PACE
Giuseppe Mattai
1. Sensibilità nuova per la pace
2. Contesto e tensioni mondiali entro cui oggi si pone il problema della pace
2.1. Contesto
2.2. Tensioni Nord-Sud e Est-Ovest
3. Apporto della riflessione culturale al dibattito sulla pace
3.1. L’apporto conciliare
3.2. L’apporto dei papi
3.3. Apporto delle Conferenze episcopali
3.4. L’apporto dei teologi
3.5. L’apporto dei movimenti di pace
4. Denominatori comuni e punti controversi nell'attuale dibattito dei cattolici sulla pace
5. Scelte giovanili paradigmatiche in ordine alla costruzione di una nuova cultura di pace
5.1. Nonviolenza attiva e obiezione di coscienza
5.2. Natura e motivi fondanti della nonviolenza
5.3. Servizio civile alternativo
5.4. Difesa popolare nonviolenta: utopia o alternativa necessaria?
7. Pace e religioni
1. Sensibilità nuova per la pace
Sembra incontrovertibile il fatto che la pace, oltre ad essere un’aspirazione sempre presente nel mondo umano, emerga oggi come un peculiare «segno del nostro tempo», secondo l’espressione teologica usata dal papa Giovanni XXIII nella sua profetica enciclica Pacem in terris. La pace si viene configurando quale valore fondamentale, crocevia ove si danno appuntamento politica e diritto, etica e religione, possibilità inedita, ignota o non percorribile in altri tempi, possibilità che, se trascurata o perduta, per la prima volta nella storia metterebbe a repentaglio la stessa sopravvivenza del genere umano. Crisi della pace per l’avvento dell’èra nucleare, crisi della giustizia a livello planetario, crisi dell’equilibrio ecologico, crisi di un modello di sviluppo che non risolve ma incrementa disoccupazione e dilacerazioni nel mondo, inducono gente comune e persone qualificate del mondo civile e religioso a preoccuparsi della pace. Una sensibilità e una disponibilità del tutto peculiare nei confronti dell’impegno per la pace attraversa il mondo e le religioni.
Da tale temperie culturale non sono assenti i giovani: al contrario, «la pace cammina con essi», che del movimento pacifista costituiscono l’ala marciante e la punta di diamante. A onta delle diverse concezioni di pace e della relativamente bassa estensione dell’associazionismo finalizzato alla pace (aggirantesi intorno al 35%), tale valore si evidenzia come uno di quelli vincenti ed egemoni nel vissuto giovanile. Occasione pertanto di eccezionale rilevanza offerta agli educatori per svolgere un’azione catalizzatrice anche in ordine alla formazione integrale (etico-sociale e religiosa) dei giovani.
Perché tale funzione educativa si svolga adeguatamente e in sintonia con le aspirazioni profonde del mondo giovanile, sembra urgente aver ben chiaro l’ideale della pace in tutte le sue implicanze e nel suo spessore positivo e il contesto attuale entro il quale la pace va calata e storicizzata.
2. Contesto e tensioni mondiali entro cui oggi si pone il problema della pace
2.1 Contesto
Questo secondo dopoguerra è sorto all’insegna della pace e della speranza che le rinnovate istituzioni internazionali, dopo le deludenti esperienze del primo dopoguerra, avrebbero garantito ai popoli una pacifica convivenza. Gli ultimi quarant’anni, invece, stanno chiudendosi con un bilancio paurosamente negativo di oltre 150 guerre, tra piccole e grandi — alcune delle quali oggi ancora in atto — che hanno causato 25 milioni di morti disseminando sangue, dolore distruzioni e sfiducia reciproca tra le nazioni, comprovata dalla paurosa crescita degli armamenti e dall’instaurazione della deterrenza nucleare.
2.2. Tensioni Nord-Sud e Est-Ovest
Per quanto possano risultare complesse e difficili da decodificare, è importante risalire alle origini dei conflitti armati: sembra agli esperti che le principali contrapposizioni a livello mondiale emergano lungo due assi: Nord-Sud e Est-Ovest. L’asse Nord-Sud rappresenta la più pericolosa tensione esistente nel pianeta, in quanto spacca letteralmente il mondo in due zone profondamente diverse e squilibrate: l’emisfero Nord, con una popolazione di poco superiore al miliardo, ha un prodotto nazionale lordo circa quattro volte superiore a quello dell’emisfero Sud che conta una popolazione di quasi tre miliardi di uomini. Il 90% delle ricchezze della terra vengono consumate al Nord, mentre nel Sud ogni anno muoiono quindici milioni di bambini sotto i cinque anni per denutrizione e malattie infettive e circa un miliardo e mezzo di persone sono malnutriti, malcurati, con scarse prospettive di alfabetizzazione, senza casa e occupazione.
L’attenzione della gente viene dirottata dai mass media verso l’asse Est-Ovest, o in direzione dell’uno o dell’altro conflitto richiamato all’onore della cronaca. In realtà la minaccia più grave alla pace mondiale e la tensione idonea a ingravidare di guerra il ventre della storia è questa tragica spaccatura, frequentemente denunciata dal magistero sociale della Chiesa e che tuttavia, lungi dall’attenuarsi, sembra destinata a dilatarsi a motivo di un modello di sviluppo occidentale che trova alleati endogeni negli stessi paesi sottosviluppati o in via di sviluppo.
La tensione Est-Ovest di carattere ideologico-politico spinge le due superpotenze, con i relativi blocchi di paesi alleati o allineati, a fronteggiarsi in una continua altalena di climi ora freddi ora caldi, ora tempestosi ora concilianti, come sta avvenendo al presente. Le schiarite di orizzonte e le prospettive di disarmo nucleare, maturate nell’ultimo scorcio di tempo, non eliminano profonde divergenze tra i blocchi e ancor troppo debolmente incidono sull’armamento, sia atomico che convenzionale, e sulla militarizzazione delle economie mondiali.
