PACE

PACE

Giuseppe Mattai

 

1. Sensibilità nuova per la pace

2. Contesto e tensioni mondiali entro cui oggi si pone il problema della pace

2.1. Contesto

2.2. Tensioni Nord-Sud e Est-Ovest

3. Apporto della riflessione culturale al dibattito sulla pace

3.1. L’apporto conciliare

3.2. L’apporto dei papi

3.3. Apporto delle Conferenze episcopali

3.4. L’apporto dei teologi

3.5. L’apporto dei movimenti di pace

4. Denominatori comuni e punti controversi nell'attuale dibattito dei cattolici sulla pace

5. Scelte giovanili paradigmatiche in ordine alla costruzione di una nuova cultura di pace

5.1. Nonviolenza attiva e obiezione di coscienza

5.2. Natura e motivi fondanti della nonviolenza

5.3. Servizio civile alternativo

5.4. Difesa popolare nonviolenta: utopia o alternativa necessaria?

6. Educazione alla pace

7. Pace e religioni

 

1.​​ Sensibilità nuova per la pace

Sembra incontrovertibile il fatto che la pace, oltre ad essere un’aspirazione sempre presente nel mondo umano, emerga oggi come un peculiare «segno del nostro tempo», secondo l’espressione teologica usata dal papa Giovanni XXIII nella sua profetica enciclica​​ Pacem in terris.​​ La pace si viene configurando quale valore fondamentale, crocevia ove si danno appuntamento politica e diritto, etica e religione, possibilità inedita, ignota o non percorribile in altri tempi, possibilità che, se trascurata o perduta, per la prima volta nella storia metterebbe a repentaglio la stessa sopravvivenza del genere umano. Crisi della pace per l’avvento dell’èra nucleare, crisi della giustizia a livello planetario, crisi dell’equilibrio ecologico, crisi di un modello di sviluppo che non risolve ma incrementa disoccupazione e dilacerazioni nel mondo, inducono gente comune e persone qualificate del mondo civile e religioso a preoccuparsi della pace. Una sensibilità e una disponibilità del tutto peculiare nei confronti dell’impegno per la pace attraversa il mondo e le religioni.

Da tale temperie culturale non sono assenti i giovani: al contrario, «la pace cammina con essi», che del movimento pacifista costituiscono l’ala marciante e la punta di diamante. A onta delle diverse concezioni di pace e della relativamente bassa estensione dell’associazionismo finalizzato alla pace (aggirantesi intorno al 35%), tale valore si evidenzia come uno di quelli vincenti ed egemoni nel vissuto giovanile. Occasione pertanto di eccezionale rilevanza offerta agli educatori per svolgere un’azione catalizzatrice anche in ordine alla formazione integrale (etico-sociale e religiosa) dei giovani.

Perché tale funzione educativa si svolga adeguatamente e in sintonia con le aspirazioni profonde del mondo giovanile, sembra urgente aver ben chiaro l’ideale della pace in tutte le sue implicanze e nel suo spessore positivo e il contesto attuale entro il quale la pace va calata e storicizzata.

 

2. Contesto e tensioni mondiali entro cui oggi si pone il problema della pace

 

2.1 Contesto

Questo secondo dopoguerra è sorto all’insegna della pace e della speranza che le rinnovate istituzioni internazionali, dopo le deludenti esperienze del primo dopoguerra, avrebbero garantito ai popoli una pacifica convivenza. Gli ultimi quarant’anni, invece, stanno chiudendosi con un bilancio paurosamente negativo di oltre 150 guerre, tra piccole e grandi — alcune delle quali oggi ancora in atto — che hanno causato 25 milioni di morti disseminando sangue, dolore distruzioni e sfiducia reciproca tra le nazioni, comprovata dalla paurosa crescita degli armamenti e dall’instaurazione della deterrenza nucleare.

 

2.2. Tensioni Nord-Sud e Est-Ovest

Per quanto possano risultare complesse e difficili da decodificare, è importante risalire alle origini dei conflitti armati: sembra agli esperti che le principali contrapposizioni a livello mondiale emergano lungo due assi: Nord-Sud e Est-Ovest. L’asse Nord-Sud rappresenta la più pericolosa tensione esistente nel pianeta, in quanto spacca letteralmente il mondo in due zone profondamente diverse e squilibrate: l’emisfero Nord, con una popolazione di poco superiore al miliardo, ha un prodotto nazionale lordo circa quattro volte superiore a quello dell’emisfero Sud che conta una popolazione di quasi tre miliardi di uomini. Il 90% delle ricchezze della terra vengono consumate al Nord, mentre nel Sud ogni anno muoiono quindici milioni di bambini sotto i cinque anni per denutrizione e malattie infettive e circa un miliardo e mezzo di persone sono malnutriti, malcurati, con scarse prospettive di alfabetizzazione, senza casa e occupazione.

L’attenzione della gente viene dirottata dai mass media verso l’asse Est-Ovest, o in direzione dell’uno o dell’altro conflitto richiamato all’onore della cronaca. In realtà la minaccia più grave alla pace mondiale e la tensione idonea a ingravidare di guerra il ventre della storia è questa tragica spaccatura, frequentemente denunciata dal magistero sociale della Chiesa e che tuttavia, lungi dall’attenuarsi, sembra destinata a dilatarsi a motivo di un modello di sviluppo occidentale che trova alleati endogeni negli stessi paesi sottosviluppati o in via di sviluppo.

La tensione Est-Ovest di carattere ideologico-politico spinge le due superpotenze, con i relativi blocchi di paesi alleati o allineati, a fronteggiarsi in una continua altalena di climi ora freddi ora caldi, ora tempestosi ora concilianti, come sta avvenendo al presente. Le schiarite di orizzonte e le prospettive di disarmo nucleare, maturate nell’ultimo scorcio di tempo, non eliminano profonde divergenze tra i blocchi e ancor troppo debolmente incidono sull’armamento, sia atomico che convenzionale, e sulla militarizzazione delle economie mondiali.

L’arsenale militare di cui oggi il mondo dispone equivale a circa quattro tonnellate di tritolo per ogni abitante del nostro pianeta e assorbe l’astronomica cifra di ben due milioni di dollari al minuto. Per la prima volta nella sua storia l’umanità è in grado di autodistruggersi, attuando così una sorta di​​ genocidio universale​​ o di​​ antigenesi.​​ La logica della difesa armata associata al principio dell’efficienza e del profitto — eretto a supremo e unico criterio dell’economia — hanno trasformato Est e Ovest in culture di guerra e innescato un processo mondiale di militarizzazione che tende a divenire egemone. Inoltre la massimalizzazione del profitto ha messo sotto gli occhi di tutti gli esiti perversi e le conflittualità che ne derivano: occupazione in calo e disoccupazione strutturale, inflazione crescente e difficilmente controllabile, indebitamento progressivo del terzo mondo e disastroso inquinamento ecologico che, forse in modo irreversibile, compromette equilibri vitali nella biosfera. Ma, proprio le novità di tale clima mondiale ha fatto emergere, in maniera inedita, l’esigenza della pace. Poste di fronte, per la prima volta nella storia, alla possibilità non ipotetica né remota della distruzione globale, le persone, per poco coscientizzate che siano, ravvisano nella guerra il volto del «male assoluto», divenendo consapevoli che, attraverso decise e coinvolgenti prese di posizione, riesce possibile imporre alla storia ritmi diversi e passare da una cultura di guerra a una cultura di pace e giustizia.

 

3. Apporto della riflessione culturale al dibattito sulla pace

Il travaglio contemporaneo, emergente dallo sforzo di approfondimento del concetto di pace e dalla individuazione delle linee strategiche e tattiche del pacifismo, è vasto e intenso: non è facile descriverlo, sia pure sinteticamente, attraversato com’è da profonde diversità ideologiche e divergenze pratiche. Ci limiteremo a segnalare l’apporto della chiesa cattolica a questo dibattito culturale, a partire dalla​​ Gaudium et spes.

 

3.1. L’apporto conciliare

Il tema della pace attraversa tutta la costituzione GS: proprio a partire da questo insigne documento, la riflessione teologica si sta rendendo conto che il tema della pace non costituisce un semplice capitolo dell’insegnamento sociale della chiesa, ma è la sostanza stessa del vangelo. Il merito della GS consiste nell’aver delineato un ricco abbozzo di teologia della pace rivelatosi via via molto fecondo. Nel n. 77 si parla della «nobilissima pacis ratio», cioè dall’altissimo concetto o ideale di pace che trova il suo referente precipuo nella pace di Cristo. In questa pace sta la fonte della nobiltà di quelle paci vere che

10 sforzo dei credenti cerca di costruire nelle distrette della storia. La​​ pax Christi​​ è oggetto di rivelazione, in quanto fa in Cristo la sua epifania portando a compimento quei profili (teologali, messianici, antropologici, etici ed escatologici) che sono già presenti nello​​ Shalom​​ veterotestamentario. La pace, per queste sue connotazioni essenziali, si identifica con Cristo stesso: si personalizza in lui che realizza quanto era stato annunciato da Isaia relativamente al misterioso «servo di lahvè».

Secondo la GS, la pace terrena autentica non è soltanto icona della pace di Cristo ma ne costituisce anche l’effetto. In quanto figura, però, non giunge mai a realizzare pienamente il suo tipo ideale, ma resta sempre manifestazione incompleta e mutila. La proiezione mondana, interiore e sociale, della pace di Cristo diventa anche il metro per misurare le diverse paci umane e saggiarne l’autenticità. Una pace vera non può intendersi come pace negativa o «semplice assenza di guerra». Nemmeno può ridursi a «stabilizzazione delle forze contrastanti», né essere «effetto di dispotica dominazione» (GS 78). La pace vera e stabile ha da essere, secondo il dettato isaiano ripreso dal testo conciliare, «opera della giustizia» e, alla luce del messaggio evangelico, «frutto della carità».

Poiché giustizia e amore trovano il loro paradigma nell’insegnamento e prassi di Cristo, è facile intuire perché il testo conciliare (GS 78) affermi che l’edificazione della pace costituisce per i credenti e gli uomini di buona volontà un compito incessante e inesauribile: impegno che non ha mai fine né a livello di riflessione né a livello operativo. La GS aggiunge che la costruzione della pace, sia per i singoli che per le comunità organizzate e le istituzioni internazionali, rappresenta un dovere da attualizzare in un’ora di gravissimo pericolo: l’ora nucleare. La pace è nelle mani degli uomini: se mancano all’appuntamento della storia e desistono dall’impegno di difenderla e promuoverla «l’umanità che già si trova in grave pericolo, sarà forse condotta funestamente a quell’ora in cui altra pace non potrà sperimentare se non pace di orribile morte» (GS 82).

Le linee di teologia della pace della GS attingono in modo peculiare alla​​ Pacem in terris​​ di Giovanni XXIII: per quanto concerne gli aspetti etici (legittimità o meno della difesa armata, condanna decisa della guerra «totale» e interdizione assoluta di armi che, per la loro potenza indiscriminatamente distruttiva, eccedono il «principio di proporzionalità» tra offesa e difesa) il documento si rifà, caricandolo di ulteriore autorevolezza, all’insegnamento di Pio XII. Ancora timide le prospettive aperte sulla difesa popolare nonviolenta e la «permissione» dell’obiezione di coscienza.

 

3.2. L’apporto dei papi

Fino a papa Giovanni, pur avvertendone le angustie, i papi hanno accettato la teoria della giusta guerra, elaborata da Padri e teologi. Poi, a seguito dell’insorgere dell’èra nucleare e delle acquisizioni conciliari (che non parlano più di «guerra giusta» ma solo, in casi estremi, di «legittima difesa») si sono venuti scostando progressivamente dalle antiche prospettive. Paolo VI e l’attuale pontefice hanno ribadito le intuizioni di papa Giovanni che aveva rilevato l’assurdità della guerra in questa nostra età secolare; hanno rimarcato l’impegno etico del disarmo, l’esigenza di una educazione alla pace, e della formazione di una nuova cultura di pace; hanno evidenziato l’apporto dei movimenti di pace, la positività della nonviolenza e, in particolare, dell’obiezione di coscienza al servizio militare (e alla progettazione di armi nucleari da parte degli scienziati); infine, continui sono stati i richiami al rispetto e alla garanzia effettiva dei diritti di tutto l’uomo e di tutti i popoli, come presupposto ineliminabile di una pace stabile e vera.

Accanto a queste istanze che potremmo definire «profetiche», negli ultimi pontefici non mancano però preoccupazioni «realistiche»; l’attuale pontefice, ad esempio, nei messaggi per la pace (del 1982 e 1984) ha affermato che il cristiano non deve mai obliare il diritto-dovere che i popoli hanno di difendere «con mezzi proporzionati» la loro esistenza e la loro libertà contro ingiusti aggressori. La presenza massiccia della violenza nella nostra storia «impone il mantenimento del principio di legittima difesa». Entro questo orizzonte realistico, proprio per difendere la pace e scoraggiare l’eventuale aggressore, Giovanni Paolo II ha fatto concessioni al cosiddetto «equilibrio del terrore» e alla dissuasione nucleare. Purché tale dissuasione non sia concepita come fine in sé stessa (e le armi nucleari non vengano mai poste in atto), ma rappresenti una via sul disarmo progressivo, nelle attuali circostanze, può essere ritenuta temporaneamente come «moralmente non riprovevole» (Messaggio all’ONU del 1982). Circondata da tante clausole, la concessione è più apparente che reale: resta tuttavia una indicazione del punto nodale del dibattito (come difendere cioè la pace da attuali e gravissime aggressioni?) e della difficoltà insita nell’armonizzare profezia e realismo, improponibilità etica della guerra ed esigenza della difesa, nonviolenza attiva e proporzionata difesa dei diritti della comunità.

 

3.3. Apporto delle Conferenze episcopali

Nel biennio 1983-1984 le principali Conferenze episcopali (a iniziare da quella USA e della Germania Occidentale) hanno emanato importanti, densi e meditati documenti sul tema della pace. Tutti approfondiscono i dati biblici relativi alla pace e dimostrano chiara coscienza della centralità del valore pace nel messaggio evangelico: del pari emerge una sempre più decisa opposizione alla guerra, alle ingiustizie che la fomentano, nonché un positivo apprezzamento per le metodologie non violente e le obiezioni di coscienza. Divergenze, invece, si riscontrano circa il modo di pensare e organizzare oggi la difesa della pace e la promozione dei valori di giustizia e libertà ad essa strettamente collegati. I vescovi americani, nel documento​​ La sfida della pace,​​ dopo una larga ed esemplare consultazione di base, giungono a questa conclusione: il doveroso e urgente​​ alt​​ alla guerra nucleare e convenzionale non esclude, a certe condizioni etiche, difficilissime tuttavia da realizzarsi, la costruzione e il possesso temporaneo di un deterrente nucleare; esso però non deve essere mai usato (né come primo, né come secondo colpo) perché, in ogni caso, anche in quello di un «teatro limitato» di guerra, eccede sempre la misura della legittima difesa e viola il principio di proporzionalità.

