scienze dell’educazione e, in generale, dell’approccio antropologico. La conclusione è immediata: se la Rivelazione assume la vita quotidiana e i suoi dinamismi come suo strumento espressivo, il rapporto tra educazione e p. è molto stretto (proprio dal punto di vista dei compiti della p. stessa).

2.2.​​ Il​​ concreto.​​ Queste distinzioni orientano verso un modello di p. che fa spazio ai contributi, teorici e pratici, delle scienze dell’educazione, fino a riconoscere la loro funzionalità indiretta nella maturazione della fede. a)​​ La priorità del dono di Dio per la fede.​​ Prima di tutto è indispensabile riconoscere che la fede si sviluppa sul piano misterioso del dialogo tra Dio e ogni uomo. Questo spazio di vita sfugge ad ogni tentativo di intervento dell’uomo. In esso va riconosciuta la priorità dell’iniziativa di Dio. La risposta dell’uomo consiste nell’obbedienza accogliente: la fede è un dono, in senso totale; proviene quindi dall’udire e non dal riflettere, è accoglienza e non elaborazione. b)​​ L’educazione alla fede sul piano delle mediazioni educative.​​ L’appello di Dio che costituisce il fondamento del processo di salvezza, si fa sempre parola d’uomo, per risuonare come parola comprensibile dall’uomo, e cerca una risposta personale, espressa in gesti e parole dell’esistenza quotidiana. C’è quindi una dimensione del processo di salvezza che si svolge secondo modi comuni ad ogni processo educativo e comunicativo. Non rappresenta un aspetto che s’aggiunge a quello dell’immediatezza dell’azione di Dio, ma un’esigenza che la pervade tutta. L’azione p. è, nello stesso tempo e con la stessa intensità, un atto sottratto alla qualità della relazione interpersonale, perché attinge direttamente nel mistero di Dio potenza ed efficacia, ed è intensamente condizionato dalla qualità umana dei gesti e delle parole poste e dalla disponibilità «educabile» del soggetto. Il condizionamento (positivo o negativo) è collocato nel rapporto del «segno» rispetto all’evento. Attraverso le modalità antropologiche in cui si svolge, il segno diventa sempre più espressivo rispetto alle attese del soggetto e sono ricostruite queste attese per sintonizzarle con l’offerta della fede e della salvezza. Questo è l’ambito tipico dell’azione p. Riconosce la funzione insostituibile di tutti gli interventi educativi rispetto all’educazione della fede: essi hanno il compito di attivare, sostenere, mediare il processo di salvezza, nel doppio movimento di proposta e di risposta. c)​​ La potenza di Dio investe anche gli interventi educativi.​​ Le due modalità (quella misteriosa in cui si esprime l’appello di Dio alla libertà dell’uomo e quella delle mediazioni educative) non sono sullo stesso piano. Bisogna riconoscere, in una fede confessante, la priorità dell’intervento divino anche nell’ambito educativo, più direttamente manipolabile dall’uomo e dalla sua cultura. La fede dunque riconosce la grandezza dell’educazione: liberando la capacità dell’uomo e rendendo trasparenti i segni della salvezza, essa libera e sostiene la sua capacità di risposta responsabile e matura a Dio. Ma la fede riconosce che anche l’educazione rimane, come tutti i fatti umani, sotto il segno del peccato. La fede dunque deve esprimere un giudizio sull’educazione dell’uomo in genere e, in particolare, sul modello educativo umano che può essere utilizzato nel proporre la fede alle nuove generazioni. Questo, in fondo, non è attentato al dovere di rispettare l’autonomia dei fatti umani. Significa invece che l’approccio educativo e comunicativo è giudicato dall’evento al cui servizio si pone. Nel nostro caso comporta la constatazione che questo approccio, anche se è legato ad esigenze tecniche, avviene sempre nel mistero di una potenza di salvezza che tutto avvolge: la grazia salvifica possiede una sua rilevanza educativa, certa e intensa anche se non è misurabile attraverso gli approcci delle scienze dell’educazione.

3.​​ Una p. attenta all’educazione.​​ Le riflessioni appena suggerite portano a concludere sulla necessità di assumere gli atti educativi anche nei processi di educazione alla fede, almeno fino ad un certo punto. Il confine non è di quantità ma di qualità. Infatti non c’è un primo tratto di strada percorribile in compagnia con i dinamismi antropologici, e un secondo tratto dove tutto resta affidato all’imponderabile presenza dello Spirito. Potenza di Dio e competenza umana sono invece compagni di viaggio dalla partenza all’arrivo, anche se sono interlocutori diversi, cui va riconosciuto uno spazio pratico molto differente.

3.1.​​ A confronto.​​ Il confronto tra educazione e p. sollecita a realizzare i due processi in modo da assicurare a ciascuno il guadagno che il contributo dell’altro è in grado di offrire. La p. assume le esigenze dell’educativo, con disponibilità e attenzione, superando ogni tentazione di strumentalizzazione. Il pluralismo, però, investe e attraversa anche l’educazione e la frammenta in diverse figure. Il riferimento antropologico sotteso non è indifferente per la qualità del servizio di promozione della vita e della speranza, cui l’educazione tende. Essa cerca quindi un’ispirazione che la collochi pienamente dalla parte della vita e della sua qualità. Un dialogo e un confronto possono introdurre nei due processi un principio interessante di verifica e di rinnovamento. Tra i tanti modi attraverso cui si può realizzare la p., chi crede all’educazione preferisce quelli in cui è rispettata meglio la preoccupazione della gradualità, della chiamata alla responsabilità. Essa si realizza sempre in una presenza accogliente, che fa dei gesti di vicinanza, di servizio, di promozione e di amore la sua parola più convincente. In un tempo in cui lo scontro tra le culture avviene sempre di più attorno alla qualità della vita, alla ricerca di senso e ai fondamenti della speranza, chi è impegnato sulla frontiera dell’educazione riconosce di avere un compito che riempie di gioia e di responsabilità, riguardo alla vita e alla sua promozione. La collaborazione, teorica e pratica, con chi opera nell’ambito della p. aiuta ad inventare e sperimentare modelli di esistenza, capaci di dire oggi chi è l’uomo e la donna al cui servizio tutti sono sollecitati a piegarsi.

3.2.​​ L’educazione è il nome concreto per dire oggi «promozione umana».​​ L’educazione è la grande sfida che la cultura attuale lancia a coloro che credono all’uomo e alla sua dignità. Per questo, anche chi è impegnato esplicitamente nell’ambito della p., riconosce di assolvere intensamente il suo compito, impegnando tutte le risorse nell’ambito dell’educazione. Nel nome dell’educazione gioca la sua fede e la sua speranza. Attorno alle esigenze dell’educazione chiede la collaborazione di tutte le persone che amano l’uomo e ne cercano una promozione, oltre le differenze culturali e religiose. La comunità ecclesiale riconosce la «portata salvifica dell’educazione» anche come evento già compiuto e preciso (anche se parziale), nell’ordine della salvezza di cui è sacramento. La comunità ecclesiale riconosce così nell’educazione il modo privilegiato per realizzare oggi i necessari impegni di «promozione umana» nell’ambito dell’evangelizzazione. Affermando la sua fiducia nell’educazione, sente di essere fedele al suo Signore. Con lui crede all’efficacia dei mezzi poveri per la rigenerazione personale e collettiva e crede all’uomo come principio di rigenerazione: restituito alla gioia di vivere e al coraggio di sperare, riconciliato con se stesso, con gli altri e con Dio, può costruire nel tempo il Regno della definitività.

Bibliografia

Schillebeeckx E.,​​ Intelligenza della fede. Interpretazione e critica,​​ Roma, Paoline, 1975; Coudreau F.,​​ Si può insegnare la fede? Riflessioni e orientamenti per una pedagogia della fede,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1978; Latourelle R. - G. O’Collins (Edd.),​​ Problemi e prospettive di teologia fondamentale,​​ Brescia, Queriniana, 1980; Vecchi J. E. - J. M. Prellezo (Edd.),​​ Prassi educativa p. e scienze dell’educazione,​​ Roma, Editrice SDB, 1988; Tonelli R.,​​ Per la vita e la speranza. Un progetto di p. giovanile,​​ Roma, LAS, 1996; Istituto di Teologia​​ p. - Università Pontificia Salesiana,​​ P. giovanile. Sfide,​​ prospettive ed esperienze,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 2003.

R. Tonelli

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PASTORALE

PASTORALE CATECHISTICA

 

PASTORALE CATECHISTICA

La CT, nella esposizione che fa della C., osserva che questa “mantiene l’ottica tutta pastorale, sotto la quale il Sinodo (1977) ha voluto considerarla. Questo senso largo della C. non contraddice, ma comprende, oltrepassandolo, il senso più stretto, una volta impiegato più comunemente nelle esposizioni didattiche: il semplice insegnamento delle formule che esprimono la fede” (n. 25). Del radicamento della C. in una pastorale più vasta si era andato prendendo coscienza negli anni immediatamente precedenti il Concilio. La rivista “Vérité et Vie” iniziò nel 1959, con articoli di J. Colomb, la rubrica “Pastorale catéchétique”. L’Istituto Superiore di Catechetica di Parigi, nel suo secondo periodo, 1958-1968, cambiò il nome in Istituto Superiore di Pastorale Catechistica, e la rivista “Catéchèse” apparve, verso la fine del 1960, come “Revue de Pastorale Catéchétique”, così come il Direttorio francese del 1964 nacque come “Directoire de Pastorale Catéchétique”.

La rivista “Catechesi”, assumendo lo stesso sottotitolo nel gennaio 1970 (come faranno altri Centri e riviste), così lo giustificava: “Se la C. è insegnamento, lo è non in vista di un nozionismo religioso, ma in vista di una vera e propria mentalità di fede, per la vita di fede nelle concrete situazioni dell’esistenza individuale e sociale. Così la C. è necessariamente iniziazione alla vita liturgico-sacramentale, nella quale si celebrano i sacramenti della fede, perché tutta la vita, innestata nel mistero della salvezza, sia santificata in radice e in ogni suo atto, mettendola in contatto col mistero pasquale di Cristo. Ed è formazione alla vita ecclesiale, che fa della comunità dei credenti in Cristo una comunione di vita, di amore, di verità”.

Così l’Istituto di Catechetica dell’Università Pontificia Salesiana, caratterizzato dalla sua collocazione in una Facoltà di Scienze dell’Educazione, ha cercato, a partire dal 1981, anche un collegamento più stretto con la Pastorale, entrando a formare una Struttura Dipartimentale con l’Istituto di Pastorale Giovanile della Facoltà di Teologia della stessa Università.

Bibliografia

Catechesi” rivista di Pastorale Catechistica,​​ in “Catechesi” 39 (1970) 1, 1-3;​​ Directorium Catecheticum Generale,​​ Roma, Ed. Vaticana, 1971, Parte II, cap. II:​​ La catechesi nella missione pastorale della Chiesa,​​ nn. 17-35.

Ubaldo Gianetto

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PASTORALE CATECHISTICA

PASTORALE GIOVANILE

PASTORALE GIOVANILE

Riccardo Tonelli

 

1. La pastorale giovanile tra problemi e prospettive

1.1. Le ragioni «contro»

1.2. Le ragioni «a favore»

2. Il difficile sviluppo della pastorale giovanile

2.1. Nel recente passato: tre modelli

2.2. Le linee di tendenza

2.2.1. Tra iniziazione e riformulazione

2.2.2. La via nuova dell’«animazione»

3. La pastorale giovanile alla scuola dell'animazione

3.1. L ’obiettivo

3.1.1. La Chiesa italiana e l’integrazione fede-vita

3.1.2. L’integrazione fede-vita nella cultura attuale

3.1.3. Progettare l’obiettivo dalla parte della vita

3.2. Metodo

3.2.1. L’invocazione è il luogo dell’evangelizzazione

3.2.2. L’evangelo per la liberazione dell’uomo

 

1.​​ La pastorale giovanile tra problemi e prospettive

Solo da poco tempo, nella comunità ecclesiale italiana, ci si è posti la domanda sul significato e la pertinenza di una pastorale giovanile come azione specializzata nei confronti dei giovani. Ce la siamo posta perché siamo cresciuti in maturità teologica e antropologica.

Prima di quella ventata innovativa che negli anni sessanta ha scosso tutte le istituzioni educative, il fatto era relativamente pacifico. L’educazione dei giovani era un processo staccato dall’andamento globale della società, affidato a specialisti. Lo stesso capitava per la pastorale giovanile: era un processo settoriale rispetto all’insieme della vita cristiana, gestito anch’esso da educatori, istituzioni, ambienti specializzati.

Educazione e pastorale giovanile cercavano generalmente di assicurare una progressiva integrazione delle giovani generazioni nella società e nella Chiesa.

Tutto questo è entrato in discussione sotto la spinta della contestazione e sotto la pressione del rinnovamento teologico.

La crisi della relazione educativa ha sollecitato ad una sua rivisitazione. L’adulto ha ritrovato un peso importante in tutti i processi educativi, come testimone, autorevole e sofferto, dei valori e dei significati della vita. La riscoperta conciliare della comunità ecclesiale ha funzionato quasi da cassa di risonanza a questa sensibilità.

Per questo non possiamo più immaginare un’azione educativa e pastorale sganciata dai dinamismi collettivi in cui sono posti e risolti i grandi problemi dell’esistenza, umana e cristiana. E non possiamo pensare alla pastorale giovanile come ad un insieme di interventi, isolati dall’andamento globale dell’attività evangelizzatrice della comunità ecclesiale.

Nella Chiesa del dopoconcilio queste prospettive rappresentano ormai un punto di non ritorno.

La consapevolezza di operare per un’unica causa con una intenzione e un movimento unitario anche nella necessaria differenziazione, non è sufficiente però a decidere sull’opportunità e sulla qualità della pastorale giovanile.

Sulla stessa dichiarazione d’intenti si ritrovano d’accordo infatti coloro che sostengono la necessità di progettare interventi pastorali specializzati e specifici e coloro che invece ne contestano la pertineneza, per poter annunciare ai giovani l’evangelo meglio e con effetti più duraturi.

La questione è seria e pregiudiziale. È importante un confronto con le varie ragioni che giustificano le differenti posizioni.

 

1.1. Le ragioni «contro»

Coloro che contestano l’opportunità di una pastorale giovanile specifica partono, generalmente, da affermazioni di indiscusso valore.

L’uomo maturo è colui che ha saputo riscrivere nella sua struttura di personalità i tratti normativi che definiscono l’essere-uomo in assoluto. Questo livello di maturità è realizzabile solo nella pienezza esistenziale. L’uomo maturo può essere quindi solo «l’adulto» di anni e di esperienze.

I giovani sono in una fase del processo maturativo, in progressiva e doverosa crescita verso la sua dimensione terminale. Non è corretto e non risulta promozionale assumere la loro situazione di fragilità e di marginalità come valore positivo, cercando eventuali giustificazioni in una utilizzazione sprovveduta delle caratteristiche teologiche della fede cristiana.

L’educazione e l’educazione alla fede, nell’ambito che le compete, sono il processo mediante cui la generazione adulta offre il suo contributo per la crescita delle nuove generazioni.

Inoltre, non possiamo dimenticare che soggetto responsabile della maturazione della fede è la comunità ecclesiale. Essa è soggetto universale, in dialogo con tutti. In modo speciale lo è per i giovani. Questo suo compito non può essere perciò delegato ad altri; resta invece centrale e irrinunciabile per ogni comunità.

Chi difende questa posizione si rende conto facilmente che le nostre comunità non sono spesso all’altezza di una responsabilità tanto esigente. Sono convinti però che le comunità ecclesiali daranno una immagine rinnovata di sé, solo quando accetteranno di caricarsi sulle spalle questo loro compito, smettendo l’alibi facile della delega agli operatori specializzati.

Nell’adempimento della missione evangelizzatrice la comunità ecclesiale ritrova così il necessario principio di trasformazione.

La pastorale giovanile è un momento della pastorale globale: l’espressione del servizio preciso e impegnativo dell’unica comunità ecclesiale verso i giovani, fino alla loro maturazione in uomini e cristiani «adulti».

Non solo viene rifiutata categoricamente ogni forma giovanilistica. Viene anche contestata la prassi di molte comunità di far concorrenza alle altre agenzie educative, per progettare qualche ritrovato metodologico ad effetto (come risulta, ad esempio, l’enfasi sul gruppo giovanile) solo per accedere a quelle esigenze «educative» di cui i giovani hanno estremo bisogno, proprio per la stagione che stanno vivendo.

 

1.2. Le ragioni «a favore»

È possibile vedere le cose in un modo diverso, pur riconoscendo l’importanza delle istanze appena ricordate. Condividerle, non significa affatto trascinarle alla loro risonanza estrema, fino ad escludere la pertinenza di una pastorale giovanile come azione specializzata.

La pastorale giovanile è costituita dall’insieme delle azioni che la comunità ecclesiale, animata dallo Spirito Santo, realizza con e per i giovani (soggetti in età evolutiva), per attuare in essi il progetto di salvezza di Dio, in riferimento alle loro concrete situazioni di vita. Anche in questa prospettiva, il soggetto è la comunità ecclesiale e si afferma la sua missione sorgiva di garantire e di consolidare l’attuazione della salvezza. L’elemento discriminante è dato invece dal peso affidato alle «situazioni» nella definizione degli interventi capaci di assicurare il farsi, concreto e quotidiano, della salvezza.

Situazione è formula evocativa per dire tutto quello che ha sapore di storia quotidiana, di qui-ora. Nel nostro caso, situazione sono i giovani, quasi come «condizione», segnati dai tratti costitutivi dell’essere giovane e da quelli così profondi dell’esserlo oggi.

I difensori del modello precedente affidano alla situazione una funzione passiva di «recezione», di «destinazione», di «banco di prova». La comprensione della salvezza e delle azioni da porre per assicurarla, sono così definite in assoluto, in fedeltà ad un progetto che ci viene da lontano. La situazione concreta non ha nessun peso sul progetto, non lo modifica per nulla.

La pastorale è quindi pienamente unitaria: eventuali difficoltà operative sono superate attraverso adattamenti provvisori.

Quella intensa riscoperta dell’Incarnazione su cui si è costruito il rinnovamento pastorale postconciliare, giustifica un modo diverso di vedere le cose. In un’ottica ermeneutica, le situazioni continuano la grande esperienza dell’Incarnazione: fanno esistere la salvezza per l’uomo quotidiano della nostra storia. La pastorale giovanile è perciò l’azione specializzata dell’unico soggetto ecclesiale, impegnato secondo modalità differenti nella realizzazione della causa del Regno di Dio. I giovani sono interlocutori privilegiati non solo perché la comunità ecclesiale è impegnata per la loro maturazione cristiana, ma soprattutto perché la Chiesa stessa si autocostruisce nel servizio pastorale, in forza del contributo attivo offerto dai giovani stessi. La pastorale giovanile è quindi un momento di autorealizzazione della Chiesa, in quanto presenza, premurosa, accogliente, sollecitante, dell’unica comunità ecclesiale tra i giovani, i figli che ha generato e che vuole riconsegnare in modo definitivo alla vita.

 

2.​​ Il difficile sviluppo della pastorale giovanile

Le due posizioni sono alternative solo nelle loro ragioni fondanti. Di fatto però chi si mette a lavorare con i giovani con un po’ di passione elabora i suoi progetti, li esprime in orientamenti concreti, li articola in interventi e in strategie.

Determina così una sua pastorale giovanile, anche quando fa un po’ di fatica a pronunciarne la formula.

Qualche volta le motivazioni antropologiche e teologiche che giustificano o contestano l’opportunità di una pastorale giovanile specializzata segnano lo stile con cui viene attuata. Spesso è influenzata da orizzonti culturali che stanno ancora più a monte.

Anche lo sguardo dell’addetto ai lavori stenta a riconoscere se un determinato orientamento dipende dall’indice di fiducia accordata ai giovani o, invece, risente soprattutto dell’immagine di salvezza a cui ci si ispira.

Questa costatazione mi spinge a tracciare il difficile sviluppo della pastorale giovanile italiana in un unico movimento. È la storia di un vissuto comune a chi difende la pertinenza della pastorale giovanile e a chi la contesta. La racconto, anche se a veloci battute, perché la riconosco il luogo teologico in cui possono rinvenire suggerimenti tutti coloro che vogliono comprendere il significato e la qualità di una pastorale giovanile.

Nelle pagine conclusive proporrò un modello per dire in termini operativi i miei orientamenti. Anche quel progetto è nato nel fuoco di questo vissuto: ne dipende, ci si confronta, cerca di elaboralo.

 

2.1. Nel recente passato: tre modelli

Purtroppo non esiste una letteratura del recente passato, sufficiente per delineare lo sviluppo della pastorale giovanile.

Si può scrivere una storia solo sulle pagine, confuse e vivaci, della prassi.

Abbiamo però uno strumento prezioso per organizzare questo materiale frastagliato. Consiste nella documentazione relativa alle grandi correnti di teologia pastorale che hanno esercitato, direttamente o indirettamente, un influsso sulla prassi pastorale spicciola. La corrente di teologia pastorale, più diffusa almeno fino al tempo del Concilio, ha offerto il supporto culturale ad un modello di pastorale giovanile che definisco «storicooggettivo». Esso infatti mette fortemente l’accento sulla iniziativa di Dio, sul suo progetto di salvezza e sulla sua importanza per l’autorealizzazione personale. Nel dono della salvezza, presentato agli uomini dal Padre in Gesù Cristo, attraverso la mediazione storica della Chiesa, sta la realizzazione personale e sociale. La singola persona e l’umanità nel suo insieme, la società stessa raggiungono il loro pieno significato solo accettando il dono di Dio.

La pastorale giovanile ha come compito l’educazione dei giovani ad accogliere vitalmente il progetto di Dio. Essa è preoccupata di moltiplicare i contatti tra i momenti tipici della fede e la vita quotidiana dei giovani. Di qui la centralità della catechesi, realizzata prevalentemente come «annuncio» del progetto di Dio, in cui è contenuta la risposta definitiva alle domande che la vita pone. Di qui ancora l’insistenza sulla pratica sacramentale, perché i sacramenti sono i «mezzi» della salvezza e quindi della realizzazione personale.

Parecchi operatori di pastorale giovanile, soprattutto verso la fine degli anni sessanta, si sono trovati però a dover fare i conti con un fatto che ha messo in crisi la logica di questo primo modello: per molti giovani la fede era diventata un fatto marginale, insignificante. Chi costatava questa complessa situazione, si è trovato presto in consonanza con i temi espressi dalle correnti di teologia pastorale, centrate sui nodi esistenziali dell’esperienza

e della prassi di liberazione. Si è così consolidato un nuovo modello di pastorale giovanile. Esso cercava di reinserire l’esperienza di fede nella vita quotidiana attraverso due interventi convergenti. Da una parte operava per svelare le domande profonde dell’esistenza e dall’altra si impegnava a riformulare la fede come risposta a queste domande.

Il centro di attenzione educativa e il luogo privilegiato dell’azione pastorale diventa così la vita concreta e quotidiana dei giovani. L’intervento educativo ha la funzione di stimolare e definire la propria realizzazione come riconoscimento dell’altro e impegno a promuoverlo. In questo progetto, la fede è oggettivamente in causa. L’intervento pastorale vuole stimolare alla presa di coscienza soggettiva di questo dato oggettivo.

Questo modello può essere definito come «esistenziale», perché sposta l’accento dalla norma alla persona, dalla razionalità alla prassi, dai valori in assoluto alle valorizzazioni personali, dal dato di principio alle situazioni concrete, dai progetti astratti alle esperienze personali.

Alla fine degli anni settanta sulla pastorale giovanile rimbalzano le contraddizioni che attraversano le comunità sociali ed ecclesiali. La condizione giovanile fa problema ed interpella. Sul modo di interpretare e di risolvere queste provocazioni, si frantumano i modelli di pastorale giovanile.

Resta predominante il modello esistenziale, fatto ormai maturo, anche per il sostegno della letteratura specializzata. Esso ritrova l’esperienza comunitaria come sua dimensione qualificante, riuscendo così ad acquisire una buona incidenza formativa.

Il modello tradizionale tenta una rivincita, riscoprendo in termini accorti e culturalmente raffinati due esigenze pastorali che il modello esistenziale aveva parzialmente sottaciute. Da una parte si riafferma l’importanza dell’approccio veritativo, come momento in cui sollecitare ad apprendere, con pazienza e fermezza, i contenuti oggettivi della fede. Dall’altra, lo stimolo della teologia dialettica e il confronto con esperienze carismatiche portano a sottolineare la centralità del momento spirituale e l’efficacia immediata dei mezzi specifici dell’azione pastorale.

In questi ultimi anni si fa strada un terzo modello, caratterizzato da una forte risonanza comunitaria. Esso non solo segna e modifica i precedenti, ma tende a costituirsi come progetto autonomo e alternativo. Il rapporto tra fede e realizzazione personale non è risolto attraverso una rivisitazione della fede e della vita, come fanno gli altri due modelli, ma favorendo il contatto per identificazione con un vissuto: una comunità di appartenenza, che si offre come proposta affascinante di vita cristiana. Per costituire queste comunità sono privilegiati gli interventi finalizzati alla formazione dei gruppi primari e si reinterpreta Resistenza cristiana da questa prospettiva: intensificazione dei rapporti a faccia a faccia; creazione di un’ampia omogeneità interna, anche mediante l’accesa contrapposizione verso l’esterno; circolazione di modelli di comportamento e di informazioni; accentuazione degli aspetti comunitari dell’esistenza cristiana; prevalenza del metodo kerigmatico perché meno pluralista; lettura della Bibbia in forma mistagogica; riscoperta della preghiera di gruppo.

 

2.2. Le linee di tendenza

I tre modelli descritti raccolgono dati di immediata costatazione. Rappresentano una rassegna, a grosse tinte, della prassi attuale. Con un supplemento di fatica interpretativa è possibile anche leggere tra le loro righe, alla ricerca di orientamenti più generali, capaci di spiegare meglio le differenze e di suggerire nuove preoccupazioni.

Spesso, quello che sta a monte è più stimolante di quello che si costata a prima vista e su cui si accendono i contrasti.