L’arsenale militare di cui oggi il mondo dispone equivale a circa quattro tonnellate di tritolo per ogni abitante del nostro pianeta e assorbe l’astronomica cifra di ben due milioni di dollari al minuto. Per la prima volta nella sua storia l’umanità è in grado di autodistruggersi, attuando così una sorta di genocidio universale o di antigenesi. La logica della difesa armata associata al principio dell’efficienza e del profitto — eretto a supremo e unico criterio dell’economia — hanno trasformato Est e Ovest in culture di guerra e innescato un processo mondiale di militarizzazione che tende a divenire egemone. Inoltre la massimalizzazione del profitto ha messo sotto gli occhi di tutti gli esiti perversi e le conflittualità che ne derivano: occupazione in calo e disoccupazione strutturale, inflazione crescente e difficilmente controllabile, indebitamento progressivo del terzo mondo e disastroso inquinamento ecologico che, forse in modo irreversibile, compromette equilibri vitali nella biosfera. Ma, proprio le novità di tale clima mondiale ha fatto emergere, in maniera inedita, l’esigenza della pace. Poste di fronte, per la prima volta nella storia, alla possibilità non ipotetica né remota della distruzione globale, le persone, per poco coscientizzate che siano, ravvisano nella guerra il volto del «male assoluto», divenendo consapevoli che, attraverso decise e coinvolgenti prese di posizione, riesce possibile imporre alla storia ritmi diversi e passare da una cultura di guerra a una cultura di pace e giustizia.
3. Apporto della riflessione culturale al dibattito sulla pace
Il travaglio contemporaneo, emergente dallo sforzo di approfondimento del concetto di pace e dalla individuazione delle linee strategiche e tattiche del pacifismo, è vasto e intenso: non è facile descriverlo, sia pure sinteticamente, attraversato com’è da profonde diversità ideologiche e divergenze pratiche. Ci limiteremo a segnalare l’apporto della chiesa cattolica a questo dibattito culturale, a partire dalla Gaudium et spes.
3.1. L’apporto conciliare
Il tema della pace attraversa tutta la costituzione GS: proprio a partire da questo insigne documento, la riflessione teologica si sta rendendo conto che il tema della pace non costituisce un semplice capitolo dell’insegnamento sociale della chiesa, ma è la sostanza stessa del vangelo. Il merito della GS consiste nell’aver delineato un ricco abbozzo di teologia della pace rivelatosi via via molto fecondo. Nel n. 77 si parla della «nobilissima pacis ratio», cioè dall’altissimo concetto o ideale di pace che trova il suo referente precipuo nella pace di Cristo. In questa pace sta la fonte della nobiltà di quelle paci vere che
10 sforzo dei credenti cerca di costruire nelle distrette della storia. La pax Christi è oggetto di rivelazione, in quanto fa in Cristo la sua epifania portando a compimento quei profili (teologali, messianici, antropologici, etici ed escatologici) che sono già presenti nello Shalom veterotestamentario. La pace, per queste sue connotazioni essenziali, si identifica con Cristo stesso: si personalizza in lui che realizza quanto era stato annunciato da Isaia relativamente al misterioso «servo di lahvè».
Secondo la GS, la pace terrena autentica non è soltanto icona della pace di Cristo ma ne costituisce anche l’effetto. In quanto figura, però, non giunge mai a realizzare pienamente il suo tipo ideale, ma resta sempre manifestazione incompleta e mutila. La proiezione mondana, interiore e sociale, della pace di Cristo diventa anche il metro per misurare le diverse paci umane e saggiarne l’autenticità. Una pace vera non può intendersi come pace negativa o «semplice assenza di guerra». Nemmeno può ridursi a «stabilizzazione delle forze contrastanti», né essere «effetto di dispotica dominazione» (GS 78). La pace vera e stabile ha da essere, secondo il dettato isaiano ripreso dal testo conciliare, «opera della giustizia» e, alla luce del messaggio evangelico, «frutto della carità».
Poiché giustizia e amore trovano il loro paradigma nell’insegnamento e prassi di Cristo, è facile intuire perché il testo conciliare (GS 78) affermi che l’edificazione della pace costituisce per i credenti e gli uomini di buona volontà un compito incessante e inesauribile: impegno che non ha mai fine né a livello di riflessione né a livello operativo. La GS aggiunge che la costruzione della pace, sia per i singoli che per le comunità organizzate e le istituzioni internazionali, rappresenta un dovere da attualizzare in un’ora di gravissimo pericolo: l’ora nucleare. La pace è nelle mani degli uomini: se mancano all’appuntamento della storia e desistono dall’impegno di difenderla e promuoverla «l’umanità che già si trova in grave pericolo, sarà forse condotta funestamente a quell’ora in cui altra pace non potrà sperimentare se non pace di orribile morte» (GS 82).
Le linee di teologia della pace della GS attingono in modo peculiare alla Pacem in terris di Giovanni XXIII: per quanto concerne gli aspetti etici (legittimità o meno della difesa armata, condanna decisa della guerra «totale» e interdizione assoluta di armi che, per la loro potenza indiscriminatamente distruttiva, eccedono il «principio di proporzionalità» tra offesa e difesa) il documento si rifà, caricandolo di ulteriore autorevolezza, all’insegnamento di Pio XII. Ancora timide le prospettive aperte sulla difesa popolare nonviolenta e la «permissione» dell’obiezione di coscienza.