Alcune conferenze (e in particolare quella francese) mostrano propensioni verso considerazioni «realistiche», desunte dal diritto naturale alla difesa e da mediazioni culturali socio-politiche. Pensano infatti che la difesa armata da possibili aggressori — in particolare dall’espansionismo egemonico dell’URSS — e la difesa efficace dei popoli oppressi dalle dittature siano pienamente legittime, considerata la scarsa incidenza dell’ONU e la modesta affidabilità della difesa popolare nonviolenta.

Altri episcopati invece, sulla scia del documento americano, fanno prevalere le considerazioni evangeliche e profetiche, accettando come valide le metodologie strategiche e tattiche di una difesa nonviolenta e dimostrandosi contrari al sistema dell’equilibrio e della deterrenza nucleare, che non conducono né al disarmo né a una pace stabile e vera.

 

3.4. L’apporto dei teologi

Risvegliati — dal magistero dei papi e dai movimenti pacifisti — da un certo «sonno dogmatico» che li aveva indotti a riflettere più sulla giustificazione della guerra che non sulla pace, i teologi hanno dimostrato notevole impegno nella riflessione biblica in merito ai profili dello​​ shalom​​ della prima alleanza e alla​​ eirene​​ neotestamentaria. L’approfondimento del messaggio e della prassi non violenta di Gesù di Nazaret e, in particolare, un’attenta rivisitazione della teologia della croce e del morire di Gesù, in cui la violenza è vinta e si dischiude per il credente la possibilità del perdono assoluto, hanno dato forti apporti all’etica della pace e ai movimenti pacifisti cristianamente ispirati.

Ma, anche a livello di riflessione teologica, emergono alcune divergenze; specie negli ambienti statunitensi non mancano teologici propensi al «fondamentalismo»; ritengono cioè che dalla Scrittura sia legittimo inferire, senza mediazioni esegetico-culturali, norme valide per l’oggi. Altri invece, più correttamente, pur sottolineando il carattere nonviolento dell’insegnamento e della prassi di Gesù, ritengono che non sia giusto ribaltare tutto questo in norme operative per l’oggi, dispensandosi dal travaglio di attente mediazioni culturali e analisi socio-politiche delle situazioni.

 

3.5. L’apporto dei movimenti di pace

Il cosiddetto «movimento pacifista» è assai complesso e composito: esistono e operano movimenti pacifisti che si ispirano alla​​ cultura radicale​​ (pacifismo non violento assoluto), alla​​ cultura marxista​​ (dove si scontrano «correnti calde» che intendono sviluppare i germi nonviolenti del marxismo e «correnti fredde» che pensano ancor oggi alla violenza bellica come «levatrice della storia»), alla​​ cultura laica​​ che fin dall’illuminismo ha espresso notevoli istanze pacifiste e, infine, alla​​ cultura cristiana​​ presente in vari movimenti, alcuni dei quali confessionali e altri interconfessionali.

All’interno del pacifismo cosiddetto cristiano emergono punti di convergenza: nonviolenza attiva, legittimità dell’obiezione di coscienza, intesa come diritto soggettivo, ripudio delle armi di guerra e della stessa guerra, sia essa nucleare o convenzionale. Ovviamente esistono anche differenze e divergenze notevoli. Alcuni movimenti limitano la loro azione alla «lotta contro le armi»; altri estendono la critica anche al nucleare, cosiddetto «pacifico» (ad es. centrali nucleari) e al modello di sviluppo economico che è fonte di conflitti e della tragica spaccatura Nord-Sud. Alcuni movimenti si fermano alla obiezione al servizio militare, mentre altri sostengono una pluralità di obiezioni (al commercio delle armi, alla produzione di armi da guerra, alle spese militari e all’aborto). Divergenze si riscontrano in merito allo stesso principio della nonviolenza attiva (se sia da intendere cone norma assoluta, senza eccezioni), al disarmo unilaterale e totale, alla possibilità di mettere insieme difesa nonviolenta e «transarmo» (eliminazione graduale delle armi), validità o meno di obiezioni che si configurano come disobbedienza civile.

 

4. Denominatori comuni e punti controversi nell’attuale dibattito dei cattolici sulla pace

Convergenze e divergenze risultano dalla breve analisi dei principali interlocutori del presente dibattito culturale sulla pace. Sarà utile richiamarle in maniera sintetica. Esiste una notevole convergenza sui seguenti punti.

1.​​ La pace non è soltanto un’aspirazione o, peggio, una moda da seguire, ma un valore di fondo del vangelo da attuare e incarnare nella storia con sforzo incessante.

2.​​ Per la verifica delle paci umane bisogna rifarsi alla «pace di Cristo» che esse sono chiamate a imitare, pur nei loro limiti.

3.​​ Le questioni della pace e della guerra (della difesa) sono da ripensare con «mentalità del tutto nuova» (GS 80) in questa inedita èra nucleare, attraversata da innovazioni tecnologiche prima impensabili, che offrono però anche possibilità inedite di pace.

4.​​ Urge l’educazione alla pace delle nuove generazioni, in modo da creare una «cultura di pace» veramente alternativa alle diffuse culture di guerra, militaristiche e violente. Le divergenze si addensano attorno ad alcuni punti nodali relativi alla legittimità o meno della difesa armata.

Giusta guerra​​ e​​ legittima difesa​​ non si identificano: la «giusta guerra» è una teoria antica ben definita; la «legittima difesa» (armata), di cui parlano il Vaticano II e molti documenti postoconciliari, analogamente a quella individuale, ha luogo solo​​ nel caso di una attuale e ingiusta aggressione non altrimenti superabile.​​ Alcuni pensano che la teoria della giusta guerra non sia stata formalmente condannata dal magistero, ancorché il Vaticano II non parli di «giusta guerra» ma soltanto di legittima difesa, senza ulteriori specificazioni.

La paternità della teoria della giusta guerra viene fatta risalire a sant’Ambrogio e a sant’Agostino: essa è stata perfezionata da san Tommaso e dal teologo spagnolo Vitoria. La guerra sarebbe «giusta» alle seguenti condizioni: 1) dichiarazione da parte della legittima autorità (il che esclude le guerre private); 2) aver tentato tutte le vie pacifiche di composizione dei conflitti (guerra come​​ extrema ratio),​​ 3) appuramento della «giusta causa» (violazione di diritti gravi); 4) proporzionalità tra offesa arrecata e danni che si prevedono nascere dalla guerra; 5) retta intenzione e quindi esclusione dell’odio, dello spirito di vendetta e di azioni immorali nella condotta delle ostilità (allo​​ ius ad bellurn​​ si associa lo​​ ius in bello).​​ Questa teoria si è venuta progressivamente dilatando e laicizzando: praticamente ogni guerra è stata ritenuta giusta da ambe le parti e il giudizio della sua liceità etica è stato lasciato al sovrano, senza possibilità di contestazioni da parte dei sudditi. Nonostante i suoi molteplici limiti, la teoria ha, in passato, almeno in parte assolto la funzione di ridurre i conflitti e mantenere l’uso della forza entro determinati ambiti giuridici. Ma oggi le cose sono profondamente mutate.

Secondo una notevole aliquota di cristiani la teoria della guerra giusta nelle attuali contingenze storiche è da ritenersi del tutto superata. Oggi la guerra tra i popoli, come mezzo di difesa e di instaurazione del diritto violato, appare «eticamente improponibile» perché le condizioni che in altri tempi sembravano legittimarla, sono cadute una dopo l’altra, come le mura di Gerico.

Nell’ipotesi della guerra moderna, anche con armi convenzionali, viene a cadere ogni proporzione tra l’offesa subita o minacciata e le conseguenze belliche, che sfuggono al controllo umano, tendono all’espansione indefinita. Cade la prospettiva del successo, in quanto una guerra moderna è sempre senza vinti e senza vincitori; non rappresenta una​​ extrema ratio,​​ perché altre vie sono percorribili per prevenire i conflitti e risolverli: intese, dialogo, e — al limite, nel caso dell’attuale aggressione — difesa popolare alternativa a quella militare (sulla quale torneremo più avanti).

I progressi che si registrano sia nella concezione che nella pratica della nonviolenza attiva rendono molti cristiani perplessi anche nei confronti della legittima difesa armata, sia per respingere un nemico esterno che per contrastare una dittatura tirannica interna. Non pochi, però, pensano che il diritto a una legittima difesa anche armata, solo nel caso di attuali ingiuste e gravissime aggressioni, non possa essere contestato. La chiesa nel suo magistero, senza negare la precedente dottrina dimostra maggiore cautela (cf il secondo documento sulla liberazione).

Per contro non pochi cristiani continuano a pensare e ad agire con mentalità ormai superate e appoggiano pragmatismi politici di corto respiro. Dal momento che, senza armi, nucleari o convenzionali che siano, sembrano sentirsi ignudi, attribuiscono poteri miracolistici alla deterrenza nucleare e, in pratica, misconoscono l’apporto di riflessione e di prassi proveniente dal movimento della pace, dagli obiettori di coscienza e dal volontariato. Le prese di posizione contrarie al pacifismo espresse dalla rivista​​ Esprit​​ e dal suo direttore Paul Thibaut sono rivelative delle difficoltà che non pochi cristiani incontrano ad accettare le prospettive della nonviolenza e l’esclusione della difesa armata. Sembra ad essi che il pacifismo comporti una​​ abdicazione della ragione​​ che non può rinunciare all’esigenza della difesa la quale, per essere efficace e decisiva, non può escludere nemmeno l’uso del nucleare; e una​​ abdicazione della morale,​​ che impone una strategia di promozione della libertà e della democrazia in Europa e, quindi, interventi attivi e solidarietà operante con i popoli oppressi dell’Est. Nella permanenza di tale mentalità influiscono in Francia la «Nuova destra» e pubblicazioni come quella di André Glucksmann​​ (La forza della vertigine,​​ Longanesi, Milano 1984) che nel pacifismo in cui domina l’aforisma «meglio rossi che morti» ravvisa una forma di nichilismo che, pur di sopravvivere, abdica a tutti i valori.

Per superare queste mentalità, tributarie alla cultura di guerra e ignare delle possibilità aperte dalle strategie nonviolente in tema di difesa, sarebbero opportune prese di posizione non equivocabili da parte dell’episcopato che talvolta mancano — come fino ad oggi è avvenuto in Italia — oppure lasciano adito a pseudorealismi pragmatici: molti cristiani infatti correttamente pensano che​​ l’unico realismo oggi sia l’utopia evangelica della pace e della nonviolenza.

L’insegnamento magisteriale in tema di pace e di difesa, forse, riuscirebbe più incisivo sulla formazione delle coscienze, se affrontasse con maggiore rigore dottrinale anche la questione dei cappellani militari: da più parti infatti viene segnalata la contraddizione esistente tra la logica del rifiuto etico della guerra, che sfocia nell’obiezione di coscienza e nella prospettiva della difesa popolare alternativa, e la logica della presenza militarizzata dei cappellani negli eserciti. Mentre una presenza evangelizzatrice tra coloro che optano per il servizio militare è fuori discussione (come nelle carceri e negli ospedali), non altrettanto può dirsi di una presenza «con stellette», contrassegnata dall’appartenenza all’esercito che non può non avallare la sua natura di macchina che organizza e prepara una difesa armata con armi «adeguate». Infine, nonostante il cammino percorso dai cristiani in tema di obiezioni di coscienza a partire dalla timida posizione permissiva della GS, si rileva che le comunità parrocchiali, abbastanza propense ad accettare il carattere «deontologico» della norma che impone l’obiezione di coscienza al medico e agli operatori sanitari cattolici in campo abortivo, dimostrano perplessità e ritardi nel riconoscere il valore delle altre obiezioni di coscienza. Giustamente perciò viene auspicata una revisione dei catechismi perché nella dinamica di educazione alla fede siano meglio indicati ai credenti i risvolti positivi di testimonianza etico-profetica di tali forme di dissenso che un’aliquota consistente di giovani invece apprezza e vive.

 

5. Scelte giovanili paradigmatiche in ordine alla costruzione di una nuova cultura di pace

Al cambiamento della mentalità nel nostro Paese che, avendo alle spalle Machiavelli, appare piuttosto incline al realismo pragmatico e pronto a diffidare dei «profeti disarmati che sempre ruinorno», hanno dato e danno un contributo valido molte organizzazioni giovanili, confessionali o meno, e talune istituzioni come la​​ Caritas​​ che hanno assunto e sponsorizzato gli obiettori di coscienza al servizio militare.

All’azione della​​ Caritas​​ congiungono la loro originale ispirazione pacifista molte associazioni ecclesiali caratterizzate da un forte apporto giovanile: Azione Cattolica, FUCI, MEIC (già Laureati cattolici), AGESCI, ACLI e Gioventù Aclista, Mani Tese,​​ Iustitia et Pax, Pax Christi,​​ le Organizzazioni di volontariato cristiano federate nella FOCSIV e altre organizzazioni e movimenti interconfessionali, come il MIR e il Centro interconfessionale per la pace.

All’interno di questo complesso e vivo associazionismo nel quale confluisce oltre il 30% dell’arcipelago giovanile, vengono configurandosi con sempre maggiore chiarezza e forza alcune scelte giovanili che meritano attenta illustrazione: l’obiezione di coscienza al servizio militare, il servizio civile alternativo e la prospettiva della difesa popolare nonviolenta.

5.1. Nonviolenza attiva e obiezione di coscienza

Tra i giovani che militano nelle ricordate associazioni e movimenti si è venuta affermando una temperie culturale di ispirazione nonviolenta, entro la quale matura la scelta dell’obiezione al servizio militare (e anche quella professionale alla produzione e al commercio di armi) e la correlativa accettazione del servizio civile alternativo.

Dopo i tempi eroici, in cui l’obiettore di coscienza pagava con il carcere il proprio rifiuto di partecipare all’esercito, a partire dal 1972 con la legge 772 il cittadino italiano chiamato alla leva può optare, a certe condizioni (invero piuttosto onerose) e passando al vaglio di una (discutibile) commissione composita, per il servizio civile alternativo al servizio militare.