L’impresa è certo complessa: rischiosa come tutte le operazioni interpretative. La tento, perché è importante e urgente, soprattutto se vogliamo costruire progetti nuovi a partire dall’esistente.

Nel mio lavoro interpretativo procedo a grandi linee. Chi ha le mani in pasta, per quotidiana riflessione e per la fatica della prassi, riesce certamente a cogliere molto di più di quanto qui trova scritto.

 

2.2.1. Tra iniziazione e riformulazione

Semplificando un poco le cose, mi sembrano due le linee di tendenza emergenti: una prospettiva attenta a risolvere problemi di «iniziazione» ed una che cerca di cogliere le sfide culturali più alla radice e tenta processi di «riformulazione».

La prospettiva della «iniziazione» è legata alla ricomprensione dei compiti della pastorale giovanile soprattutto in termini di metodologia pastorale. Mette l’accento sulla necessità di elaborare itinerari precisi e articolati, forniti di strumentazioni efficaci, per far acquisire e interiorizzare contenuti e progetti che vengono accolti dalla esperienza cristiana ufficiale, testimoniata dalle attuali comunità ecclesiali.

Questa preoccupazione è affiorata soprattutto quando gli operatori pastorali si sono posti seriamente il problema del metodo. Sotto la spinta del rinnovamento conciliare ci si è resi conto della necessità di assumere con serietà e rispetto i «fatti umani», primi fra tutti quelli «educativi». Anche se le scienze umane non possono dire l’ultima parola, perché il processo di maturazione della fede attinge nel suo profondo le soglie misteriose del dialogo tra la grazia interpellante di Dio e la libertà responsabile dell’uomo, esse possono offrire preziosi e insostituibili contributi sul piano della visibilizzazione storica di questo dialogo, sul piano cioè delle mediazioni umane in cui questo dialogo si articola e si sviluppa.

La definizione di un processo di «iniziazione», costituito da riti, strutture e interventi, si colloca appunto nel centro di questo complesso confronto.

La seconda prospettiva, quella che ho chiamato della «riformulazione», procede oltre. Le comunità ecclesiali più sensibili hanno toccato con mano che senza metodo pedagogico corretto non si può fare pastorale giovanile, ma che il vero problema era più a monte. Spunta così una linea di pastorale giovanile fortemente legata a processi ermeneutici, che cerca la soluzione dei problemi in chiave di «riformulazione» dell’esperienza cristiana stessa.

Rendendosi conto che il linguaggio ecclesiale è, molto spesso, legato ad una cultura lontana da quella dei giovani d’oggi, ci si è dovuti interrogare sui processi attraverso i quali la Parola di Dio è diventata parola dell’uomo e per l’uomo.

Ancora una volta il rinnovamento teologico prodotto dal Concilio ha offerto la strumentazione per comprendere e formulare il problema.

Se la Parola di Dio, come in Gesù Cristo, prende l’umana carne delle culture dell’uomo, per farsi parola di salvezza in situazione, le comunità ecclesiali sono sollecitate a verificare quale cultura viene utilizzata per «dire» la parola di salvezza. In questa verifica sono spontaneamente portate a misurare la distanza esistente tra la cultura utilizzata generalmente e la reale situazione giovanile. Si rende così urgente la decodificazione di molti messaggi ecclesiali, per sceverare il nucleo irrinunciabile e costitutivo della fede dal rivestimento culturale in cui viene espresso. Da questa decodificazione prende le mosse il grave impegno pastorale di riesprimere la fede in un codice che sia, nello stesso tempo e con la stessa intensità, rispettoso della fede e del mondo esperienziale dei giovani. Questa prospettiva accentua l’esigenza di «riformulazione»; mette infatti sotto processo i contenuti e il progetto che definiscono Resistenza cristiana, come ci sono offerti dalle comunità ecclesiali attuali. La pastorale giovanile non ha solo un problema metodologico da risolvere. Essa deve lavorare anche sull’obiettivo di tutto il processo.

 

2.2.2. La via nuova dell’«animazione»

Qualche volta, nelle pubblicazioni e nella prassi, le due prospettive sono vissute come alternative e contrapposte.

I modelli più maturi si rendono conto invece che non è corretto contrapporre quello che va realizzato in modo complementare. Non è però in questione un equilibrio tra iniziazione e riformulazione. Bisogna scoprire una prospettiva operativa nuova, capace di riesprimere in termini rinnovati gli aspetti irrinunciabili delle due esigenze.

La sfida sta proprio qui: se il problema della pastorale giovanile, come ogni problema giovanile, è prima di tutto di «comunicazione» tra mondi che sembrano chiusi, è urgente trovare una prospettiva più profonda, capace di funzionare come criterio di verifica e di discernimento nella indispensabile complementarità tra iniziazione e riformulazione.

In molte comunità ecclesiali è sorta e si sta consolidando una ipotesi nuova. Raccoglie impegni e speranze attorno alla scoperta dell’«animazione», come modello globale di relazione educativa e comunicativa, che si esprime in concrete strategie operative. L’animazione ha la grossa pretesa di restituire ad ogni uomo la gioia di vivere e il coraggio di sperare, abilitandolo a costruire sé stesso all’interno dell’avventura di senso che, dall’origine dell’uomo, percorre senza posa il mondo.

Molti la stanno sperimentando anche nei processi tipici dell’educazione alla fede.

 

3.​​ La pastorale giovanile alla scuola dell’animazione

Ho tracciato il quadro problematico dell’attuale pastorale giovanile. Ho ricordato la discussione sulla sua pertinenza e ho evidenziato i modelli e le linee di tendenza in cui oggi si svolge.

Al termine della rassegna chi è impegnato ad annunciare l’evangelo tra i giovani d’oggi si chiede: che fare?

Posso rispondere solo manifestando le mie opzioni: la mia scelta per una pastorale giovanile come azione specializzata della comunità ecclesiale, e un progetto concreto in cui svilupparla.

Mi muovo secondo le indicazioni che emergono dalle prospettive dell’animazione. Riflessione personale e molti documenti del vissuto ecclesiale mi convincono del forte guadagno che proviene alla pastorale giovanile quando essa sa mettersi disponibilmente «alla scuola dell’animazione».

Alla scuola dell’animazione nasce un modo nuovo di fare pastorale giovanile: le dimensioni fondamentali dell’unica azione evangelizzatrice sono riscritte con accentuazioni e preoccupazioni tutte speciali. Ricordo qualcuno degli elementi più importanti, rimandando, per uno sviluppo più approfondito, alla bibliografia specializzata.

In questo contesto cerco soprattutto di delineare le procedure formali che permettono di giungere a determinate conclusioni.

Esse infatti esprimono, in termini pertinenti, quello che cambia nell’azione pastorale quando crede intensamente alla vita e prende sul serio le esigenze dell’educazione.

 

3.1. L’obiettivo

L’obiettivo è il punto cruciale di ogni progetto. Lo sanno tutti coloro che si siedono attorno ad un tavolo per prendere decisioni importanti.

La ricerca sul metodo è «relativa» e va misurata realisticamente sulla definizione dell’obiettivo.

Definire un obiettivo non è però una impresa facile. Molti punti nodali si intrecciano. La nostra coscienza ermeneutica introduce una prima, notevole complicazione procedurale.

Nella definizione dell’obiettivo si incontrano due esigenze: la continuità e la novità. La prima ci permette di essere all’interno di un «passato» di cui godiamo i frutti; la seconda ci aiuta a restare aperti verso un «futuro» da costruire.

Le espressioni sembrano grosse. Dicono però quello che quotidianamente esperimentiamo.

Decidendo l’obiettivo, ci sentiamo all’interno di una storia e di una tradizione che accogliamo con gioia e con riconoscenza. Ci accorgiamo che l’obiettivo viene sempre da lontano. È come un dono che chi ha vissuto prima di noi propone alla nostra maturazione. Nello stesso tempo, sappiamo di non poter ripetere nulla passivamente. Se non c’è continuità con il passato, nasce lo sradicamento. Se la dipendenza dal passato è troppo rigida, viviamo nella fredda ripetitività e bruciamo ogni possibilità rinnovatrice.

Questo è un problema serio. Non è però l’unico.

Ne ricordo qualche altro.

La decisione sull’obiettivo condiziona quasi deterministicamente i «compagni di viaggio». Se l’obiettivo è troppo impegnativo, avremo come compagni di viaggio solo quella ristretta élite di gente raffinata che sa apprezzare le proposte dure e rischiose e riesce a tenere il ritmo affannoso che il loro raggiungimento richiede.

Se invece l’obiettivo è troppo facile, a basso profilo, diventa un’occasione ulteriore di disimpegno.

La definizione dell’obiettivo chiama così in causa direttamente la responsabilità della comunità ecclesiale in ordine alla salvezza e al Regno di Dio e, nello stesso tempo, la capacità di specializzare il suo servizio per misurarsi autenticamente in situazione.

 

3.1.1. La chiesa italiana e l’integrazione fede-vita

La prima cosa da fare è guardarsi d’attorno, recensendo quello che nella Chiesa italiana si sta proponendo come obiettivo per la pastorale giovanile.

Una prospettiva ha riscosso un’attenzione crescente. Il documento-base per la catechesi, «Il rinnovamento della catechesi», quasi facendo eco alle proposte più attente maturate nel clima conciliare, ha suggerito una formula di sintesi: obiettivo dell’azione pastorale può essere il raggiungimento dell’integrazione fede-vita​​ (RdC​​ 52-55).

A dir la verità, la proposta di​​ RdC​​ è più articolata: l’integrazione fede-vita è solo un aspetto di un processo più complesso.

Molti operatori pastorali hanno assunto però la formula e lo spessore teologico da esso evocato, come il quadro di riferimento globale. L’integrazione fede-vita è risultata così l’obiettivo su cui si sono concentrate le preoccupazioni pastorali più sensibili. Integrazione fede-vita significa riorganizzazione della personalità attorno a Gesù Cristo e al suo messaggio, testimoniato nella comunità ecclesiale attuale, riorganizzazione realizzata in modo da considerare Gesù Cristo il «determinante» sul piano valutativo e operativo.

Al centro sta Gesù Cristo, incontrato ed accolto come «il salvatore», fino a farlo diventare il «determinante» della propria esistenza.

Gesù Cristo è proposto come un evento globale: la sua persona, il suo messaggio, la sua causa, testimoniata nel popolo che lo confessa come il Signore.

L’esito di questa esperienza salvifica è una personalità finalmente riorganizzata in unità esistenziale: caricata delle sue responsabilità, centrata sulla ricerca di significati di vita, liberata dai condizionamenti, ricollocata all’interno di un popolo di credenti, capace di vivere intensamente la sua fede e di celebrare questa stessa fede nella sua vita quotidiana.

 

3.1.2. L’integrazione fede-vita nella cultura attuale

A quasi vent’anni dai primi suggerimenti relativi a questo modo di comprendere l’obiettivo, viene spontaneo fare il punto sul suo spessore teologico e antropologico.

Il bilancio non sembra del tutto positivo, alla prova dei fatti.

Le ricerche più recenti mostrano come il distacco tra fede e vita tenda generalmente ad allargarsi.

A guardar bene le cose, ci si rende conto che non tutte le responsabilità stanno dalla parte dei giovani.

Esistono difficoltà notevoli proprio sul fronte del modello teologico e antropologico assunto per definire l’integrazione fede-vita. Non è in questione un modo inadeguato di proporre l’obiettivo; risulta in crisi proprio la sua corretta proposta.

L’integrazione fede-vita richiede una struttura di personalità sufficientemente unificata. Ci troviamo invece con molti giovani dotati di personalità frammentata e disarticolata, i cui principi conoscitivi risentono della relatività e problematicità riconosciuta alle informazioni scientifiche e i cui progetti operativi si trovano nel fuoco di un diffuso pluralismo ideologico che genera larga conflittualità interiore.

Viviamo inoltre in un tempo di immediatezza e di presentismo che spinge a mettere in crisi ogni pretesa di definitività. Anche il giudizio di fede risente della provvisorietà e della parzialità dei giudizi storici. Questa situazione di permanente ricerca contesta ogni ipotesi di possesso stabile e duraturo, anche nei confronti della verità.

L’integrazione fede-vita richiede il rispetto della funzione normativa della fede, per cui sollecita ad oggettivare la propria decisione di fede sui contenuti fondamentali dell’esistenza cristiana, così come sono testimoniati nella comunità ecclesiale.

Molti giovani invece vivono in prima persona il rapporto con il trascendente, in una assunzione di iniziative e di responsabilità che poggia sulla propria autonomia. Questo atteggiamento di soggettivizzazione porta a rifiutare ogni funzione e struttura di mediazione.

A questi dati va aggiunta la diffusa esperienza di nichilismo culturale, nel cui nome sono criticati i progetti di senso che si pretendono normativi rispetto al senso soggettivo e vissuto.

L’aspetto nuovo è determinato dalla consapevolezza che molti di questi modelli culturali non rappresentano per l’uomo di oggi un dato negativo, ma un indice di affrancamento e di responsabilità.

Gli atteggiamenti problematizzanti e la coscienza della provvisorietà e della relatività non sono infatti considerati un limite da soffrire e da superare, ma una conquista e un segno indiscusso di maturità personale e culturale.

Un discorso a parte va infine fatto attorno al problema dell’identità.

Se ripensiamo al modello antropologico che ha ispirato l’integrazione fede-vita, è facile costatare che la formula colloca la funzione della fede in un ambito preciso del processo di maturazione: la costruzione dell’identità personale. Dire integrazione fede-vita è come dire stabilizzazione di una identità personale, risignificata attorno a Gesù Cristo. Qui sta l’attualità e la pertinenza di questo modello di obiettivo: il problema dell’identità è oggi particolarmente vivace nell’ambito educativo e giovanile. Tutti lo sentono come urgente e qualificante.

Nella definizione di integrazione fede-vita si ipotizza però un tipo di identità «forte», conficcata in modo sicuro sul fondamento di Gesù Cristo e della comunità ecclesiale. L’identità che invece oggi i giovani perseguono, quella che sembra la sola vivibile in un tempo come il nostro, è un’identità «debole», al cui centro sta il soggetto che vive la sua quotidiana esperienza di produzione di senso, che accetta il confronto con gli altri interlocutori, proprio mentre rifiuta l’esistenza di un fondamento definitivo e organico. Sotto la pressione di tutti questi grossi problemi, viene spontaneo interrogarsi: si può ancora parlare di integrazione fede-vita come obiettivo per l’attuale pastorale giovanile? Se l’integrazione fede-vita fosse pensata come un sistema perfettamente organico e unitario, contrassegnato dall’accoglienza esplicita, integrale, definitiva della persona di Gesù Cristo e del suo messaggio come è sedimentato nei documenti della Chiesa, si richiederebbe troppo ai giovani di oggi.

D’altra parte non è soluzione corretta quella di eliminare l’obiettivo solo perché sembra di difficile praticabilità: non serve accedere ad una inutile accondiscendenza al presentismo e alla immediatezza dei giovani.

 

3.1.3. Progettare l’obiettivo dalla parte della vita

Possiamo avere l’impressione di trovarci prigionieri in una alternativa senza sbocco. Non possiamo ridimensionare l’obiettivo solo per renderlo più praticabile; ma neppure possiamo ripeterlo come se non ci fossero gravi difficoltà pregiudiziali.

Dobbiamo continuare la ricerca.

Il punto discriminante, quello che dà origine alle difficoltà, consiste nel grado di stabilità e di consapevolezza sui contenuti normativi richiesto nella decisione di fede. L’integrazione fede-vita sembra esigere un indice alto di decisionalità e di consapevolezza, fino a tracciare un confine netto tra il raggiungimento e il non-raggiungimento dell’obiettivo. Molti modelli culturali attuali preferiscono accentuare la dinamicità e la soggettività anche quando è in questione una decisione impegnativa e consistente come è l’esperienza di fede.

D’altra parte, l’attuale coscienza ermeneutica fa nascere il sospetto che quell’oggettivismo esigito dall’integrazione fede-vita e che tanta difficoltà fa all’uomo di oggi, possa anche essere un residuo culturale, qualcosa di cui l’espressione della fede sia debitrice a modelli antropologici del passato.

La decisione per Gesù Cristo, per viverlo come il «determinante» della propria esistenza, comporta subito l’accettazione formale di tutto il suo messaggio, come è testimoniato dalla Chiesa attuale, o, al contrario, è sufficiente l’accettazione di un evento che esprima oggettivamente tutto il contenuto teologico richiesto, anche se la sua tematizzazione può essere soggettivamente graduale? Esiste questo «progetto» su cui riscrivere l’obiettivo della pastorale giovanile?

Piano piano, ho intuito la possibilità di una risposta. L’ho confrontata con molti amici. Assieme l’abbiamo vissuta con tanti giovani. E ci siamo accorti dell’esperienza di salvezza che essa suscitava.

La risposta è facile e immensa: questo «evento» è la vita, la capacità di pronunciare un sì, complessivo e articolato, alla propria vita, accogliendola come un dono impegnativo e interpellante, fino ad accogliere, anche in una confessione ecclesiale, il Signore di questa vita.

L’accoglienza della vita è la decisione su un evento pienamente soggettivo, ma dotato di una consistenza tanto oggettiva, che misura e giudica inesorabilmente la nostra soggettività.

Decidersi per la vita significa, nello stesso tempo e con lo stesso gesto, giocarsi in piena autonomia e confrontare la propria libertà e responsabilità con un evento die inesorabilmente la supera.

La fede nell’Incarnazione ci spinge a riconoscere, nello stesso tempo, un dato teologico importante: chi accoglie la propria vita con l’incredibile coraggio di immergersi nel suo mistero impegnativo e interpellante, si decide, almeno in modo germinale, per l’evento di Gesù Cristo, in una confessione anche ecclesiale. Accogliendo così il mistero della propria vita, l’uomo pone un gesto che non è di ordine intellettuale. Esso investe tutta l’esistenza. È come buttarsi tra le braccia sicure della propria madre, nel momento del pericolo, sapendo che di lei ci si può fidare sempre. Questo gesto connota una radicale esperienza salvifica: è il riconoscimento, non necessariamente tematico, che il Signore della vita è anche il suo Salvatore, la roccia sicura a cui ancorare la nostra ricerca di senso e di fondamento.

Vivere nell’integrazione fede-vita è quindi crescere nell’accoglienza della vita fino alla confessione del suo Signore e crescere nella consapevolezza dell’esperienza salvifica che questa accoglienza comporta.

 

3.2. Metodo

Metodo è selezione e organizzazione delle risorse disponibili. Non mi soffermo a segnalare quali sono queste risorse.

Indico invece i possibili tracciati organizzativi. Nella loro prospettiva possono essere collocate le molte risorse di cui disponiamo nelle nostre comunità ecclesiali.

Nella impossibilità di parlare in modo sensato di Dio all’uomo, come capita spesso oggi, dobbiamo collocarci là dove Dio stesso ci può parlare. Questo spazio esistenziale è rappresentato dalla domanda totale sulla vita e sul senso. Lo chiamo in gergo l’«invocazione». Per questo affermo che l’invocazione è il luogo dell’evangelizzazione.

So che molti giovani vivono oggi lontani da una vera invocazione.

So però che la esprimono germinalmente in molte manifestazioni.

Per questo introduco l’esigenza di un intenso processo educativo che, restituendo l’uomo a sé stesso, lo apra all’invocazione.

Se il Dio inaccessibile si è fatto Parola, possiamo «parlare» di lui, liberando la forza promozionale dell’evangelo. Spinto da molte esperienze, sollecito ad una scommessa: se nell’evangelizzazione rispettiamo la logica con cui Dio si è fatto Parola, il processo può funzionare anche con i giovani d’oggi.

 

3.2.1. L’invocazione è il luogo dell ’evangelizzazione

Incominciamo a chiarire brevemente la parola-chiave di questa prima esigenza: che significa «invocazione»?

Con questa formula esprimo il livello più intenso di esperienza umana, quello in cui l’uomo si protende verso l’ulteriore da sé.

Lo dico con una immagine che mi piace molto. Nel gioco del trapezio, l’atleta si stacca dalla funicella di sicurezza e si slancia nel vuoto, disposto a giocare la sua avventura nel «salto mortale». Ad un certo punto, protende le sue braccia verso quelle sicure e robuste dell’amico che volteggia a ritmo con lui, pronto ad afferrarlo.

Il gioco del trapezio assomiglia moltissimo alla nostra esistenza quotidiana.

L’esperienza dell’invocazione è il momento solenne dell’attesa: dopo il «salto mortale» le due braccia si alzano verso qualcuno capace di accoglierle, restituendo la vita e la speranza.

Nel gioco del trapezio, nulla avviene per caso. Tutto è risolto in una esperienza di rischio calcolato e programmato. Ma la sospensione tra morte e vita resta: la vita si protende alla ricerca, carica di speranza, di un sostegno capace di far uscire dalla morte. Questa è l’invocazione: un gesto di vita che cerca ragioni di vita, perché chi lo pone si sente immerso nella morte.

L’invocazione è il luogo dove ci spalanchiamo seriamente sull’attesa. Per questo è il luogo privilegiato per l’evangelizzazione. L’evangelo e la proposta di un progetto globale di vita cristiana non possono essere realizzati in forma responsoriale, come fossero la risposta puntuale alle domande che l’uomo propone. Questo modo di fare tradisce la forza profetica dell’evangelo e svuota la responsabilità intelligente dell’uomo. La crisi di troppi modelli pastorali denuncia l’impraticabilità di questa ipotesi.

Quando affermo che l’invocazione è il luogo dell’evangelizzazione, supero il modello responsoriale, senza però scivolare nell’ipotesi solo kerigmatica.

L’evangelo risuona come risposta salvifica solo se ci sono attese e domande nei suoi confronti. Vibra come una proposta affascinante di vita e di felicità, solo se nel cuore dell’uomo brilla un intenso desiderio di vita e di felicità.

L’evangelo è una risposta strana: anticipa l’attesa dell’uomo, la sconvolge e la rilancia in orizzonti nuovi, proprio mentre l’accoglie, la esige, la sollecita.

Sul piano metodologico dobbiamo assicurare un confronto tra risposta evangelica e domanda dell’uomo, tale da rispettare questa differente polarità.

L’invocazione è esperienza umana; tutta concentrata dalla parte della domanda, esprime il livello più alto di riconquista della propria umanità, l’esito a cui dovrebbe condurre ogni processo di educazione. Nello stesso tempo, però, l’invocazione è già esperienza di trascendenza. L’uomo che invoca si mostra disposto a consegnare le ragioni più profonde della sua fame di vita e di felicità, a qualcuno fuori da sé, che ancora non ha incontrato tematicamente, ma che implicitamente riconosce capace di sostenere questa sua domanda.

Collocata a questo livello, l’evangelizzazione accoglie l’espressione più matura dell’esistenza umana e la restituisce al suo protagonista con il conforto di dare un nome, manifesto e esplicito, al proprio desiderio. Nel nome proposto il desiderio viene travolto nel mare sconfinato dell’amore di Dio. Ci si scopre in tanti a cercare vita e felicità; e ci si scopre in tanti a costatare come il nostro desiderio di vita e di felicità è il piccolo segno di un grande progetto in cui siamo immersi. L’evangelizzazione, pronunciata e celebrata dentro l’invocazione, accoglie l’uomo nella sua indiscutibile grandezza e lo restituisce a sé stesso, confortato nella sua speranza e consolidato nella sua ricerca.

So di aver posto una esigenza metodologica impegnativa. Molti sono portati a concludere sulla impossibilità di attivare processi di evangelizzazione, nell’attuale situazione giovanile e culturale. Troppi giovani se ne stanno tranquilli, abbarbicati nella funicella di sicurezza del trapezio; o vogliono rischiare a titolo solo personale l’avventura del «salto mortale».

Che fare?

L’invocazione è cosi connaturata con resistenza di ogni uomo da essere il suo tessuto costitutivo, l’aria che respira, il cibo che lo alimenta. L’uomo è uno che invoca.

Molti giovani vivono l’invocazione solo a livello germinale. Sono presi dalle cose; sono afferrati dalla vita; sono manovrati dalle mille risposte che incontrano. E non si pongono riflessamente nessun’altra domanda, diversa da quelle della loro quotidianità spicciola.

Qui, nel loro profondo, in ogni sussulto di umanità, c’è una tacita, sofferta, disturbata domanda di ragioni più grandi, di avventure più affascinanti, di sensi più rassicuranti.

Il rapporto tra le esperienze quotidiane e l’invocazione è quello che lega il piccolo seme all’albero grande. L’albero è nel piccolo seme; anche se lunghi inverni dovranno ancora passare prima che esso si consolidi, fino a resistere alla tempesta.

Ogni domanda di vita è il piccolo seme, capace di fiorire in albero grande.

Il cammino dal seme alla pianta è lungo: non possiamo affrettarlo attraverso fertilizzanti particolari. Lo possiamo però servire, sostenere, incoraggiare.

I modi concreti sono tanti.

Tutti però convergono attorno all’unica prospettiva globale: l’educazione. L’educazione è l’unica via percorribile verso l’invocazione, è il nome concreto e operativo della «promozione umana» in campo di pastorale giovanile.

Chi crede all’educazione sa che solo all’uomo restituito alla coscienza della sua dignità e alla passione per la sua vita, possiamo annunciare il Signore Gesù, come la risorsa risolutiva del suo desiderio di felicità e di vita, da invocare e incontrare nella verità e nella profondità della sua esistenza umana. L’uomo, spossessato della sua responsabilità, piegato sotto il peso della disperazione o distrutto nell’oppressione, non può trovare nel Signore Gesù un principio di rassegnazione. Chi lo fa, tradisce la profezia dell’evangelo e pone il Dio della vita come concorrente spietato e geloso alla fame di vita.

 

3.2.2. L’evangelo per la liberazione dell’uomo

La seconda indicazione nasce da un disagio e da una provocazione.

Il disagio proveniva dalla costatazione della crisi diffusa e insistita di un modello di pastorale giovanile a stile antropologico. In linea teorica non ci sono dubbi sul fatto, ricordato sopra, che si può offrire l’evangelo in modo pertinente solo a colui che ha raggiunto il livello dell’invocazione e sul fatto, pure ricordato, che l’invocazione può essere raggiunta accogliendo tutte le domande quotidiane dei giovani.