3.2. L’apporto dei papi
Fino a papa Giovanni, pur avvertendone le angustie, i papi hanno accettato la teoria della giusta guerra, elaborata da Padri e teologi. Poi, a seguito dell’insorgere dell’èra nucleare e delle acquisizioni conciliari (che non parlano più di «guerra giusta» ma solo, in casi estremi, di «legittima difesa») si sono venuti scostando progressivamente dalle antiche prospettive. Paolo VI e l’attuale pontefice hanno ribadito le intuizioni di papa Giovanni che aveva rilevato l’assurdità della guerra in questa nostra età secolare; hanno rimarcato l’impegno etico del disarmo, l’esigenza di una educazione alla pace, e della formazione di una nuova cultura di pace; hanno evidenziato l’apporto dei movimenti di pace, la positività della nonviolenza e, in particolare, dell’obiezione di coscienza al servizio militare (e alla progettazione di armi nucleari da parte degli scienziati); infine, continui sono stati i richiami al rispetto e alla garanzia effettiva dei diritti di tutto l’uomo e di tutti i popoli, come presupposto ineliminabile di una pace stabile e vera.
Accanto a queste istanze che potremmo definire «profetiche», negli ultimi pontefici non mancano però preoccupazioni «realistiche»; l’attuale pontefice, ad esempio, nei messaggi per la pace (del 1982 e 1984) ha affermato che il cristiano non deve mai obliare il diritto-dovere che i popoli hanno di difendere «con mezzi proporzionati» la loro esistenza e la loro libertà contro ingiusti aggressori. La presenza massiccia della violenza nella nostra storia «impone il mantenimento del principio di legittima difesa». Entro questo orizzonte realistico, proprio per difendere la pace e scoraggiare l’eventuale aggressore, Giovanni Paolo II ha fatto concessioni al cosiddetto «equilibrio del terrore» e alla dissuasione nucleare. Purché tale dissuasione non sia concepita come fine in sé stessa (e le armi nucleari non vengano mai poste in atto), ma rappresenti una via sul disarmo progressivo, nelle attuali circostanze, può essere ritenuta temporaneamente come «moralmente non riprovevole» (Messaggio all’ONU del 1982). Circondata da tante clausole, la concessione è più apparente che reale: resta tuttavia una indicazione del punto nodale del dibattito (come difendere cioè la pace da attuali e gravissime aggressioni?) e della difficoltà insita nell’armonizzare profezia e realismo, improponibilità etica della guerra ed esigenza della difesa, nonviolenza attiva e proporzionata difesa dei diritti della comunità.
3.3. Apporto delle Conferenze episcopali
Nel biennio 1983-1984 le principali Conferenze episcopali (a iniziare da quella USA e della Germania Occidentale) hanno emanato importanti, densi e meditati documenti sul tema della pace. Tutti approfondiscono i dati biblici relativi alla pace e dimostrano chiara coscienza della centralità del valore pace nel messaggio evangelico: del pari emerge una sempre più decisa opposizione alla guerra, alle ingiustizie che la fomentano, nonché un positivo apprezzamento per le metodologie non violente e le obiezioni di coscienza. Divergenze, invece, si riscontrano circa il modo di pensare e organizzare oggi la difesa della pace e la promozione dei valori di giustizia e libertà ad essa strettamente collegati. I vescovi americani, nel documento La sfida della pace, dopo una larga ed esemplare consultazione di base, giungono a questa conclusione: il doveroso e urgente alt alla guerra nucleare e convenzionale non esclude, a certe condizioni etiche, difficilissime tuttavia da realizzarsi, la costruzione e il possesso temporaneo di un deterrente nucleare; esso però non deve essere mai usato (né come primo, né come secondo colpo) perché, in ogni caso, anche in quello di un «teatro limitato» di guerra, eccede sempre la misura della legittima difesa e viola il principio di proporzionalità.
Alcune conferenze (e in particolare quella francese) mostrano propensioni verso considerazioni «realistiche», desunte dal diritto naturale alla difesa e da mediazioni culturali socio-politiche. Pensano infatti che la difesa armata da possibili aggressori — in particolare dall’espansionismo egemonico dell’URSS — e la difesa efficace dei popoli oppressi dalle dittature siano pienamente legittime, considerata la scarsa incidenza dell’ONU e la modesta affidabilità della difesa popolare nonviolenta.
Altri episcopati invece, sulla scia del documento americano, fanno prevalere le considerazioni evangeliche e profetiche, accettando come valide le metodologie strategiche e tattiche di una difesa nonviolenta e dimostrandosi contrari al sistema dell’equilibrio e della deterrenza nucleare, che non conducono né al disarmo né a una pace stabile e vera.
3.4. L’apporto dei teologi
Risvegliati — dal magistero dei papi e dai movimenti pacifisti — da un certo «sonno dogmatico» che li aveva indotti a riflettere più sulla giustificazione della guerra che non sulla pace, i teologi hanno dimostrato notevole impegno nella riflessione biblica in merito ai profili dello shalom della prima alleanza e alla eirene neotestamentaria. L’approfondimento del messaggio e della prassi non violenta di Gesù di Nazaret e, in particolare, un’attenta rivisitazione della teologia della croce e del morire di Gesù, in cui la violenza è vinta e si dischiude per il credente la possibilità del perdono assoluto, hanno dato forti apporti all’etica della pace e ai movimenti pacifisti cristianamente ispirati.