Un numero crescente di giovani — circa 20.000 oggi in lieve calo, anche a motivo di «circolari inquinanti» che hanno reso difficoltosa l’opzione giovanile alternativa e screditata la figura dell’obiettore — ha seguito le indicazioni della legge e accettato la sponsorizzazione di enti, e in primo luogo della​​ Caritas,​​ per svolgere in sintonia con le proprie propensioni e specifica preparazione un servizio civile, non sostitutivo, ma veramente alternativo nel cuore dell’emarginazione contemporanea.

5.2. Natura e motivi fondanti della nonviolenza

La nonviolenza non è soltanto una tattica per superare senza o con lievi spargimenti di sangue i conflitti: rappresenta uno stile di vita e un atteggiamento globale delle persone verso la realtà circostante: profondamente radicata nell’anima umana («antica come le montagne» diceva Gandhi) è presente in molte religioni. Trova infatti il suo fondamento nel Dio dell’amore e nel convincimento che l’uomo, ogni uomo, ci presenta il volto — ancorché sfigurato — di Dio. Essere nonviolenti significa prendere le mosse da una grande fede nel Dio dell’amore e, su questa base, da un pari amore nei confronti di ogni essere umano: la non violenza quindi muove da una concezione antropologica che non fa leva​​ sull’homo homini lupus​​ (l’uomo è un lupo per l’altro uomo) e nemmeno​​ sull’homo homini Deus​​ (l’uomo è un Dio per l’altro uomo) che suppone un possesso integrista della verità, ma dall​​ 'homo homini amicus,​​ da un senso profondo di amicizia e di empatia per l’altro, nello sforzo di creare un clima di dialogo e di cammino insieme per avvicinarsi alla verità. Il concetto gandhiano di nonviolenza (Satyagraha) coincide con quello di «forza della verità». Altri in America Latina, per evitare una interpretazione negativa e passiva della nonviolenza, fanno uso del termine «mitezza forte».

La nonviolenza infatti è attiva: non chiude gli occhi di fronte alle ingiustizie, ai soprusi, ai conflitti, ma tenta di superarli con atteggiamenti che, attraverso il dialogo, il chiarimento, il colloquio, inducono l’avversario a mutare condotta. La nonviolenza, con la sua logica opposta all’odio, alla ritorsione, alla legge del taglione, «spiazza» l’aggressore. Il messaggio evangelico e la prassi di Gesù (seguita dalla chiesa dei primi secoli) offrono alla nonviolenza attiva un volto e motivazioni profondamente cristiane, che consentono di prendere le distanze da pacifismi passivi e radicali, e di confutare le assurde accuse di nichilismo rivolte da qualcuno ad ogni forma di pacifismo.

5.3. Servizio civile alternativo

Da questa nonviolenza attiva, che per una certa aliquota di giovani prescinde dai motivi cristiani e tende a configurarsi come strategia più efficace della ritorsione violenta e armata emerge l’obiezione al servizio militare. Da disobbedienza civile penalmente perseguita è divenuta prassi legalizzata. Il NO all’esercito e alla guerra si disposa al SÌ al servizio civile, come prima notavamo. C’è da rilevare, a questo punto, che taluni giovani — come quelli che appartengono ai Testimoni di Geova o ad organizzazioni anarchiche — rifiutano​​ in toto​​ lo stato, in cui ravvisano l’incarnazione del male e della violenza oppressiva, e quindi non accettano nessuna forma di servizio alternativo.

Il giovane obiettore cristiano, invece, non demonizza la comunità politica, pur essendo ben cosciente delle degenerazioni del potere politico e impegnandosi — anche al di fuori di una precisa militanza politico-partitica — per la sua reale e non solo formale democratizzazione.

Del pari questi giovani rivelano notevole capacità di autogestire il proprio servizio civile, talora anche con forme di «autodistaccamento», per indurre le autorità competenti a superare le more burocratiche, a osservare e migliorare dispositivi di legge. Anche della 772 auspicano una sollecita e rapida correzione.

Già il «no» all’esercito e alla guerra, inserito nel rifiuto della violenza e della vecchia «ideologia del nemico», rivela ai giovani il senso della vera obbedienza (che si oppone alla coscienza succube) e il profondo significato e la valenza cristiana della disobbedienza creativa, di un dissenso che nasce da una coscienza autonoma, che sa anche dissentire da dispositivi di legge o istituzioni opposte a quei valori di fondo (e in primis al valore non oggettivabile o strumentalizzabile) della vita umana.

La pratica sincera e ben motivata (potremmo dire per i cristiani «sempre evangelizzata») dell’obiezione di coscienza porta quindi ad approfondire la nonviolenza evangelica, il valore della coscienza e di un servizio civile che può divenire virus, positivo e salutarmente contagiante, di un volontariato senza angustie di limiti spazio-temporali, di sesso o di età.

5.4. Difesa popolare nonviolenta: utopia o alternativa necessaria?

Abbiamo già avuto modo di constatare, nei paragrafi precedenti, come il tema della difesa della comunità costituisca un punto nodale che torna continuamente al pettine della critica rivolta al movimento pacifista. Anche tra gli obiettori di coscienza non tutti dimostrano di aver compreso l’urgenza etica di superare la difesa armata, anche nel caso di aggressione esterna, e la praticabilità effettiva (e non utopistica) di forme difensive alternative a quelle militari.

Del pari comunità cristiane e pastori, in numero ancora notevole, ritengono che il «dovere sacro» della difesa della patria in pericolo non si possa adempiere al di fuori del quadro della «legittima difesa armata». Penso di fare cosa utile riproponendo alcune mie considerazioni maturate all’interno di un​​ forum​​ teologico-morale (cf «Rivista di Teologia Morale» 1987, n. 73, pp. 33-34) che sintetizzo.

1. La difesa non concerne tanto la materialità del territorio e i confini di un Paese — che oltretutto oggi, con o senza scudi stellari appaiono indifendibili dai missili e dalle micidiali nubi radioattive che li attraversano — quanto il «vivere» della gente, la sua sopravvivenza e i valori essenziali di cultura, di libertà e civiltà che qualificano un popolo. Urge superare l’ideologia del nemico​​ e la tendenza ancora diffusa al​​ capro espiatorio​​ per giungere a identificare quali siano i​​ veri nemici della pace: egoismo e ingiustizie strutturali, ideologie ostinate e volontà di potenza, meccanismi oppressivi ed emarginazioni...

2. Una difesa rivolta contro tali nemici rappresenta una esigenza etica: l’amore evangelico del nemico non disimpegna certo dal dovere morale di contrastare il male, l’ingiustizia, le aggressioni e le forze che mirano ad annientare la vita e i valori che la rendono «umana».

3. Una volta persuasi che oggi la guerra tra i popoli non è più percorribile, perché decisamente immorale, rimane aperto il problema se una «difesa armata» con armi convenzionali, bandendo ogni arma «indiscriminatamente distruttiva», sia lecita, per contrastare una attuale aggressione esterna.

Con altri teologi (tra cui B. Haering) ritengo che il giudizio di liceità etica, che non pochi avanzano, trascuri alcuni fatti che mi paiono indurre a una diversa valutazione: la «legittima difesa» costringe a tenere in piedi l’esercito e la produzione di armi, puntando sempre verso quelle più efficaci e distruttive; provoca «bagni di sangue» e coinvolge in qualità di vittima l’intera popolazione; trascura le reali possibilità strategiche e tattiche di una difesa popolare nonviolenta. Questa non uccide (e quindi non disattende la radicalità etica dell’evangelo), non si fonda sull’odio del nemico da sterminare, scoraggia l’eventuale aggressore il quale sa bene che, senza un qualche appoggio della popolazione, non potrà reggere a lungo: il prevedere continui boicottaggi, disobbedienze civili, governi alternativi, resistenze nonviolente lo indurranno a desistere dall’attacco. L’illiceità, nelle presenti situazioni mondiali, di una difesa o resistenza armata viene prospettata anche nel secondo documento sulla teologia della liberazione che evidenzia le inedite possibilità pratiche della resistenza «passiva» (nel senso di nonviolenta-attiva).

4. Una difesa di questo genere non si esercita soltanto in caso di emergenza estrema, ma costituisce un impegno costante, ogni qual volta siano in pericolo valori e beni, eticamente validi e significativi, che motivano una difesa sociale.

5. La difesa popolare nonviolenta non abbisogna di eserciti di professionisti, ma coinvolge tutta la popolazione. Questa però ha da essere debitamente preparata. Di qui la necessità che un tal tipo di difesa sia anche finanziata: gli obiettori alle spese militari hanno deciso, sia pure con qualche resistenza e dissenso, di devolvere l’aliquota non pagata al fisco appunto al finanziamento della difesa popolare alternativa.

Solo se preparata e interiorizzata, la difesa popolare potrà dispiegare la sua forza liberante e solidaristica, aprire alla fratellanza universale, rompere cristallizzazioni ideologiche, stimolare alla difesa non di zolle di terra, ma dei valori che danno senso al nostro vivere e convivere.

 

6. Educazione alla pace

Trattasi di un’urgenza oggi sempre più chiaramente avvertita. Le indicazioni magisteriali, l’attuale riflessione teologica e le spinte provenienti dai movimenti di pace e da coloro che coerentemente sanno testimoniarla, sollecitano a una originale e profonda impostazione di un’azione educativa delle coscienze, giovanili e no, alla pace.

La letteratura in proposito è andata via via arricchendosi in questi ultimi anni: la riassumo nei punti seguenti.

1. Riflessione teologica e laica stimolano a un’azione educativa alla pace che sia consapevole dell’unità delta famiglia umana​​ e di un​​ bene comune planetario​​ che oltrepassa interessi nazionalistici e corporativi, nonché l’ottica ristretta dello stato «sovrano».

2. L’educazione deve mirare alla​​ pace grande e positiva​​ che parte dalla pace interiore per giungere alla pace sociale: questa non può identificarsi nella pura assenza di conflitti: anzi, l’educatore ha il difficile compito d’insegnare come la conflittualità si deve assumere e superare. Nemmeno la pace è riducibile al concetto negativo di non-guerra, prescindendo dalle matrici potenziali di violenza armata che la preparano e alimentano.

3. Educare alla pace significa perciò educare alla​​ giustizia distributiva e sociale,​​ intesa nella sua più larga accezione e in parallelo con​​ l’educazione all’amore.​​ Liberazione quindi delle coscienze e delle persone da «stati di cose oppressivi» e da condizionamenti egoistici e corporativi. Educazione al rispetto effettivo dei diritti di tutto l’uomo e di tutti i popoli nel quadro di un orizzonte sincronico (attuali abitanti del pianeta) e diacronico (gli uomini di oggi e di domani).

Un’educazione del genere assume il carattere «terzomondista» e induce a dare concretezza operativa al motto «contro la fame cambia la vita».

4. Educare alla vera pace «figura ed effetto della pace di Cristo» significa educare alla​​ riconciliazione plenaria: con sé stessi, con gli altri, con la natura (educazione quindi al rispetto dell’ambiente e degli equilibri ecologici per l’uomo di oggi e di domani) e con Dio: tale complesso impegno educativo porta a una​​ tensione liberatrice​​ egualmente «plenaria».

5. Educare alla pace significa​​ educare al dialogo,​​ all’accettazione e comprensione delle «ragioni dell’altro»: senza falsi irenismi e senza cedere a subdole strumentalizzazioni, l’uomo di pace entra in comunicazione con gli altri (perché educato a vivere​​ con​​ e​​ per​​ gli altri), sa percepirne le esigenze profonde, ne accoglie gli stimoli validi, buoni o riducibili al bene. L’educazione al dialogo postula che non ci si chiuda in oltranzismi integristi, sia individuali che di gruppo, quali è dato riscontrare in chi si sente possessore assoluto e pieno della verità (anche religiosa) e delle vie percorribili per realizzarla nell’oggi.

6. Educare alla pace, infine, comporta il grande impegno — molto arduo all’interno di culture ancora violente e bellicose — dell’educazione alla non violenza attiva​​ e alla​​ disobbedienza creativa,​​ consapevole del valore primario della coscienza soggettiva, aperta al riconoscimento dei valori etico-religiosi e,​​ in primis,​​ del valore della vita umana, spesso conculcato a molti livelli da una cultura come la nostra che pure dimostra preoccupazione viva in ordine alla «qualità della vita».

 

7. Pace e religioni

I credenti delle varie religioni — e anzitutto quelli delle grandi religioni monoteistiche — dimostrano anche in questo ultimo scorcio di tempo consapevolezza che per il raggiungimento e la promozione della pace è necessario e urgente dischiudersi in forma unitaria ed ecumenica a impegni comuni di preghiera, di riflessione e di azione. L’incontro di Assisi (1987) precedendone altri, ha dimostrato che la diversità religiosa — lungi dal portare a dolorosi e sanguinosi conflitti — non impedisce una preghiera unanime per la pace concepita come dono di Dio e sforzo umano.

Altri incontri sul piano dello studio hanno evidenziato convergenze molto significative delle diverse religioni nella tensione verso la pace, la giustizia e il rispetto della natura (cf Aa. Vv.,​​ Religioni per la pace,​​ ASAL, Roma 1987).

Già nel 1934 Dietrich Bonhoeffer aveva invocato un «grande concilio ecumenico» per annunciare l’evangelo della pace. Allora la sua parola profetica non trovò ascolto, ma cinquant’anni più tardi, nel 1983, la conferenza mondiale del Consiglio Ecumenico delle Chiese, a Vancouver, decise di convocare per il 1990 una Assise mondiale per la giustizia, la pace e la salvaguardia della creazione. A tale assise tutte le Chiese sono state invitate.

Il fisico C.F. von Weizsàcher (nel volume​​ Il tempo stringe,​​ Queriniana, Brescia 1987, p. 126) sostiene che, per la prima volta dopo 1700 anni, un’assise mondiale dei cristiani ha grandi occasioni positive di realizzazione: non solo in ordine a una teologia della pace, comune a tutti i cristiani, ma anche per assumere chiara coscienza della necessità di superare l’istituzione politica della guerra e di collegare pace giustizia e libertà, pace tra gli uomini e pace con la natura.

 

Bibliografia

Annus pacis: de format ione ad pacem fovendam,​​ in «Seminarium» 1986, n. 2 (gli articoli sono tutti in italiano — tranne uno in lingua inglese — e concernono l'educazione alla pace).