Alla resa dei conti però, chi prende seriamente questo modello si imbarca in un’impresa dai tempi lunghissimi e corre il rischio reale di perdersi presto nell’intricato labirinto delle esperienze umane. Purtroppo molti operatori stanno percorrendo le vecchie strade, delusi dall’impraticabilità di quella per la quale avevano giocato entusiasmo e speranza.

La provocazione mi è nata proprio sul fronte opposto. Oggi ci sono movimenti, persone, esperienze che hanno scelto di fare pastorale attraverso l’offerta, qualche volta persino dura, dell’evangelo in tutta la sua radicalità. Questi amici rifiutano la via tortuosa delle mediazioni educative e si lanciano direttamente nella proposta, fiduciosi sulla sua forza interpellante.

I risultati ottenuti sembrano confortare la loro scelta. Non pochi giovani ci stanno: esperimentano una nuova qualità di vita, si riconsegnano con entusiasmo al Signore Gesù.

A leggere bene le cose, ci si accorge che anche qui i rischi non mancano. Si giunge spesso a letture fondamentaliste dell’esperienza cristiana. Qualche volta riappare quella contrapposizione tra Chiesa e mondo che il Concilio aveva definitivamente spento. Ma il disagio resta e la provocazione non si spegne. Ho l’impressione che il rapporto troppo stretto tra domanda di invocazione e evangelizzazione possa catturare la pastorale giovanile in un modello responsoriale, espresso in movimenti cronologici: «prima» l’invocazione e «poi» l’evangelizzazione. Vogliamo invece riconoscere la forza di liberazione e di promozione dell’uomo, racchiusa nella evangelizzazione. Quando è condotta bene, aiuta l’uomo a crescere in umanità. Lo restituisce a sé stesso. Trasforma l’uomo presuntuoso e saccente in uomo invocante.

Lo costatiamo tutti i giorni, quando ci incontriamo autenticamente con Tevangelo di Gesù. Così è stato Gesù e cosi ha operato lui. In questo stile hanno vissuto e hanno operato i grandi testimoni della nostra fede e della nostra speranza.

Così dovrebbe essere in pastorale giovanile. Se offriamo l’evangelo in tutta la sua espressività salvifica (nell’annuncio, nella celebrazione, nell’esperienza di vita ecclesiale), l’uomo è trascinato verso la sua verità: diventa consegnato all’invocazione, proprio nel momento in cui avverte che la sua domanda costitutiva è già saturata nell’incontro con il suo Signore.

Di qui l’esigenza: ritroviamo il coraggio, la speranza e la gioia di produrre gesti di evangelizzazione, restituendo ad essi la loro carica interpellante e salvifica.

Non basta però una evangelizzazione fatta in qualsiasi modo. Proprio le esperienze che mi hanno sollecitato a riscoprirne l’urgenza, dicono, dal negativo, la necessità di ripensare alla radice il processo di evangelizzazione, perché sia capace di realizzare veramente quello che gli si riconosce.

Si richiede una evangelizzazione coraggiosa; ma si richiede il coraggio di una evangelizzazione corretta e sensata, impegnata a dare vita e responsabilità nel nome del Signore della vita e della libertà.

A questo punto la mia scelta corre spontanea verso un’ipotesi di evangelizzazione sullo stile «narrativo».

In primo luogo, è narrativo quel modello di comunicazione che è costruito sulla comunicazione, diretta, dell’esperienza di colui che narra e di coloro a cui si rivolge il racconto. In questa comunicazione di esperienze, l’annuncio cristiano viene restituito ad una sua dimensione qualificante: non è prima di tutto un messaggio, ma una esperienza di vita che si fa messaggio.

Chi racconta sa di essere competente a narrare solo perché è già stato salvato dalla storia che narra; e questo perché ha ascoltato questa stessa storia da altre persone. La sua parola è quindi una testimonianza; la storia narrata non riguarda solo eventi o persone del passato, ma anche il narratore e coloro a cui si rivolge la narrazione. Essa è in qualche modo la loro storia. Chi narra, lo fa da uomo salvato, che racconta la sua storia per coinvolgere altri in questa stessa esperienza. In secondo luogo, la narrazione si caratterizza per l’intenzione evocativa e autoimplicativa e non semplicemente informativa o dimostrativa. La sua struttura linguistica non è finalizzata a dare delle informazioni, ma sollecita ad una decisione di vita: è una storia che spinge alla sequela.

Per questo il diritto alla parola non è riservato solo a coloro che sanno pronunciare enunciati che descrivono in modo corretto e preciso quello a cui ci si riferisce. Chi ha vissuto una esperienza salvifica, la racconta agli altri; così facendo produce «formazione»: aiuta a vivere e precisa Io stile di vita da assumere per poter far parte gioiosamente del movimento di coloro che vogliono vivere nell’esperienza salvifica di Gesù di Nazaret.

In terzo luogo, la narrazione deve possedere la capacità di produrre ciò che annuncia, per essere segno salvifico. Il racconto si snoda con un coinvolgimento interpersonale così intenso da vivere nell’oggi quello di cui si fa memoria. La storia diventa racconto di speranza.

Così chi narra di Colui che ha dato la vista ai ciechi e ha fatto camminare gli storpi, fa i conti con la quotidiana fatica di sanare i ciechi e gli storpi di oggi. Anche se annuncia una liberazione definitiva solo nella casa del Padre, tenta di anticiparne i segni nella provvisorietà dell’oggi.

Infine, in quarto luogo, la narrazione è nello stesso tempo memoria e fede, ripresa di un evento della storia e espressione della fede appassionata del narratore. Nel racconto si intrecciano sempre tre storie: quella narrata, quella del narratore e quella degli ascoltatori. Ripetere un racconto non significa perciò riprodurre un evento sempre con le stesse parole, ma esprimere la storia raccontata dentro la propria esperienza e la propria fede. Come nel testo evangelico, la narrazione coinvolge nella sua struttura l’evento narrato, la vita e la fede della comunità narrante, i problemi, le attese e le speranze di coloro a cui il racconto si indirizza. Questo coinvolgimento assicura la funzione performativa della narrazione. Se essa volesse prima di tutto dare informazioni corrette, si richiederebbe la ripetizione delle stesse parole e la riproduzione dei medesimi particolari. Se invece il racconto ci chiede una decisione di vita, è più importante suscitare una forte esperienza evocativa e collegare il racconto alla concreta esistenza. Parole e particolari possono variare, quando è assicurata la radicale fedeltà all’evento narrato, in cui sta la ragione costitutiva della forza salvifica della narrazione.

In forza del coinvolgimento personale del narratore, la narrazione non è mai una proposta rassegnata o distaccata. Chi narra la storia di Gesù vuole una scelta di vita: per Gesù, il Signore della vita o per la decisione, folle e suicida, di vivere senza di lui.

Per questo l’indifferenza tormenta sempre chi evangelizza narrando. Egli anticipa nel piccolo le cose meravigliose di cui narra, per interpellare più radicalmente e per coinvolgere più intensamente.

 

Bibliografia

Bucciarelli C.,​​ Realtà giovanile e catechesi,​​ LDC, Leumann 1973-1976; Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale,​​ Condizione giovanile e annuncio della fede,​​ La Scuola, Brescia 1979; Tonelli R.,​​ Pastorale giovanile. Dire la fede in Gesù Cristo nella vita quotidiana,​​ LAS, Roma 1987 (contiene bibliografia specializzata per le diverse aree linguistiche); Id.,​​ Pastorale giovanile e animazione. Una collaborazione per la vita e la speranza,​​ LDC, Leumann 1986; Trenti Z.,​​ Giovani e proposta cristiana. Saggio di metodologia catechetica per l’adolescenza e la giovinezza,​​ LDC, Leumann 1985; Villata G.,​​ Giovani religione e vita quotidiana. Da un approccio sociologico ad un progetto pastorale,​​ Piemme, Casale 1983.

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PASTORALE GIOVANILE

PASTORALE GIOVANILE – bibbia 1

PASTORALE GIOVANILE (bibbia 1)

Mario Cimosa

 

1. Il «giovane» nell’AT

2. Il giovane e la «famiglia»

3. Il giovane e la «scuola»

4. Alcune figure giovanili

4.1. Mosè

4.2. Davide

4.3. Geremia

4.4. Daniele

4.5. Tobia

4.6. Il «giovane» del Cantico

 

1.​​ Il «giovane» nell’AT

Se guardiamo per prima cosa al vocabolario dell’AT,​​ ci accorgiamo che il termine più comune per indicare il giovane è in ebraico il termine​​ na’ar,​​ che in alcuni contesti può significare anche bambino o ragazzo e che la traduzione greca rende con​​ pois, paidion.​​ Tenendo conto di​​ Ger​​ 6,11 e 51,22 si possono distinguere tre fasi della vita di un uomo: bambino, adolescente maschio e femmina, e uomo e donna maturo. Nei libri storici spesso il ventesimo anno viene indicato come quello dell’inizio per fare la guerra e per pagare le tasse. Nel libro del Levitico l’età giovanile viene valutata dal punto di vista della prestazione nel lavoro. Il pieno valore viene dato a chi ha da 20 a 60 anni. Anche a Qumran si dice che 20 anni è l’età per passare fra gli adepti a pieno titolo perché si è in grado di «conoscere il bene e il male».

Nell’AT​​ si mette in risalto la bellezza dei giovani, maschi e femmine, la forza nelle prestazioni belliche. Si dice che la giovinezza è il tempo della gioia e dell’amore, anche se è il periodo dell’immaturità e dell’inesperienza. Come si può ricavare soprattutto dai libri sapienziali, quello che sta a cuore agli adulti nei confronti dei giovani non è soltanto la cultura profana ma anche e soprattutto la loro formazione religioso-morale e professionale. Anche il giovane prende parte alla comunità del popolo d’Israele che si sente particolarmente legata a Iahvè e che nella celebrazione dell’Alleanza prende pienamente coscienza della sua appartenenza a Lui come proprietà particolare. Nella conclusione e siglatura dell’alleanza sinaitica si dice che un gruppo giovanile, viene usato il termine​​ na'ar/«giovane», fa da ministrante con Mosè nella preparazione del sacrificio.

In diversi luoghi delI’A​​ T​​ si vede come i giovani svolgono un ruolo di primo piano: basti pensare a Giuseppe, a Samuele, a Davide o ad altri di cui traccerò un breve profilo. Dio sceglie nella sua opera di salvezza molto spesso i piccoli, i giovani per realizzarla pienamente: «Meglio un giovane povero e intelligente che un re vecchio e stolto, incapace ormai di controllarsi. Il giovane può uscire di prigione anche se è poveraccio e regnare al posto del vecchio. Tutta la gente sta dalla parte del giovane»​​ (Qo​​ 4,13-15).

Ma vediamo un po’ quali sono gli ambienti in cui il giovane si forma adulto, membro qualificato del popolo di Dio.

 

2.​​ Il giovane e la «famiglia»

Il giovane ha nella famiglia il suo primo contesto vitale, il luogo primordiale e insostituibile della sua educazione e formazione umana. I libri sapienziali ci offrono delle informazioni molto preziose sul rapporto educativo tra genitori-figli come si può desumere dai libri​​ dell’AT.​​ Tra questi il libro dei Proverbi occupa un posto privilegiato.

Il testo di​​ Pro​​ 1,8-9 lo possiamo ben considerare come il riassunto di tutto il libro o meglio la chiave di lettura di questo libro sapienziale, forse poco conosciuto, ma molto importante soprattutto nel campo così difficile dell’educazione dei giovani.

«Ascolta, figlio mio, i consigli di tuo padre, non disprezzare gli insegnamenti di tua madre. I loro insegnamenti ti saranno preziosi e ti adorneranno come una corona sul capo e una collana al collo».

Per i sapienti orientali l’educazione è anzitutto un affare dei genitori: da essi i giovani ricevono istruzione e sapienza.

Si tratta di orientamenti per la vita, non scolastici né religiosi. Essi salgono dal cuore ansioso e trepidante di un padre e di una madre che con amore e dolcezza vogliono orientare i figli per quei momenti in cui saranno soli nella vita. La paterna invocazione:​​ figlio mio​​ s’incontra ben 16 volte in​​ Pro​​ 19 (23 volte in tutto il libro) e rivela il carattere pedagogico e l’interesse morale di tutto il libro. Carattere pedagogico che risalta non solo per il suo colorito umano, ma soprattutto per i motivi spirituali che s’incontrano ad ogni passo e fanno di questo libro un vero​​ vade mecum​​ spirituale della gioventù che vuole formarsi alla vera sapienza. S. Girolamo diceva a Leta «d’istruire per la vita nei​​ Proverbi» la propria figliuola.​​ Pro​​ 1,8-9 è un’esortazione ai giovani a tener conto dell’insegnamento dei genitori se vogliono conquistare la corona della stima e la gloria della virtù.

I giovani che seguiranno gli orientamenti dei genitori riceveranno la corona di alloro e di gloria che veniva consegnata a coloro che risultavano vincitori nelle gare sportive. Il commento più bello a questi due versetti ce lo offre il libro del​​ Siracide​​ al c. 21,19.21: «Agli occhi dello stolto l’educazione è come una catena ai piedi o le manette che si mettono ai polsi. Invece per chi ha buon senso, essa è come un gioiello d’oro o come un braccialetto attorno ai polsi».

«Il ferro si affila con il fuoco, / l’uomo si affina nei rapporti con gli altri»​​ (Pro​​ 27,17). Le relazioni degli uomini tra di loro è uno dei maggiori centri d’interesse del libro dei Proverbi. Le relazioni «genitori o educatori-figli» come ci insegnano anche la moderna psicologia e pedagogia sono tra le più importanti esperienze che plasmano la personalità. Gli adolescenti e i giovani hanno come meta la loro maturità umana, l’acquisto della sapienza o di quella conoscenza della vita che permette loro di riuscire o di avere successo nella vita.

Gli educatori li vogliono aiutare nel realizzare questa meta e sono contenti o disperati a seconda del loro successo o del loro fallimento.

Dicono i Proverbi: «Un figlio saggio fa contento suo padre, un figlio insensato fa disperare sua madre»​​ (Pro​​ 10,1). I figli riusciti sono la felicità dei genitori che vedono in questo il successo della loro opera: «Fa’ contenti tuo padre e tua madre; / da’ a tua madre questa soddisfazione»​​ (Pro​​ 23,25).

«Un figlio stolto è dispiacere per il padre, amarezza per la madre che l’ha generato»​​ (Pro​​ 17,25).

Le relazioni tra figli e genitori comportano una serie di atteggiamenti che sono il buon esempio, i consigli, le ammonizioni, i rimproveri, il rispetto, l’obbedienza, gli insegnamenti paterni. L’istruzione​​ (musar-paideia)​​ comprende il rimprovero e qualche volta anche il castigo. Il lasciarsi educare comporta sempre una certa dose di umiltà docile, senza arroganza e superbia.

«Chi rifiuta la correzione disprezza la propria vita (nefesh), chi ascolta il rimprovero acquista senno (lèb)»​​ (Pro​​ 15,32).

Sia nella formazione morale (l’educazione) che in quella intellettuale (l’istruzione) il metodo usato è sempre lo stesso.

«Gli insegnamenti (dei genitori) saranno per te un faro luminoso, i loro consigli ti faranno sapere come comportarti, i loro richiami ti aiuteranno a vivere da saggio»​​ (Pro​​ 6,23). La riflessione teologica ha trasferito in Dio la stessa metodologia pedagogica che i genitori e i maestri usano con i figli o alunni. «È in Dio che si fonda l’autorità», quindi il modo ideale di esercitarla.

Il testo di​​ Pro​​ 3,11-12 ne è la sintesi: «Figlio mio, accetta l’istruzione del Signore​​ (musar Iahvè - paideia Kyriou)​​ e non stancarti dei suoi avvertimenti. Il Signore corregge​​ (paidéuei)​​ quelli che ama come un padre i figli più cari».

 

3.​​ Il giovane e la «scuola»

Forse già ai tempi di Salomone esisteva una prima scuola ebraica per preparare i futuri funzionari e i diplomatici. Lo studente era un adolescente che iniziava la sua scuola a 12 o a 14 anni e durava fino all’età adulta (circa i vent’anni). In un testo del II sec. a.C. proprio del Siracide c’è un invito ad andare a scuola: «Venite a me, voi che avete bisogno di istruirvi, venite a stabilirvi nella mia scuola»​​ (Sir​​ 51,23). Nel testo ebraico del Siracide la scuola è chiamata:​​ bèth midràsh (casa dello studio).​​ Da​​ Pro​​ 1,20-22 sappiamo che forse la scuola si faceva alle porte della città, all’aperto: «Per le strade e sulle piazze la Sapienza lancia i suoi appelli; dall’alto delle mura e alla porta della città essa chiama e proclama...». Ma essa poteva svolgersi anche in edifici a ciò preparati come apprendiamo da​​ 2 Re​​ 6,1-2: «Un giorno, i profeti del gruppo dissero a Eliseo: “L’ambiente in cui ci riuniamo con te è troppo piccolo per tutti noi. Lasciaci andare al fiume Giordano; ci procureremo un tronco per uno e poi costruiremo qui un locale adatto a riunirci”. “Andate pure, rispose Eliseo”». Il maestro era chiamato​​ moreh (istruttore),​​ come si chiama ancora oggi in Israele, o​​ melammed (insegnante) (Pro​​ 5,13). Era definito il padre, il sapiente anche se questo termine ha un significato molto ampio. Il professore oltre ad essere pagato dal re poteva esserlo anche dagli stessi studenti come sembra insinuare​​ Pro​​ 4,7: «La cosa più importante è diventare sapiente; acquista la sapienza, anche a costo di vendere quel che hai».

Sui metodi non sappiamo molto: si leggeva ad alta voce per imparare a memoria, «si scriveva sulla tavoletta del cuore»​​ (Pro​​ 3,3; 7,3). Le materie o i contenuti dell’insegnamento ci sono indicati in​​ IRe​​ 5,10-13, ma tutti erano orientati all’apprendimento della sapienza ossia di quella saggezza pratica che doveva aiutare a cavarsela nelle situazioni più difficili dell’esistenza umana.

Specie i Proverbi erano forse un manuale scolastico in cui i giovani si esercitavano come su un’antologia di sentenze su cui riflettere e discutere poi con i maestri. In questi testi, come vedremo, ci sono allusioni a diversi temi che riguardavano l’educazione dei ragazzi e delle ragazze​​ (Pro​​ 31,10-31). Ma oltre i Proverbi anche il Siracide era un libro per la scuola. Ben Sira era un professionista del II sec. a.C. e il suo libro sembra un testo scolastico o una dispensa messa insieme in parecchi anni di insegnamento: cosi si spiega in parte la mancanza di unità tra le varie parti. Leggendo questi due libri e gli altri libri sapienziali si deve tener conto di questo ambiente sociale scolastico in cui essi venivano usati. La definizione più chiara dello scriba-professore ce la dà lo stesso Ben Sira. Egli è l’uomo «che nelle riunioni ha grande responsabilità», colui che​​ «è​​ chiamato a far da giudice»; capisce «le decisioni del tribunale»; è capace «di educare e di giudicare»; fa fruttare «l’istruzione e il diritto»; compare «tra gli autori dei proverbi».

«Egli studia la sapienza degli scrittori antichi e dedica il tempo libero allo studio delle profezie; egli raccoglie i racconti di uomini famosi e penetra nelle sottigliezze delle parabole, studia il significato profondo dei proverbi e per tutta la vita riflette sugli enigmi delle parabole. È a servizio di persone importanti, è ricevuto anche dai capi di stato; va in missione in paesi stranieri e conosce per esperienza il bene e il male degli uomini». Lo stesso Ben Sira ama presentarsi come​​ sóférscriba.​​ È un maestro e nient’altro che un maestro (cf​​ Sir​​ 38,24—39,11): è questo il culmine della sua carriera.

Forse col suo metodo teorico e nello stesso tempo esortativo egli intendeva portare i giovani ad una presa di coscienza della propria vita interiore. Questo metodo didattico consisteva nel dialogo a due (maestro-allievo) o nell’autodialogo. Forse nel metodo si sente l’influsso della scuola greca.

Nel mondo greco una​​ paideia​​ senza dialogo è impensabile.

Nuovo è però lo sfondo formativo. È una vera personalità a cui sta a cuore la formazione dei giovani che egli vuole raggiungere non solo con lo studio delle memorie dei padri ma anche con i modelli delle scuole greche. Egli mostra di stimare sia la letteratura scritta che l’insegnamento orale dei maestri e la tradizione popolare:

«Non disprezzare quel che raccontano le persone sagge, comportati invece come ti suggeriscono loro: riceverai così un’educazione valida e potrai svolgere mansioni importanti anche tra i grandi. Sta’ attento a quel che raccontano, perché essi l’hanno già imparato dai loro padri. Ti insegneranno a ragionare e a dire a tempo giusto il tuo parere»​​ (Sir​​ 8,8-9). La tradizione è il frutto del buon senso del popolo che la produce, perciò egli la raccomanda ai giovani come la migliore garanzia contro le tentazioni di novità. Composta di detti, proverbi, racconti serviva a completare l’insegnamento dei libri sacri. L’alunno l’apprendeva a scuola e l’approfondiva con la meditazione e la preghiera e si rendeva poi idoneo a trasmetterla agli altri. I maestri più validi vi aggiungevano qualcosa di proprio e l’arricchivano con la propria esperienza. Scrittura e Tradizione sono i frutti migliori di questa sapienza. Il Siracide ha voluto far questo, offrire questo insegnamento vivificato e arricchito con la sua esperienza, il suo buon senso. Ha fatto, come ha scritto molto opportunamente il Dubarle «l’inventario di una eredità».

Il grande elogio dello scriba-maestro​​ (Sir​​ 38,24—39,11) sembra il suo autoritratto: «Vari popoli parleranno della sua sapienza e si riuniranno per fare il suo elogio»​​ (Sir​​ 39,10).

Il Siracide moltiplica i suoi consigli ai giovani: li invita a saper dominare i propri desideri​​ (Sir​​ 18,30—19,3). Questa disciplina del desiderio inizia con l’invito: «figlio mio!». Un invito alla temperanza, al buon uso del danaro, al controllo nell’uso del vino e delle donne. Egli consiglia ai giovani a contenere i desideri carnali. In​​ Sir​​ 6,2-4 viene raccomandato il dominio delle passioni. Li esorta inoltre a dominare la vanità e la curiosità​​ (Sir​​ 3,17-24). Questo testo inizia con l’invito ad avere il senso dei propri limiti. È un’elogio dell’umiltà articolato in tre momenti:

— il Signore è glorificato dagli umili (3,17-20);

— al saggio basta lo studio della legge (3,21-23);

— le idee sbagliate portano fuori strada.

Il Siracide raccomanda ai giovani di mostrarsi studiosi. Il testo di​​ Sir​​ 3,25-29 è un invito alla meditazione che è la forza di chi pratica la sapienza. Il giovane ben formato per questo maestro che è Gesù figlio di Sira è:

— paziente: 1,22-24;

— compassionevole verso gli altri: 7,11.32;

— ed è amico di chi soffre.

Però il dominio di sé stessi che il Siracide raccomanda così spesso ai giovani non coincide con un ripiegarsi su sé stessi e con un rinunciare alla propria personalità, perché:

— il giovane deve coltivare il proprio impegno critico (4,20-31; 20,22-23): «Conserva la tua indipendenza di fronte agli stupidi, non lasciarti influenzare da chi ha il potere»​​ (Sir​​ 20,27);

— tra un falso pudore e l’essere sfrontati c’è una giusta via di mezzo (41,14-42,8);

— non bisogna essere ambiziosi: 7,4-7;

— occorre restar fermi nei propositi e attenti a come si parla: 5,9-13;

— è necessario avere saggezza e coerenza:

33,4-6;

— è meglio prima riflettere bene e poi decidere: 22,16-18.

Nella vita nulla vale di più di un buon consiglio: «Prima di fare qualcosa, parlane con altri e prima di prendere una decisione pensaci su»​​ (Sir​​ 37,16).

Ma molte volte vale di più la propria convinzione, o il consiglio dell’Altissimo che guida sulla strada giusta:​​ Sir​​ 37,7-15. È il vertice della sapienza o il suo fine ultimo: saper fare a meno di aiuti esterni! Saper ascoltare ma anche saper tacere. Chi è saggio coltiva l’arte di parlare nel silenzio:​​ Sir​​ 37,16-18. Chi non sa chiudere la propria bocca ignora Tabe della sapienza:​​ Sir​​ 23,7.12-14: «Figli miei, imparate a misurare le parole, perché chi sa controllarsi non sarà colto in fallo».

Nel dare questi consigli ai giovani il Siracide si ispira al libro dei Proverbi e in certo senso

10 attualizza insegnandoci un metodo per come accostarci alla Bibbia anche nella pastorale dei giovani: riprendere la parola delle Scritture per renderla comprensibile agli uomini di oggi, ai giovani, rendendola attuale. Sono orientamenti che vengono dai libri sapienziali che sono una scuola di sapienza e di formazione umana. Ma​​ l’AT​​ ci offre anche alcuni tipi di giovani che, con il loro comportamento e con la loro vita, hanno qualcosa da insegnare ancora oggi. Presentiamone qualcuno.

 

4.​​ Alcune figure giovanili

 

4.1. Mosè

L’episodio di cui parla​​ Es​​ 2,11-15: quando Mosè vedendo un egiziano colpire un ebreo, «uno dei suoi fratelli», lo uccide ed è quindi costretto a fuggire nel paese di Madian si può porre nella sua età giovanile. Mosè prende coscienza della sua identità, dell’ingiustizia e dell’oppressione del suo popolo e nasce in lui il desiderio di diventare il liberatore dei suoi fratelli. Passeranno molti anni di preparazione prima che con l’aiuto di Dio possa realizzare questo suo desiderio.