Ma, anche a livello di riflessione teologica, emergono alcune divergenze; specie negli ambienti statunitensi non mancano teologici propensi al «fondamentalismo»; ritengono cioè che dalla Scrittura sia legittimo inferire, senza mediazioni esegetico-culturali, norme valide per l’oggi. Altri invece, più correttamente, pur sottolineando il carattere nonviolento dell’insegnamento e della prassi di Gesù, ritengono che non sia giusto ribaltare tutto questo in norme operative per l’oggi, dispensandosi dal travaglio di attente mediazioni culturali e analisi socio-politiche delle situazioni.
3.5. L’apporto dei movimenti di pace
Il cosiddetto «movimento pacifista» è assai complesso e composito: esistono e operano movimenti pacifisti che si ispirano alla cultura radicale (pacifismo non violento assoluto), alla cultura marxista (dove si scontrano «correnti calde» che intendono sviluppare i germi nonviolenti del marxismo e «correnti fredde» che pensano ancor oggi alla violenza bellica come «levatrice della storia»), alla cultura laica che fin dall’illuminismo ha espresso notevoli istanze pacifiste e, infine, alla cultura cristiana presente in vari movimenti, alcuni dei quali confessionali e altri interconfessionali.
All’interno del pacifismo cosiddetto cristiano emergono punti di convergenza: nonviolenza attiva, legittimità dell’obiezione di coscienza, intesa come diritto soggettivo, ripudio delle armi di guerra e della stessa guerra, sia essa nucleare o convenzionale. Ovviamente esistono anche differenze e divergenze notevoli. Alcuni movimenti limitano la loro azione alla «lotta contro le armi»; altri estendono la critica anche al nucleare, cosiddetto «pacifico» (ad es. centrali nucleari) e al modello di sviluppo economico che è fonte di conflitti e della tragica spaccatura Nord-Sud. Alcuni movimenti si fermano alla obiezione al servizio militare, mentre altri sostengono una pluralità di obiezioni (al commercio delle armi, alla produzione di armi da guerra, alle spese militari e all’aborto). Divergenze si riscontrano in merito allo stesso principio della nonviolenza attiva (se sia da intendere cone norma assoluta, senza eccezioni), al disarmo unilaterale e totale, alla possibilità di mettere insieme difesa nonviolenta e «transarmo» (eliminazione graduale delle armi), validità o meno di obiezioni che si configurano come disobbedienza civile.
4. Denominatori comuni e punti controversi nell’attuale dibattito dei cattolici sulla pace
Convergenze e divergenze risultano dalla breve analisi dei principali interlocutori del presente dibattito culturale sulla pace. Sarà utile richiamarle in maniera sintetica. Esiste una notevole convergenza sui seguenti punti.
1. La pace non è soltanto un’aspirazione o, peggio, una moda da seguire, ma un valore di fondo del vangelo da attuare e incarnare nella storia con sforzo incessante.
2. Per la verifica delle paci umane bisogna rifarsi alla «pace di Cristo» che esse sono chiamate a imitare, pur nei loro limiti.
3. Le questioni della pace e della guerra (della difesa) sono da ripensare con «mentalità del tutto nuova» (GS 80) in questa inedita èra nucleare, attraversata da innovazioni tecnologiche prima impensabili, che offrono però anche possibilità inedite di pace.
4. Urge l’educazione alla pace delle nuove generazioni, in modo da creare una «cultura di pace» veramente alternativa alle diffuse culture di guerra, militaristiche e violente. Le divergenze si addensano attorno ad alcuni punti nodali relativi alla legittimità o meno della difesa armata.
Giusta guerra e legittima difesa non si identificano: la «giusta guerra» è una teoria antica ben definita; la «legittima difesa» (armata), di cui parlano il Vaticano II e molti documenti postoconciliari, analogamente a quella individuale, ha luogo solo nel caso di una attuale e ingiusta aggressione non altrimenti superabile. Alcuni pensano che la teoria della giusta guerra non sia stata formalmente condannata dal magistero, ancorché il Vaticano II non parli di «giusta guerra» ma soltanto di legittima difesa, senza ulteriori specificazioni.
La paternità della teoria della giusta guerra viene fatta risalire a sant’Ambrogio e a sant’Agostino: essa è stata perfezionata da san Tommaso e dal teologo spagnolo Vitoria. La guerra sarebbe «giusta» alle seguenti condizioni: 1) dichiarazione da parte della legittima autorità (il che esclude le guerre private); 2) aver tentato tutte le vie pacifiche di composizione dei conflitti (guerra come extrema ratio), 3) appuramento della «giusta causa» (violazione di diritti gravi); 4) proporzionalità tra offesa arrecata e danni che si prevedono nascere dalla guerra; 5) retta intenzione e quindi esclusione dell’odio, dello spirito di vendetta e di azioni immorali nella condotta delle ostilità (allo ius ad bellurn si associa lo ius in bello). Questa teoria si è venuta progressivamente dilatando e laicizzando: praticamente ogni guerra è stata ritenuta giusta da ambe le parti e il giudizio della sua liceità etica è stato lasciato al sovrano, senza possibilità di contestazioni da parte dei sudditi. Nonostante i suoi molteplici limiti, la teoria ha, in passato, almeno in parte assolto la funzione di ridurre i conflitti e mantenere l’uso della forza entro determinati ambiti giuridici. Ma oggi le cose sono profondamente mutate.
Secondo una notevole aliquota di cristiani la teoria della guerra giusta nelle attuali contingenze storiche è da ritenersi del tutto superata. Oggi la guerra tra i popoli, come mezzo di difesa e di instaurazione del diritto violato, appare «eticamente improponibile» perché le condizioni che in altri tempi sembravano legittimarla, sono cadute una dopo l’altra, come le mura di Gerico.