Bianchi G. - Diodato R.,​​ Per una educazione alla pace,​​ Piemme, Casale 1987 (con ampio repertorio bibliografico);​​ Come e perché la pace in un mondo di peccato,​​ Ed. Dehoniane, Bologna 1984;​​ Comunità cristiane per una cultura di pace,​​ a cura di «Pax Christi», Queriniana, Brescia 1983;​​ Il contributo culturale dei cattolici al problema della pace nel secolo XX​​ (con antologia di scritti sulla pace) Massimo, Milano 1986; Drago A. - Mattai G., L’obiezione fiscale alle spese militari, Quale pace? Quale difesa?, Ed. Gruppo Abele, Torino 1986; Haering B.,​​ Nuove armi per la pace. Ciò che i cristiani oggi possono fare,​​ Ed. Paoline, Roma 1984; Mattai G.,​​ Pace, guerra, difesa nonviolenta,​​ in «Aggiornamenti Sociali», 1 (gennaio 1983) 7-22; Id.,​​ I cristiani e la pace tra compromesso e profezia,​​ in Cavagna A. - Mattai G.,​​ Il disarmo e la pace.​​ Documenti del magistero. Riflessioni teologiche. Problemi attuali, Ed. Dehoniane, Bologna 1982; Id.,​​ Sulla pace,​​ D’Auria ed., Napoli 1984; Milanesi G. (a cura di),​​ I giovani e la pace,​​ LAS, Roma 1986; Mion R.,​​ Per un futuro di pace.​​ Presupposti empirico-sociologici per un modello di educazione alla pace, LAS, Roma 1986; Roveda P.,​​ Per educare alla pace,​​ Vita e Pensiero, Milano 1982; Toschi M.,​​ Pace e Vangelo.​​ La tradizione cristiana di fronte alla guerra, Queriniana, Brescia 1980; Trentin G.,​​ Per un’etica della pace.​​ Magistero dei vescovi e prassi della Chiesa nell’era nucleare, Gregoriana ed., Padova 1985; Voegtle A.,​​ La pace.​​ Le fonti del Nuovo Testamento, Morcelliana, Brescia 1984.

 

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PACE

PAIDEIA

 

PAIDEIA

Caratteristica della cultura greca (​​ Grecia: educazione) è stata la scoperta e la celebrazione del valore dell’uomo nella sua individualità e nell’insieme delle sue capacità. La sua​​ formazione​​ è designata con il termine p. Esso, pur derivando dalla radice​​ pais​​ (ragazzo), più che il processo e gli interventi educativi attraverso cui il giovane giunge alla maturità e alla perfezione dell’uomo, indica l’ideale stesso della formazione dell’uomo greco, cioè la realizzazione di quel valore umano che, con altro termine, i greci chiamavano​​ areté.

1. Il termine p., per indicare la ricchezza del suo contenuto e le caratteristiche particolari in determinate fasi dello sviluppo della cultura greca, è associato ad altri termini, indicativi di aspetti integranti dell’idealità che esprime. Così i due concetti di​​ kalòs​​ (bello) e​​ agathòs​​ (buono) sono usati per qualificare chi ha raggiunto la formazione ideale dell’uomo. Fin dall’antichità colui che ha realizzato il​​ valore umano​​ è designato con il termine​​ anèr agathòs​​ (letteralmente: uomo buono);​​ agathòi​​ sono chiamati gli aristocratici, in tempi in cui l’areté​​ è ritenuta retaggio dell’aristocrazia. Ma anche il termine​​ kalòs,​​ pur indicando direttamente la bellezza fisica, cui il greco è molto sensibile, è assunto a connotare più integralmente l’ideale della formazione dell’uomo anche nella sua interiorità. I due termini vengono, perciò, fusi insieme, per esprimere più compiutamente nella sua globalità l’ideale di​​ areté,​​ comprensivo della formazione fisica e della formazione civica / etica / culturale. Si parla così, in particolare per l’educazione ateniese, di una​​ p. della kalokagathìa​​ (sintesi di​​ kalòs kai agathòs).

2. Il termine p. è più usato nell’epoca ellenistica (dalla fine del sec. IV a.C.) e risente delle caratteristiche proprie della formazione greca in tale periodo. In esso si ha una rapida e universale diffusione della scuola. Si afferma maggiormente, sulla scia di​​ ​​ Isocrate, il tipo di formazione ispirato all’ideale retorico, in cui predomina l’indirizzo letterario, che, con lo studio degli Autori, congloba i vari elementi di quel​​ sapere generale​​ che è chiamato​​ enkyklios p.​​ Le discipline che compongono il quadro di questa​​ p.​​ sono chiamate​​ enkyklioi.​​ Quando​​ ​​ Roma accoglierà l’influsso determinante della​​ p. greca,​​ gli stessi termini hanno una versione latina: la p. è chiamata​​ humanitas​​ e gli​​ enkyklioi bonae artes​​ o​​ liberales artes.​​ I tipi più rappresentativi di questo ideale, nella sua forma più elevata, sono nel mondo ellenistico il​​ grammatico​​ e il​​ retore;​​ a Roma l’orator.​​ Nella nuova impostazione data dal​​ ​​ Cristianesimo, Clemente Romano parlerà della​​ en Christò p.​​ e della​​ p. tou fobou tou Theoù​​ (la p. del timor di Dio).

Bibliografia

Jaeger W.,​​ P. La formazione dell’uomo greco,​​ Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1991; Marrou H. I.,​​ Storia dell’educazione nell’antichità,​​ Roma, Studium, 1994.

M. Simoncelli

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PAIDEIA

PARABOLE

 

PARABOLE

1.​​ Definizione e storia dell’interpretazione delle P.​​ P. deriva dal greco “paraballein”, che significa “mettere di fronte”, “confrontare”, “paragonare”. Si tratta del fenomeno dello spirito umano di mettere due oggetti, due idee di fronte, di paragonarle. Da questa attività spirituale dell’uomo scaturiscono a livello di linguaggio generi letterari come il simbolo (symballein), la metafora (metapherein), l’allegoria (allegorein) e la similitudine.

La P. non è prettamente di carattere religioso, ma è un fenomeno letterario molto diffuso in tutte le culture, soprattutto in quelle orientali.

A noi interessano qui le P. di Gesù in particolare e più in generale la P. come espressione del linguaggio religioso. J.​​ Jeremías​​ conta nel NT in tutto 41 P. Il suo criterio per definire le P. è però molto severo.

Le P. evangeliche furono interpretate dai Padri della Chiesa quasi esclusivamente con l’aiuto deU’allegoresi, in quanto si sforzarono di individuare in ogni particolare del racconto parabolico un elemento teologico, in genere cristologico.

A. Jùlicher nella sua opera fondamentale (Die Gleichnisreden Jesu)​​ si distanzia definitivamente da questo modo di interpretare le P. I risultati dei suoi studi si possono riassumere brevemente così: Gesù non ha mai parlato in allegorie, ma in P. La P., dal canto suo, non ha nessuna somiglianza con l’allegoria stessa, ma piuttosto con il paragone. Mentre l’allegoria sarebbe un derivato della metafora, la P. è un derivato del paragone. Il racconto parabolico non ha molti punti di contatto con il termine di paragone, ma solo — al contrario dell’allegoria — un tertium comparationis. Delle P. di Gesù Jùlicher distingue tre tipi: le P. in senso stretto (il racconto di un fatto individuale senza che il termine di paragone venga nominato), ad​​ es.​​ la P. del seminatore; la similitudine​​ (Gleichnis),​​ un racconto che nomina anche il termine di paragone​​ (es.:​​ “Il regno dei cieli è simile a un re che...”) e l’esempio, i cui termini di paragone si trovano allo stesso livello semantico​​ (es.​​ il buon samaritano, che diventa un esempio per noi).

Queste tesi di Jùlicher furono accettate senza discussioni da tutti gli studiosi successivi. Tanto era lo sbalzo qualitativo di fronte all’esegesi patristica, che esso fece dimenticare o addirittura non vedere i punti deboli di Jùlicher. Gli studiosi che seguirono a Jùlicher si limitarono a chiarire particolari delle P. e a stabilire quali P. possono derivare da Gesù e quali no. Sotto questo punto di vista si distinse soprattutto lo studioso tedesco​​ Joachim Jeremias,​​ la cui opera (Le parabole di Gesù)​​ anche oggi rappresenta una pietra miliare. Altri, come Ch.​​ Dodd,​​ E.​​ Linnemann,​​ ricalcano le orme lasciate da Jùlicher e​​ Jeremias.​​ Non tardò a farsi luce però la convinzione che molto spesso le difficoltà di stabilire il​​ Sitz im Leben​​ delle P. sono insormontabili.

Nel frattempo si cristallizzava lentamente un equivoco. Tutti parlavano di due parti della P.: della cosa che viene paragonata​​ (es.​​ il Regno dei cieli) e della cosa con cui avviene il paragone. La prima la chiamarono​​ SachHälfte,​​ la seconda​​ Bild-Hälfte.​​ Il pericolo di questa descrizione della P. consiste nel dividere quello che la P. vuol unire, paragonare. Tanto è vero che spesso gli autori, quando parlavano di P., intendevano praticamente solo il racconto​​ (Bild-Hälfte),​​ dimenticando che la P. è come uno specchio (il racconto) in cui si intravede un’altra realtà che non è lo specchio stesso: la parabola non è solo lo specchio, ma lo specchio con il riflesso di un’immagine.

Dan Otto Via (1967) costituisce il punto culminante di questo sviluppo. Egli isola il racconto parabolico e lo considera — quale momento estetico — indipendente dal termine di paragone e in quanto tale capace di diventare P. di infiniti termini di paragone, di acquistare insospettata attualità, P. della nostra vita. Nello stesso tempo però — staccata dal contesto evangelico — non possiamo più considerarla di diritto P. di Gesù. Negli ultimi anni si intravedono due nuovi tentativi di interpretazione. Il primo cerca di ricuperare quello che Julicher aveva perso di vista: la valenza metaforica della P. In pratica si afferma che la P. è una metafora che acquista una struttura narrativa (plot). In questo contesto si distinguono gli apporti di Crossan, Aurelio e Weder. Il secondo tentativo cerca — contro O. Via — di riscoprire l’intenzione originaria delle P. quali atti performativi di Gesù stesso. I due tentativi odierni si avvalgono degli studi recenti, letterari (la moderna metaforica) e linguistici (J. L. Austin).

2.​​ Il ruolo delle P. nella C.​​ Abbiamo definito la P. come forma letteraria, che è un prodotto della capacità dell’uomo di creare simboli e metafore. D’altro canto sembra fuori discussione che il linguaggio religioso, in quanto discorso su Dio, non può essere mai di carattere descrittivo diretto, ma è per sua natura di carattere metaforico. Ogni discorso di carattere religioso è nel modo più radicale una meta-phora.

La P. è una metafora ampliata, che assume la forma di un racconto, una struttura narrativa. Se prendiamo la metafora “Dio è il buon pastore” e le diamo una struttura narrativa, possiamo derivarne la P. del buon pastore. Se partiamo dalla metafora: “Dio è il nostro padre e noi siamo i suoi figli”, possiamo derivarne la P. del figlio prodigo (Lc​​ 15) e via dicendo.

Il compito principale della pedagogia religiosa oggi è di riabituare soprattutto noi occidentali a parlare di Dio. Ci si potrà riuscire solo riscoprendo il carattere fondamentalmente simbolico, metaforico, parabolico del discorso su Dio e riattivando la capacità di riflettere la nostra esperienza religiosa nella forma della metafora e della P. Gesù ha parlato in P. non perché volesse insegnarci verità difficili in un linguaggio semplice, ma perché come “incarnazione” radicale del Verbo (non è questa anche una parabola stupenda?) non poteva che servirsi del nostro linguaggio umano, parabolico.

Una teologia di carattere parabolico avrebbe questi vantaggi: indicherebbe i nostri limiti epistemologici e linguistici di fronte alla realtà che chiamiamo Dio. In quanto narrazione e non speculazione, ci darebbe la gioia fabulativa e riuscirebbe a convincerci meglio della teologia speculativa: ci porterebbe più vicini alla decisione di fede. Essa — quale P. — è in fondo il metodo più coerente di fare una pedagogia religiosa​​ 

Le P. dei Vangeli sono raccontate da Gesù. In esse ci parla di Dio, del suo e nostro Padre. Ma in queste P. si rispecchia Gesù stesso: vi si riscontra quella che gli studiosi indicano la cristologia indiretta, non quella speculativa, ma quella parabolica. La vita, il comportamento di Gesù, la sua presa di posizione per i peccatori rappresenta il quadro non solo — come pure accade spesso — contestuale, ma anche quello vivente, il Sitz im Leben in senso molto lato, delle P. Per fare un esempio: agli avversari che gli rimproverano il suo comportamento nei confronti dei peccatori, Gesù risponde con le P. della dramma perduta, della pecorella smarrita e del figlio prodigo (Lc​​ 15). Gesù risponde che Dio agisce così con i peccatori, e che lui prende le difese dei peccatori perché il Padre celeste vuole così. In questo modo Gesù diventa la P. vivente di Dio.

Moltissime P. evangeliche si possono interpretare secondo questo schema. Gesù diventa così lo specchio, il quadro perfetto di Dio (Gv​​ 14,19; 17,5.24; 2​​ Cor​​ 3,18^1,4;​​ Col​​ 1,15), o — come si espresse la comunità primitiva — il figlio stesso di Dio (Air 3,17), tanto che chi vede lui vede il Padre (Gv​​ 14,19). Ciò che gli evangelisti annunciano di Gesù sono metafore, spesso concentrati delle P. di Gesù stesso.

Bibliografia

E. Arens,​​ Kotnmunikative Handlungen,​​ Dusseldorf,​​ 1982; T. Aurelio,​​ Disclosure in​​ den​​ Gleichnissen Jesu,​​ Frankfurt, 1977; J. D. Crossan,​​ In Parables. The​​ Challenge​​ of the Historical Jesus,​​ New York, 1973; C. H. Dodo,​​ Le parabole del regno,​​ Brescia, Paideia, 1970; V. Fosco,​​ Oltre la parabola. Introduzione alle parabole di Gesù,​​ Roma, Boria, 1983; E. Fuchs,​​ Bemerkungen zur Gleichnisauslegung,​​ in In.,​​ Gesammelte Aufsiitze,​​ vol. 2,​​ Tübingen,​​ 1960, 136-142; J.​​ Jeremias,​​ Le parabole di Gesù,​​ Brescia, Paideia, 1967; A. Julicher,​​ Die Gleichnisreden Jesu,​​ 2 vol.,​​ Tübingen,​​ 1910; E. Linnemann,​​ Le parabole di Gesù,​​ Brescia, Queriniana, 1982; G. Negri,​​ La parola del catecheta sul tema: le parabole,​​ in “Parole di vita» 20 (1975) 17-28; D. O.​​ Via,​​ The Parables,​​ Philadelphia,​​ 1967; H.​​ Weder,​​ Die​​ Gleichnisse Jesu als Metaphern,​​ Göttingen, 1978.