 

4.2. Davide

La Bibbia dedica molto spazio alla descrizione dell’attività giovanile di Davide: da quando viene scelto tra i figli di lesse da Samuele: «lesse mandò a prenderlo: era giovane e con un bel colorito, due begli occhi e di piacevole aspetto...»​​ (1 Sam​​ 16,12), a quando manifesta la sua forza nel duello contro Golia: «Tu, gli rispose Davide, vieni contro di me con spada, lancia e giavellotto, ma io vengo contro di te nel nome del Signore degli eserciti, il Dio delle schiere di Israele che tu hai insultato»​​ (1 Sam​​ 17,45). È la forza di Davide, quella stessa che egli aveva descritta a Saul presentandosi con le parole: «Quando ero a guardia del gregge di mio padre, veniva a volte un leone o un orso a portar via una pecora. Allora io lo inseguivo, lo colpivo e gli strappavo la preda di bocca. Se poi cercava di attaccarmi lo afferravo per i peli della gola e lo uccidevo»​​ (1 Sam​​ 17,34-35). Ma anche forza di Dio donata a Davide per un servizio a favore del suo popolo. È bello ricordare accanto a Davide il suo amico Gionata, figlio di Saul. Un altro giovane forte e coraggioso che sa però interpretare la sua forza come strumento al servizio di Dio per il bene del suo popolo. La Bibbia descrive con tratti molto belli​​ (1 Sam​​ 18,1-3) questa amicizia generosa mostrando come la giovinezza oltre ad essere l’età della forza è anche l’età dell’amicizia, dei rapporti leali e disinteressati tra giovani capaci di costruire grandi amicizie.

 

4.3. Geremia

La Bibbia presenta la vocazione di Geremia come quella di una persona chiamata da Dio in età giovanile. Benché forse la risposta di Geremia a Dio che lo chiama: «Signore mio Dio, come farò? Vedi che sono ancora troppo giovane per presentarmi a parlare»​​ (Ger​​ 1,6) si riferisca alla sua incapacità nel parlare per poter fare il profeta, e siccome l’età minima per parlare in pubblico si aggirava sui trent’anni, doveva essere più giovane. Poiché la sapienza viene con l’esperienza e quindi con l’età, la giovinezza sembra l’epoca meno adatta per dire cose sagge e quindi per poter essere ascoltati e fare i profeti. Ma la stessa S. Scrittura ricorda che ci possono essere anche strade diverse per giungere alla sapienza: «So molto più dei miei maestri, perché medito i tuoi precetti. Sono più avveduto degli anziani, perché osservo i tuoi decreti»​​ (Sal​​ 119,99-100). Geremia si vede segnato fin dall’inizio della sua missione dalla parola di Dio che lo ha sedotto e di cui saranno improntati i suoi interventi presso il popolo e che nonostante le difficoltà, le sofferenze e le crisi sarà sempre per lui fonte di gioia: «Ero affamato delle tue parole, e quando le trovavo mi sentivo il cuore pieno di gioia ed ero perfettamente felice, perché appartengo a te, Signore, Dio dell’universo»​​ (Ger​​ 15,16). Pare proprio che sia la giovinezza, caratterizzata da slancio e entusiasmo l’età migliore per accogliere con autenticità la forza della parola di Dio!

 

4.4. Daniele

L’intervento di Dio che concede al giovane Daniele la sapienza e la capacità di giudicare rettamente le cose emerge nel celebre, benché triste, episodio della casta Susanna di cui parla l’autore del libro al c. 13. Questa giovane donna, accusata ingiustamente, viene condannata a morte a causa della corruzione e per il vizio di alcuni anziani: «Mentre essa già veniva portata via per essere uccisa, Dio ispirò la giusta protesta di un giovane, chiamato Daniele»​​ (Dn​​ 13,45).

Anche in questo episodio la Bibbia mette in evidenza il giusto rapporto tra giovinezza e sapienza.

Se Dio dona la sua Parola o il suo Spirito anche una persona anagraficamente giovane diventa sapiente. Bella la considerazione sapienziale del Deuteroisaia: «Egli dà energia a chi è affaticato e rende forte il debole. Perfino i giovani si stancano, anche i più forti vacillano e cadono; ma tutti quelli che confidano nel Signore ricevono forze sempre nuove: camminano senza affannarsi, corrono senza stancarsi, volano con ali di aquila»​​ (Is​​ 40,29-31).

 

4.5. Tobia

Nel libro di Tobia troviamo la figura di questo autentico israelita, il vero credente, il giusto che rimane fedele a Dio in ogni circostanza buona e cattiva della sua vita, fedele alle sue pratiche religiose: l’osservanza della purità legale, la preghiera, la castità, le opere di misericordia, in particolare l’elemosina, la pietà verso i morti... Un padre che inculca queste virtù non solo con le parole ma soprattutto con la testimonianza della vita a suo figlio Tobit in cui ogni genitore e ogni educatore potrebbe vedere un ideale a cui aspirare.

Tobit, un modello di sapienza giovanile: la lettura di questo libretto può dare anche alle generazioni attuali una impronta precisa e indelebile.

 

4.6. Il «giovane» del Cantico

La portata educativa e pastorale del Cantico dei Cantici cade su un punto essenziale dell’esistenza: l’amore umano.

Attraverso la lettura di questo libro ogni giovane ebreo poteva scoprire la sua profonda umanità, le sue più legittime tendenze, le sue aspirazioni, senza estraniarsi dalla storia del suo popolo, dal rapporto col Dio dei padri. Nella tradizione biblica il desiderio, la gioia, il piacere, l’attrattiva amorosa, il reciproco possesso dell’uomo e della donna sono valori positivi, rispondono a un ordinamento «buono» stabilito dal Creatore.

Questo libro segna il recupero della donna, della vita affettiva e del matrimonio, visto non più come contratto ma come una «comunione di amore e di vita». Il Cantico è l’idealizzazione della coppia umana. L’essere «una sola carne», che gli sposi sono chiamati a realizzare viene celebrato con tutta l’enfasi e l’emozione di due cuori giovanili. Il Cantico pone l’amore nuziale in tutti i suoi aspetti anche sensibili in una luce di ottimismo. La lettura di questo libro era destinata a un profondo affinamento dell’animo giovanile e ad aprirlo a una convivenza familiare straordinaria. È lo stesso ideale proposto nel libro di Tobia.

Concludendo, vorrei ricordare poi quel che dice Giovanni nella prima lettera: «Ho scritto a voi, giovani: voi siete forti, e la parola di Dio dimora in voi, e avete vinto il maligno»​​ (Gv​​ 2,14).

La Bibbia non ci offre una definizione di giovane ma ci parla di figure di giovani; ne abbiamo esaminato alcune, che ci fanno pensare a qualche caratteristica di questa età preziosa.

La «forza», è un elemento positivo se viene visto nell’ambito del progetto di Dio e diventa strumento di riuscita, la generosità e il disinteresse, la sapienza precoce, sono doni di Dio che permette alla giovinezza di essere un’epoca di entusiasmo e di saggezza.

 

Bibliografia

Bissoli C.,​​ Bibbia e Educazione,​​ LAS, Roma 1981; Cimosa M.,​​ I giovani in ascolto (Proverbi e Siracide),​​ Ed. Dehoniane, Napoli 1988; Gioia F.,​​ Pedagogia ebraica dalle origini all’era volgare,​​ Carucci, Assisi-Roma 1977; Monari L.,​​ Figure giovanili nella Bibbia,​​ in: «Parole di Vita» 31 (1986) 20-27.

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PASTORALE GIOVANILE – bibbia 1

PASTORALE GIOVANILE – bibbia 2

PASTORALE GIOVANILE (bibbia 2)

Cesare Bissoli

 

1. Esiste anzitutto una pastorale giovanile nel NT?

2. Il minore nel NT

3. La cura cristiana dei giovani

4. Conclusione

 

1.​​ Esiste anzitutto​​ una pastorale giovanile nel NT?

Chiaramente la domanda riguarda la possibilità di una documentazione esplicita e chiara. Si può rispondere che ci sono concessi dei cenni che radunati nel quadro globale della pastorale delle prime comunità cristiane permettono di intuire l’inizio di una traiettoria, che avrà come suo traguardo le nostre elaborate trattazioni di pastorale giovanile. Quindi senza pretendere una sistematicità che è solo posteriore, e accettando il quadro socio-culturale dell’epoca (concezione patriarcalistica ed adultista della società) è biblicamente fondato parlare di un’attenzione mirata, di una cura dell’elemento giovanile fin dai primi tempi cristiani.

Ovviamente nell’intento del nostro studio non sta solo il rilevare la presenza della figura giovanile nelle comunità, ma anche, per quanto è possibile, individuare il tipo di rapporto che si aveva nel confronto di essa in prospettiva cristiana, cioè pastorale-educativa (C. Bissoli,​​ Bibbia e educazione. Contributo storico-critico ad una teologia dell’educazione,​​ LAS, Roma 1981).

 

2.​​ Il minore nel​​ NT

Il mondo biblico è letteralmente popolato di bambini, ragazzi, giovani. Nel TVTT età giovanile si presenta sotto termini per lo più sinonimi di​​ neam'as, neam'skos, neóteroi, néos​​ (cf​​ At​​ 7,58; 20,9; 23,17;​​ Mt​​ 19,20.22...,​​ 1 Pt​​ 5,5;​​ Tt​​ 2,4). È difficile precisare l’età. Più che un criterio cronologico nell’ambiente biblico vale il criterio sociale del potere e della responsabilità, per cui giovinezza è sinonimo di immaturità non solo psicologica, ma anche civile. Il giovane vale per quello che potrà essere, piuttosto che per quello che è.

Non ridurremo però in termini mercantilistici questo rapporto tra figura giovanile e futuro del popolo di Dio, giacché come è tipico della Bibbia, vi si inserisce la​​ lettura di fede,​​ secondo cui il giovane è in sé stesso prova che la «benedizione» della vita continua e con ciò la grande eredità umana e religiosa iscritta nell’alleanza (cf le catechesi eziologiche,​​ Es​​ 12,24s; 13,8s;​​ Dt​​ 6,20s...). In quest’ottica la figura del minore sia​​ nell’AT​​ che nel​​ NT​​ assurge a simbolo oggettivo della fedeltà di Dio alla sua promessa, per cui i giovani, rompendo significativamente gli schemi di cultura che li vuole sottomessi, nelle mani di Dio diventano protagonisti della storia della salvezza: Giuseppe, Samuele, Davide, lo stesso Gesù, colui che non ha ancora «cinquant’anni», e che pure ha «visto Abramo» (Gv 8,57) e fin da bambino suscita stupore, domanda, meditazione​​ (Lc​​ 2,51-52), e addirittura propone un bambino, un piccolo, come modello di candidato del Regno (Me 10,13s).

Nel concreto della storia, lo​​ status​​ giovanile è caratterizzato con tratti che indicano una​​ visione ben realistica,​​ nutrita alla scuola dell’esperienza, in base alla quale certamente si sarà mosso l’intervento pastorale educativo nei loro confronti. Si riconosce così la franchezza quasi orgogliosa del giovane ricco​​ (Mt​​ 19,20ss), la bruciante esperienza di male e di conversione del giovane prodigo​​ (Le​​ 15,1 ls), la curiosità che ha del temerario del giovane del Getsemani (Me 14,51). Giovani sono quelli chiamati a seppellire Anania e Saffira​​ (At​​ 5,6). Nella sua prima lettera Giovanni ricorda come virtù giovanile il coraggio della lotta contro il male (2,13s), mentre​​ 2 Tm​​ 2,22 ammonisce dalle​​ ephitymiai neoterikai,​​ ossia passioni che avvolgono l’età giovanile, assai probabilmente di tipo erotico. E d’altra parte Paolo, sempre secondo le Lettere Pastorali, invita a non disprezzare la «giovinezza» di Timoteo​​ (1 Tm​​ 4,12).

La figura della donna giovane è ancor meno presente, secondo i canoni tra l’altro della cultura di ambiente. Colpisce quindi che Gesù si interessi della figlia dodicenne dell’arcisinagogo risuscitandola (Me 5,39s). Paolo pur dovendo condividere moduli culturali del suo tempo, riconosce alla donna pieno diritto di appartenenza alla comunità​​ (Gal​​ 3,28) e nelle prime comunità appaiono gruppi di giovani donne (77 2,4). Esse dovevano avere un qualche ruolo nella Chiesa di Corinto, comunità giovane e fatta di elementi anche giovanili, come le «vergini» di​​ 1 Cor​​ 7.

 

3.​​ La cura cristiana dei giovani

Che ci sia stata lo si può tranquillamente inferire dal fatto che il servizio pastorale dei fedeli nelle prime comunità era così attento ed articolato che non poteva mancare, anche per interessi di sopravvivenza e di continuità del gruppo, oltreché per più alte ragioni della fede, la cura cristiana di quei fedeli che sono gli immaturi. Sempre dall’ascolto dei testi, si possono arguire due livelli di attenzione.

Un primo livello riguarda​​ l’educazione cristiana,​​ soprattutto in famiglia, in piena continuità con la tradizione biblica (di cui i sapienziali sono portavoce espressiva). Lo evidenziano molto bene le tavole domestiche​​ (Col​​ 3,18-4,1;​​ Ef​​ 5,22—6,9;​​ 1 Pt​​ 2,13-3,7), secondo cui i genitori sono responsabili primari dell’educazione dei figli (cf​​ Eb​​ 12,7.10;​​ Tt​​ 1,6;​​ 1 Tm​​ 2,15; 3,4; 5,4.10;​​ 2 Tm​​ 3,15). Un vigoroso ed emblematico passo sta in​​ Ef

6,1-4, con una densa e innovativa affermazione, secondo cui i «padri» cristiani devono allevare i figli nella «paideia del Signore». Il cui significato rigorosamente esplicitato non conclude all’invenzione di chissà quali metodologie educative (in questo il​​ NT​​ è debitore della tradizione semitica, ma anche ellenistica, v. le Pastorali), bensì ancor più profondamente rivela la grazia e il compito di assumere motivazioni e uno stile nuovo di amore, cose tutte che provengono dal Kyrios, da Gesù Cristo Signore, redentore anche dell’educazione (C. Bissoli,​​ Bibbia e educazione,​​ 226-251).

Ad un livello ulteriore, si può arguire una cura che va oltre l’educazione cristiana in famiglia, un più marcato contatto con quella che chiamiamo oggi​​ pastorale giovanile,​​ comprendente quindi un servizio di annuncio, di preghiera e di formazione dell’elemento giovanile all’interno della comunità. C. Spicq si pone la domanda se nelle prime comunità cristiane siano esistite forme associazionistiche giovanili come nel mondo greco, data la massa dei primi convertiti che doveva essere imponente (cf​​ At​​ 5,12; 6,7). Con eruditi riferimenti sia all’ambiente pagano che a quello biblico, segnatamente a Qumran, l’A. analizza questi passi del​​ NT: At​​ 5,6.10;​​ 1 Pt​​ 5,5;​​ 1 Tm​​ 5,1-2;​​ Tt​​ 2,6;​​ 1 Gv​​ 2,13-14. E conclude che «nessuno dei nostri testi, giuridico o meno, è assimilabile a qualche costituzione

0 codice della Chiesa (...). In ciascun testo

1 giovani sono delle individualità distinte che soltanto i destinatari hanno compreso; però non erano delle astrazioni, né unicamente uomini di una determinata età, né tanto meno categorizzazioni di sviluppo spirituale (...). Essi contano nella vita comune dei cristiani come una categoria importante» (cf C. Bissoli,​​ Bibbia e educazione,​​ 342-343).

Nel quadro di questo stato giovanile, che affiorerebbe soprattutto nelle comunità di 1 Giovanni e Pastorali, si potrebbe arguire quanto meno la​​ plausibilità di un servizio pastorale​​ specifico.

Un esperto come W. Jentsch lo vede attestato in​​ 1 Tm​​ 5,1-2, 77 2,6, 7 Gv 2,13-14. L’intreccio di norma pedagogica e di motivazione teologica è in essi chiaro.

La​​ paràclesis​​ fraterna di​​ 1 Tm​​ 5,1-2, mentre richiama la funzione promozionale dell’amore e della fraternità, secondo anche le usanze educative del tempo, rimanda però ultimamente — in quanto paraclesis — al precetto dell’amore cristiano (Gv 13,35;​​ 1 Gv​​ 3,1018), e con il cenno esplicito alla purezza si differenzia nettamente dalle pratiche di ambiente e le contrasta.

La lotta e la vittoria contro il diavolo (tentazioni di ordine sessuale?) stanno al centro di​​ 1​​ Gv2,13-14 (v. pure​​ Tt​​ 2,6-8). L’invito alla lotta con una forte carica di incoraggiamento sono propri di un discorso ai giovani. Ma è pure detto che è una vittoria che proviene dalla Parola di Dio che agisce nel giovane cristiano (v. 14).

In​​ Tt​​ 2,6s appare una catechesi sagacemente intesa secondo classi diverse, tra cui i giovani. Ad essi Tito raccomanda di essere riservati (sofroneln), tipica qualità morale della paideia greca, di cui Tito stesso deve farsi modello. Ma, come appare dal v. 10, tale ascesi ha bisogno della grazia che modera una natura vivace, passionale (cf​​ 2 Tm​​ 2,22).

 

4.​​ Conclusione

Tirando le somme si può dire che all’epoca del​​ NT​​ è consentito constatare ben poche attrezzature di annuncio e di cura pastorale verso la gioventù. Rimane da richiamarsi a quella che possiamo definire pastorale di contesto in cui certamente anche i minori furono coinvolti. È difficile respingere un’affermazione globale come questa del già citato W. Jentsch: «La compattezza dell’oikos cristiano, la partecipazione alla liturgia cristiana, il vedere e l’ascoltare quanto era riguardante la dottrina cristiana, il canto corale degli inni, la preghiera comune, tutto questo era occasione che aiutava il giovane cristiano a progredire nell’evangelo dei padri. Non possiamo dimostrare ciò in dettaglio, ma tutto parla a favore di questo indirizzo».

In sintesi e in termini più universali, l’appellarsi alla paideia del Kyrios incorporando i giovani nella vita della comunità attraverso la vita con e nella comunità deve essere considerata come l’intenzione fondamentale ed insieme la prassi pedagogico religiosa del periodo del​​ NT.​​ Il che per una pastorale giovanile esplicita ed articolata che sarà dei tempi posteriori rimane una eredità ed insieme una consegna indiscutibile e permanente.

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PASTORALE GIOVANILE – bibbia 2

PASTORALE GIOVANILE – modelli

PASTORALE GIOVANILE (modelli)

Riccardo Tonelli

 

1. La categoria descrittiva: «modello»

2. Il vissuto ecclesiale attuale attraverso modelli

2.1. Il modello delle forti proposte

2.1.1. Quale uomo

2.1.2. Chi è il cristiano

2.1.3. Itinerario metodologico

2.2. Il modello dell’oggettività

2.2.1. Quale uomo

2.2.2. Chi è il cristiano

2.2.3. Itinerario metodologico

2.3. Il modello della pastorale di «liberazione»

2.3.1. Quale uomo

2.3.2. Chi è il cristiano

2.3.3. Itinerario metodologico

2.4. I modelli a prevalenza educativa

2.4.1. Quale uomo

2.4.2. Chi è il cristiano

2.4.3. Itinerario metodologico

2.5. Modelli a prevalenza kerigmatica

2.5.1. Quale uomo

2.5.2. Chi è il cristiano

2.5.3. Itinerario metodologico

 

La pastorale giovanile è un vissuto, concreto e quotidiano: l’insieme delle azioni che la comunità ecclesiale, animata dallo Spirito di Gesù, compie per realizzare la salvezza di Dio in situazione giovanile.

La riflessione sulla pastorale giovanile (quella, per intenderci, che ho sviluppato nella voce​​ Pastorale Giovanile)​​ è l’interpretazione, in chiave teologica e metodologica, del vissuto. La prassi resta quindi al centro della preoccupazione di ogni operatore: nella prassi continua il progetto di salvezza di Dio e dalla prassi ecclesiale raccoglie suggerimenti per qualificare e riformulare la sua prassi. Questo è un dato importante. Oggi però è fonte di gravi problemi procedurali, perché l’attuale vissuto ecclesiale è segnato da un largo e diffuso pluralismo.

 

1. La categoria descrittiva: «modello»

In un tempo di pluralismo come è quello in cui stiamo muovendoci, è facile cedere alla tentazione di elencare i fatti da recensire uno dopo l’altro, dal momento che sono davvero diversi.

Presto o tardi però ci si arrende: la fatica è improba e i risultati sono davvero scarsi. Recensita così, la realtà continua a restare muta, perché troppo frammentata.

Una via più praticabile è quella delle tipologie: raccogliere gli elementi più rilevanti in uno schema di comodo, per far risaltare le linee di tendenza. Con questo metodo riusciamo più facilmente a dar voce alla realtà, soprattutto se le ipotesi interpretative risultano ben motivate.

Un esempio riuscito di tale lettura della realtà è il contributo​​ Pastorale Giovanile​​ (progetti). In esso l’a. ha analizzato, con un approccio a carattere tipologico, i progetti di pastorale giovanile presenti nella Chiesa italiana. L’esito è una rassegna interessante di quello che oggi si sta vivendo.

In questo contributo, complementare a quello appena citato, preferisco scegliere la strada dei «modelli».

Giocando tra la costatazione di fatti oggettivi e una loro interpretazione soggettiva, ho puntato l’indice su alcuni tipi concreti di prassi pastorale. Sono realizzazioni, come molte altre. Sono un vissuto di quotidiana costatazione; e non una semplice astrazione. Li ho selezionati però perché ho avuto l’impressione che altri operatori di pastorale giovanile guardino a queste realizzazioni con una certa attenzione e con un po’ di dipendenza. Anche se non si riconoscono totalmente nei gesti e nelle sigle, questo modo di fare li affascina e li ispira.

In questo senso diventano «modelli»: progetti concreti che funzionano come «ispiratori» di altri progetti. Operando così, mi sembra di poter restare meglio sul terreno della analisi fenomenologica (importante, per prendere sul serio la funzione di «luogo teologico», riconosciuta al vissuto ecclesiale) e di individuare, nello stesso tempo, delle linee di tendenza, affermate e diffuse.

Ho indentificato cinque modelli. Li descrivo citando, spesso alla lettera, documenti di prima mano.

Tutta l’operazione è però fortemente pregiudicata dalla mia sensibilità. Quando tratto dati oggettivi (la letteratura prodotta dal modello) sono costretto infatti a selezionare e a interpretare, per ovvi motivi procedurali. Nel dare le chiavi di lettura e nel mostrare gli esiti, esprimo pareri molto personali.

Considero soprattutto tre indicatori:

— l’orizzonte antropologico: gli orientamenti generali in cui si esprime la definizione operativa di «uomo»;

— la dimensione cristiana: gli orientamenti teologici in cui viene compresa la dimensione specifica del cristiano;

— la proposta metodologica: quella particolare selezione e organizzazione delle risorse disponibili che esprime le modalità attraverso cui si intende raggiungere l’obiettivo.

 

2.​​ Il vissuto ecclesiale attuale attraverso modelli

 

2.1. Il modello delle forti proposte

11 primo modello lo riprendo dagli scritti di Don L. Giussani, il fondatore di «Comunione e Liberazione». Lo chiamo il modello delle «forti proposte», perché si caratterizza proprio sulla esigenza di testimoniare l’esperienza cristiana in tutta la sua provocante radicalità.

D. Giussani ha scritto molto. Non è certo facile condensare in poche righe un pensiero ricco e complesso. Ho raccolto solo qualche indicazione, spesso in citazione diretta.

 

2.1.1. Quale uomo

L’uomo è un essere fondamentalmente incapace di superare la contraddizione tra il suo desiderio profondo di liberazione (intesa come rapporto nuovo con sé stesso, gli altri e le cose) e i limiti delle sue concrete realizzazioni.

Egli trova la sua profonda identità nell’essere amato tenacemente e fedelmente da Dio in Gesù Cristo. Da questa consapevolezza, nonostante i propri limiti, l’uomo ritrova la capacità di accettarsi e di perdonarsi, e riscopre la volontà di annunciare, senza complessi, il significato, la positività e il valore della vita (Ronza R.,​​ Comunione e Liberazione. Intervista a Luigi Giussani, Milano 1976, 103). Questo orientamento costitutivo, dimensione del bisogno globale dell’uomo, che si nasconde dentro tutti i bisogni particolari, è il «senso religioso». Spesso è assopito: ha bisogno di essere risvegliato attraverso continui richiami (Giussani L.,​​ Il senso religioso,​​ Milano 1977, 23).

 

2.1.2. Chi è il cristiano

La visione dell’uomo è molto realistica e per questo risulta affascinante. È facile dire: è vero, è proprio così. L’uomo, vive sprofondato nella contraddizione tra i suoi progetti e le sue realizzazioni. Solo nella salvezza di Dio che è Gesù Cristo, egli riesce a sanare questa radicale contraddizione. Per vivere riconciliato con sé stesso, deve immergersi in Gesù Cristo.

Dio irrompe nella storia in Cristo per salvare l’uomo e la realtà tutta, portandolo alla conoscenza della «natura più segreta dell’Essere» (Giussani L.,​​ Il senso religioso,​​ 77). La fede è adesione all’evento di Gesù Cristo, colui che pone una salvezza dal respiro escatologico, ma che si realizza già nell’oggi storico. Pertanto vivere nella fede in Gesù Cristo comporta l’accettazione di un criterio supremo di giudizio di tutto il proprio agire, nella vita concreta della Chiesa, luogo della presenza di Cristo e manifestazione nell’oggi della sua salvezza (Giussani L.,​​ Moralità: memoria e desiderio,​​ Milano 1986, 12).

La presenza salvifica di Cristo sta dentro l’unità dei credenti: nella Chiesa. «La realtà che salva l’uomo e il mondo sono Cristo e la Chiesa, di cui l’unità dei credenti (tra loro e con l’autorità) è espressione suprema e segno​​ nella storia» (Ronza R., Comunione e Liberazione, 79).

L’annuncio cristiano, per raggiungere il suo obiettivo, deve avere tre dimensioni: culturale (ha un contenuto di verità da proporre e da riconoscere), caritativa (si esprime attraverso gesti di amore e di servizio) e missionaria (tende a coinvolgere progressivamente tutti gli uomini).