Nell’ipotesi della guerra moderna, anche con armi convenzionali, viene a cadere ogni proporzione tra l’offesa subita o minacciata e le conseguenze belliche, che sfuggono al controllo umano, tendono all’espansione indefinita. Cade la prospettiva del successo, in quanto una guerra moderna è sempre senza vinti e senza vincitori; non rappresenta una extrema ratio, perché altre vie sono percorribili per prevenire i conflitti e risolverli: intese, dialogo, e — al limite, nel caso dell’attuale aggressione — difesa popolare alternativa a quella militare (sulla quale torneremo più avanti).
I progressi che si registrano sia nella concezione che nella pratica della nonviolenza attiva rendono molti cristiani perplessi anche nei confronti della legittima difesa armata, sia per respingere un nemico esterno che per contrastare una dittatura tirannica interna. Non pochi, però, pensano che il diritto a una legittima difesa anche armata, solo nel caso di attuali ingiuste e gravissime aggressioni, non possa essere contestato. La chiesa nel suo magistero, senza negare la precedente dottrina dimostra maggiore cautela (cf il secondo documento sulla liberazione).
Per contro non pochi cristiani continuano a pensare e ad agire con mentalità ormai superate e appoggiano pragmatismi politici di corto respiro. Dal momento che, senza armi, nucleari o convenzionali che siano, sembrano sentirsi ignudi, attribuiscono poteri miracolistici alla deterrenza nucleare e, in pratica, misconoscono l’apporto di riflessione e di prassi proveniente dal movimento della pace, dagli obiettori di coscienza e dal volontariato. Le prese di posizione contrarie al pacifismo espresse dalla rivista Esprit e dal suo direttore Paul Thibaut sono rivelative delle difficoltà che non pochi cristiani incontrano ad accettare le prospettive della nonviolenza e l’esclusione della difesa armata. Sembra ad essi che il pacifismo comporti una abdicazione della ragione che non può rinunciare all’esigenza della difesa la quale, per essere efficace e decisiva, non può escludere nemmeno l’uso del nucleare; e una abdicazione della morale, che impone una strategia di promozione della libertà e della democrazia in Europa e, quindi, interventi attivi e solidarietà operante con i popoli oppressi dell’Est. Nella permanenza di tale mentalità influiscono in Francia la «Nuova destra» e pubblicazioni come quella di André Glucksmann (La forza della vertigine, Longanesi, Milano 1984) che nel pacifismo in cui domina l’aforisma «meglio rossi che morti» ravvisa una forma di nichilismo che, pur di sopravvivere, abdica a tutti i valori.
Per superare queste mentalità, tributarie alla cultura di guerra e ignare delle possibilità aperte dalle strategie nonviolente in tema di difesa, sarebbero opportune prese di posizione non equivocabili da parte dell’episcopato che talvolta mancano — come fino ad oggi è avvenuto in Italia — oppure lasciano adito a pseudorealismi pragmatici: molti cristiani infatti correttamente pensano che l’unico realismo oggi sia l’utopia evangelica della pace e della nonviolenza.
L’insegnamento magisteriale in tema di pace e di difesa, forse, riuscirebbe più incisivo sulla formazione delle coscienze, se affrontasse con maggiore rigore dottrinale anche la questione dei cappellani militari: da più parti infatti viene segnalata la contraddizione esistente tra la logica del rifiuto etico della guerra, che sfocia nell’obiezione di coscienza e nella prospettiva della difesa popolare alternativa, e la logica della presenza militarizzata dei cappellani negli eserciti. Mentre una presenza evangelizzatrice tra coloro che optano per il servizio militare è fuori discussione (come nelle carceri e negli ospedali), non altrettanto può dirsi di una presenza «con stellette», contrassegnata dall’appartenenza all’esercito che non può non avallare la sua natura di macchina che organizza e prepara una difesa armata con armi «adeguate». Infine, nonostante il cammino percorso dai cristiani in tema di obiezioni di coscienza a partire dalla timida posizione permissiva della GS, si rileva che le comunità parrocchiali, abbastanza propense ad accettare il carattere «deontologico» della norma che impone l’obiezione di coscienza al medico e agli operatori sanitari cattolici in campo abortivo, dimostrano perplessità e ritardi nel riconoscere il valore delle altre obiezioni di coscienza. Giustamente perciò viene auspicata una revisione dei catechismi perché nella dinamica di educazione alla fede siano meglio indicati ai credenti i risvolti positivi di testimonianza etico-profetica di tali forme di dissenso che un’aliquota consistente di giovani invece apprezza e vive.
5. Scelte giovanili paradigmatiche in ordine alla costruzione di una nuova cultura di pace
Al cambiamento della mentalità nel nostro Paese che, avendo alle spalle Machiavelli, appare piuttosto incline al realismo pragmatico e pronto a diffidare dei «profeti disarmati che sempre ruinorno», hanno dato e danno un contributo valido molte organizzazioni giovanili, confessionali o meno, e talune istituzioni come la Caritas che hanno assunto e sponsorizzato gli obiettori di coscienza al servizio militare.
All’azione della Caritas congiungono la loro originale ispirazione pacifista molte associazioni ecclesiali caratterizzate da un forte apporto giovanile: Azione Cattolica, FUCI, MEIC (già Laureati cattolici), AGESCI, ACLI e Gioventù Aclista, Mani Tese, Iustitia et Pax, Pax Christi, le Organizzazioni di volontariato cristiano federate nella FOCSIV e altre organizzazioni e movimenti interconfessionali, come il MIR e il Centro interconfessionale per la pace.
All’interno di questo complesso e vivo associazionismo nel quale confluisce oltre il 30% dell’arcipelago giovanile, vengono configurandosi con sempre maggiore chiarezza e forza alcune scelte giovanili che meritano attenta illustrazione: l’obiezione di coscienza al servizio militare, il servizio civile alternativo e la prospettiva della difesa popolare nonviolenta.