Tullio Aurelio

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PARABOLE

PAROLA

PAROLA

Carlo Buzzetti

 

1. Il fatto del comunicare

1.1. La comunicazione diretta

1.2. La comunicazione mediata

1.3. Comunicazione naturale e comunicazione artificiale

2. Il posto della parola

2.1. La parola è esclusivamente umana?

2.2. Parola e cose; linguaggio e conoscenza

2.3. Parola e pensiero

3. Il ruolo della parola: varie funzioni

3.1. Parole e pubblicità

3.2. Altre funzioni

3.3. Un suggerimento e un’osservazione

4. La parola parlata

4.1. La doppia articolazione

4.2. Natura sociale della parola

5. La parola scritta. Natura e tecnica

5.1. Confronto con la parola parlata

 

1.​​ Il fatto del comunicare

Per riflettere sulla «parola» e cercare di comprenderla, è opportuno partire dalla comune esperienza umana di essa. Ora, almeno a prima vista, pare innegabile il suo riferimento al quadro più generale del comunicare. Altri riferimenti — quali ad esempio la «nominazione» o la «espressione» — possiedono senza dubbio un rilievo e fanno parte dell’esperienza comune; ma ci sembrano fenomeni meno macroscopici o meno originali del «comunicare». A sua volta la comunicazione è ricca di aspetti diversi-problematici, tanto da meritare un articolo a parte in molti dizionari (anche nel nostro). Qui non esaminiamo il tema in maniera esaustiva; vogliamo soltanto descrivere le grandi linee del fenomeno quale esso appare agli occhi di un osservatore non specialista e intendiamo utilizzarlo come sfondo o punto di partenza dal quale abbozzare una comprensione della «parola».

Quasi ovviamente si riconosce che esistono molti esseri umani, molte persone, e che in genere la gente non vive isolata (individui o momenti eccezionali costituiscono — appunto — eccezioni). Di fatto, questo stare l’uno accanto all’altro è sorgente del comunicare. Sia che la comunicazione venga intesa come realtà imposta, o necessaria, o naturale, o istintiva, o convenzionale, o culturale, o altro, il comunicare esiste. Le forme e i modi in cui esso si realizza sono svariati. Distinguiamo, per ora, due grandi categorie: quella della comunicazione diretta e quella della comunicazione indiretta o mediata.

 

1.1. La comunicazione diretta

La comunicazione «diretta», cioè da persona a persona, si verifica lungo le vie della sensorialità. A volte essa consiste nel vedere e nel mostrarsi: l’esperienza comune insegna quali e quante possibilità di informazione, sorpresa, gioia, paura, noia, ecc., siano realizzabili mediante la semplice comunicazione visiva. A volte consiste nel passaggio di odori: questi hanno un ruolo di grandissimo rilievo nella vita animale, come si fa notare ampiamente nella divulgazione degli studi zoologici; ma anche nell’esistenza dell’animale-uomo essi occupano un posto notevole. A volte la comunicazione avviene lungo la via del gusto, il che è comunissimo tra persone e cose ma in alcuni casi si verifica anche nelle relazioni interpersonali. A volte ancora la comunicazione assume la forma tattile: questa via può sembrare secondaria laddove fonte e destinatario sono primariamente intesi come «spiriti»; ma si pensi al grande spazio che essa occupa nell’ambito dell’affettività sensibile e si consideri il ruolo principale che il tatto assume in casi di crisi totale o parziale della vista. A volte, infine, essa consiste nel passaggio di rumori o suoni che sono portatori di messaggi.

 

1.2. La comunicazione mediata

La comunicazione «indiretta», cioè quella che si verifica da persona a persona ma attraverso la mediazione di qualche oggetto, ricalca tutte le linee precedentemente descritte; infatti le persone, che esistono soprattutto insieme tra di loro, esistono sempre anche nel mondo delle cose. A volte le cose sono escluse o quasi escluse dalla comunicazione interpersonale (si pensi, ad esempio a ciò che spesso avviene nel settore visivo); molto frequenti sono invece altri casi nei quali esse risultano profondamente coinvolte nel comunicare: sia nella produzione dei messaggi (il che nell’esperienza umana accade da millenni, forse da sempre), sia nella recezione di essi (il che sembra tipico dell’esperienza umana moderna dove le risorse scientifico-tecniche hanno permesso di produrre un’ampia gamma di «ricevitori» in grado di captare segnali non avvertibili soltanto mediante i sensi).

 

1.3. Comunicazione naturale e comunicazione artificiale

Più arduo, ma pur sempre legittimo e istruttivo, sarebbe l’esame di ambiti che si incrociano con quelli visti appena sopra: a) l’area della comunicazione «naturale», dove il rapporto tra segnale e messaggio sembra obbligato e immediato (come, ad es., nel linguaggio visivo diretto la fuga esprime in genere un qualche tipo di rifiuto; e come, ad es., nel linguaggio visivo indiretto, il fumo indica sempre un qualche tipo di combustione; b) l’area della comunicazione «artificiale», dove invece si applica un sistema di convenzioni grazie al quale un segnale diventa portatore di un certo messaggio. Consideriamo due semplici esempi: nell’ambito «diretto» il suono di un fischio può significare disapprovazione, oppure lode, oppure entusiasmo, ecc., al variare del sistema di convenzioni; nell’ambito «indiretto» il mostrare-offrire un fiore può veicolare messaggi molto diversi quali gentilezza, o amore, o nostalgico ricordo, o desiderio-augurio di pace, ecc., a seconda dei diversi sistemi nei quali si colloca.

Per onestà, anche in una breve esposizione schematica come la presente, pare necessario ricordare che questa seconda distinzione (tra segnali «naturali» e segnali «artificiali») se è abbastanza facile in casi estremi, risulta incerta e discutibile in molti casi intermedi. Soprattutto, molti segnali che sembrano «naturali» in un certo ambiente, in realtà sono il frutto di convenzioni molto antiche e — in quell’ambiente — ormai unanimamente condivise magari in maniera inconscia. Ad esempio, un abito bianco è il segno visivo naturale di una qualche serenità-innocenza? Non sempre; infatti, in certe convenzioni culturali, esso esprime lutto, o divinità, o altro. Oppure, il gesto di stringere la mano è sempre il segno naturale di una forma di accordo? Non sempre; infatti sappiamo che in certe culture non-occidentali tale gesto non è compreso oppure non possiede il medesimo significato.

 

2. Il posto della parola

Nel quadro che abbiamo abbozzato è semplice compiere un primo passo in ordine alla collocazione della «parola»; infatti, chiaramente, essa è un esempio di fenomeno che accade nella comunicazione «diretta». Più problematico si presenta un secondo passo; infatti, che cosa bisogna dire: che la «parola» è una realtà «naturale» oppure «artificiale», nel senso che essa è costituita da un insieme di convenzioni? Sembra che entrambi gli aspetti siano in qualche modo presenti: da un lato pare doveroso riconoscere la «parola» come possibilità data a tutti gli esseri umani, e quindi come «naturale»; d’altro lato è molto evidente l’influsso di abitudini culturali, convenzioni e regole all’interno di ogni sistema linguistico. In questa prospettiva è utile richiamare, almeno a grandi linee, una riflessione o un’ipotesi che con qualche variante è sviluppata da molti studiosi della «parola».

a) In tempi remoti, lontani da ogni memoria storica (tempi che in tal senso si possono dire «primitivi») è probabilmente «naturale» per ogni essere umano la capacità di emettere vari suoni vocali.

b) Poi — non sappiamo quando — ogni suono viene collegato a un oggetto, o a un’azione; così che una serie di suoni può equivalere più o meno a una frase. Con una certa approssimazione e con necessaria fantasia immaginiamo una serie del tipo: suono A = io + suono B = andare + suono C = casa; grosso modo, tale serie o successione di suoni equivale a una delle seguenti frasi che conosciamo: io vado-andrò-andai a casa; io voglio-posso-devo andare a casa...

c) Solamente in uno stadio successivo, del quale pure non si hanno precise tracce storiche, alla facoltà di emettere suoni vocali si aggiunge quella di articolarli e quindi si creano le convenzioni che danno origine alle molte e svariate lingue del mondo. In questo schema la fase iniziale, come il tronco di un albero, è identica o simile per tutti gli esseri umani, mentre le tappe successive, come i molti rami di un albero, si presentano all’insegna di un’ampia diversificazione.

 

2.1. La parola è esclusivamente umana?

Continuando a usare come supporto e punto di riferimento le considerazioni abbozzate nel numero precedente, risulta semplice comprendere la «parola» come un fenomeno caratteristico della condizione umana. Qui non ci pronunciamo in maniera definitoria sulla complessa questione circa la possibile esistenza di «parole» non umane (si veda, ad es., la grande quantità di teorie e discussioni circa il linguaggio degli animali, soprattutto quello di alcune specie — come le api — che avrebbero addirittura raggiunto un notevole sviluppo di sofisticazione). Diciamo che, probabilmente, le analogie si collocano ai livelli​​ a)​​ e​​ b) dello schema appena visto; mentre a livello​​ c)​​ è molto più discussa l’esistenza di un qualche parallelo extra-umano. Ad ogni modo, la «parola» è forse la via più vistosa lungo la quale si realizza la comunicazione tra persone.

Grazie alla «parola» gli esseri umani si pongono in relazione tra di loro e coinvolgono nei rapporti interpersonali tutta la realtà circostante. Anzi, in un certo senso, la «parola» sembra persino più ampia della stessa comunicazione tra persone; infatti esistono, marginali ma non insignificanti, casi in cui qualcuno «parla» con sé stesso, oppure «parla» con un animale o un oggetto... Tuttavia, in genere questi esempi sono ricondotti al modello interpersonale: si osserva che chi parla da solo funziona allo stesso tempo come destinatario come fonte della comunicazione; per una specie di duplicazione, egli applica a sé stesso quel che abitualmente rivolge a un’altra persona; e, analogamente, a volte si realizza una sorta di finzione grazie alla quale si attribuiscono caratteristiche personali a un animale o a un oggetto: gli si parla «come se potesse capire» proprio come una persona... Se tali osservazioni sono giuste — e personalmente ci sembrano piuttosto convincenti — allora non si danno vere e proprie eccezioni: la «parola» accade e si muove nell’ambito della comunicazione umana.

 

2.2. Parola e cose; linguaggio e conoscenza

Tuttavia, un aspetto pare da sottolineare ulteriormente. Così come essa si presenta nella «moderna» condizione umana (quella conosciuta dall’insieme della memoria storica) la «parola» risulta ampiamente rivolta anche alla realtà non umana. Non possiamo dire che le cose siano semplicemente strumenti i quali permettono di incrementare dal punto di vista tecnico la raffinatezza e l’efficacia della comunicazione interpersonale. Meglio, dobbiamo riconoscere che la «parola» considera le cose come «argomento» o come «materiale» cui applicarsi. In altri termini, un essere umano «parla» sempre a esseri umani, ma molto spesso parla «a proposito di» cose.

A questo punto si può inserire la complessa questione del rapporto tra «parola» e conoscenza. Ci si chiede: quando un uomo conosce un aspetto della realtà, sia esso umano o no, egli utilizza sempre «parole»? Si fa spesso osservare che un conoscere elaborato implica un certo grado di individuare, «nominare», paragonare, confrontare, classificare, ecc.; e ci si chiede: tutto questo avviene con o senza «parole»?

La risposta è ardua, ma in parte la domanda si riconduce a un problema di termini. Il conoscere implica certamente un’elaborazione dei dati dell’esperienza che per molti aspetti si può chiamare invenzione e utilizzo di «parole». D’altra parte è difficile pensare che queste parole sarebbero le stesse in assenza di persone con cui comunicare. La «parola» ha una dimensione sociale che la caratterizza; se la conoscenza costituisce un momento in cui si producono, si trovano e si utilizzano «parole», ciò si deve al fatto che la conoscenza non rimane isolata in sé stessa, nell’individuo che conosce, ma è orientata ad esser posta sui binari dei processi comunicativi. Che cosa accadrebbe se, per ipotesi, ci fosse una conoscenza la quale non avesse legami con la comunicazione interpersonale? È quasi impossibile rispondere, perché di fatto quella situazione non esiste; volendo, si potrebbe forse dire che in essa si usano «pseudoparole»... Ma non ci pare utile introdurre e sviluppare qui tale terminologia.

2.3. Parola e pensiero

Un altro aspetto merita considerazione esplicita. In concreto, chi usa la «parola» quasi sempre usa una realtà che già esiste prima; i casi di «invenzione» di parole del tutto nuove sono statisticamente rari. Ora, poiché comunicando si trasmette quel che si «pensa», in senso ampio, quando la comunicazione si realizza mediante «parole» dobbiamo riconoscere un influsso di esse sul pensiero? La questione è molto importante, ricca di molte conseguenze. In altri termini, essa viene espressa come problema del rapporto tra lingua e pensiero. Chi utilizza parole utilizza un sistema organizzato di esse (= una lingua); possiamo dire che tale fatto avviene come se egli versasse il metallo fuso del suo pensiero in una serie di «forme» pre-costituite? E inoltre: dobbiamo dire che tali «forme» condizionano lo stesso pensiero, così che la dipendenza da una lingua comporta fatalmente una dipendenza da modelli e prospettive preesistenti che superano la consapevolezza e-o la libertà di colui che pensa o parla?

Ad esempio: quando la «parola» si incarna nella lingua greca, essa assume le forme tipiche di quella struttura; dobbiamo perciò stesso concludere che essa esprime un certo orientamento greco del pensiero, una certa visione greca del mondo? Non è qui il luogo per svolgere un’ampia trattazione di questo tema; ci limitiamo a due note che consideriamo praticamente preziose.

1.​​ Il legame​​ lingua-pensiero,​​ oppure il legame tra forma delle parole e loro contenuto, è da ritenere meno rigido e meno rilevante di quel che in genere una certa divulgazione filosofico-linguistica induce a credere. Basti pensare che opinioni e idee anche diversissime si possono esprimere mediante un medesimo sistema di «parole» e, viceversa, le stesse idee si possono esprimere in sistemi linguistici molto diversi tra loro. In concreto, suggeriamo una formula che nella sua semplicità può sembrare paradossale (e infatti noi ammettiamo che certe sfumature esistono, ma rimangono sempre a livello di sfumature): ogni lingua può esprimere ogni pensiero, più o meno agevolmente, più o meno bene. Se ciò è vero, risultano esagerazioni piuttosto mitiche certe enfasi comuni circa le cosiddette lingue «ricche» e lingue «povere»; è meglio dire che esistono soltanto lingue diverse, più o meno brillanti nell'esprimere questo o quel genere di pensiero, nel descrivere questo o quell’ambito del mondo; ma non esiste nessun sistema di parole-forme che sia radicalmente incapace di poter diventare la nuova e buona incarnazione di precedenti parole-pensiero.