L’esito del processo di evangelizzazione è l’adulto nella fede: consapevole dell’amore di Dio in cui vive e impegnato nella sua testimonianza.

 

2.1.3. Itinerario metodologico

L’educazione è un processo finalizzato a far cogliere il significato della realtà totale. Soggetti della relazione educativa sono gli adulti, dotati di autorità (genitori, insegnanti, sacerdoti). Essi hanno la funzione di testimoniare la «tradizione», per aiutare i giovani a scoprire come la tradizione è capace di dare risposte ai loro problemi.

Tra i diversi educatori si richiede la capacità di continuità e di complementarità. Tra educando e educatore il rapporto è di «obbedienza», come espressione «senza contestazioni e ribellioni» di un confronto autorevole. Lo spazio dove si realizza questa relazione è la comunità.

Perciò alla comunità viene affidato un compito centrale: solo nella Chiesa è possibile incontrare e sperimentare quella presenza di salvezza che ricostruisce la positività e il valore della propria vita.

L’esigenza comunitaria è fortemente motivata in termini teologici, nel rapporto tra verità dell’uomo, salvezza in Gesù Cristo, Chiesa. Della Chiesa viene però assicurata la dimensione esperienziale: l’accento cade sul gruppo e sul movimento, come luogo dove la Chiesa si rende più visibile, si intensifica il riferimento (rispettoso anche se, per forza di cose, selettivo) verso coloro che sono dotati di «autorità» ecclesiale, è intenso il controllo verso l’esterno.

La dimensione esperienziale e culturale, riconosciuta al progetto, tende a creare un confronto serrato con la cultura dominante, attraverso processi che assicurano l’integrazione e la capacità di «prendere le distanze». Da questo rapporto trae origine l’attualità e la significatività del progetto e la sua carica alternativa e critica.

L’esito, ricercato e assicurato nei testimoni più autorevoli, è un cristiano sicuro e battagliero, forte della sua identità e capace di prendere le distanze, anche in termini operosi, da tutto quello che si coglie come diverso rispetto alle proprie scelte, dentro e fuori la stessa esperienza ecclesiale.

 

2.2. Il modello dell’oggettività

Non esistono progetti concreti e documentabili, da citare per descrivere un modo di fare pastorale giovanile, che mi piace chiamare dell’«oggettività» perché mette in primo piano le esigenze del dover-essere, senza troppi aggiustamenti. Eppure si tratta di una linea di tendenza diffusa, affermata e, spesso, raccomandata.

Avrei dimenticato una espressione significativa della prassi ecclesiale italiana se non avessi dedicato un po’ di spazio allo studio di un modello del genere.

Ho deciso perciò di rifarmi ad un documento assai interessante, anche per la riconosciuta significatività dei suoi autori. Si tratta del testo​​ Condizione giovanile e annuncio della fede,​​ firmato dalla Facoltà Teologia dell’Italia Settentrionale. Il libro è uscito nel 1979; esprime però preoccupazioni e prospettive ancora molto attuali.

Non pochi operatori di pastorale giovanile, delusi dalle esperienze fatte negli anni del dopoconcilio, stanno ora ritornando sulle posizioni tradizionali.

Il progetto che studio ha il pregio, indiscusso, della chiarezza e della coerenza. Propone una posizione motivata e attenta. Non può essere certamente tacciato di ingenua ricostruzione delle prassi di un passato ormai superato.

Ho utilizzato il qualificativo «dell’oggettività» perché lo trovo capace di esprimere bene le logiche dominanti.

 

2.2.1. Quale uomo

L’uomo è un dato oggettivo. Può essere compreso e definito in modo preciso e pertinente solo nel progetto di Dio. Solo nella fede possiamo perciò sapere pienamente chi egli è, nella sua verità.

Le scienze dell’uomo conoscono molte cose sull’uomo, ma non conoscono «l’uomo». Ogni uomo è chiamato a collocarsi in questo progetto. Deve conoscerlo e deve adeguarvisi. La sua maturazione e la sua progressiva umanizzazione sta nell’accettazione e nella collocazione personale in questo dato oggettivo, cosi come viene manifestato per rivelazione.

È importante il servizio educativo; ma non va confuso con la testimonianza della fede. La distinzione garantirà la gratuità del servizio educativo e la libertà della fede.

 

2.2.2. Chi è il cristiano

La Rivelazione va compresa come un riferimento ad «un già accaduto, un già costituito, un già comunicato in termini di verità assoluta e totale, cioè Gesù Cristo» (Condizione giovanile e annuncio della fede,​​ Brescia 1979, 112).

La decisione di fede si esprime come atto personale di adesione sempre più matura alla verità, in Gesù Cristo e nella Chiesa, nel ritmo dell’esistenza quotidiana.

Alcune distorsioni deviano da una giusta comprensione della funzione della fede:

— l’utilizzazione della fede come legittimazione sospetta della marginalità e dell’incertezza dei giovani. È un rischio e una tentazione facile: si utilizzano dimensioni della fede per giustificare alcune situazioni psicologiche dell’età giovanile (l’incertezza, la provvisorietà, lo stato di ricerca);

— il tentativo di richiedere alla fede una risposta escatologica a ciò che invece esige solo una sobria risposta antropologica;

— riduzione della fede a semplice interpretazione dell’esperienza. In questo modo la fede viene svuotata della sua funzione normativa e veritativa.

Positivamente invece bisogna affermare:

— in Gesù Cristo il nucleo fondamentale della fede e della verità sull’uomo: Gesù Cristo è la rivelazione definitiva del progetto di Dio sull’uomo;

— nella comunità ecclesiale la responsabilità globale e irrinunciabile nei confronti della fede dei giovani: per questo la pastorale giovanile non può essere delegata ad altri, ma resta compito centrale e unico della comunità ecclesiale;

— negli operatori di pastorale la responsabilità di restituire ai giovani un’immagine di cristianesimo consistente e determinato;

— nei processi di iniziazione il compito di facilitare ai giovani l’accesso alla verità.

 

2.2.3. Itinerario metodologico

L’uomo maturo è l’adulto. I giovani sono in una fase di questo processo. Non è corretto assumere la loro situazione di fragilità e di marginalità come «valore».

Educazione è il processo antropologico mediante il quale la generazione adulta offre la sua opera per la crescita umana delle nuove generazioni, e cioè fino alla capacità di agire consapevolemente e liberamente nell’attuale contesto sociale e culturale.

Nell’ambito della maturazione della fede, questo compito spetta unicamente e globalmente alla comunità ecclesiale. Essa deve caricarsi di questa funzione. Le nostre comunità non sono spesso all’altezza del compito. Non si può però accettare l’alibi di una delega ad altri di una responsabilità che le attraversa costitutivamente. Al contrario proprio nella riaffermazione della responsabilità, la comunità trova un principio di conversione. Di conseguenza, ha senso una pastorale giovanile solo come espressione del servizio preciso e impegnativo dell’unica comunità ecclesiale. Va invece categoricamente rifiutata ogni forma «giovanilistica». Due sono i riferimenti obbligati di ogni processo pastorale.

In primo luogo, questo modello si caratterizza, come ho già ricordato, per l’insistita sottolineatura della dimensione veritativa dell’esperienza cristiana, contro il troppo esperienzialismo che ha segnato la prassi pastorale recente e la diffusa soggettivizzazione dell’attuale situazione giovanile.

Questo recupero è caratterizzato dalla rilevanza data al «contenuto» della fede, inteso quasi nella sua forma di espressioni dottrinali, elaborate e sistematizzate. Viene attivato un continuo confronto critico tra la sapienza dell’uomo e le esigenze della fede, quasi per restaurare quelle esigenze a carattere «apologetico», troppo frettolosamente accantonate nel recente passato. I giovani sono sollecitati ad apprendere, con pazienza e fermezza, i contenuti oggettivi della fede nella loro precisa codificazione linguistica. Si parte dall’ipotesi che l’educazione ad accogliere e a comprendere il linguaggio oggettivo della fede aiuta e sostiene la vita di fede, sotto il profilo della consapevolezza riflessa e del confronto con le varie istanze del sapere umano.

Un secondo elemento è determinato dal rifiuto nell’educazione alla fede di ogni cammino, troppo all’insegna della gradualità e della progressività. La scelta è motivata nella distinzione tra «mediazioni» educative e interventi pastorali. Non si nega la continuità tra i due approcci. Si contesta invece la scelta di governare il secondo con la logica del primo. Sembra che un modo di procedere più rassegnato possa svuotare il riconoscimento di una efficacia immediata e diretta della salvezza di Dio e dei suoi «mezzi». Il modello preferisce affermare questa «potenza» anche nell’ambito dell’educativo, invece di aggiustarla con le pretese delle mediazioni antropologiche.

 

2.3. II modello della pastorale di «liberazione»

Tutti conoscono le vicende della «Teologia della Liberazione». Al di là delle recenti polemiche, questo nuovo modello teologico ha orientato uno stile di azione pastorale che dall’America Latina ha ormai preso dimora anche nella comunità ecclesiale italiana.

Per molti operatori di pastorale giovanile esso rappresenta un punto di riferimento e di confronto, significativo e emblematico.

Mi è sembrato importante analizzarlo con l’attenzione necessaria. Lo considero infatti un modello, secondo l’accezione ricordata sopra.

Ho utilizzato come materiale di studio quello che il CELAM ha prodotto sulla pastorale giovanile: diverse pubblicazioni sono confluite in una proposta organica e strutturata​​ Elementos para un directorio de Pastoral juvenil organica​​ (Bogotà 1982).

Una logica percorre tutta la proposta: si rifà all’ottimismo teologico di Puebla e alla necessità di responsabilizzare ogni uomo verso un impegno preciso di liberazione, nel nome e sull’esperienza suscitata dalla sua fede in Gesù Cristo.

 

2.3.1. Quale uomo

L’uomo è la fondamentale «immagine di Dio». Per questo possiede una dignità e una libertà inalienabile.

Purtroppo è spesso calpestata e devastata, da ragioni culturali e strutturali.

L’educazione ha il compito di restituire la coscienza della dignità e l’esercizio della propria libertà e responsabilità. Per questo essa è sempre liberatrice e trasformatrice.

È impegnata di conseguenza a umanizzare e personalizzare l’uomo, fino a trasformarlo in un nuovo «agente di cambio». L’uomo infatti raggiunge la pienezza della sua maturazione quando si sente responsabile degli altri e si impegna per la loro liberazione progressiva.

Lo stile con cui viene realizzato questo compito non può che essere quello della creatività e della solidarietà: ricerca e confronto vissuti «assieme», verso progetti collocati oltre l’esistente.

 

2.3.2. Chi è il cristiano

Ogni uomo è impegnato nella storia alla costruzione di una nuova civiltà, nella logica dell’amore e della promozione. Questo è segno e inizio del Regno di Dio. La fede è illuminazione progressiva di questo processo, sollecitazione verso la sua realizzazione, assicurazione sul suo esito nella speranza.

 

2.3.3. Itinerario metodologico

Soggetto sono adulti e giovani assieme, nella sensibilità e responsabilità che li caratterizza e li distingue. L’accento è sulla progettualità personale e sulla prassi storica come luogo concreto in cui l’uomo realizza sé stesso mentre costruisce un mondo nuovo.

La fede viene vissuta come l’interpretazione e la radicalizzazione di questo impegno promozionale.

Lo spazio di azione pastorale è quello della esistenza concreta e quotidiana. Lì si misura. La dimensione esplicitamente religiosa e cristiana non viene né rifiutata né vanificata. Essa chiama con espressioni religiose i fatti della vita quotidiana e i processi di trasformazione, rivela il loro significato più profondo e decisivo, assicura sull’esito dell’impegno di liberazione.

È davvero importante la preoccupazione di chiamare eventi e situazioni con il loro vero nome. Non è una questione di etichette, ma di realtà. Tutti sanno che le cose si portano dentro un mistero più grande. Lo chiamiamo con i nomi rivelati della nostra esperienza credente: presenza di Dio, peccato, salvezza, fede. Questa dimensione profonda è immersa però in dati e fatti sperimentabili e manipolabili, in cui sono in gioco responsabilità precise e concrete. A questo livello, è indispensabile individuare processi e interventi: bisogna chiamare le cose con il loro vero nome, senza mistificazioni.

Se ci si guarda d’attorno con atteggiamento disponibile, è facile costatare le molte situazioni ingiuste e alienanti. Peccato è prima di tutto oppressione del fratello. Salvezza è restituzione ad ogni persona della sua libertà. Presenza di Dio è impegno per la costruzione qui e ora del suo Regno. Non è possibile riconoscere nella verità la dimensione profonda e rivelata degli eventi, se non impegnandosi a costatare e a trasformare quello che c’è al livello di immediata percezione. L’esigenza è di verità. Ha però anche un carattere metodologico: troppi credenti sono costretti a mettere in crisi la loro fede, se non la vedono coinvolta, al titolo che le compete, in quei processi di trasformazione che ormai sentono come irrinunciabili per la coerenza con le loro scelte; o, se non hanno ancora raggiunto questo indispensabile livello di maturazione personale, potrebbe risultare cattivo servizio pastorale, addormentarli in una distrazione che risulta, per forza di cose, connivenza con l’oppressione.

Sul piano dell’azione pastorale tutti si rendono conto che la comunità ecclesiale può svolgere la sua missione, in fedeltà al suo Signore, solo se essa diventa luogo dove è possibile sperimentare, almeno nel piccolo, questo impegno di trasformazione e di liberazione. Così, la scoperta che la dimensione politica attraversa anche l’azione pastorale, coinvolge il soggetto stesso della pastorale: lo sguardo critico e costruttivo si muove continuamente dall’esterno all’interno della comunità ecclesiale; la risonanza politica attraversa anche i gesti ritenuti abitualmente più «sacri» (eucaristia, Parola di Dio, preghiera...). Realizzata così la pastorale giovanile possiede una intensa carica di coinvolgimento. Diventa aggressiva e inquietante. Crea una gerarchia di preoccupazioni e di esigenze, diversa da quella tradizionale. Molti problemi religiosi passano in secondo piano, per far spazio ad altri, vissuti come più urgenti. Affiora la consapevolezza che fare educazione è già, in ultima analisi, fare educazione alla fede.

 

2.4. I modelli a prevalenza educativa

Nell’area ecclesiale italiana, in questi ultimi anni, si stanno diffondendo esperienze pastorali, impegnate ad assumere seriamente l’impegno educativo. Si parte dall’ipotesi che il servizio all’uomo, indispensabile per la costruzione del Regno di Dio e il consolidamento della sua salvezza, passa oggi attraverso una intensa attività di promozione educativa. Sono molti i modelli concreti, disponibili all’attenzione di chi intende studiare questa linea di tendenza. Ne ho privilegiato uno, selezionandolo per la sua diffusione e per l’abbondante letteratura prodotta.

Ho analizzato il​​ Progetto unitario di catechesi,​​ dell’Agesci (Milano 1983).

 

2.4.1. Quale uomo

Esiste certamente un progetto normativo sull’uomo: su di esso va misurata ogni personale progettazione.

Questo progetto è però astratto e generale: serve solo come orientamento e grande direzione di verifica.

Ogni uomo possiede qualità e capacità particolari, che hanno bisogno di essere sviluppate e curate per dare i frutti propri. Questo è il progetto personale: da giocare nella irrinunciabile libertà. L’aiuto educativo, le norme e la legge non rappresentano l’ideale strutturato in tutti i suoi elementi e irrigidito in un complesso di formule. Rappresentano invece la proposta di esperienze concrete per crescere in autonomia e responsabilità, nella e verso la libertà.

L’impegno educativo e pastorale è giocato al servizio della vita.

Per questo sollecita ad amarla, a rallegrarsi di essa, ad apprezzarne le espressioni di bellezza, ad impegnarsi per costruirla, sostenerla. Le difficoltà non mancano; e neppure possono essere ignorate. Non possono però spaventare: sono tutte superabili; vanno considerate «il sale della vita»​​ (Progetto unitario di catechesi,​​ Milano 1983, 67).

 

2.4.2. Chi è il cristiano

Non ci si chiede chi è l’uomo né ci si interroga sul significato della sua vita in astratto. La domanda è invece posta e risolta dentro la certezza di essere già immersi nell’amore di Dio, espresso nella creazione e nel dono della salvezza. Per questo l’orizzonte antropologico è già all’interno della cultura e tradizione cristiana. L’educazione alla fede si compie nello svelamento progressivo del significato che la vita già possiede e nell’invito esplicito a «giocare nella squadra di Dio»​​ (Progetto​​ 88-94).

 

2.4.3. Itinerario metodologico

La condizione indispensabile per assicurare la maturazione umana e cristiana dei giovani è data dal rapporto educativo tra «educatore» e giovane, come strumento fondamentale del più vasto processo educativo.

La relazione non è costituita da trasmissione di messaggi o di verità astratte. È invece fondata sull’esempio vivo e sofferto: il ragazzo ha bisogno, proprio per imparare a formarsi una sua personalità, di guardare ad un uomo che ha realizzato alla sua maniera quegli ideali verso i quali anche lui tende e che accetta di vivere con lui la stessa avventura. Al centro dell’itinerario sta una scommessa teologica sulla «vita», compresa come luogo in cui il Dio di Gesù si manifesta e in cui i giovani esprimono la propria decisione per lui. Come la vita, questa manifestazione cresce e si sviluppa, con progressività e gradualità. Si richiede una presenza, adulta e testimoniante, capace di sostenere e orientare questa crescita: l’educazione e il servizio educativo.

Lo stile pastorale è molto realistico. Evita i discorsi e le proposte troppo elevate, giocate sulle idealità astratte del solo dover-essere. Preferisce fare proposte, rispettando il primato dell’esperienza. Si cercano occasioni per far toccare con mano ai giovani che sono accolti e considerati per quello che sono. Tutto il processo si svolge dentro una esperienza di fede: è un po’ come l’aria che tutti ci avvolge e di cui viviamo tutti.

Vivere da credenti significa riconoscere questa presenza, tematizzarla e accoglierla come la ragione decisiva di ogni personale esperienza.

 

2.5. Modelli a prevalenza kerigmatica

Gli ultimi modelli che intendo studiare, li ho definiti con una formula generica «a prevalenza kerigmatica». Intendo raccogliere sotto questa voce quei differenti modelli che accentuano notevolmente la dimensione spirituale dell’esistenza cristiana e insistono praticamente sulla sua radicale alterità rispetto ai ritmi e ai processi della nostra quotidiana esistenza.

Sono collocati in questa prospettiva, per esempio, i gruppi carismatici, neocatecumenali, quelli del «rinnovamento dello Spirito», le diverse esperienze a forte risonanza monastica.

Tutti sanno che realizzazioni di questo tipo sono presenti e diffuse nell’area ecclesiale italiana. Rappresentano un dato di notevole consistenza e offrono un punto di riferimento significativo per tanti operatori di pastorale, anche quando non accettano una dipendenza precisa da qualcuno di questi movimenti concreti.

Per essere coerente con la scelta di analizzare «modelli», dovrei studiare una di queste esperienze.

L’impresa non mi riesce facile, soprattutto perché i protagonisti di queste esperienze sono abbastanza restii a trasferire sulla carta quello che vivono. Mi mancano quindi documenti di prima mano, da analizzare e da riprodurre. Per forza di cose, sono costretto ad uscire dalla prospettiva dei modelli e scivolare in indicazioni a carattere tipologico. Li raggruppo perciò in un unico orientamento generale, quasi come un indicatore dentro una tipologia.

Fatta la scelta, mi sono ritrovato con altri problemi. Non potevo disporre di documenti di prima mano. Dovevo riandare più a monte, alle sorgenti ispiratrici della loro prassi.

A questo livello, il gioco interpretativo si fa più rischioso; sicuramente percorre orizzonti molto soggettivi.

Una caratteristica salta immediatamente agli occhi: l’accentuazione sugli aspetti comunitari dell’esperienza cristiana. La comunità costituisce lo spazio di vita cristiana, fino a diventare quasi la «patria dell’identità», in un tempo di crisi e di anonimato, dove si fa esperienza di una nuova qualità di vita, segnata intensamente dalla fede, professata e vissuta. Nel sostegno di questa forte esperienza comunitaria, viene superata ogni ipotesi rinunciataria e riduttiva, come può sembrare quella che affida il primato all’esperienza personale o che accetta tempi e ritmi lunghi e lenti, a costo di svuotare le esigenze della radicalità evangelica.

Nella comunità, si intende reagire al clima di pluralismo e di relativismo culturale, che minaccia alla radice 1’esistenza credente; e si riafferma una forte esigenza propositiva. Questi tratti sono di immediata costatazione, come dicevo.

A pensarci bene, però, non rappresentano la qualità specifica di questi modelli. Se li riappropriano, con sfumature diverse, anche alcuni dei modelli già studiati.

Mi sono chiesto: dove sta, allora, la caratteristica qualificante di queste esperienze?

Ho l’impressione che esse riportino, sul terreno del vissuto ecclesiale e pastorale, le istanze più mature della cosiddetta «teologia dialettica». Proposta da grandi credenti (come K. Barth e D. Bonhoeffer), come reazione a teologie disimpegnate e troppo secolarizzate, riaffiora oggi, in un tempo di crisi e di facili pretese antropocentriche. In questi «modelli» il principio ispiratore è lo stesso che anima il modo di accedere al mistero di Dio e dell’uomo, tipici della teologia dialettica. Dio viene confessato come il totalmente altro, radicalmente lontano dal cammino quotidiano dell’uomo, anche se tutto proteso alla sua salvezza. L’uomo ritrova la verità di sé, smarrita nei labirinti della presunzione e dell’autosufficienza, quando alza le mani in segno di invocazione, dal profondo del suo peccato. L’uomo è «il peccatore che invoca salvezza». Dio è il dono, insperato e sconvolgente, di questa salvezza.

L’unico «dialogo» tra Dio e l’uomo è quello che porta ad invocare e ad accogliere. Mi ha spinto ad assumere questa ipotesi quello che ho constatato come il denominatore comune dei momenti celebrativi ed espressivi, vissuti in questi movimenti: la forte sottolineatura del proprio peccato, quasi a riportare l’uomo alla sua verità contro ogni ubriacatura di presunzione, l’esperienza di un dono di salvezza che scende dall’alto e percorre strade non programmabili, la festa entusiasta di chi ritrova le ragioni di vita e di speranza, oltre il proprio peccato confessato, nel dono accolto e celebrato.

Utilizzo perciò alcune indicazioni della «teologia dialettica» per esprimere le dimensioni antropologiche e teologiche del «modello». Per i limiti denunciati, non hanno la pretesa di descrivere in termini puntuali nessuna concreta esperienza.

 

2.5.1. Quale uomo

Dio è Dio; egli è il totalmente altro, colui che è nascosto e avvolto nel mistero. All’assoluta e somma superiorità di Dio va contrapposta l’estrema e infinita inferiorità dell’uomo. Tra Dio e l’uomo c’è un «crepaccio», una «regione polare», una «zona desertica»: non esiste nessuna possibilità di passaggio (Zahrnt H.,​​ Alle prese con Dio. La teologia protestante nel XX secolo,​​ Brescia 1969, 16).

In Gesù Dio si è fatto vicino all’uomo; l’evento è però unico e irripetibile. Nulla ha modificato della struttura costitutiva.

Emerge una visione pessimistica nei confronti della cultura e di ogni produzione umana: «c’è sempre qualcosa di imperfetto, là dove l’uomo ha costruito i suoi castelli»​​ (Ivi​​ 27).

 

2.5.2. Chi è il cristiano

La salvezza è tutta dall’alto al basso, da Dio verso l’uomo. Essa si compie in forza degli atti posti da Cristo, atti oggettivi e non soggettivi, atti gratuiti e non dovuti.

 

2.5.3. Itinerario metodologico

Bisogna affermare una netta distinzione tra il momento educativo e quello pastorale. Viene rifiutata ogni possibilità di intervenire educativamente nell’ambito della maturazione e celebrazione della fede.

È assente ogni esplicita attenzione e preoccupazione educativa.

L’accesso al mistero di Dio è infatti dono che irrompe nella storia. Basta invocarlo dall’abisso della propria esperienza di peccatori. Non esistono altre disposizioni educative capaci di facilitarlo.

Le cose da fare sono poche e semplici: moltiplicare i contatti tra il dono irruente di Dio e la vita dell’uomo. Tutto viene assolto e risolto nel clima, accogliente e pervasivo, della comunità e nel rapporto con l’esperienza religiosa che al suo interno viene instaurato.

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PASTORALE GIOVANILE – modelli

PASTORALE GIOVANILE – progetti

PASTORALE GIOVANILE (progetti)

Mario Delpiano

 

1. Progetti delle chiese locali

1.1. Il posto del contesto socio-culturale e della condizione giovanile in particolare

1.2. I giovani, referenti della prassi pastorale

1.3. Collocazione del progetto nella pastorale della comunità cristiana

1.4. L’obiettivo della pastorale giovanile

1.5. I contenuti privilegiati

1.6. Orientamenti metodologici

1.7. Gli itinerari

2. Punti di non ritorno

 

I progetti di pastorale giovanile chiaramente codificati e offerti sul mercato delle proposte sono tanti e diversificati. Da quelli formalizzati e continuamente rivisitati, assunti come modello, presenti negli statuti o nella pubblicazione corrente di associazioni e movimenti ecclesiali, ai documenti autorevoli dei diversi Istituti e Congregazioni religiose che sollecitano le loro comunità educative alla progettazione educativo-pastorale, offrendo loro il quadro globale della progettazione, ai numerosi progetti esistenti in ogni singola prassi pastorale rivolta al mondo giovanile, comprese quelle centrate su interventi specializzati.

L’intervento intende limitarsi a un’ambito particolare della progettazione: i progetti diocesani finalizzati a rivisitare e rinnovare la prassi pastorale verso il mondo giovanile delle singole Chiese locali.