5.1. Nonviolenza attiva e obiezione di coscienza
Tra i giovani che militano nelle ricordate associazioni e movimenti si è venuta affermando una temperie culturale di ispirazione nonviolenta, entro la quale matura la scelta dell’obiezione al servizio militare (e anche quella professionale alla produzione e al commercio di armi) e la correlativa accettazione del servizio civile alternativo.
Dopo i tempi eroici, in cui l’obiettore di coscienza pagava con il carcere il proprio rifiuto di partecipare all’esercito, a partire dal 1972 con la legge 772 il cittadino italiano chiamato alla leva può optare, a certe condizioni (invero piuttosto onerose) e passando al vaglio di una (discutibile) commissione composita, per il servizio civile alternativo al servizio militare.
Un numero crescente di giovani — circa 20.000 oggi in lieve calo, anche a motivo di «circolari inquinanti» che hanno reso difficoltosa l’opzione giovanile alternativa e screditata la figura dell’obiettore — ha seguito le indicazioni della legge e accettato la sponsorizzazione di enti, e in primo luogo della Caritas, per svolgere in sintonia con le proprie propensioni e specifica preparazione un servizio civile, non sostitutivo, ma veramente alternativo nel cuore dell’emarginazione contemporanea.
5.2. Natura e motivi fondanti della nonviolenza
La nonviolenza non è soltanto una tattica per superare senza o con lievi spargimenti di sangue i conflitti: rappresenta uno stile di vita e un atteggiamento globale delle persone verso la realtà circostante: profondamente radicata nell’anima umana («antica come le montagne» diceva Gandhi) è presente in molte religioni. Trova infatti il suo fondamento nel Dio dell’amore e nel convincimento che l’uomo, ogni uomo, ci presenta il volto — ancorché sfigurato — di Dio. Essere nonviolenti significa prendere le mosse da una grande fede nel Dio dell’amore e, su questa base, da un pari amore nei confronti di ogni essere umano: la non violenza quindi muove da una concezione antropologica che non fa leva sull’homo homini lupus (l’uomo è un lupo per l’altro uomo) e nemmeno sull’homo homini Deus (l’uomo è un Dio per l’altro uomo) che suppone un possesso integrista della verità, ma dall 'homo homini amicus, da un senso profondo di amicizia e di empatia per l’altro, nello sforzo di creare un clima di dialogo e di cammino insieme per avvicinarsi alla verità. Il concetto gandhiano di nonviolenza (Satyagraha) coincide con quello di «forza della verità». Altri in America Latina, per evitare una interpretazione negativa e passiva della nonviolenza, fanno uso del termine «mitezza forte».
La nonviolenza infatti è attiva: non chiude gli occhi di fronte alle ingiustizie, ai soprusi, ai conflitti, ma tenta di superarli con atteggiamenti che, attraverso il dialogo, il chiarimento, il colloquio, inducono l’avversario a mutare condotta. La nonviolenza, con la sua logica opposta all’odio, alla ritorsione, alla legge del taglione, «spiazza» l’aggressore. Il messaggio evangelico e la prassi di Gesù (seguita dalla chiesa dei primi secoli) offrono alla nonviolenza attiva un volto e motivazioni profondamente cristiane, che consentono di prendere le distanze da pacifismi passivi e radicali, e di confutare le assurde accuse di nichilismo rivolte da qualcuno ad ogni forma di pacifismo.
5.3. Servizio civile alternativo
Da questa nonviolenza attiva, che per una certa aliquota di giovani prescinde dai motivi cristiani e tende a configurarsi come strategia più efficace della ritorsione violenta e armata emerge l’obiezione al servizio militare. Da disobbedienza civile penalmente perseguita è divenuta prassi legalizzata. Il NO all’esercito e alla guerra si disposa al SÌ al servizio civile, come prima notavamo. C’è da rilevare, a questo punto, che taluni giovani — come quelli che appartengono ai Testimoni di Geova o ad organizzazioni anarchiche — rifiutano in toto lo stato, in cui ravvisano l’incarnazione del male e della violenza oppressiva, e quindi non accettano nessuna forma di servizio alternativo.
Il giovane obiettore cristiano, invece, non demonizza la comunità politica, pur essendo ben cosciente delle degenerazioni del potere politico e impegnandosi — anche al di fuori di una precisa militanza politico-partitica — per la sua reale e non solo formale democratizzazione.
Del pari questi giovani rivelano notevole capacità di autogestire il proprio servizio civile, talora anche con forme di «autodistaccamento», per indurre le autorità competenti a superare le more burocratiche, a osservare e migliorare dispositivi di legge. Anche della 772 auspicano una sollecita e rapida correzione.
Già il «no» all’esercito e alla guerra, inserito nel rifiuto della violenza e della vecchia «ideologia del nemico», rivela ai giovani il senso della vera obbedienza (che si oppone alla coscienza succube) e il profondo significato e la valenza cristiana della disobbedienza creativa, di un dissenso che nasce da una coscienza autonoma, che sa anche dissentire da dispositivi di legge o istituzioni opposte a quei valori di fondo (e in primis al valore non oggettivabile o strumentalizzabile) della vita umana.
La pratica sincera e ben motivata (potremmo dire per i cristiani «sempre evangelizzata») dell’obiezione di coscienza porta quindi ad approfondire la nonviolenza evangelica, il valore della coscienza e di un servizio civile che può divenire virus, positivo e salutarmente contagiante, di un volontariato senza angustie di limiti spazio-temporali, di sesso o di età.