2.​​ D’altra parte, un sistema linguistico di parole-forma costituisce una realtà che esiste prima e indipendentemente da certe parole-pensiero; e quando queste s’incarnano in quello, di fatto esse sono immerse in una rete di rapporti, ricevono alcuni orientamenti semantici, assumono sfumature di indirette e possibili parentele e connessioni formali... Tutto ciò è vero; ma non fino al punto da costringere la parola-pensiero ad assumere soltanto o primariamente un certo significato; infatti, ogni sistema linguistico di parole-forma è un sistema «elastico» e i significati si realizzano nelle varie combinazioni di parole, combinazioni che non sono mai prestabilite del tutto.

Piuttosto, quanto detto sopra è vero nel senso che le parole-forma ricevono un qualche parziale condizionamento; in pratica: è compito di chi utilizza un sistema di parole-forma, preesistente alle proprie parole-pensiero, essere consapevole dello strumento che assume, per riuscire a padroneggiarlo e quindi poter accogliere o respingere quei supplementi semantici che ogni incarnazione linguistica trascina con sé.

 

3. Il ruolo della parola: varie funzioni

Vediamo ora schematicamente quale uso si fa o si può fare della «parola». Chi utilizza un sistema di suoni già elaborato e socialmente rilevante può ottenere da esso vari risultati. Accenniamo ai maggiori di essi.

A volte la mia parola comunica qualcosa di me: un mio sentimento, un mio pensiero una mia volontà...; in questo caso essa serve a dire come sono io, svela e manifesta il segreto della mia persona, schiude ad altri le porte di quel sacrario che prima di allora era conosciuto soltanto da me; cose ed eventi possono essere argomento di quella «parola», ma principale rimane il riferimento a me, al​​ mio​​ modo di comprendere cose ed eventi; così, chi riceve la mia parola riceve la rivelazione di una prospettiva, cioè di certi pensieri-sentimenti, che prima gli era estranea; per me il mio parlare è un’eventuale forma di sfogo, per chi lo riceve esso è l’occasione di un arricchimento, vale a dire il dono di una luce e di una possibilità nuove.

Spesso si realizza un secondo tipo di funzione della «parola», quando prevale il rapporto con la realtà esterna a me che parlo e a chi riceve il mio messaggio; allora si dice che il ruolo della «parola» è soprattutto «informativo». Qui il tipo di comunicazione ha lo scopo di far sapere qualcosa che il destinatario si suppone non sappia; come è facile immaginare, in questo caso la comunicazione che procede da un medesimo io-fonte può assumere forme svariate: la descrizione di una cosa o di un pezzo di mondo; la relazione di un evento; l’illustrazione di un processo; la spiegazione di un’ipotesi; il riassunto di un precedente discorso; la drammatizzazione di una storia, ecc. Al termine, il destinatario sa qualcosa più di prima.

Qui la «parola» costituisce per lui un surrogato o un complemento dell’esperienza; o meglio, essa porta a lui il contenuto di esperienze che altri hanno fatto in prima persona e che la fonte ha raccolto-ricevuto-elaborato e quindi ha trasmesso a lui. In certi casi, la fonte è anche il soggetto diretto dell’esperienza; ma non sempre. Così chi riceve la mia «parola» arricchisce il suo mondo interiore di esperienze che forse gli sarebbero rimaste irraggiungibili; la mia «parola» è come una finestra supplementare attraverso cui egli può «vedere» e «comprendere» il mondo più e meglio di quanto non facesse prima da sé stesso.

A volte invece si realizza un terzo tipo di funzione: la mia «parola» è prevalentemente centrata sul recettore stesso; io non parlo soprattutto per svelare la mia persona o per comunicare mie-altrui esperienze, ma per influire sul comportamento del mio destinatario. Allora — si dice — la mia «parola» ha una funzione di tipo esortativo-imperativo; pensiamo a molte esclamazioni quali: forza!, attento!, aiuto!, allarme!, ecc. Come sempre, anche in casi come questi la parola è un suono articolato che utilizza regole convenzionali (cui aggiunge una particolare intonazione, anch’essa per lo più convenzionale); eppure, in forma sintetica, essa equivale a intere frasi che in altre occasioni direbbero ad esempio: «Io ti raccomando di impegnare tutte le tue forze», oppure: «Io ti ordino di prestare la massima attenzione», ecc. Naturalmente, questa terza area di funzioni, che molti studiosi chiamano «suggestive», in certi casi si nasconde e quasi si mimetizza in forme di messaggio che a prima vista possono sembrare di natura informativa. Ciò accade, ad esempio, infinite volte nel linguaggio pubblicitario.

 

3.1. Parole e pubblicità

In questo ambito è sistematico l’intento di far apparire che il processo di comunicazione è di natura neutrale-scientifica; in realtà, le «parole» del linguaggio pubblicitario sono veicolo di indirette e spesso potentissime suggestioni. Se, ad esempio, un messaggio pubblicitario dice: «La persona elegante veste abiti X», l’apparente e semplice informazione fa leva sulla forza di «elegante»; la maggior parte dei destinatari desidera essere elegante; quindi il messaggio insinua un consiglio o un comando del tipo: «Compera X!». Consideriamo un altro semplice esempio: un messaggio pubblicitario dice: «Y fa vivere bene»; chi lo ha preparato ha calcolato che un certo tipo di destinatari (un tipo «mirato» e quindi bersagliato da opportuni mezzi di comunicazione) ama molto vivere bene; quindi gli invia in maniera indiretta un messaggio del tipo: «Procurati Y!». Si tratta di un settore della «parola» nel quale i destinatari dovrebbero imparare ad essere piuttosto guardinghi e ad andare oltre la superficie dei messaggi; i giovani, ad esempio, devono riconoscere che i gestori dei messaggi pubblicitari quasi sempre sono più astuti di loro e che proprio i giovani costituiscono spesso il bersaglio delle loro intenzioni.

 

3.2. Altre funzioni

Abbiamo descritto le principali funzioni, spesso chiamate: espressiva, informativa, suggestiva (ma teniamo presente che vari studiosi utilizzano anche termini diversi). Ad esse si aggiungono molte altre funzioni che qui decidiamo di indicare come secondarie. Di fatto, in casi concreti, esse risultano importanti e interessanti da esaminare; ora, per ragioni di concisione, accenniamo solamente ad un elenco incompleto.

La​​ funzione estetica: a volte la «parola» è ricercata e usata per la sua bellezza, il suo suono gradevole, la sua rarità, la sua sorprendente armonia, ecc.; letterati e poeti sono spesso particolarmente dediti a questo esercizio.

La​​ funzione ludica: a volte la «parola» è usata per giocare, come fosse una trottola o una palla; certe cantilene o certe catene di suoni «senza senso» sono come giocattoli che divertono chi parla e chi ascolta (anche soliloqui e dialoghi giocosi sono possibili...); questa risorsa è ben nota agli anziani, ma anche i giovani, pur in maniera diversa, la utilizzano spesso.

La​​ funzione performativa: in certi casi una «parola» crea una situazione, scatena un succedersi di eventi; tra i molti esempi, pensiamo alla parola di un giudice («innocente» o «colpevole»), alla parola di un insegnante al termine di un esame («promosso» o «bocciato»), alla parola di chi dice «ti perdono» o «ti voglio bene», ecc.; questa funzione si applica non soltanto nell’ambito dei rapporti formali e ufficiali, ma anche in quelli di carattere intensamente interpersonale; in tal senso può riguardare tutte le persone, compresi i giovani, che sono direttamente coinvolte in sentimenti e passioni.

La​​ funzione magica.​​ E altre...

3.3. Un suggerimento e un’osservazione

Ci pare importante proporre un suggerimento complessivo: di fronte a una qualsiasi «parola» è cosa saggia chiedersi sempre: quale è la sua funzione? Quale scopo ha il messaggio? Quale «gioco linguistico» la fonte sta attuando? Così facendo si possono evitare gravi malintesi, si può trarre il miglior profitto dalla comunicazione linguistica ed eventualmente ci si può difendere.

Un’ultima osservazione in questo campo. Molto spesso una «parola» non possiede o attua una sola funzione, ma più funzioni contemporaneamente. Per esempio, l’esclamazione: «Il mare!» può essere insieme indicativa-informativa di una realtà ed espressiva di uno stato d’animo; le semplici parole: «Ti amo» possono essere allo stesso tempo informazione e rivelazione ed esortazione (cioè: possono dire un fatto, svelare un sentimento e invitare a una risposta); la «parola» più o meno magica «abracadabra» può ottenere un effetto pratico, più quello di produrre un certo suono, e insieme quello di provocare una certa suggestione... La compresenza di funzioni diverse è particolarmente notevole nel linguaggio elaborato dell’arte e dei mass-media; per cui il recettore avveduto deve saper analizzare bene, per comprendere bene.

 

4. La parola parlata

Una distinzione quasi ovvia è quella che riguarda «parola parlata» e «parola scritta». I rapporti tra le due realtà sono piuttosto complessi e sono analizzati in studi a volte minuziosi. Qui ci limitiamo ad accennare alle caratteristiche maggiori e alle connessioni più notevoli.

L’esperienza della «parola parlata» è ben nota a tutti i parlanti; di conseguenza, per molti aspetti, essa non ha neppure bisogno di essere descritta. In realtà, può essere utile illustrare il modo con cui «funziona» questo mezzo principalissimo tra le varie forme del comunicare. Consideriamo solamente la fisionomia che la «parola parlata» possiede nel periodo «moderno» (vale a dire dopo il lungo e non sempre chiaro segmento preistorico); vediamo come essa nasce e si diffonde. Ad esempio: io ho un sentimento, provo una sensazione, faccio un’esperienza... e parlo. Quale legame esiste tra il mio stato d’animo o la realtà esterna da me sperimentata e la mia «parola»?

Per quanto schematica, una risposta a tale domanda implica una descrizione sommaria del processo cognitivo-comunicativo. Il contatto con la realtà provoca in me il sorgere di una qualche nuova «immagine»; a volte essa è il prodotto di un mio incontro recente o recentissimo con un aspetto del mondo; a volte essa sorge come mia elaborazione di incontri antichi... In ogni caso, si tratta di un qualcosa che possiede una consistenza «astratta», cioè si tratta di una mia realtà interiore che riflette o rappresenta un aspetto della realtà esteriore. Non esaminiamo qui il tratto cognitivo che sempre precede la comunicazione; ci basti notare che la «parola» è da intendere come atto secondo di una storia il cui primo atto consiste in un conoscere e un elaborare quel che si è conosciuto. Alcuni si chiedono: noi conosciamo mediante «parole»? Tale questione è già emersa poco sopra; non la esaminiamo ulteriormente. Ci chiediamo soprattutto: come la realtà astratta diventa «parola» comunicabile e quindi viene tramessa ad altri?

 

4.1. La doppia articolazione

Ebbene, esiste una risorsa tecnica che si ritrova uguale in tutte le lingue, per quanto diverse esse siano. Ogni uomo è in grado di produrre qualche decina di suoni diversi; e ogni cultura ha elaborato la capacità di unificare un gruppo di suoni in una serie continua; un tale «pacchetto» di suoni diversi e successivi (da un minimo di due fino a una dozzina circa) costituisce un termine che per convenzione culturale si riferisce a una cosa, un’azione, un sentimento, una qualità, una relazione, ecc. Io che parlo produco una serie di suoni; chi ascolta li riconosce come rappresentativi di quella cosa, quell’azione o altro, e così accoglie dentro di sé una «immagine» equivalente alla mia, una realtà astratta più o meno simile a quella che è in me. Inoltre, analogamente, ogni parlante impara a produrre «catene» di «pacchetti» di suoni. Almeno approssimativamente, i «pacchetti» sono parole e le «catene» sono frasi. Bastano quindi poche decine di suoni diversi per realizzare migliaia di combinazioni diverse (= termini); e con questi è possibile costruire un numero quasi illimitato di frasi: ciascuna di esse si riferisce a un insieme di cose, un plesso di sentimenti, una serie di azioni, una successione di idee, ecc.; quindi ciascuna può essere utilizzata per descrivere un paesaggio, oppure per raccontare una storia, oppure per esporre una teoria, ecc. Questa risorsa sembra comune a tutti gli uomini di tutte le lingue; con una terminologia tecnica, si chiama «doppia articolazione». Essa dà origine alla «parola parlata».

Attorno a tale realtà, mille sono le osservazioni che potrebbero essere fatte. Ci limitiamo a una: imparare a parlare bene significa imparare a combinare suoni in maniera distinta (= produrre termini riconoscibili, diversi gli uni dagli altri) e imparare a combinare i termini in maniera logica-elegante (= produrre frasi comprensibili-belle); abilità, ubbidienza alle norme convenzionali di una certa cultura e fantasia creatrice sono gli ingredienti della correttezza, dello stile originale e della ricchezza verbale.

4.2. Natura sociale della parola

L’intrinseca natura sociale della «parola» la rende in certi casi uno strumento sofisticatissimo nel regolare i rapporti sociali tra le persone. Il che accade non soltanto tra persone eccezionalmente colte o molto abili, ma anche tra persone socialmente «semplici», purché mature e intelligenti. Il campo, ricchissimo e affascinante, della «sociolinguistica», è costituito proprio dallo studio dei fenomeni di cui la «parola» diviene specchio e mezzo. Infatti, il tipo di «parola» non è indicatore soltanto della realtà esterna, ma anche del tipo di rapporto che esiste tra parlante e destinatario. Così, ad esempio, parlando della mia casa io posso chiamarla «il mio nido», oppure «la mia residenza ordinaria» secondo se mi rivolgo a qualcuno con intento confidenziale oppure con una certa freddezza formale; mia madre si chiama «mamma» nei colloqui affettuosi e «genitrice» in quelli polemici, ecc.