 

1.​​ I progetti delle chiese locali

Si intende privilegiare la riflessione sui progetti delle chiese locali, perché riconosciamo che esse sono davvero chiamate ad essere anche di fatto il «soggetto» della prassi pastorale e della prassi di pastorale giovanile in particolare. Questa infatti diviene oggi sempre meno «delegata» a singoli, individui o gruppi che siano, mentre ritrova sempre più nella «ecclesialità» la sua caratteristica fondamentale.

Le chiese locali stanno compiendo oggi un notevole sforzo di coinvolgimento progressivo di base, spesso sotto la spinta di gruppi trainanti, di centro o di periferia, che sollecitano all’urgenza di un progetto condiviso di pastorale giovanile.

L’impulso alla progettazione comune deriva più spesso dalla pressione dell’azione e dei progetti di movimenti e di associazioni che tendono a monopolizzare la pastorale giovanile delle singole comunità, o dall’esplosione vivace e movimentata di gruppi presenti sul territorio, guidati da progetti specifici, la cui azione richiede coordinamento; tale impulso inoltre nasce dalla presa di coscienza di una pastorale giovanile finora confinata negli uffici catachistici diocesani e della crisi di praticabilità dei progetti di catechesi rivolti al mondo giovanile. Questo fatto è rivelativo di una crescente riflessione corale intorno all’evangelizzazione delle nuove generazioni, al problema della crisi della trasmissione culturale e alla inadeguatezza sofferta di una prassi cieca e troppo poco riflessa. L’analisi che si intende compiere sui progetti diocesani è per diversi motivi condotta su di un numero ristretto di progetti (una ventina). Ciò è ancora dovuto al fatto che l’emergere di una progettazione di pastorale giovanile è un elemento di novità delle chiese locali degli anni ottanta.

L’analisi dei progetti di pastorale giovanile è praticabile, se non ci si vuole ridurre alla sintesi, peraltro riduttiva e sempre inadeguata, dei diversi progetti esistenti, attraverso l’utilizzazione di una «griglia» capace di favorire una lettura critica dell’esistente; essa viene costruita da una batteria più o meno ampia di «indicatori» indispensabili per la recensione dei progetti. Questi indicatori che si possono utilizzare sono: il posto riconosciuto al contesto socio-culturale attuale, in particolare l’orizzonte culturale di tipo antropologico, educativo e teologico, in cui si colloca la riflessione progettuale; la scelta dei referenti (il mondo adolescianziale-giovanile) che intende privilegiare all’interno dell’analisi della condizione giovanile, il rapporto tra l’azione pastorale della comunità cristiana nella sua globalità e la prassi specifica di pastorale giovanile, l’obiettivo ridefinito in situazione giovanile e la sua articolazione, i contenuti privilegiati, gli orientamenti metodologici, lo spazio contemplato per la verifica-valutazione del processo che si vuole mettere in atto.

Attraverso questo filtro si vuol tentare di leggere la situazione attuale della progettazione, anche senza dover necessariamente utilizzare tutti gli indicatori sopra elencati.

 

1.1. Il posto del contesto socio-culturale e della condizione giovanile in particolare

Il contesto socio-culturale e pastorale risulta uno degli elementi privilegiati dai progetti. Se ne dà talora una lettura negativa non sempre aperta e possibilista per un intervento dal di dentro, o se ne dà più spesso una lettura molto critica, tesa a mettere in evidenza soprattutto i limiti e le carenze: la secolarizzazione considerata in termini negativistici più che di riconoscimento e valorizzazione dell’autonomia, il processo di scristianizzazione, la caduta di tensione etica, la crisi di valori e di cultura, i problemi della comunicazione col mondo giovanile, in particolare la distanza istituzionale dei giovani dalla offerta delle comunità ecclesiali.

La lettura della condizione giovanile propria delle analisi sociologiche è assunta dentro i progetti, soprattutto se schiva di fronte ad assolutizzazioni e a categorie costringenti e riduttive.

Alcuni progetti recepiscono l’esigenza di rivisitare le descrizioni sociologiche da una prospettiva più ampia e globale, di tipo interdisciplinare e possibilista, propriamente educativo-pastorale, capace di collocare gli elementi descrittivi-interpretativi all’interno di un quadro di progettazione e di intervento sulla realtà giovanile.

Minore rilevanza invece viene data nei progetti all’esplicitazione dell’orizzonte culturale e teologico, e perciò il modo di definire l’uomo, la cultura e al suo interno i processi educativi, la formulazione del quadro teologico di fondo.

Soprattutto in riferimento a questi indicatori fondamentali i progetti riflettono spesso la situazione di sincretismo e di frantumazione degli orizzonti di senso.

Un elemento importante che distingue alcune progettazioni è la loro più o meno esplicita collocazione all’interno di un determinato orizzonte culturale, accompagnata dallo sforzo di una coerente interpretazione al suo interno del quadro teologico e di quello educativo.

 

1.2. I giovani, referenti della prassi pastorale

I giovani intesi come referenti della proposta che il progetto intende raggiungere, sono definiti in modo vario: in taluni progetti viene giocata una suddivisione in categorie costruite in base alla domanda educativa e a determinati bisogni giovanili (per esempio i giovani «in difficoltà»; quelli «lontani» da una identificazione con la comunità ecclesiale, ma portatori di una domanda di senso; quelli «appartenenti»); ciascuna di queste categorie poi è collegata con una precisa definizione di obiettivi e itinerari. In altri progetti invece il referente è soprattutto il «giovane che frequenta» e si riconosce in un’appartenenza ecclesiale, anche se spesso con riserva; questo avviene soprattutto in quei progetti dove la preoccupazione prima è il ripensamento e il ricupero di spazi educativi istituzionali come gli oratori, i centri per la gioventù, le scuole cattoliche. Altri progetti ancora assumono come referente il giovane qualunque, senza rivelare esigenze di tipologizzazione di soggetti e di domande giovanili per una diversificazione dell’intervento. Una caratteristica crescente di molti progetti consiste nell’esplicito riferimento ai «giovani lontani», con la netta consapevolezza dell’urgenza di un rinnovamento del tipo di approccio pastorale nella linea della missionarietà, o con espressioni invece che si rivelano più sospiro di impotenza che intenzionalità di progettazione realistica.

Di fronte al mondo giovanile non è presente tanto l’esperienza del sentirsi accerchiati; i giovani sono visti, più che ostili o chiusi al dialogo, come irraggiungibili dalle comunità. È a volte presente anche la fascia dei giovani a rischio e dell’emarginazione; questi, all’interno del progetto, vengono considerati come i destinatari di un volontariato educativo sempre più qualificato e specializzato, raramente invece come il termine di paragone per ridefinire la funzione delle strutture educative stesse.

Talora in alcuni progetti, soprattutto quelli «totalizzati» dall’assunzione di paradigmi culturali specifici ed esplicitati, permangono assolutizzazioni elitarie: sono soprattutto i giovani che maggiormente rispondono in maniera entusiasta e totalizzante alle proposte che vengono a occupare la posizione di esemplarità nei confronti degli altri, e ricevono più spazio e attenzioni all’interno della progettazione. La domanda giovanile è interpretata oggi nei progetti come grande e urgente «domanda di senso», considerata però a volte come domanda a sé, e perciò passibile di selezione tra le altre domande giovanili; più comunemente essa è considerata all’interno di una domanda di vita allargata, che assume forme ed espressioni anche molto povere e sopite, ma che è possibile liberare in intensità e progressività attraverso gli interventi educativi.

 

1.3. Collocazione del progetto​​ nella pastorale della comunità cristiana

È esperienza quasi comune che la pastorale giovanile ha fatto nascere o ridimensionato le altre pastorali. In genere la sensibilità della comunità ecclesiale al mondo giovanile ha preso avvio dalla sollecitazione di iniziative di singoli (un prete con un gruppo o viceversa) che lentamente hanno favorito una presa di coscienza più generale del problema della pastorale giovanile da parte della comunità cristiana e dei suoi responsabili.

Nel contempo la ripresa delle proposte associative e l’affiorare sulla scena di associazioni e movimenti nuovi, all’interno della chiesa locale, ha vivacizzato l’iniziativa delle comunità verso il mondo giovanile e fatto vivere l’esperienza reale del pluralismo dei percorsi, delle proposte, delle differenti identità cristiane, evidenziando anche l’esigenza indifferibile di un cammino di convergenza e di comunione nell’unità, insieme alla crescente attenzione a «tutto il mondo giovanile» e non solo alle sue fasce privilegiate.

Sembra comunque un fatto che accomuna tutti i progetti, l’esigenza dichiarata di una assoluta necessità che «tutta» la chiesa locale se ne faccia carico. E ciò è vissuto come un’esigenza intrinseca dell’evangelizzazione, in quanto esigenza di fedeltà all’uomo in situazione: a tutto l’uomo e a tutti gli uomini, nessuno escluso.

Ordinariamente questa nuova autocoscienza ecclesiale risulta frutto di un cammino di alcuni anni, scandito da tappe significative di presa di coscienza comunitaria sempre più approfondita (lettura progressivamente più approfondita ed esigente della situazione socioculturale e della condizione giovanile in particolare) e sempre più allargata, fino alla sua espressione più autorevole nei convegni diocesani centrati intorno al tema «comunità ecclesiale e mondo giovanile».

Pur dentro questa precomprensione comune si collocano e si diversificano i vari modi di concepire il rapporto tra progetto pastorale della chiesa locale e progetto di pastorale giovanile:

— una pastorale giovanile «autonoma», perché legata ad ambienti e persone specifiche dedite a tempo pieno a tale compito, pur con una continua sollecitazione per rompere «l’accerchiamento»;

— una pastorale giovanile come capitolo della pastorale della famiglia;

— una pastorale dell’età evolutiva, collegata quindi al mondo dei ragazzi e degli adolescenti, agganciati dalla formazione catechistica;

— una pastorale giovanile che, pur avendo avuto una partenza autonoma e protagonistica, cerca di continuo la possibilità di creare un progetto più ampio, assumendo come punto di incontro i vari piani pastorali annuali delle chiese locali.

 

1.4. L’obiettivo della pastorale giovanile

I progetti hanno acquisito una discreta uniformità di impianto generale nella definizione dell’obiettivo.

Qualcuno parla esplicitamente di «obiettivo», altri di finalità o meta generale, altri traducono questa attenzione progettuale nell’espressione «contenuti»; ciò per esprimere una preoccupazione dottrinale, forse anche per mediare con la sensibilità di chi non è formato al linguaggio della progettazione. Caratteristiche comuni nella definizione-riformulazione dell’obiettivo sono:

— La centratura esplicita sulla figura, sulla storia e sull’evento Gesù di Nazaret, con riferimento alla prospettiva dell’Incarnazione o alle affermazioni codificate dai documenti conciliari e del magistero. L’obiettivo è in genere ispirato al n. 38 (e seguenti) del documento CEI​​ II rinnovamento della catechesi​​ (Roma 1970); un obiettivo perciò ancora scarsamente riformulato in relazione alla situazione giovanile.

— L’obiettivo spesso contiene un’accentuata connotazione di ecclesialità, presentando il rischio talvolta di rinchiudere in prospettive ecclesiocentriche, più che di aprire alla universalità del Regno.

— È presente una intensa preoccupazione di indicare ai giovani una concezione di vita che ritrovi nel «servizio» (la diaconia) il modo più pieno di esprimersi. Ciò a volte, mentre porta alla ridefinizione fino alla limatura degli obiettivi terminali del cammino, si accompagna alla disattenzione nell’individuazione dei punti di partenza reali e minimali e nella formulazione delle tappe iniziali del cammino.

— Nella definizione dell’obiettivo viene riconosciuta «la domanda di senso» quale luogo antropologico entro cui offrire l’esperienza nuova e liberante di Gesù di Nazaret.

 

1.5. I contenuti privilegiati

Molte accuse mosse ai progetti di pastorale giovanile, o meglio ancora, alle passioni educative non scritte degli operatori, sono legate al fatto che non sembra chiaro in essi l’insieme della proposta dei «contenuti», cioè delle verità di fede limpidamente formulate, sistematicamente ordinate, in un linguaggio ecclesiale che avrebbe la pretesa di essere sovratemporale.

Nei progetti esistono indicazioni che orientano l’attività concreta anche sui contenuti vitali della fede cristiana espressi nel linguaggio del tempo, e lavorati metodicamente attraverso gli strumenti linguistici della catechesi, della liturgia e della testimonianza vissuta nell’esperienza quotidiana.

Sulla formulazione dei contenuti emerge una divergenza di metodo guidata da precomprensioni certamente differenti, cui soggiacciono perciò «modelli» differenti di pastorale:

— in alcuni progetti si opera la distinzione, che di fatto diventa separazione, tra evangelizzazione e pre-evangelizzazione, tra contenuti culturali propri dei processi formativi e contenuti dell’evangelizzazione; si mette in evidenza un processo di primo livello per la maturazione umana e un secondo per la maturazione cristiana. Esse risultano così solo accostate, giustapposte, quando non conseguite dialetticamente anche nei metodi;

— altri invece affrontano il problema dei contenuti attraverso il termine integrazione fede-vita, creando unità di azione e continuità di processi metodologici, perché assumono la «vita» in un’accezione linguistica globalizzante e totale (integrale, in pienezza) che diviene punto di partenza e punto di arrivo insieme, e luogo di riformulazione della stessa esperienza cristiana.

Una osservazione descrive in maniera abbastanza significativa la difficoltà ancora presente sia in termini operativi che progettuali: la catechesi è vista come «evangelizzazione violenta». A parte la contraddittorietà dell’espressione, quel che emerge è che con i giovani attuali si richiedano strutture e modi di procedere da «prima evangelizzazione».

 

1.6. Orientamenti metodologici

La scelta fondamentale che emerge dalla maggior parte dei progetti è il gruppo giovanile come risorsa privilegiata per l’educazione alla fede.

Di esso si danno indicazioni abbastanza precise, volte a preservarlo dai difetti più comuni, come la sua chiusura narcisistica, l’incapacità di favorire uno sbocco maturo, lo psicologismo e il giovanilismo, l’esperienzialismo e la perdita del legame col passato.

Se ne coglie l’urgenza anche in rapporto alle analisi sulla condizione giovanile, e lo si riconosce come mediazione necessaria per una esperienza di chiesa e per una maturazione dell’identità del giovane.

Il gruppo a volte è considerato in termini essenzialmente funzionali alla parrocchia o alla struttura centrale.

Sembra acquisito un pluralismo aggregativo, alcune volte ben inserito, altre volte un po’ sopportato. I movimenti e le associazioni, mentre in alcuni progetti sono considerati luoghi privilegiati per la formazione, divengono in altri oggetto di controllo e di contenimento.

Molti progetti prevedono una struttura intermedia tra il gruppo e la comunità cristiana. Per la parrocchia è più spesso l’oratorio, per la diocesi il centro di pastorale giovanile. È ricercata una dimensione di interparrocchialità non solo di iniziative, ma anche di ricerca e di progettualità. Si moltiplicano ovunque le consulte di pastorale giovanile con tanto di statuto, di rappresentanza e di tabella di lavoro attorno al progetto.

Figura indispensabile su cui spesso ogni progetto ritorna è quella dell’animatore, dell’operatore diretto di pastorale giovanile, quale garante della funzione educativa della stessa esperienza di gruppo.

Si tenta di delinearne la figura, il ruolo, la spiritualità, le competenze. Si sottolinea l’urgenza e la priorità di una scelta: la qualificazione e la formazione degli animatori. Al conseguimento di tale compito si prevedono corsi di aggiornamento, scuole di formazione per animatori, scambi di esperienze e attività comuni.

 

1.7. Gli itinerari

Alcuni progetti non si preoccupano di tradurre in cammini calibrati e ricorrenti per le varie età tutta l’impostazione di principio dell’obiettivo generale; altri li delineano soltanto, alcuni li descrivono in maniera articolata e metodica.

A volte vengono ipotizzati anche itinerari diversificati per età. In genere si tratta di itinerari di tipo globale, cioè preoccupati di una continuità educativa oltre i passaggi; altre volte più specificamente centrati sui contenuti.

 

2.​​ Punti di non ritorno

Riassumo le costanti della pastorale giovanile codificata nei progetti esistenti accostati, condensando il tutto in alcuni «punti di non ritorno», che esprimono il livello della convergenza. Questi punti costanti sono:

— La finalità generale della pastorale giovanile che li attraversa; essa può essere riassunta con una espressione: aiutare i giovani a vivere appassionatamente la propria vita, fino ad incontrarsi e accogliere Gesù di Nazaret come il Signore della vita, in una confessione gioiosa ed ecclesiale della fede e nella condivisione profonda della sua causa, il regno di Dio.

— La pastorale giovanile viene considerata come azione globale della comunità cristiana che ne è soggetto. È quindi frutto di molteplici interventi nelle dimensioni costitutive dell’essere chiesa: il servizio appassionato alla vita del giovane, offrendosi come luogo di solidarietà grande; l’annuncio di un messaggio liberante di vita dentro l’esperienza di vita offerta; la narrazione della vita di Gesù come sollecitazione a elaborare in profondità l’esperienza vissuta dei giovani; la celebrazione della vita e nella vita dell’incontro con il senso donato ed accolto.

— La pastorale giovanile è aperta e distribuita sul territorio, in quanto azione di un soggetto incarnato in un determinato contesto storico-culturale, e intende raggiungere, nella intenzionalità della sua proposta, tutti i giovani che sono presenti sul territorio.

Si rileva in particolare la novità e la diversità, rispetto al passato, del territorio in quanto tessuto socio-culturale, più che fisico-spaziale e socio-istituzionale; i giovani abitano una patria linguistica «altra», rispetto a quella delimitata nei confini parrocchiali e istituzionali.

Una pastorale giovanile attenta a non creare fin dall’inizio «giovani lontani» necessita di una progettazione ad ampio respiro dal punto di vista «territoriale» nel senso sopra indicato: va arricchita dalla molteplicità dei carismi e delle proposte agganciate alle diverse domande-offerte culturali.

La «consulta giovanile» di una chiesa locale appare sempre più uno strumento adatto per tale funzione.

— La pastorale giovanile non può essere pensata come attività che raggiunge i giovani «ad un certo punto» soltanto del loro cammino di riappropriazione della responsabilità sulla loro vita. Essa vive la responsabilità di farsi compagnia delle persone fin dall’inizio del loro sviluppo. Pertanto non va trascurata la pastorale dei preadolescenti e degli adolescenti.

Ma più profondamente la pastorale giovanile non può stare ad attendere la maturazione della domanda dei giovani in domanda religiosa sulla propria soglia di casa.

La pastorale giovanile si sente impegnata in prima persona, senza deleghe ad altri, nell’educativo, cioè nell’area dell’umanizzazione del giovane; infatti solo all’interno di tale processo, e «in determinate condizioni vitali» la domanda di vita del giovane può germinare in domanda di senso ed aprirsi all’invocazione e all’incontro.

E più ancora: sono i gesti e le offerte di vita che vengono giocati nell’educativo che contengono ed esprimono il «senso» profondo che l’evangelizzazione stessa intende offrire.

— La pastorale giovanile si avvale di un’esperienza di aggregazione fondamentale che diviene il suo luogo vitale: il gruppo. Con esso non si intende un cerchio di persone che vivono ripiegate al proprio interno, bensì la qualità delle relazioni e della comunicazione della vita che circola all’interno di tale contesto. L’esperienza di gruppo ha bisogno di essere vissuta nell’orizzonte della comunità sociale ed ecclesiale da cui germoglia per rispondere alla passione per la vita e aprirsi un varco nel tempo e nello spazio. La vita di gruppo pertanto non è programmata semplicemente in relazione ai bisogni dei partecipanti, bensì viene pensata a partire dallo «sbocco» finale a cui l’esperienza stessa è indirizzata.

— Si riconosce l’esistenza di vari livelli di appartenenza alla vita ecclesiale, a seconda del cammino fatto e delle diverse esigenze di maturazione dei giovani. La comunità ecclesiale pertanto si deve aprire a una pluralità di proposte e di metodologie. In questo senso diventa importante il riconoscimento e la valorizzazione delle forme associative e dei movimenti ecclesiali.

— I giovani oggi sollecitano le comunità a ridisegnare gesti e simboli espressivi della fede incarnata nella vita. Diventa pertanto importante apprendere a ridire la fede oggi con il linguaggio dei giovani e dell’uomo del nostro tempo, dentro le situazioni e le provocazioni della società e della cultura.

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PASTORALE GIOVANILE – progetti

PASTORALE GIOVANILE – storia – 1

PASTORALE GIOVANILE (storia - 1)

Antonio Quacquarelli

 

1. Un popolo «giovane» perché in cammino verso Cristo

2. Elementi formativi globali

2.1. La lettura «a voce alta»

2.2. Il canto

3. La formazione «spirituale»

3.1. La funzione della S. Scrittura

3.2. Elementi di filosofia comune

4. La «teologia del lavoro»

4.1. Il lavoro per la formazione spirituale

4.2. Lavorare per apprendere uno stile di vita

4.3. Il lavoro come collaborazione a Dio creatore

5. Una pastorale giovanile?

6. Raccomandazioni «pastorali.

 

1.​​ Un popolo «giovane» perché in cammino verso Cristo

Se la pastorale è il momento interpretativo della prassi ecclesiale, non è una forzatura parlare della pastorale giovanile nei Padri. Gesù è chiamato (lPt 2,25) vescovo e pastore ed è lui, il Cristo, sin dalle origini della Chiesa il soggetto principale della pastorale. Il luogo della salvezza in cui egli agisce è la Chiesa che rende afferrabile la parola di Dio per ogni realtà. La pastoralità dei Padri, che passava attraverso la predicazione, rendeva attuale la parola di Dio secondo le situazioni che venivano presentandosi. Col cristianesimo era nata una nuova umanità, ma questo popolo nuovo non ha esigenze diverse da quelle dei giudei e dei pagani, nasce e cresce allo stesso modo degli uni e degli altri, e come si legge nell’A​​ Diogneto​​ (5,1-17, H. I. Marrou, SC 33, (62-64) non è fuori di un ordine naturale. Il popolo nuovo poiché non vive più in attesa del Messia, come i giudei, né secondo le evoluzioni cicliche del mondo, come i pagani, è proteso verso l’infinito. La visione della storia è divenuta un’altra, né più di attesa né più di eterni ritorni: abbraccia il progresso all’infinito. Col Cristo, progresso e infinito sono una endiadi. Fu la caduta del primo uomo, cioè il peccato di Adamo, a sconvolgere l’ordine voluto da Dio. Eusebio​​ (H.e.​​ 1,2,1; 4 (G. Bardy) SC 31,5-7) rifiuta i dati della cronologia del lontano passato che non siano confrontabili con la Sacra scrittura. Non si può quindi incominciare che col Verbo nei due momenti della creazione del mondo e della incarnazione. L’uomo redento dal Cristo si affranca dal timore servile e libero progredisce al punto da assimilarsi al Verbo. In questa assimilazione si ha il senso della storia individuale nel contempo umana e divina. S. Agostino elabora la concezione delle sei età di ogni singolo uomo in relazione alla storia dell’intera umanità nel quadro della salvezza. In questa concezione la​​ iuventus​​ andava da David all’esilio di Babilonia. Non si ebbe un proseguimento di ricerca in tal senso e la​​ iuventus​​ fu inglobata in tutto l’uomo. D’altra parte era un​​ topos​​ classico pagano quello che riportava i periodi storici all’età dell’uomo. Tuttavia non avendo creato legami di continuità con la cultura cristiana il​​ topos​​ non poteva non cadere, sottraendo a noi altri elementi di giudizio e di confronto per quanto riguarda le implicanze del termine​​ iuventus.​​ Si è davanti ad un popolo nuovo che non accetta tesi settoriali di crescita, ma solo la fede nella​​ sequela Christi.

La guida è sempre il principio paolino della fede che non risiede nella sapienza degli uomini (ICor 2,5) ma nella parola di Cristo (Rm 10,17) . S. Paolo afferma pure che per la libertà siamo chiamati fratelli (Gal 5,13). Per Ireneo Dio si china verso l’uomo, ora sgridandolo ora esortandolo, perché conosca il valore della libertà, necessaria a percorrere la via dell’infinito progresso; Dio non cesserà mai di volere il bene dell’uomo (A.h.​​ 4,11,1-2 [A. Rousseau, B. Hemmerdinger, C. Mercier, L. Doutreleau] SC 100, 496-502). È la tesi che poi verrà ripresa da Gregorio di Nissa col principio della successione naturale delle cose, secondo un ordine progressivo: l’akolouthìa.​​ S. Ilario di Poitiers vuole che l’uomo si immerga nella ricerca del mistero del Dio​​ ingenitus​​ e​​ unigenìtus​​ e lo incoraggia dicendogli:

«Cammina, prosegui, insisti nelle tue ricerche; io so che non giungerai a termine, tuttavia mi rallegro dei progressi che farai. Chi segue con ardore l’infinito, benché non possa raggiungerlo, guadagnerà sempre nel suo cammino»​​ (Trin.​​ 2,10 [P. Smulders] CCL 62,48).

Il solo vero obiettivo dello studio era per i Padri come arrivare a Dio e per questo non si poteva non partire dalla Sacra Scrittura, cioè la sua parola. Per Origene (Hom. Lev​​ 6,1; 6 [M. Borret] SC 286, 268; 290-296) è da applicarsi a questa parola pregando e meditando giorno e notte perché ci sia rivelato come osservare la legge spirituale non solo nell’intelligenza, ma anche nelle azioni.

 

2.​​ Elementi formativi globali

La pastorale patristica vede l’uomo nella sua unità. I principi che segue sono quelli validi per sempre perché superano luoghi e tempi. Ma di questi alcuni sono specifici e riguardano le età diverse; i ragazzi dell’età scolare, diremmo oggi; i giovani che si avviano alle varie professioni; il sesso maschile e il sesso femminile. Altri, invece, sono comuni ai pagani come ai cristiani. Il giuoco, ad esempio, voleva significare una ripresa di energie, per spingere la mente a comprendere meglio le cose liberandola dall’ostacolo della stanchezza. Giovani pagani e cristiani avevano giuochi comuni. Così per le gare atletiche.