5.4. Difesa popolare nonviolenta: utopia o alternativa necessaria?
Abbiamo già avuto modo di constatare, nei paragrafi precedenti, come il tema della difesa della comunità costituisca un punto nodale che torna continuamente al pettine della critica rivolta al movimento pacifista. Anche tra gli obiettori di coscienza non tutti dimostrano di aver compreso l’urgenza etica di superare la difesa armata, anche nel caso di aggressione esterna, e la praticabilità effettiva (e non utopistica) di forme difensive alternative a quelle militari.
Del pari comunità cristiane e pastori, in numero ancora notevole, ritengono che il «dovere sacro» della difesa della patria in pericolo non si possa adempiere al di fuori del quadro della «legittima difesa armata». Penso di fare cosa utile riproponendo alcune mie considerazioni maturate all’interno di un forum teologico-morale (cf «Rivista di Teologia Morale» 1987, n. 73, pp. 33-34) che sintetizzo.
1. La difesa non concerne tanto la materialità del territorio e i confini di un Paese — che oltretutto oggi, con o senza scudi stellari appaiono indifendibili dai missili e dalle micidiali nubi radioattive che li attraversano — quanto il «vivere» della gente, la sua sopravvivenza e i valori essenziali di cultura, di libertà e civiltà che qualificano un popolo. Urge superare l’ideologia del nemico e la tendenza ancora diffusa al capro espiatorio per giungere a identificare quali siano i veri nemici della pace: egoismo e ingiustizie strutturali, ideologie ostinate e volontà di potenza, meccanismi oppressivi ed emarginazioni...
2. Una difesa rivolta contro tali nemici rappresenta una esigenza etica: l’amore evangelico del nemico non disimpegna certo dal dovere morale di contrastare il male, l’ingiustizia, le aggressioni e le forze che mirano ad annientare la vita e i valori che la rendono «umana».
3. Una volta persuasi che oggi la guerra tra i popoli non è più percorribile, perché decisamente immorale, rimane aperto il problema se una «difesa armata» con armi convenzionali, bandendo ogni arma «indiscriminatamente distruttiva», sia lecita, per contrastare una attuale aggressione esterna.
Con altri teologi (tra cui B. Haering) ritengo che il giudizio di liceità etica, che non pochi avanzano, trascuri alcuni fatti che mi paiono indurre a una diversa valutazione: la «legittima difesa» costringe a tenere in piedi l’esercito e la produzione di armi, puntando sempre verso quelle più efficaci e distruttive; provoca «bagni di sangue» e coinvolge in qualità di vittima l’intera popolazione; trascura le reali possibilità strategiche e tattiche di una difesa popolare nonviolenta. Questa non uccide (e quindi non disattende la radicalità etica dell’evangelo), non si fonda sull’odio del nemico da sterminare, scoraggia l’eventuale aggressore il quale sa bene che, senza un qualche appoggio della popolazione, non potrà reggere a lungo: il prevedere continui boicottaggi, disobbedienze civili, governi alternativi, resistenze nonviolente lo indurranno a desistere dall’attacco. L’illiceità, nelle presenti situazioni mondiali, di una difesa o resistenza armata viene prospettata anche nel secondo documento sulla teologia della liberazione che evidenzia le inedite possibilità pratiche della resistenza «passiva» (nel senso di nonviolenta-attiva).
4. Una difesa di questo genere non si esercita soltanto in caso di emergenza estrema, ma costituisce un impegno costante, ogni qual volta siano in pericolo valori e beni, eticamente validi e significativi, che motivano una difesa sociale.
5. La difesa popolare nonviolenta non abbisogna di eserciti di professionisti, ma coinvolge tutta la popolazione. Questa però ha da essere debitamente preparata. Di qui la necessità che un tal tipo di difesa sia anche finanziata: gli obiettori alle spese militari hanno deciso, sia pure con qualche resistenza e dissenso, di devolvere l’aliquota non pagata al fisco appunto al finanziamento della difesa popolare alternativa.
Solo se preparata e interiorizzata, la difesa popolare potrà dispiegare la sua forza liberante e solidaristica, aprire alla fratellanza universale, rompere cristallizzazioni ideologiche, stimolare alla difesa non di zolle di terra, ma dei valori che danno senso al nostro vivere e convivere.
6. Educazione alla pace
Trattasi di un’urgenza oggi sempre più chiaramente avvertita. Le indicazioni magisteriali, l’attuale riflessione teologica e le spinte provenienti dai movimenti di pace e da coloro che coerentemente sanno testimoniarla, sollecitano a una originale e profonda impostazione di un’azione educativa delle coscienze, giovanili e no, alla pace.
La letteratura in proposito è andata via via arricchendosi in questi ultimi anni: la riassumo nei punti seguenti.
1. Riflessione teologica e laica stimolano a un’azione educativa alla pace che sia consapevole dell’unità delta famiglia umana e di un bene comune planetario che oltrepassa interessi nazionalistici e corporativi, nonché l’ottica ristretta dello stato «sovrano».
2. L’educazione deve mirare alla pace grande e positiva che parte dalla pace interiore per giungere alla pace sociale: questa non può identificarsi nella pura assenza di conflitti: anzi, l’educatore ha il difficile compito d’insegnare come la conflittualità si deve assumere e superare. Nemmeno la pace è riducibile al concetto negativo di non-guerra, prescindendo dalle matrici potenziali di violenza armata che la preparano e alimentano.
3. Educare alla pace significa perciò educare alla giustizia distributiva e sociale, intesa nella sua più larga accezione e in parallelo con l’educazione all’amore. Liberazione quindi delle coscienze e delle persone da «stati di cose oppressivi» e da condizionamenti egoistici e corporativi. Educazione al rispetto effettivo dei diritti di tutto l’uomo e di tutti i popoli nel quadro di un orizzonte sincronico (attuali abitanti del pianeta) e diacronico (gli uomini di oggi e di domani).