Su questa linea è possibile un semplice esercizio che può rivelarsi molto interessante e istruttivo. Persone diverse descrivono un oggetto, o un individuo, o un evento, o una relazione; al termine si confrontano le varie descrizioni e si mettono in parallelo: parole ed espressioni differenti sono usate per designare medesime realtà, perché diversi sono i rapporti tra «parlante» e «cosa». In forma più sofisticata, l’esercizio si realizza mediante la registrazione (magari nascosta) di parole parlate da persone che possiedono svariate attitudini: comunque, il confronto è in genere illuminante e sorprendente. Questo esercizio può costituire un gioco non usuale e fruttuoso per l’intelligenza; i giovani dovrebbero avere occasione di praticarlo almeno qualche volta.

 

5. La parola scritta. Natura e tecnica

In tempi molto recenti della storia umana è divenuta usuale la capacità di registrare messaggi di ogni genere (pensiamo al processo fotografico, all’incisione magnetica di suoni, odori, sapori e pressioni varie, ecc.). Ma qui non vogliamo considerare innanzitutto i suggestivi ritrovati moderni; ci interessa in primo luogo quel che sorge già qualche migliaio di anni prima, quando nasce la scrittura, cioè la capacità di trasformare un messaggio umano fonetico in un messaggio visivo. E ciò comporta l’enorme vantaggio di ottenere un sorprendente effetto pratico: mentre il messaggio sonoro è (o meglio: era) inafferrabile come il vento e in antico non lo si può fissare-conservare perfettamente in maniera da trasmetterlo oltre, la sua forma visiva è costituita da un oggetto materiale o da una modificazione permanente di esso, quindi è fissata in maniera tale da poter essere conservata e trasmessa ancora in altre occasioni. La tecnica con cui ciò si realizza è notevolmente varia.

Un primo passo, ancora diverso dalla scrittura vera e propria, è costituito da esempi di «mitografia», dove non si trova nessun riferimento diretto alla parola parlata, ma si fa uso di oggetti cui viene attribuita una relazione simbolica indipendente. Per es., a Sumatra, il popolo dei «lutsu» dichiara guerra inviando un pezzo di legno segnato da piccole tacche, accompagnato da tre oggetti: una piuma, l’estremità di un tizzone e un pesce; il tutto significa: ci sarà un attacco di tante centinaia o migliaia di uomini quante sono le tacche del legno, i guerrieri saranno rapidi come uccelli (= la piuma), essi bruceranno tutto (= il tizzone) e annegheranno i nemici (= il pesce).

Altro esempio è quello del direttore d’azienda il quale, non contento di uno dei dipendenti, non gli dice di andarsene, ma gli regala una valigia; il che viene compreso come messaggio di andarsene, specialmente se si tratta di un atteggiamento tradizionale. Oppure — altro esempio ampiamente noto — vi è l’uso di inviare un mazzo di fiori a una ragazza: il gesto e l’oggetto equivalgono a una dichiarazione o un invito.

Nel complesso gli esempi, anche moderni, non sono pochi. Un passaggio ulteriore verso il sistema-scrittura è costituito dalla «pittografia», dove cose ed eventi vengono disegnati e le relazioni o qualità sono suggerite dall’insieme del disegno. Sulla stessa linea sembrano da collocare i noti «geroglifici»; alcuni di essi, però, rappresentano già suoni e non cose.

Ancora diversa è la tecnica della «logografia», dove un segno corrisponde a una parola parlata: qui possiamo considerare di essere ormai nell’ambito specifico della scrittura. A questo stadio sono da situare anche i cosiddetti «ideogrammi»; essi sono rappresentazioni di cose soltanto in maniera schematica e indiretta; meglio, sono rappresentazioni di idee. L’insieme della «logografia» di deve considerare diviso in due rami: quello della «morfemografia», dove un segno (su pietra, legno, carta, ecc.) corrisponde a una parola intera, cioè dove è possibile stabilire un rapporto tra segno e parola parlata; e quello della «fonografia», dove i segni non corrispondono a parole intere ma a suoni, e in genere soltanto un insieme di segni equivale a una parola parlata.

Il primo ramo è costituito da scritture come quella cinese; tuttavia bisogna ricordare che neppure quel grande esempio è riconducibile al modello del produrre disegni stilizzati; al contrario, vari segni della lingua cinese hanno un valore fonetico. Il secondo ramo si realizza per es. nelle note scritture delle lingue occidentali; tuttavia occorre notare che neppure in esse i segni hanno una funzione pienamente e univocamente fonetica: certi segni, come quelli della punteggiatura, hanno un equivalente fonetico soltanto approssimativo; segni uguali possono corrispondere a suoni diversi; e infine certi elementi fonici — quali molti aspetti dell’intonazione — non hanno alcun equivalente grafico.

 

5.1. Confronto con la parola parlata

Il brevissimo panorama precedente ci pare suggerire soprattutto tre idee.

1. La parola scritta è da intendere come seconda rispetto alla parola parlata. In moltissimi casi il destinatario incontra un testo scritto, ma per comprenderlo rettamente egli è consigliato di risalire alla parola parlata, reale o potenziale, che sta a monte; in altri termini, è fruttuoso applicare sempre la seguente domanda: come sarebbe questo messaggio nella sua forma orale? Oppure, ancor più semplicemente, si consiglia di leggere ad alta voce un messaggio scritto: allora, spesso, il suo significato risulta più incisivo, più complesso o più chiaro. A questo aggiungiamo che, più limitatamente, a volte la scrittura merita una sua considerazione autonoma; in certi casi un messaggio nasce subito scritto e non possiede alcuna preesistenza orale, neppure implicita; la «grammatologia» è lo studio della scrittura in quanto tale.

2. La parola scritta non è un equivalente totale della parola parlata; per un verso essa è una sua trasformazione, che opera il passaggio dalla dimensione fonetico-uditiva a quella visiva; per un altro verso è una sua schematizzazione che appiattisce o annulla molte differenze e omette molte sfumature anche importanti. Basti pensare a un esempio: la parola scritta «niente!» può equivalere a molte parole parlate che esprimono informazione, oppure gioia, delusione, scoraggiamento, sollievo, speranza, ecc. In pratica: quando io uso la forma scritta devo essere consapevole di questi limiti e devo aiutare il mio destinatario a comprendere quel che gli comunicherei mediante parole parlate. Contrariamente a ciò che spesso si pensa, un mio messaggio scritto dovrebbe essere più lungo dell’equivalente mio messaggio orale, altrimenti non si dà vera equivalenza.

3. La comprensione di un messaggio scritto richiede la conoscenza delle convenzioni che regolano la formazione di parole o di frasi scritte e la conoscenza di convenzioni più o meno «sregolate». In certe lingue — come quella francese o inglese, molto più che quella italiana — il saper leggere-scrivere costituisce un’abilità ben distinta dal saper parlare perché la forma non è semplicemente dedotta o deducibile dal suono familiare o memorizzato. Inoltre, per quanto si è detto sopra, in particolare al punto 2, la dimensione interpretativa è più accentuata nel processo di assimilazione di un messaggio scritto; anche la parola parlata è da comprendere-interpretare, ma la parola scritta in genere è più oscura, più ambigua e più difficile: di fronte a un messaggio scritto l’impegno del recettore è maggiore e la sua vigilanza deve essere particolarmente accentuata.

 

Bibliografia

Alonso Schoekel L.,​​ La parola ispirata,​​ Paideia, Brescia 1967; Antiseri D.,​​ La filosofia del linguaggio,​​ Morcelliana, Brescia 1973; Buzzetti C.,​​ La parola tradotta,​​ Morcelliana, Brescia 1973; Ducrot-Todorov,​​ Dizionario enciclopedico delle scienze del linguaggio,​​ Ist. Editoriale Italiano, Milano 1972 (opera di consultazione utile per vari temi linguistici; da qui riportiamo alcuni esempi che descrivono le tecniche della parola parlata); Louw J. P. (ed.),​​ Sociolinguistics and Communication,​​ London-New York-Stuttgart 1986 (contiene vari accenni ai livelli linguistici e alle funzioni linguistiche); Martinet A. (a cura),​​ La linguistica. Guida alfabetica,​​ Rizzoli, Milano 1972; Wittgenstein L.,​​ Ricerche filosofiche,​​ Einaudi, Torino 1976 (ai nn. 23-24 contiene un famoso e suggestivo sviluppo filosofico del tema «il ruolo della parola»).

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PAROLA

PAROLA DI DIO

 

PAROLA DI DIO

“La C. attingerà sempre il suo contenuto alla fonte viva della P. di Dio, trasmessa nella Tradizione e nella Scrittura, giacché “la Sacra Tradizione e la Sacra Scrittura costituiscono l’unico deposito inviolabile della P. di Dio, affidato alla Chiesa”, come ha ricordato il Concilio Vaticano II, il quale ha auspicato che “il ministero della P. cioè la predicazione pastorale, la C. e ogni tipo di istruzione cristiana... abbia nella stessa P. della Scrittura il suo salutare nutrimento e il suo santo rigoglio”“ (CT 27).

È l’ultima di una serie di affermazioni magisteriali circa il rapporto essenziale tra C. e P. di Dio che CT solennemente ripropone richiamandosi esplicitamente alla Cost. Concilio​​ Dei Verbum​​ (nn. 10, 24) e al DCG (n. 45), e che oggi è presente e operante nei documenti cat. di tutte le Chiese del mondo (per l’Italia, cf RdC, cc. 1, 2, 5). Ciò non toglie che esistano dei problemi relativi alla comprensione di C. come servizio della P. e che di conseguenza sia necessaria una considerazione specifica del ruolo e compiti della P. di Dio nella C.

1.​​ Problemi aperti.​​ Riflettendo sulla natura interpretativa, e non ripetitiva, della C., E. Alberich osserva che “in quanto​​ espressione del ministero della parola di Dio,​​ la C. si trova coinvolta nella problematica generale che riguarda tale “Parola di Dio” come​​ evento​​ e come​​ mediazione storica:​​ che cos’è propriamente la parola di Dio? dove si trova? a quali condizioni può essere resa presente?” (Alberich 1982, 55).

— Non di rado è capitato di notare che il mancato riconoscimento della​​ verità​​ della P. come avvenimento storico-dinamico ha prodotto C. meccaniche, pura trasmissione di dati rivelati, o mera abilitazione nell’uso delle fonti, senza adeguata inculturazione della P., senza permettere cioè a Dio di dirci oggi ciò che ha inteso dire con le parole di ieri.

— Il mancato riconoscimento della​​ totalità​​ dei segni della P. ha prodotto invece C. unilaterali e separate. C. → biblica, C. storica, C. dottrinale, C. antropologica o esperienziale... sono C. che prediligono qualcuno dei segni dell’unica P.; ma sarà C. della P. soltanto se tutti i segni interagiscono, pur nella gerarchia della loro importanza. In questo senso il DCG 45, trattando delle → fonti della C. e della loro armonica unità, diventa un criterio essenziale di verifica di quanto la C. sia servizio della P. di Dio.

— Infine, il mancato riconoscimento del​​ mistero​​ della P. e del suo carattere di dono trascendente ha provocato C. illuministiche, in cui il sapere della fede non si è coniugato con​​ qatWaifectus fidei​​ che è fatto di adorazione, di eucaristia e prima ancora di ascolto attento e appassionato, di conversione... Dio potè essere presentato come un Oggetto sacro e non come quel “Padre che viene incontro ai suoi figli e parla con essi» (DV 21). Più specificamente vengono alla mente problemi tipici della C. in rapporto alla P.: processo di inculturazione, e quindi di creatività e insieme di fedeltà alla P.; gradualità del cammino cat. e pienezza del messaggio; rapporto tra esperienza e comunicazione della P.

2.​​ Il senso della Parola di Dio nella C.​​ Facendo leva sulla concezione teologica della P. di Dio così come appare nella → rivelazione, qui tocchiamo alcuni aspetti di più immediato riferimento alla C. La C. è anzitutto costitutivamente improntata dalle dimensioni che fanno la P. di Dio. Così le riassume l’Alberich (o.c., 58-76):

— dimensione cristocentrica e personalistica della P., per cui la C. si realizza come annuncio di Cristo e invito alla comunione personale;

carattere significante e liberante della P., e perciò C. come illuminazione e interpretazione della vita;

— dimensione storica e dialogale della P., per cui la C. diventa reinterpretazione della fede e dialogo culturale;

— dimensione spirituale della P., e quindi C. che si fa come azione dello Spirito e nello Spirito;

— dimensione escatologica della P., sicché la C. si prospetta come annuncio di certezze e cammino verso la verità.

3.​​ I diversi linguaggi e l’unità dinamica della P. di Dio nella C.​​ Essendo la P. autocomunicazione di Dio attraverso dei segni, questi saranno tanti quanti Dio impiega per manifestarsi. La profonda unità fra creazione e redenzione ha sollecitato fin dall’inizio del cristianesimo l’appassionata considerazione dei “semi del Verbo” nel cosmo (cf​​ At​​ 16,22ss). Così, assieme al linguaggio o segno biblico e a quello della vivente Tradizione della Chiesa, non è mancato, specialmente in epoca di pluralismo culturale e di più illuminata prassi missionaria, il tentativo più o meno riuscito, ma necessario, di decifrare e quindi di valorizzare quale P. di sé Dio ha lasciato nella stessa creazione, ma soprattutto nella storia degli uomini, nelle grandi religioni, nelle espressioni culturali e più in generale nei cosidetti “segni dei tempi”. Doverosamente quindi una C., come discorso di incarnazione della P., non può trascurare quanto nella concreta situazione ha grazia di preparare, accompagnare, approfondire la P. biblica espressa dalla Chiesa, che rimane segno primario e normativo della P. di Dio.

Ulteriormente si rende giustizia alla P. se la C. ne rispetta l’intimo dinamismo, per cui la P. viene anzitutto annunziata, ma tende pure ad essere celebrata (liturgia), diventare esperienza di vita in una prassi cristiana e prolungarsi nella testimonianza missionaria. Sempre di più il servizio della C., pur nella specificità del suo compito di annuncio, deve esprimersi aperto e integrabile con gli altri momenti dell’unica P.

4.​​ La C. come attualizzazione della Parola.​​ “Mai — scrive U. von Balthasar — la rivelazione cade dal cielo per comunicare agli uomini, dal di fuori e dall’alto, dei misteri trascendenti. Dio parla all’uomo dal di dentro del mondo e a partire dalle sue esperienze umane”. Più specificamente, considerando il codice per eccellenza della P., cioè la Bibbia, notiamo che ivi la P. si manifesta all’interno di un dialogo in cui l’uomo si trova confrontato con Dio. La C. si trova qui chiamata, e con una consapevolezza ben più acuta di ieri, ad un fondamentale compito → ermeneutico: non può limitarsi a ripetere testi biblici chiamandoli P. di Dio, ma deve comprenderli e spiegarli secondo il modo in cui essi sono P. di Dio, a un duplice livello: come lo sono stati per gli autori sacri e come oggi lo possono essere per noi (→ Letture attuali della Bibbia). Nasce così una operazione delicata ma insostituibile di → correlazione e di confronto fra esperienze: quelle fondanti di Cristo e della Chiesa (nel loro essere segno infallibile e pieno della P. di Dio) e l’esperienza del soggetto qui e ora chiamato a identificare e ad accogliere come P. per sé il significato vitale emergente nelle esperienze di fondazione dette sopra.