Il principio dell’emulazione, conquista già della Grecia classica, passa ai cristiani. L’emulazione postulava naturalmente il senso della collettività che con i cristiani era molto più sviluppata per la vita​​ dell’ecclesia.​​ Bisognava per ognuno e per tutti tener conto delle forze del progresso, del temperamento e dello zelo non sempre uguale nei giovani. Gli autori cristiani miravano all’aspetto unitario dello sviluppo della personalità. I momenti più seguiti per la pastorale erano quelli di passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza. Tutto ciò che oggi va sotto il nome di​​ tecniche d’indagine,​​ di​​ sociologia del lavoro,​​ di​​ educazione ritmica​​ ecc... fu intravisto dai Padri.

 

2.1. La lettura «a voce alta»

L’uso della lettura ad alta voce presso gli antichi fu studiato nella sua genesi e nei suoi effetti dal Di Capua (F. Di Capua,​​ Osservazioni sulla lettura e sulla preghiera ad alta voce presso gli antichi,​​ Scritti minori, Roma 1959, pp. 1-40). Era un esercizio che rendeva l’uomo robusto e in armonia con i suoi diversi atteggiamenti dello spirito. La lettura di un brano, la recitazione di una poesia, la declamazione di un discorso, richiedevano una voce armoniosa e suasiva con toni, modulazioni e flessioni varie per delle lingue come la latina e la greca che attraverso la loro quantità sillabica facevano avvertire sia il​​ melos​​ che il ritmo con tutta la persona in movimento per​​ Yactio​​ cioè il gesto che doveva accompagnare le parole. Il ritmo della frase era messo in rilievo dal gesto considerato come l’eloquenza del corpo. Gli avvertimenti che si davano ai giovani per la lettura ad alta voce erano comuni a quelli che si davano per gli esercizi ginnici. Celso consiglia a chi è stanco ed ha digerito male in primo luogo la lettura ad alta voce​​ (clara lectio)​​ e poi la scherma e la corsa. Il ginecologo Sorano ordina alle donne che sono al quarto mese di gravidanza la lettura ad alta voce e il moto. Se la lotta forma il corpo muscoloso solo esternamente, la lettura ad alta voce, invece, rafforza gli organi interni e fa respirare profondamente a pieni polmoni. Inoltre come moto dell’anima accresce il calore naturale, vivifica il sangue, allarga le arterie, purifica gli umori ed impedisce ai residui guasti della digestione di intossicare l’organismo. Come si faceva per gli atleti anche per gli esercizi di lettura si praticavano l’unzione con l’olio e i massaggi.

Clemente Alessandrino (Paed.​​ 3,10,50,3; 3,10,51,1-3 [C. Mondésert - Ch. Matray - H. I. Marrou] SC 158; 108; 110-112), oltre l’esercizio ginnico della lettura ad alta voce, consiglia la lotta in piedi con la evoluzione della nuca, delle mani e dei fianchi. Per lui non sono da cercare né l’artifizio né l’ostentazione da parte dei giovani sportivi, ma la sanità utile e vantaggiosa. Sempre è da mirare alla misura giusta. Come è necessario che le fatiche precedano i pasti, così l’affaticarsi senza criterio è stancante e dannoso alla salute.

Il principio pure impartito ai giovani alla scuola di retorica che le parole producono effetti più grandi del flauto e della cetra, la cui armonia colpisce l’animo, mentre la temperata varietà dei suoni trasfonde le passioni nell’ascoltatore, passa nella liturgia. Gli strumenti erano banditi dalla comunità cristiana. Il canto doveva vibrare col ritmo della mente e del cuore, poiché l’uomo nella preghiera a Dio era impegnato con tutta la persona.

L’organismo umano mediante la voce era considerato il migliore strumento musicale per inneggiare a Dio.

 

2.2. Il canto

li canto era l’allegria dell’assemblea cristiana, e la presenza del Cristo era il canto dell’assemblea. La rapida diffusione dei salmi esercitò pure la sua influenza nella musica cristiana. I salmi costituivano il patrimonio di cultura e di devozione. Paola e la figlia Eustochio, esortando Marcella a raggiungere Betlemme, descrivono una bella scena agreste in cui l’aratore, il mietitore e il vignaiolo cantano​​ aliquid Davidicum​​ (Hier.​​ Ep.​​ 46, 12 [I. Hilberg] CSEL 54, 341-343). La cura della voce che si doveva avere per il canto era la stessa che si voleva per il​​ lector​​ cristiano incaricato di leggere i Sacri Testi nelle assemblee liturgiche.​​ Iuvenis​​ era il lettore cristiano Aurelio scelto da Cipriano e presentato ai fedeli per la conferma. Era giovane per età e aveva confessato due volte il Cristo (Cypr.​​ Ep.​​ 38,1 [G. Hartel] CSEL 3, 2, pp. 579580).

La​​ recitatio​​ doveva essere fatta con voce modulata e canora, ma robusta. Il​​ lector​​ cristiano nella​​ recitatio​​ dei Sacri Testi doveva far risuonare le parole per una maggiore commozione.

I lettori erano educati alla lettura durante il culto, con il ritmo melodioso voluto dai brani biblici, scritti naturalmente senza intervallo. Commodiano​​ (Instr.​​ 2,35,5-7) paragona la voce del lettore alla tromba. Lo stesso poeta​​ (Instr.​​ 2,26,1-10) ci dice pure le qualità morali del lettore: esemplare nella condotta di vita, umile e pacifico. L’aderenza della dottrina evangelica al quotidiano, era del resto la base su cui si fondava tutta la vita della comunità.

Ritornando al canto, le immagini che si sviluppano riguardo all’ascesi e all’armonia cosmica avevano molta presa sulPanimo dei giovani. Essi alimentavano il canto liturgico ritenuto il grande sacrificio spirituale di lode al Signore. È il canto del Nuovo Testamento, fatto dal profondo deiPanima, molto più nobile di tutti gli strumenti dell’Antico (F. J. Basurco,​​ El canto cristiano en la tradición primitiva,​​ Madrid 1966, pp. 188-189).

 

3.​​ La formazione «spirituale»

Molti insegnamenti ricevuti nella scuola dei retori per la loro utilità vengono mutuati nella formazione spirituale dei giovani attraverso l’esegesi biblica. Il retore, che poi era lo studioso della linguistica storica, insegnava ai giovani che la lettura di un libro doveva essere per loro un continuo​​ adnotare​​ per​​ e:serpere.​​ I Padri che erano esegeti biblici dicevano la stessa cosa: ciò che era degno di nota andava scelto e riunito sotto varie rubriche.​​ Digesta sancta​​ diventano per Tertulliano​​ (Ap.​​ 47,3 [E. Dekkers] CCL 1, 163) le parti raggruppate della S. Scrittura.

 

3.1. La funzione della S. Scrittura

Molti argomenti diatribici dibattuti nelle sale di conferenze, come l’amicizia, la brevità della vita, il disprezzo della gloria e delle ricchezze vengono sviluppati e ridimensionati alla luce della Sacra Scrittura. Ad esempio, l’amicizia fu molto esaltata dagli autori pagani; innumeri sono le sentenze e i proverbi riguardanti gli amici e l’amicizia. Per il neoplatonismo l’amicizia diventa la preparazione delle anime a Dio. Sui giovani che venivano dalle diverse correnti culturali cadeva opportuna la sostanza scritturistica dei Padri. Per la Bibbia l’amico si ama in ogni momento​​ (Prv​​ 17,17); l’amico fedele è una forte protezione​​ (Sir​​ 6,14); la parola soave moltiplica gli amici​​ (Sir​​ 6,5). Ci fermiamo solo a queste pochissime citazioni per non appesantire la ricerca.

Era la comparazione biblica alla realtà del quotidiano che apriva al cammino del sacro. A chi cercava il Cristo era come se il Cristo gli parlasse. Le immagini paoline dell’atleta e del soldato ricorrono sempre. Siamo degli atleti che gareggiano in uno stadio spirituale. Anche tu dice S. Ambrogio al giovane​​ competens,​​ il futuro battezzando della prossima Pasqua, ti sei iscritto per la gara di Cristo nella competizione della corona: medita ed esercitati, ungiti con l’olio della letizia e della mortificazione​​ (Hel. et ieiun.​​ 21,79 [F. Bori] BA 6, 118-120).

Il fedele che col battesimo appartiene alla Chiesa non è più separabile dal Cristo.

 

3.2. Elementi di filosofia comune

La pastorale giovanile dei Padri non può ignorare la base filosofica di dominio comune. Basilio è noto anche per il suo​​ Discorso ai giovani (Orat. adol.​​ a cura di M. Naldini, Firenze 1984 [Biblioteca Patristica 3]). Egli non dimentica il tema caro ai neoplatonici della superiorità dell’anima rispetto al corpo affermando che l’eccessiva cura del corpo è di chi non conosce sé stesso (Orat. adol.​​ 9,6, op. cit., p. 120). Anche Origene​​ (Or. pan.​​ 11, 140-144 [H. Crouzel] SC 148,152154) aveva insegnato che il compito delia vera saggezza era quello di guidare l’anima alla conoscenza di sé sino a riflettersi nella intelligenza divina. Non diceva che lo scopo di ogni uomo era di avvicinarsi a Dio e di rimanere in lui? Ma l’anima deve evitare di perdersi dietro ai beni materiali per praticare la giustizia. In questo modo potrà riflettere sulle origini del male e su ogni irrazionalità.

Un altro aspetto collegato con la formazione giovanile era la tecnica dello sviluppo delle immagini. L’educazione a questo sviluppo era necessaria alle varie vocazioni dei giovani. Per quelli che si orientavano agli studi ecclesiastici era utile per i momenti creativi della liturgia o della sistemazione teologica; un addestramento per il passaggio dal visibile all’invisibile.

Il centone fu in genere molto usato nei primi secoli della nostra era. Si tratta di una certa struttura poetica fatta di vari passi e di diversi significati in modo che due emistichi si congiungono per formare un verso solo o un verso e mezzo unito ad un’altra metà e così di seguito. Ausonio (ca. 310-400 ca.) chiarisce il modo con cui si possono avere le diverse combinazioni poetiche, rifacendosi al gioco che i greci chiamavano​​ ostomachion (Cent, nupt.​​ 14 [R. Peiper] Lipsia 1886, pp. 207208). Si combinano con 14 ossicini le diverse figure geometriche, triangoli equilateri, isosceli o scaleni. Adattando questi pezzi in posizioni diverse si hanno innumeri figure: l’elefante, il cinghiale, l’oca, il gladiatore, il cacciatore, il cane, la torre ed innumerevoli altre cose siffatte che uno varia con più abilità dell’altro. Ma, annota Ausonio, la composizione degli esperti è cosa mirabile, mentre il guazzabuglio creato dagli inesperti è assai ridicolo. Siamo così alle convergenze degli acrostici e dei​​ carmina figurata​​ che arrivano a rappresentare con la croce molti altri simboli cristiani. E siamo tra Pectorius e Rabano Mauro.

 

4.​​ La «teologia del lavoro»

La teologia del lavoro è una realtà che si vive e si costruisce nei primi secoli cristiani. Essa poneva dei problemi che concernono la nostra vita esistenziale, coinvolgendo in primo piano i giovani che più venivano interessati alle questioni del loro avvenire per l’orientamento, l’apprendimento e l’aggiornamento del lavoro stesso. La teologia è avvertita dai Padri diversamente che da noi moderni. Non era un’attività culturale della mente avulsa dalla fede ma da questa interamente presa. Era credibile il teologo che testimoniava con la vita che conduceva la fede che professava. Teologo era ogni vero amico di Dio. Lo Spirito Santo era alla base della riflessione teologica e dallo Spirito veniva chi assicurava alla comunità ecclesiale l’«intellectus fidei». La teologia patristica scaturisce dalla riflessione biblica con il confronto dell’atteggiamento dell’uomo davanti alle realtà quotidiane, da un’esegesi che affonda le sue radici nell’anima.

 

4.1. Il lavoro per la formazione spirituale

Gli elementi sono da ricavare dalle varie opere dei Padri che vedevano nel lavoro una delle forze maggiori per l’acquisizione dei valori spirituali, dalle varie regole monastiche prebenedettine e dalla iconografia paleocristiana.

Girolamo nello scrivere a Leta che gli aveva chiesto come educare la figlia Paola le dice che impari a lavorare la lana, a reggere la conocchia, a tenere fermo sulle sue ginocchia il canestro, a girare il fuso e a torcere col pollice la parte più delicata della lana, cioè lo stame​​ (Ep.​​ 107,10 [I. Hilberg] CSEL 55, 300-301).

Rustico che aveva molto studiato in Gallia e a Roma, abbandona la carriera politicoamministrativa che gli si prospettava rosea e si fa monaco. Si rivolge a Girolamo per avere dei consigli. In questi consigli avvertiamo l’eco di una abitudine di vita. Girolamo l’esorta ad attendere sempre a qualche lavoro manuale per non cadere nel vizio. Attraverso il lavoro deve procurarsi i mezzi necessari per il suo vivere quotidiano. Egli può intrecciare con i giunchi una cesta, o con vimini flessibili un canestro, togliere col sarchio le cattive erbe dal terreno, tracciare solchi regolari nel campo e dopo aver piantato il vivaio disponendo per ordine le cose, portarvi l’acqua per l’innaffiamento. Inoltre c’è la trascrizione dei libri. Tutte le esortazioni di Girolamo partono da Prv 13,4 secondo cui il pigro è in balia delle passioni. Il lavoro non deve lasciare margine alcuno al vagare della mente perché lo spirito sia vigilante​​ (Ep.​​ 125, 11, op. cit., CSEL 56, 129-131). S. Ambrogio​​ (De virg.​​ 1,60 [O. Faller] FI. Patn. 31,43) ci parla delle vergini, le​​ indefessae milites castitatis​​ del territorio piacentino e bolognese, che rinunciano al mondo per vivere in comunità alternando i canti spirituali col lavoro che, oltre al loro sostentamento, serve alle opere caritative.

 

4.2. Lavorare per apprendere uno stile di vita

Lavoro, giustizia e carità costituiscono un trinomio sul quale Basilio fonda la sua pastorale, prima come presbitero (364-370) e poi come vescovo (370-379). Da asceta concepì molte idee che potè realizzare soprattutto da vescovo. Molte sono le sue riflessioni che concernono il lavoro. Bisogna che il giovane impari bene il mestiere. La mente umana non è capace di attendere nel contempo a più cose. E meglio conoscere approfonditamente un mestiere che conoscerne molti in superficie. Il passare da una cosa all’altra oltre ad impedire di fare bene il proprio lavoro manifesta una insistente leggerezza di carattere​​ (RBA 41,​​ 2 fus. tract. PG 31, 1022-10237). Come è necessario ad ognuno il cibo giornaliero, così è necessario il lavoro secondo le proprie forze. Non si vuole che si producano oggetti di lusso. Tutto deve essere misurato alla decenza e alla sobrietà. Sono consigliati i mestieri di muratore, di fabbro, di calzolaio e di agricoltore. I monaci lavorano anche per conto terzi e si comprende ogni raccomandazione che possa tradurre in pratica i principi che non offendono la povertà e il costume corretto del vivere. Dal monaco calzolaio si chiede che faccia le scarpe che solo servono a salvaguardare il piede, rendendo così implicito il divieto a non usare ornamenti di oro, di argento o di altro materiale di lusso. Il principio di Paolo (2 Ts 3,12) che almeno​​ uno mangi il suo pane lavorando serenamente​​ per Basilio è detto per gli individui disordinati e oziosi in quanto è meglio che uno pensi a sostenere sé stesso che ad essere di peso agli altri. Nel lavoro ognuno deve tendere ad aiutare i bisognosi.

Ognuno per Basilio deve attendere al proprio lavoro con alacrità e compierlo con la massima dedizione, come chi ha Dio davanti a lui quale suo sovrintendente. L’alacrità del lavoro si uniforma ad ogni altra attività da riportare sempre allo spirituale. Anche verso l’ospitalità è da rimuovere ogni negligenza per osservare una disciplina più rigorosa. La pastorale dei giovani esula da quella che noi chiamiamo noviziato per il monacheSimo. E cosa diversa e non ha che poche analogie. A chi chiedeva di essere incorporato nella comunità monastica si ordinava subito, per saggiarne il carattere, di eseguire dei lavori onerosi e umilianti. Si voleva osservare se li compiva volentieri o a malincuore. Ma non vogliamo uscire fuori dall’argomento che stiamo trattando. I Padri consideravano giovani quelli che erano nell’età intermediaria tra l’adolescenza e la virilità, l’età, a meglio precisare, che poteva professare la verginità, quella che di solito si ritiene più adatta e ideale per le nozze. È l’età che la narrativa moderna chiama preziosa. Quando i Padri parlano dell’uomo, parlano del giovane​​ già e non ancora uomo​​ e su di lui fanno cadere l’accento per la spinta del movimento generazionale.

 

4.3. Il lavoro come collaborazione a Dio creatore

La scuola antiochena aveva fatto del lavoro l’esegesi dell’uomo immagine di Dio. Qui, aveva detto Severino di Gabala​​ (De mundi creatione​​ 1,6 PG 56, 436), si manifesta la sua intelligenza che è imitatrice di Dio, la quale oltrepassa la materia stessa. L’uomo è la luce del mondo che ci fa vedere il grano, il pane, l’uva, il vino, la lana e i vestiti. Le riflessioni metafisiche sul lavoro in questa scuola antiochena sono continue. Per il Crisostomo​​ (In ps​​ 8, 7 PG 55, 116-118) il lavoro è da intendere come la vera redenzione dell’uomo perché gli fa prendere coscienza della sua condizione di creatura e di peccatore. Esso entra nella prospettiva della bontà di Dio perché diventa come un freno alle passioni umane. Per lui è molto chiaro che il lavoro ci fa ritornare a Dio e non può essere considerato un’onta, ma motivo di fierezza per la libertà che con esso si ottiene. Egli non fa distinzione alcuna tra lavoro manuale e lavoro della mente e pone come origine dei mali che si abbattono sull’umanità la scarsa considerazione in cui si tiene il lavoro manuale come se fosse una menomazione rispetto alle attività intellettuali​​ (In Prisc. et Aquil.​​ 1,5 PG 51,194-196).

I Padri considerano il lavoro come punto d’incontro tra la materia e lo spirito; una dimensione cosmica che rende l’uomo collaboratore di Dio nella creazione che sempre progredisce. Per la prima volta si hanno riflessioni antropologiche sul lavoro come unione spirituale e la pastorale dei Padri qui insiste. Si ribalta l’antica concezione del mondo classico-pagano che valuta l’opera degli scrittori e degli oratori come la sola che rende libero e degno l’uomo. Il lavoro fine a sé stesso non porta al miglioramento dello spirito umano come, invece, il lavoro espletato nella piena coscienza di collaborare al bene collettivo che è l’amore del prossimo. Un altro principio collegato direttamente col lavoro è l’aggiornamento.

Origene (Princ. 1, 4, 1 [H. Crouzel-M. Simonetti] SC 252, 166-168) polemizza con coloro che nella prassi della vita si comportano con molta negligenza. Egli pur essendo un forte ragionatore, talvolta non preferisce le vie della discussione ma sceglie il paragone. Gli esercizi di esemplificazione e di paragone per la loro efficacia, erano molto in uso nelle scuole dell’antichità. Il paragone che porta per l’aggiornamento è al geometra e al medico. Sino a quando l’uno e l’altro si esercitano nello studio delle loro discipline facendo crescere le conoscenze apprese da giovani, essi sono inseriti nella realtà della vita. Se invece perdono la solerzia a poco a poco per la negligenza incominciano a sfuggire poche cose, ma poi passando del tempo tutto cade nell’oblio. Se, invece, appena avviati per la china del decadimento si risollevano, prontamente ritornano in sé stessi recuperando ciò che solo da poco avevano perduto.

 

5.​​ Una pastorale giovanile?

Come si sta notando, non si può​​ sic et sempliciter​​ cercare una pastorale giovanile nei Padri. Essi vedono l’uomo nella sua interezza e fanno un discorso d’insieme. Per questo non si è potuto tracciare una linea continua, ma solo in penombra indicare dei legami che uniscono alcuni punti fondamentali dei Padri stessi. È l’unità antropologica che loro premeva. È in questa unità da trovare la forza di spinta che col giovane prende tutto l’uomo. Ad esempio, Pomerio, un Padre che scrisse un’opera che da poco è stata tradotta in italiano (G. Pomerio,​​ La vita contemplativa, Città Nuova Editrice, Roma 1987), che ha per titolo​​ La vita contemplativa,​​ parlando della temperanza dice che questa virtù quando alberga nell’anima colma di passioni, regola i sentimenti, moltiplica i desideri santi, reprime ciò che è vizioso e mette ordine in tutto quanto abbiamo di confuso in noi. Inoltre tronca i cattivi pensieri e ne ispira di edificanti, raffredda l’ardore della sessualità e della lussuria e riscalda l’animo con il desiderio del premio futuro; restituisce alla mente tranquillità e la protegge sempre da ogni insorgenza di vizi​​ (La vita contemplativa​​ 3, 19, 1 PL 59, 502). La temperanza come le altre quattro virtù cardinali sono collegate e non riguardano una sola età dell’uomo. Pomerio precisa che temperanza si ha quando rispettiamo i più anziani, amiamo fraternamente i coetanei, trattiamo i più giovani con benevolenza; quando osserviamo il silenzio se parla uno più anziano, quando accogliamo prontamente il suo invito a parlare, quando non gridiamo nelle riunioni e non permettiamo che il riso degeneri in schiamazzo, quando non sparliamo di nessuno né appoggiamo volentieri quelli che sparlano. Chi osserva la temperanza non guarda a cosa rimproverare nei fratelli ma al modo come lodare Dio. E quindi si è pure temperanti quando si è disposti a compiere tutto ciò che rende moderati e sobri (Idem, 3, 19, 2 PL 59, 502-503).

Pomerio parlando di quelli che nella Chiesa esercitano il magistero dice che essi devono ricorrere sia alla severità per riprendere, sia alla pazienza per sopportare chi rifiuta di correggersi. È da seguire quanto San Paolo raccomanda a Timoteo: «Rimprovera, supplica, fatti sentire con ogni pazienza e dottrina» (2 Tm 4,2). È il passo che Pomerio parafrasando spiega così: rimprovera i coetanei, supplica quelli più vecchi, fatti sentire con i più giovani. E il tutto calca con l’espressione:​​ con ogni pazienza e dottrina​​ perché la persona rimproverata con moderazione dimostra gratitudine e rispetto per chi la riprende, mentre chi è offeso dalla durezza di un rimprovero esagerato, né accetta il rimprovero, né si corregge (Idem, 2, 5, 1 PL 59, 449).

Nelle biografie poi i Padri mettono in risalto le virtù cardinali dei santi durante la loro giovinezza; così per Gregorio il Taumaturgo da parte di Gregorio di Nissa. Avendo trascurato tutto quello che appassiona la gioventù, come la equitazione, la caccia, il culto dell’eleganza, l’abbigliamento, il giuoco dei dadi, i piaceri, subito si diede alla pratica delle virtù, scegliendo sempre, man mano che cresceva ciò che era conveniente alla sua età. Nell’esercizio delle virtù cercò per prima la sapienza, alla quale seguì la sobrietà; ad entrambe era legata la continenza. Col disprezzo del denaro, esercitò anche la modestia e la moderazione. Del resto la causa della vanità e della superbia è l’avidità che trascina con sé tali passioni (Greg. Nys.,​​ Vit. Greg. Taum.,​​ PG 46, 900-901).

Nel discorso di congedo da Origene il suo allievo Gregorio il Taumaturgo​​ (Or. Pan.​​ 11, 137-138, op. cit., pp. 150-151) ci fa conoscere quanto i discepoli apprezzassero la coerenza dei loro maestri. Origene, dice Gregorio, ci spronava energicamente alle opere e alle parole mettendoci in grado di acquisire la conoscenza di ciascuna virtù in tutta la sua interezza. Ci indusse a praticare la giustizia con l’attività che è propria dello spirito. Ci distoglieva dalle vane occupazioni della vita e dal frastuono della piazza, ammonendoci ad indagare il nostro io e a prenderci cura degli affari di effettiva pertinenza dell’anima. Dopo Origene, Gregorio il Taumaturgo e Gregorio di Nissa sarebbe da richiamare uno dei più grandi Padri della Chiesa: Giovanni Crisostomo. Ma O. Pasquato, fa giustamente notare che con il Crisostomo ci troviamo davanti ad una pastorale che coinvolge la famiglia; pastorale familiare dunque, comune alla maggior parte dei Padri. Nella casa in cui regna temperanza, modestia e concordia tra marito, moglie e figli si espande il profumo della dolcezza celeste​​ (In Gen.​​ sermo 8,2; PG 54, 619-620).