Un’educazione del genere assume il carattere «terzomondista» e induce a dare concretezza operativa al motto «contro la fame cambia la vita».
4. Educare alla vera pace «figura ed effetto della pace di Cristo» significa educare alla riconciliazione plenaria: con sé stessi, con gli altri, con la natura (educazione quindi al rispetto dell’ambiente e degli equilibri ecologici per l’uomo di oggi e di domani) e con Dio: tale complesso impegno educativo porta a una tensione liberatrice egualmente «plenaria».
5. Educare alla pace significa educare al dialogo, all’accettazione e comprensione delle «ragioni dell’altro»: senza falsi irenismi e senza cedere a subdole strumentalizzazioni, l’uomo di pace entra in comunicazione con gli altri (perché educato a vivere con e per gli altri), sa percepirne le esigenze profonde, ne accoglie gli stimoli validi, buoni o riducibili al bene. L’educazione al dialogo postula che non ci si chiuda in oltranzismi integristi, sia individuali che di gruppo, quali è dato riscontrare in chi si sente possessore assoluto e pieno della verità (anche religiosa) e delle vie percorribili per realizzarla nell’oggi.
6. Educare alla pace, infine, comporta il grande impegno — molto arduo all’interno di culture ancora violente e bellicose — dell’educazione alla non violenza attiva e alla disobbedienza creativa, consapevole del valore primario della coscienza soggettiva, aperta al riconoscimento dei valori etico-religiosi e, in primis, del valore della vita umana, spesso conculcato a molti livelli da una cultura come la nostra che pure dimostra preoccupazione viva in ordine alla «qualità della vita».
7. Pace e religioni
I credenti delle varie religioni — e anzitutto quelli delle grandi religioni monoteistiche — dimostrano anche in questo ultimo scorcio di tempo consapevolezza che per il raggiungimento e la promozione della pace è necessario e urgente dischiudersi in forma unitaria ed ecumenica a impegni comuni di preghiera, di riflessione e di azione. L’incontro di Assisi (1987) precedendone altri, ha dimostrato che la diversità religiosa — lungi dal portare a dolorosi e sanguinosi conflitti — non impedisce una preghiera unanime per la pace concepita come dono di Dio e sforzo umano.
Altri incontri sul piano dello studio hanno evidenziato convergenze molto significative delle diverse religioni nella tensione verso la pace, la giustizia e il rispetto della natura (cf Aa. Vv., Religioni per la pace, ASAL, Roma 1987).
Già nel 1934 Dietrich Bonhoeffer aveva invocato un «grande concilio ecumenico» per annunciare l’evangelo della pace. Allora la sua parola profetica non trovò ascolto, ma cinquant’anni più tardi, nel 1983, la conferenza mondiale del Consiglio Ecumenico delle Chiese, a Vancouver, decise di convocare per il 1990 una Assise mondiale per la giustizia, la pace e la salvaguardia della creazione. A tale assise tutte le Chiese sono state invitate.
Il fisico C.F. von Weizsàcher (nel volume Il tempo stringe, Queriniana, Brescia 1987, p. 126) sostiene che, per la prima volta dopo 1700 anni, un’assise mondiale dei cristiani ha grandi occasioni positive di realizzazione: non solo in ordine a una teologia della pace, comune a tutti i cristiani, ma anche per assumere chiara coscienza della necessità di superare l’istituzione politica della guerra e di collegare pace giustizia e libertà, pace tra gli uomini e pace con la natura.
Bibliografia
Annus pacis: de format ione ad pacem fovendam, in «Seminarium» 1986, n. 2 (gli articoli sono tutti in italiano — tranne uno in lingua inglese — e concernono l'educazione alla pace).
Bianchi G. - Diodato R., Per una educazione alla pace, Piemme, Casale 1987 (con ampio repertorio bibliografico); Come e perché la pace in un mondo di peccato, Ed. Dehoniane, Bologna 1984; Comunità cristiane per una cultura di pace, a cura di «Pax Christi», Queriniana, Brescia 1983; Il contributo culturale dei cattolici al problema della pace nel secolo XX (con antologia di scritti sulla pace) Massimo, Milano 1986; Drago A. - Mattai G., L’obiezione fiscale alle spese militari, Quale pace? Quale difesa?, Ed. Gruppo Abele, Torino 1986; Haering B., Nuove armi per la pace. Ciò che i cristiani oggi possono fare, Ed. Paoline, Roma 1984; Mattai G., Pace, guerra, difesa nonviolenta, in «Aggiornamenti Sociali», 1 (gennaio 1983) 7-22; Id., I cristiani e la pace tra compromesso e profezia, in Cavagna A. - Mattai G., Il disarmo e la pace. Documenti del magistero. Riflessioni teologiche. Problemi attuali, Ed. Dehoniane, Bologna 1982; Id., Sulla pace, D’Auria ed., Napoli 1984; Milanesi G. (a cura di), I giovani e la pace, LAS, Roma 1986; Mion R., Per un futuro di pace. Presupposti empirico-sociologici per un modello di educazione alla pace, LAS, Roma 1986; Roveda P., Per educare alla pace, Vita e Pensiero, Milano 1982; Toschi M., Pace e Vangelo. La tradizione cristiana di fronte alla guerra, Queriniana, Brescia 1980; Trentin G., Per un’etica della pace. Magistero dei vescovi e prassi della Chiesa nell’era nucleare, Gregoriana ed., Padova 1985; Voegtle A., La pace. Le fonti del Nuovo Testamento, Morcelliana, Brescia 1984.