 

6.​​ Raccomandazioni «pastorali»

Il​​ Dictionnaire de Spìritualité​​ alla voce​​ Pastorale​​ del Barrau (T. XII, I, p. 385) fa un accenno alla​​ Histoire de la tradition​​ citando il​​ De officiis ministeriorum​​ di S. Ambrogio, la​​ Regula pastoralis​​ di Gregorio Magno e il​​ De origine ecclesiasticorum officiorum​​ di Isidoro di Siviglia. Il testo che a noi deve più interessare è senza dubbio quello di Gregorio Magno che nei secoli ha esercitato una grande influenza e continua ancora ai nostri giorni. È ormai un classico della pastorale, fecondo per ogni tempo e luogo per l’uomo di ogni età. Ai giovani fa aprire il cuore alla speranza. Gregorio Magno ha uno sguardo molto ampio e avverte i vantaggi che consegue il pastore con la mano ferma ma discreta, e i pericoli che fa correre, invece, il pastore indulgente e permissivo. Per la sua sensibilità antropologica ha la parola adatta per ogni categoria di persone e incide mirabilmente per la chiarezza con cui presenta le situazioni. Per lui ha moglie come se non l’avesse chi vedendo come tutte le cose sono transitorie, tollera per necessità la cura della carne, ma Io spirito attende con tutto il desiderio le gioie eterne​​ (Reg. past.​​ 3,27). Dicendo questo pur non nominandoli fa una specie di​​ praeoccupatio​​ per i giovani non sposati. Nel contempo ammonisce i celibi a non pensare di potersi unire a donne di liberi costumi, senza incorrere nel giudizio di condanna. Infatti Paolo inserisce la fornicazione tra i peccati esecrabili e indica quelli che se ne macchiano: gli adulteri, gli effeminati, e gli omosessuali (1 Cor 6,9-10). La lezione di Gregorio Magno è continua. Se i celibi mal sopportano le tempeste delle tentazioni con pericolo della salvezza, bisogna che cerchino il porto del matrimonio. Meglio sposarsi che ardere dice la Scrittura (Eb 13,4). S. Gregorio vuol prevenire ed è assai probabile che nel suo animo l’avvertimento ai celibi comprenda anche i giovani in genere​​ (Reg. past.​​ 3,27). Non si adatta a tutti una sola specie di esortazione perché sono diversi la natura e il comportamento di ogni persona. Il pastore per edificare della carità deve toccare il cuore con modulazioni e generi diversi (Idem, 3 prol.). Come differisce il modo con cui si ammoniscono gli uomini e le donne, così è diversa l’esortazione per i giovani e i vecchi. Per i giovani è necessaria la severità, per i vecchi invece l’amorevole preghiera (Idem, 3, 1). Ma bisogna che il pastore sia pur nel pensiero, esemplare nell’agire, discreto nel silenzio, utile con la parola; sia vicino a ciascuno con la sua carità e più di tutti sia dedito alla contemplazione. Per il suo zelo nella giustizia sia inflessibile contro i vizi dei peccatori, né attenui la cura della vita interiore per le occupazioni esterne; né tralasci di provvedere alle necessità esteriori per la sollecitudine del bene interiore (Idem, 2, 1). Ma quando la guida delle anime si prepara a parlare deve prendere ogni precauzione; se si lascia trasportare da un parlare non meditato, i cuori degli ascoltatori possono essere coinvolti dall’onda dell’errore. Chi si sforza di parlare sapientemente non confonda l’unità degli ascoltatori (Idem, 2, 4).

Inoltre bisogna che la correzione non sia troppo rigida o la misericordia troppo bonaria. L’una e l’altra vengono meno se si esercitano senza il loro aiuto reciproco. Occorre mescolare la dolcezza con la severità, perché chi ascolta non resti esasperato da troppa asprezza e neppure infiacchito da una eccessiva benevolenza (Idem, 2, 6).

Gregorio Magno avverte pure gli stessi Pastori a non amare il favore degli uomini. Quando l’amor proprio prende la guida delle anime, la trascina o ad una mollezza disordinata o ad aspro rigore. Invece è opportuno che le guide delle anime desiderino piacere agli uomini solo per attirare mediante la stima che esse ispirano con una vita che introduce all’amore del Creatore i cuori degli ascoltatori (Idem, 2, 8).

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PASTORALE GIOVANILE – storia – 1

PASTORALE GIOVANILE – storia – 2

PASTORALE GIOVANILE (storia - 2)

Ottorino Pasquato

 

1. Pastorale sacramentale dei fanciulli

1.1. Battesimo e catechesi

1.2. Confermazione

1.3. Eucaristia

1.4. Penitenza

2. Pastorale familiare

3. Formazione dei giovani alla vita monastica

3.1. Dagli inizi al sec. VI

3.2. Nel sec. VI

3.3. Nei secc. VII-VIII

3.4. Nei secc. IX-X

3.5. Nei secc. XI-XII

4. Formazione dei giovani alla vita clericale

4.1. Ruolo formativo delle scuole presbiterali e episcopali. Tra Chiesa e Stato (fino al sec. X)

4.2. Ruolo formativo delle scuole presbiterali, episcopali e delle università (secc. X-XVI)

5. Formazione cristiana dei giovani alla vita laicale

5.1. Educazione cristiana nella scuola

5.1.1. I giovani laici e le scuole

5.1.2. Scolari e maestri

5.2. Insegnamenti e educazione cristiana

6 Formazione cristiana dei giovani aristocratici

6.1. Presenza di elementi educativi cristiani

6.2. In particolare gli Specchi (Specula)

7. Pastorale d’insieme: adulti e giovani nella comunità cristiana

7.1. Pastorale altomedioevale: tra paganesimo e cristianesimo, tra Stato e Chiesa

7.2. La pastorale medioevale: tra nuovi ordini religiosi e ascesa dei laici

7.3. Liturgia eucaristica

1 A. Ruolo preminente della predicazione. Catechesi in ripresa

7.4.1. Predicazione

7.4.2. Catechesi in ripresa. Prontuari catechistici

7.5. Devozione

7.6. Strategie pastorali. Forme d’inculturazione della fede

7.6.1. Collaborazione tra potere politico e religioso

7.6.2. Evangelizzazione tra costrizione e convinzione

7.6.3. L’uso dell’immagine o «predicazione muta» (scriptura silens)

7.6.4. Dalle feste pagane alle feste cristiane

8. Conclusione

 

È risaputo che il Medioevo ( = M.E.), come l’antichità cristiana, non conosce una pastorale giovanile vera e propria. È possibile però storicamente documentare che la cristianità medioevale si è fatta carico della formazione cristiana del fanciullo e del giovane, sia pur secondo modalità e con spirito propri. In ciò essa si è mossa in continuità con l’antichità cristiana (e classica), non senza sviluppi innovativi.

Stabiliamo anzitutto il significato dei termini «infante», «fanciullo», «adolescente», «giovane», secondo i medioevali. Premettiamo con J. Leclercq​​ (Pédagogie, p. 257) che i termini indicanti le distinte età dell’uomo nelle diverse tappe della sua crescita (ìnfans, puer, adulescens, iuvenis)​​ sono di rado usati con la precisione dei teorici. Di solito si è ammesso che dopo la nascita un fanciullo attraversa​​ infantici, pueritia, adulescentia,​​ così da Agostino passando per Cesario d’Arles, Gregorio M., Beda, Isidoro, Alcuino...:​​ infantia, pueritia, adulescentia, iuventus, gravitas (senectus).​​ Per Isidoro di S. eccone i limiti cronologici:​​ infantìa​​ (1-7 anni),​​ pueritia​​ (714),​​ adulescentia​​ (14-28),​​ iuventus​​ ((28-50),​​ gravitas​​ (50-70),​​ senectus​​ (70-...) (B. McKee Craig,​​ Les enfants,​​ p. 90). A 21 anni l’adolescente, secondo Isidoro, raggiunge​​ l’aetas legitima,​​ ma la possibilità di sposarsi è già a 12 anni per le ragazze e a 15 anni per i ragazzi. I testi monastici, seguendo Benedetto​​ (Regula monast.,​​ c. 33) parlano di​​ puerì​​ fino a 15 anni, poi di​​ adulescentes​​ (P. Riché,​​ Le scuole,​​ p. 208). Per Gregorio M. i​​ parvuli et infantes​​ sono innocenti, ma leggeri e gli adulti sono pieni di vizi: tra queste due età egli situa l’adolescenza aperta al bene come al male. J. Leclercq​​ (ivi,​​ p. 354) riscontra nei testi grande imprecisione di vocabolario circa i limiti cronologici dell’infanzia e dell’adolescenza; egli ritiene che l’infanzia duri a lungo, talora fino a 20 anni e più: pedagogicamente si è​​ iuvenis​​ fino a che si abbisogna d’apprendere. Sono dati da tener presenti per interpretare bene i testi, pur attribuendo ai termini attuali, bambino, fanciullo, adolescente, giovane il significato che oggi hanno. Inoltre, notiamo come gli antichi e i medioevali conoscono la crescita, ma non lo sviluppo del fanciullo e dell’uomo: ignorano la psicologia del bambino, del fanciullo, dell’adolescente e del giovane, che, per loro, sono diversi, per dimensioni, dall’adulto, concependoli però come gli «uomini in piccolo» e ignorando così la psicologia dell’età evolutiva: è l’errore denunciato col termine di​​ adultismo.

In regime di cristianità infine, come quello medioevale, sono determinanti ai fini formativi l’ambiente familiare, sociale ed ecclesiale. I limiti cronologici della nostra trattazione vanno dalla fine del sec. VI all’inizio del sec. XVI. Seguiremo lo sviluppo formativo del fanciullo dalla recezione dei sacramenti dell’iniziazione cristiana fino alla sua maturazione giovanile mediante la pastorale familiare e comunitaria ecclesiale. Tipica formazione è rilevata per i giovani destinati alla vita monastica, clericale, come pure per coloro che frequentano le scuole o ricevono un’educazione aristocratica a parte.

 

1.​​ Pastorale sacramentale dei fanciulli

La prima fase della pastorale è quella riguardante i sacramenti dell’iniziazione cristiana (battesimo, confermazione, eucaristia) e quello della penitenza.

 

1.1. Battesimo e catechesi

Nell’Europa mediterranea e occidentale gli ultimi pagani furono battezzati prima della fine dell’antichità. Insediatisi i barbari in occidente la Chiesa «passò ai barbari», li battezzò: «Poiché ora il nome di Cristo s’afferma con forza ovunque e i figli nascono da padri cristiani, bisogna presentarli senza indugi, affinché ricevano la grazia del battesimo, anche se non parlano ancora» (Giona,​​ De institutione laicali​​ 1,8). Ne sono conferma le aggiunte al rituale gelasiano (tra la 2° metà del VI e la 1° metà del VII sec.), che comportano un rituale «organizzato esclusivamente per i bambini» (P. M. Gy,​​ L’évangelisation,​​ p. 566). Dal VI secolo, non solo a Roma, la Chiesa raccomanda il battesimo dei bambini appena nati; i testi dell’epoca presentano tale prassi come abituale, anche se i genitori ne saranno solo più tardi vincolati​​ (sin.di Cashel,​​ a. 1172). Il battesimo viene conferito nelle parrocchie e in Gallia, contro i canoni, a Natale o alla festa di S. Giovanni o di un altro santo (Gregorio di Tours,​​ Historia​​ 8,9). Il lungo catecumenato non ha più ragione di essere; dalla metà del sec. V al sec. VI esso cessa gradualmente di essere una struttura pastorale efficace per divenire un insieme di riti, sempre più restringentisi nel tempo. Dal sec. VI e lungo tutto il M.E. permangono i nomi (catecumenato, catecumeno), i riti (sia nel battesimo degli adulti, sia in quello dei bambini che finisce per soppiantare il primo), tuttavia si giunge alla scomparsa definitiva della struttura pastorale propria del catecumenato antico. Il M.E. ignora un vero catecumenato, che rinascerà in parte solo nell’epoca moderna in zone di missione. I pastori corrono ai ripari: Cesario di Arles fa precedere ogni battesimo da una sintesi di quelle catechesi battesimali anteriormente in vigore nella quaresima. Si effettuano esorcismi. «Nel quadro della più lunga preparazione al battesimo del periodo pasquale, aveva parte precipua una speciale istruzione destinata prevalentemente ai padrini. Questi s’impegnavano a fornire in seguito al bambino il minimo dei rudimenti della fede (il​​ Credo,​​ il​​ Pater)​​ e a garantirne l’avvio alla virtù» (H. J. Vogt, III, p. 301). Il pedobattesimo viene ribadito alla fine dell’VIII secolo da un capitolare di Carlo M. alla Sassonia, in cui si prescrive che i bambini siano battezzati​​ infra annum,​​ prima del compimento del primo anno di età, anche se non è da escludersi il significato di evangelizzazione forzata​​ nello spazio di un anno (Capitolare departibus Saxoniae,​​ 19, a. 775-790). Si arriverà presto al​​ quamprimum.​​ Il passaggio poi, già avvenuto nel 754 con Pipino, alla liturgia romana, diviene definitivo con Carlo M., che verso il 785-786 si procura a Roma un sacramentario gregoriano, portandolo ad Aquisgrana come modello obbligatorio.

La prassi, instaurata col pedobattesimo già con Cesario, della catechesi, cioè ai genitori, ai padrini e alle madrine continua in età carolingia. Il vescovo di Basilea Aitone afferma: «Bisogna che l’Orazione domenicale,... e il Simbolo degli apostoli... siano appresi da tutti in latino o in lingua volgare, affinché ciascuno creda e comprenda nel suo cuore ciò che confessa con la sua bocca»​​ (MGH​​ =​​ Monumenta Germaniae Historica, Capii. I, p. 363).​​ Gli adulti devono reimparare, se ce n’è bisogno, il​​ Credo​​ e il​​ Pater.​​ Intanto dopo il battesimo la formazione del bambino ha luogo in famiglia, anzi il bambino stesso viene cointeressato, se il conc. di Parigi (829) richiede che egli, raggiunta l’età della ragione, rinnovi le promesse battesimali​​ (can.​​ 54). È il tempo in cui egli dovrà anche iniziare a frequentare la scuola, dove imparerà sia a leggere e sia i rudimenti della fede: «Ciascuno mandi il proprio figlio a imparare le lettere ed egli rimanga nella scuola fino a che non sia bene istruito»​​ (MGH, Capit.​​ I, p. 234). Anzi, qualora i genitori avessero dimenticate le preghiere, egli, ritornato a casa, dovrà insegnarle a loro​​ (conc. di Magonza, can.​​ 45, a. 813). Chi poi non frequenterà la scuola rurale, riceverà la stessa istruzione degli adulti col partecipare alla predicazione, strumento primo d’insegnamento religioso in un contesto di civiltà basata sulla trasmissione orale.

Nei secoli XIII-XIV il battesimo, prima fissato per la Pasqua e la Pentecoste, viene raccomandato subito dopo la nascita, anzi, se possibile, nello stesso giorno. In questo periodo, inoltre, troviamo disposizioni sinodali che impongono al sacerdote di istruire i giovani nell fede e nella morale​​ (sin.di Béziers, Mansi​​ XXIII, p. 693, a. 1246;​​ sin.di Albi, Mansi​​ XXIII, p. 837, a. 1254). Dal tardo M.E. genitori e padrini devono insegnare ai fanciulli l'Ave Maria​​ e i 10 comandamenti. Opere edificanti, come​​ La via del Cielo​​ di Stefano di Landskron (+ 1477) e lo​​ Specchio del cristiano​​ di Teodorico Kolde ( + 1515) aiutano genitori e padrini ad osservare questo dovere.

 

1.2. Confermazione

Fino verso il sec. IX i tre sacramenti dell’iniziazione cristiana vengono conferiti insieme come nella Chiesa antica. Nelle due famiglie di codici liturgici presenti in Italia nel sec. XI battesimo e confermazione sono ancora uniti. Nel sec. XII appaiono i Pontificali romani con la presenza autonoma dei riti del vescovo: qui per la prima volta il rito della confermazione appare separato dal contesto battesimale. Fuori d’Italia, Onorio d’Autun riporta una celebrazione della confermazione otto giorni dopo il battesimo​​ (Operum pars,​​ III,​​ Liturgica,​​ PL 172, 673). A Roma da tempo vengono battezzati solo i nati nella settimana santa, gli altri, battezzati​​ quamprimum,​​ quella notte vengono solo confermati. Dopo il concilio Lateranense IV del 1215 in Italia e in Europa, la confermazione viene impartita dai 4 ai 7 anni. In pratica la varietà di situazioni è grande. Dai richiami dei sinodi e delle costituzioni si deduce l’importanza attribuita alla confermazione, che viene però disattesa, per la lontananza del vescovo. Per S. Bonaventura l’età del conferimento è quella della ragione​​ (Sent.​​ IV, d. VI, a. 3, q.l). Ma S. Tommaso, pur non facendo problema per l’età, propende per l’età infantile per una più degna recezione e per poter offrire anche alla fanciullezza la vita perfetta della grazia​​ (Summ. Theol.​​ Ili, 72,8 ad 2). Di fatto molti confermandi sono​​ pueri,​​ ci sono gli​​ infantes​​ e parecchi​​ adulti.​​ Lo sviluppo indicato giunge alla sua fase decisiva con Innocenzo Vili che adotta nel 1485 come testo ufficiale della chiesa di Roma il pontificale di Guglielmo Durando di Mende ( + 1296) e che sarà imposto a tutta la Chiesa dal concilio di Trento. Il rituale del Durando​​ (De chrismandis in fronte pueris)​​ contiene, tra l’altro, la raccomandazione ai padrini di insegnare ai figliocci il​​ Credo,​​ il​​ Pater​​ e​​ l’Ave Maria.​​ La separazione della confermazione dal battesimo ha favorito l’approfondimento teologico di essa nel suo significato, valore ed effetto peculiare, che è il dono dello Spirito S., colto nel suo valore di forza​​ (robur)​​ in vista della testimonianza.

Le disposizioni del IV concilio Lateranense, inoltre, del 1215 circa l’eucaristia sortiscono pure l’effetto di spostare la confermazione. Le conseguenze in campo pastorale sono positive col favorire una più efficace preparazione al sacramento. Passato il M.E., in cui la formazione cristiana era basata sull’ambiente cristiano, quando si delineerà un nuovo modello di società, sarà necessario organizzare in modo più appropriato la preparazione all’eucaristia e alla confermazione: sarà il periodo posttridentino con i catechismi.

 

1.3. Eucaristia

L’evoluzione a propostito dell’eucaristia è simile a quella della confermazione. Appena battezzato, il bambino viene comunicato almeno sotto la specie del vino; ma poiché alcuni sacerdoti usano, per il solo segno, vino non consacrato, l’uso viene proibito. Questi abusi accelerano la separazione della comunione dal battesimo. Fra il V e il VI secolo si ha una forte riduzione della frequenza all’eucaristia. Il concilio di Agde del 506, can. 18, stabilisce la comunione almeno per Natale, Pasqua e Pentecoste ed esige una rigorosa preparazione alla comunione più frequente. Cesario non osa chiedere la comunione domenicale proprio per la preparazione seria che esige (per es. almeno più giorni di continenza matrimoniale) (serm. 16,2; 19,3; 44,3).​​ Si avverte intanto, sotto il profilo pastorale, l’esigenza che il bambino prenda coscienza del sacramento, almeno in proporzione all’età: l’aspetto soggettivo va prendendo il sopravvento su quello oggettivo. Per comunicarsi si esige un minimo di catechesi sul sacramento. Il concilio Lateranense farà obbligo a tutti di comunicarsi una volta l’anno, dall’età di 12 anni, così pure di confessarsi. Nei secc. XIII-XIV ci si accosterà più di rado alla comunione, riservata alle grandi solennità e in parte al rito di riconciliazione, durante il quale i partiti opposti ricevono ciascuno una parte dell’ostia. Il M.E. non conobbe però un insegnamento specifico per la comunione.

 

1.4. Penitenza

Nelle fonti antiche sono individuabili almeno tre punti di contatto tra i fanciulli e la pratica penitenziale nella Chiesa antica: essi sono legati alla remissione del peccato nel contesto battesimale​​ (poenitentia prima),​​ si distingue, poi, tra quelli che hanno meno di 20 anni e quelli che ne hanno di più e sono sposati (ci si riferisce a penitenze per peccati di bestialità o di omosessualità)​​ (con.di Andra, can. 15, a. 314)\​​ infine, mai imposte ai fanciulli, le esigenze della penitenza canonica sono proibite ai giovani​​ (conc.di Agde, can.​​ 15, a. 506;​​ sin.di Orléans, can.​​ 24, a. 538). Cesario suggerisce al riguardo che nessuno di età inferiore ai 40 prenda parte al rituale. Nell’alto M.E. la prassi penitenziale passa dalla modalità pubblica a modalità privata sotto l’influsso monastico caratterizzato dal consiglio spirituale (Craig B. McKee,​​ Les enfants,​​ pp. 95-96). Il medesimo A., previa analisi di 28 Libri Penitenziali, rileva importanti indicazioni circa i fanciulli e la penitenza. Il fanciullo viene considerato in quanto soggetto (peccatore) e in quanto oggetto (vittima del peccato di un altro, adulto

0 fanciullo più anziano): ne risulta approfondita la dimensione antropologica e teologica di lui nella sua graduale crescita​​ (ivi,​​ p. 96).

1 dati che la critica storica ha ricavato dai Libri Penitenziali ci ragguagliano sul fanciullo come soggetto peccatore e penitente, dal punto di vista cronologico, ma soprattutto il loro interesse s’incentra sul peccato stesso e la pena corrispondente alla natura del peccato e l’età del penitente. Si tace però sulla forma rituale della pedoconfessione (cf R. Kottje e G. Hagele). Gli studiosi rilevano la persistente identità del metodo classificatorio dei peccati e tariffario. Si distinguono i peccati di natura non sessuale da quelli di natura sessuale e questi secondi, concernenti i fanciulli, superano i primi nella proporzione approssimativa da 4 a 1 (cf C. Vogel,​​ Le pécheur et la pénitence au M.A.,​​ Paris 1982, p. 67). Dai testi esaminati dal Kraig risulta che il numero dei canoni aumenta (da 2 a 20) in proporzione diretta al crescere dell’età (dal di sotto dei 10 anni fino quasi a 20). I canoni poi riguardanti la bestialità​​ (cum pecude)​​ e della masturbazione reciproca​​ (se invivem manibus)​​ risultano comportare una codificazione sacramentale configurata nei termini tipici: penitente-peccato-tariffa. È la dimostrazione della prassi sacramentale in riferimento al soggetto-fanciullo.

Quanto alla pena, Avito di Vienne consiglia di lasciar morire senza penitenza dei giovani, privi di​​ culpae capitales,​​ piuttosto che metterli nel pericolo, in caso di guarigione, di non poter mantenere la continenza matrimoniale e di dover quindi essere considerati apostati​​ (Ep. de sub.poen.).

Vincenzo di Ruspe stabilisce con tatto pastorale che la penitenza ricevuta in pericolo di morte obbliga alla castità, solo col consenso dell’altro coniuge; ma anche qui prevale una certa indulgenza. Cesario esorta i giovani lussuriosi ad accostarsi al più presto alla confessione e alla penitenza​​ (serm.​​ 66,1; 56,3; 65,2). Nel sec. XII ci si interroga sul peccato dei bambini e la loro responsabilità. È piuttosto diffusa l’opinione di Abelardo che nega la capacità del fanciullo di distinguere tra bene e male. La posizione è condannata dal conc.di Sens. Una vera svolta giuridica è segnata dal concilio Lateranense IV (can. 21) che ingiunge ad ogni fedele, giunto all’età della discrezione, la confessione sacramentale almeno una volta all’anno al proprio sacerdote e la comunione eucaristica almeno a Pasqua. Salta in aria ufficialmente la tipica triade antica dell’iniziazione cristiana. Il concilio, sotto la spinta dei mutamenti socio-culturali, ristruttura così deliberatamente il procedimento dell’iniziazione cristiana, introducendo come elemento nuovo il sacramento della penitenza da riceversi prima dell’eucaristia, anche se il M.E. non avrebbe conosciuto un’istruzione specifica sulla penitenza. I teologi si sforzano di definire gli​​ anni discretion,​​ ne segue una formulazione canonica; S. Tommaso (+ 1274) approfondisce il rapporto tra fanciulli e eucaristia (Summ. Theol.​​ Ili, q. 80, art. 9, ad 3). Il contributo sarà recepito da Pio X (1910), ripreso da Paolo VI (1973), codificato nel Codice di Diritto Canonico (1983), can. 989.

La diffusa mancanza di istruzione religiosa trova un sussidio nei formulari per l’esame di coscienza e, verso la fine del M.E., nei libretti per la confessione in latino o in volgare. Dal 1410 al 1520 si contano una cinquantina di edizioni di simili libretti: l’invenzione della stampa offre il suo apporto anche alla catechesi sacramentale.

Nei secoli XIV-XV G. Gersone (1363-1429), cancelliere all’Università di Parigi, esercita una profonda e vasta azione in rapporto alla confessione dei fanciulli e giovani. La sua classica operetta​​ Del dovere di attrarre i fanciulli a Gesù (De parvulis ad Christum trahendis)​​ (a cura di L. Locatelli — G. Allegranza, Milano 1945), composto a Lione nei suoi ultimi anni di vita, tratta in due capitoli (III e IV B) della confessione dei fanciulli, che egli classifica come quarto modo, proprio della religione cristiana, di portare i fanciulli a Gesù: «Se ne pensi ciò che si vuole, io per me, nella mia semplicità, giudico che la confessione, purché sia ben fatta, è la via più breve e sicura che dirige verso Gesù Cristo» (III, p. 50). L’abilità del confessore «espelle dal cuore il pestifero veleno» del peccato, a causa di cui il fanciullo «non sa muovere un passo verso Gesù Cristo» (III, pp>. 50-51). Sulla frequenza auspica che i fanciulli facciano «almeno una volta all’anno una buona confessione», ma giudica «necessario che ogni fanciullo possa, una volta almeno, fare ad un confessore prudente una confessione di tutta la sua vita,... con calma e precisione»​​ (ivi,​​ l.c). Da qui un triplice vantaggio: purificazione dei fanciulli che spesso «commettono delle vergognose enormità: colpe che non sanno o non osano dire se non dopo di essere stati istruiti e interrogati seduta stante»; imparano così ciò che devono accusare in confessione e a non nascondere nulla e infine «essi raggiungono nella loro coscienza una pace più soave» (III, p. 53). Nel capo IV B Gersone esorta i fanciulli ad accostarsi con fiducia alla confessione: il confessore, da parte sua non violerà il segreto della confessione; egli desidera però che anche il penitente faccia altrettanto; toglie poi loro il timore di una penitenza troppo austera: «preferisco mandare gli uomini in purgatorio con una penitenza leggera che compiranno volentieri, piuttosto che gettarli all’inferno per una penitenza che non si sentiranno di fare». A conclusione esorta i penitenti ad osservare quattro cose: 1. Con parole o con opere non corrompere mai alcuno; ti basti almeno il dannarti da solo. 2. Se hai corrotto alcuni con consigli o con azioni, presto sforzati di migliorarlo con garbo! 3. La vergogna non ti impedisca di confessarti bene. Manifesta i peccati conosciuti, se no essi ti nuoceranno.

4. Per ringraziare del perdono, per non ricadere, impegnati a osservare qualche pia pratica facile»​​ (ivi,​​ pp. 91-92).