5.​​ Il dare e l’avere della P. di Dio nella​​ C. “La P. di Dio deve apparire ad ognuno come un’apertura ai propri problemi, una risposta alle proprie domande, un allargamento ai propri valori ed insieme una soddisfazione alle proprie aspirazioni. Diventerà agevolmente motivo e criterio per tutte le valutazioni della vita” (RdC 52). La P. di Dio rappresenta veramente l’abbraccio con cui Dio avvolge la vita dell’uomo nel segno della sua verità e del suo amore, del suo monito e del suo conforto, della sua risposta e della sua proposta, del suo consenso e della sua provocazione. È questa la verticale dall’alto che determina una C. quanto mai attenta ad evitare forme di razionalismo e di illusoria armonizzazione fra la divina P. e le attese dell’uomo.

Ma vi è anche una verticale dal basso su cui la C. costruisce il credente. A Dio che parla, la C. va incontro mediante un triplice gradino da mantenere armonicamente integrato: culturale o della corretta conoscenza delle figure della P.; pastorale o dell’efficace applicazione vitale dei significati della P.; contemplativo o dell’appassionato dialogo di adorazione e di amore con Dio che parla.

Oggi, quando si può felicemente intravedere la dominante presenza della P. nella C., si fa più urgente il compito di qualificare tale presenza secondo i dati della teologia e dell’antropologia, di due fonti del sapere che soltanto in sinergia permettono di rispettare il mistero integrale della P.: l’amore trasparente di Dio in linguaggio umano, così come si manifesta in Gesù Cristo, la P. di Dio fatta uomo.

Bibliografia

E. Alberich,​​ Catechesi e prassi ecclesiale,​​ Leumann-Torino, LDC, 1982; C. Bissoli,​​ La Bibbia e la Tradizione come fonti della catechesi,​​ in “Catechesi” 49 (1980) 11, 3-13; R. Marie,​​ lìerméneutique et catéchèse,​​ Paris, Fayard-Mame, 1970; J. J. Rodrìguez Medina,​​ Teologia pastoral de la Palabra de Dios,​​ Madrid, PCC, 1978; H. Schliek,​​ La parola di Dio. Teologia della predicazione secondo il NT,​​ Roma, Ed. Paoline, 1963; O. Semmelroth,​​ Teologia della parola,​​ Bari, Ed. Paoline, 1968.

Cesare Bissoli

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PAROLA DI DIO

Carlo Buzzetti

 

1. Dio parla: autentiche parole?

1.1. Dio parla: ai patriarchi

1.2. Dio parla: mediante un profeta

1.3. Dio parla: parola e creazione

1.4. Dio parla: Testimonianza del NT

2. Fatti come parole?

3. Gesù come parola

3.1. Gesù come parola: profeta, autorevole, uguale a Dio

4. La parola scritta

4.1. La parola scritta: AT

4.2. La parola scritta: NT

4.3. La parola scritta: AT+NT

5. Parola di Dio e sacra scrittura

6. Diffusione della parola: diffusione della sacra scrittura

6.1. Continuazione della profezia

6.2. Bibbia e profezia

7. Dio parla ancora?

7.1. Vita, liturgia, magistero...

 

La formula «parola di Dio» è frequente nel linguaggio religioso in genere e nel linguaggio cristiano in particolare. Cerchiamo di comprendere il suo significato in ambito cristiano, esaminando successivamente diversi aspetti a partire dalla tradizione giudaica contenuta nell’AT.

 

1.​​ Dio parla: autentiche parole?

La tradizione giudaico-cristiana conferma mille e mille volte la persuasione che Dio ha ripetutamente parlato agli uomini. Dio è uscito dal suo eterno silenzio e ha stabilito una comunicazione mediante «parole». Come? Circa le idee più primitive non sappiamo molto e vi è spazio per ipotesi abbastanza diverse. Con notevole probabilità, le origini della comunicazione divina si trovano in fenomeni analoghi a quelli di altre persuasioni religiose: certi oracoli, certe esperienze più o meno mistiche, ecc. Alcuni individui percepiscono «parole» non umane che appaiono come di provenienza divina: un messaggio di Dio, una sua risposta, un suo ordine, una sua rivelazione, ecc. Già in questa fase bisogna notare che l’espressione «parola di Dio» contiene due elementi che sono da distinguere piuttosto nettamente: a) «di Dio» indica la divinità del messaggio, la sua fonte; b) «parola» indica il tipo di messaggio, la sua modalità.

Mentre il primo elemento è da ricondurre alla specificità della convinzione religiosa, quindi alla fede, il secondo può essere interpretato diversamente, almeno in due direzioni: 1) usando il termine «parola» i destinatari del messaggio intendono dire che veramente essi hanno percepito un suono vocale articolato, identico a quello che scorre nella comunicazione interpersonale; 2) oppure quei primi destinatari stabiliscono un’analogia, cioè affermano che il messaggio è stato ricevuto​​ come se​​ fosse espresso mediante parole; in questo caso essi non si impegnano ulteriormente a descrivere la concreta modalità della comunicazione, o forse non ne sanno dire di più; comunque, essi utilizzano la categoria umana più vicina per indicare un’esperienza che non si realizza soltanto in ambito umano. È difficile, e per certi aspetti impossibile, scegliere, dicendo quale strada, almeno probabilmente, fu seguita sin dagli inizi. Di quegli eventi originari conosciamo solamente qualcosa attraverso le tracce che essi hanno lasciato nella tradizione giudaica.

 

1.1. Dio parla: ai patriarchi

Dopo di allora, esiste la multiforme testimonianza dei patriarchi e dei profeti (usiamo qui il termine in senso molto ampio); nella storia dell’antico Israele, varie persone affermano di aver ricevuto un messaggio direttamente da Dio e lo indicano come avvenuto mediante parole. Elenchiamo soltanto alcuni dei moltissimi esempi.

La prima esperienza di questo genere nel periodo «storico» è quella di Abramo. Ora, l’esistenza di questo patriarca è scandita da numerosi interventi verbali da parte di Dio. Ne citiamo alcuni.

— «Il Signore​​ disse​​ ad Abram: — Vattene dal tuo paese (...)» (Gn 12,1).

— «Dopo tali fatti, questa​​ parola​​ del Signore fu rivolta ad Abram in visione: Non temere (...)» (Gn 15,1; nel seguito del cap. 15 più volte si legge che Dio «rivolge la parola», «dice», «conclude un’alleanza», ecc.).

— «Quando Abram ebbe novantanove anni, il Signore gli apparve e gli​​ disse​​ (...). Subito Abram si prostrò con il viso a terra e Dio​​ parlò​​ con lui» (Gn 17,1-2).

— «Ma Dio​​ udì​​ la voce del fanciullo (...)» (Gn 21,17); notiamo che qui si usa il verbo «udire», tipico della percezione umana, senza con questo affermare che Dio ode proprio come noi...

Degli altri patriarchi segnaliamo soltanto alcuni episodi più espliciti.

— Rebecca: ella «consulta» il Signore, e «Il Signore le​​ rispose​​ (...)» (Gn 25,23).

— Isacco: «Gli apparve il Signore e​​ disse​​ (...)» (Gn 26,24).

— Il sogno di Giacobbe: «Ecco il Signore gli stava davanti e gli​​ disse​​ (...)» (Gn 28,13).

— Giacobbe: prima di traversare il fiume Iabbok, egli lotta con un personaggio misterioso e​​ dialoga con lui; a Betel egli​​ parla​​ con Dio (Gn 32,31 e 35,15).

Nella storia di Mosè vi sono vistose tracce di comunicazione verbale; un elenco completo sarebbe molto lungo.

In​​ Esodo: «Dio lo chiamò dal roveto e​​ disse​​ (...)» (3,4).

— «Il Signore, Dio dei vostri padri, mi è apparso, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe,​​ dicendo​​ (...)» (3,16; in questo testo Dio ordina a Mosè di dire quel che egli ha detto...).

— «Il Signore​​ disse​​ a Mosè: Tu gli dirai quanto io ti​​ ordine​​ (...)» (7,1-2; cf tutto il racconto di 7-15).

— «Il Signore​​ disse​​ a Mosè e ad Aronne (...): Questo mese sarà per voi l’inizio dei mesi (...). Parlate a tutta la comunità di Israele e dite (...)» (12,1-3).

— Sul monte Sinai: «(...) Mosè parlava e Dio gli​​ rispondeva​​ con voce di tuono» (19,19).

— Il decalogo: «Dio allora​​ pronunciò​​ tutte queste​​ parole» (20,1)

— Durante la rivelazione al monte Sinai, il popolo si tiene lontano e chiede a Mosè di fare da intermediario: «Parla tu a noi e noi ascolteremo, ma non ci​​ parli​​ Dio altrimenti moriremo» (20,19); l’intero «codice dell’alleanza» — cap. 20-23 — e tutte le prescrizioni circa la costruzione del santuario e la preparazione dei ministri — cap. 25-31 — sono presentati come lunghi discorsi di Dio stesso.

— Mosè parla ai leviti quando vede il vitello d’oro; egli riferisce loro quanto​​ dice​​ il Signore, ma non è chiaro se riporti sue parole o se interpreti la sua volontà (32,27).

— Nella tenda del convegno: «Il Signore​​ parlava​​ con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla con un altro uomo» (33,11).

— Molte volte si dice che Mosè trasmette al popolo parole ascoltate oppure che egli esegue-fa eseguire ordini ricevuti.

Nei libri​​ Levitico​​ e​​ Numeri​​ la frase: «Dio​​ disse​​ a Mosè» ritorna frequentissima all’inizio di un nuovo paragrafo; più volte si indica come destinatario anche Aronne. E un giorno Aronne e sua sorella Maria contestano il loro fratello Mosè; essi dicono: «11 Signore​​ ha​​ forse​​ parlato​​ soltanto​​ per mezzo di​​ Mosè? Non​​ ha parlato​​ anche​​ per mezzo​​ nostro?» (Nm 12,2). Allora il Signore interviene a difendere Mosè indicando la sua posizione di natura unica; circa un profeta qualsiasi, egli dice: «In sogno​​ parlerò​​ con lui», mentre circa Mosè dichiara: «Bocca a bocca​​ parlo​​ con lui, in visione e non in enigmi» (12,6-8); questo branetto è particolarmente interessante perché dice che esiste un «parlare» di Dio a «profeti» che fanno da intermediari...

In​​ Deuteronomio​​ le parole del Signore sono evocate molto spesso nei discorsi di Mosè.

 

1.2. Dio parla: mediante un profeta

Globalmente, Mosè appare come un «profeta» eccezionale proprio nel senso che Dio ha parlato con lui in maniera particolarmente diretta (cf Dt 34,10). Il che significa mettere in risalto l’eminenza del suo ruolo nella storia del popolo eletto; ma, allo stesso tempo, questo collega a lui i «profeti» sorti in seguito. Anch’essi, in varie maniere, sono destinatari di «parole» di Dio (cf già Dt 18,18: «Io susciterò loro un profeta (...) e gli porrò in bocca​​ le mie parole​​ ed egli dirà loro quanto io gli​​ comanderò»).

Molte volte le storie dei profeti sono marcate da interventi espressi da frasi come le seguenti:

— «A lui fu rivolta la parola del Signore» (Ger 1,2).

— «Mi fu rivolta questa parola del Signore» (Ger 1,11).

— «Lo spirito del Signore parla in me, la sua parola è sulla mia lingua» (Ez 3,4).

Il profeta viene «afferrato» da Dio e quindi posto nella condizione di poter «vedere» e «udire» quel che Dio vuol fargli conoscere. L’iniziativa è di Dio, il quale risulta estremamente libero: egli parla a chi vuole, quando e come decide.

E quasi sempre, esplicito o implicito, troviamo nei testi anche un successivo compito del profeta: quello di comunicare agli altri. Anche se in molti casi egli non è subito entusiasta (cf Ger 1,6), il profeta si trova come forzato a seguire la sua vocazione (cf Am 3,3-8) : cioè ad ascoltare parole di Dio allo scopo di ripeterle; per questo egli afferma frequentemente: «Così dice il Signore», «ascoltate la parola del Signore», ecc. La parola del Signore è accolta e assimilata fino al punto da diventare la parola del profeta stesso (cf Ger 15,19: «Tu sarai come la mia bocca»). Quindi al popolo in genere le parole di Dio giungono attraverso questa mediazione. Ma pare che ciò non crei particolari problemi ermeneutici; soltanto, emerge più volte la preoccupazione di distinguere tra autentici e falsi profeti (cf Dt 18,22; 1 Re 17,24; Ger 28,9).

 

1.3. Dio parla: parola e creazione

La parola di Dio è potente, come Dio stesso (in Ger 23,29 è assimilata al «fuoco» e a «un martello»). Anche quando è pronunciata da un profeta, essa conserva le stesse caratteristiche (cf Ger 5,14): la sua efficacia è sempre infallibile (cf Is 55,10-11).

L’esperienza della «parola di Dio» nella vita dei patriarchi e dei profeti ha provocato una riflessione su di essa; e, molto probabilmente, è frutto di tale riflessione l’idea che la parola di Dio agisce nel mondo sin dalle origini. Infatti la Bibbia contiene vari accenni alla creazione di tutto mediante la sola parola divina (cf Gn 1; Sap 9,1; Sir 42,15; Gdt 16,14; Sai 33,6.9; 148,5; ecc.). Di quale parola si tratta? Nei vari testi essa è un dire, o un parlare, o un chiamare, o un dare ordine... Il risultato è sempre quello di far sorgere resistenza di nuove realtà. E per questa loro radicale dipendenza dalla parola di Dio, le cose tutte risultano docili e disciplinate, ubbidienti alla parola che le governa oppure le chiama a compiti particolari (cf Sir 39,17.31; 45,5.10.17.27; Sal 148,8; Gdt 16,14; Is 40,26; 48,13; Gb 37,6; ecc.).

Naturalmente nessuno può dire di essere stato uditore diretto delle parole creatrici; come notavamo appena sopra, è grazie a una lunga riflessione di tipo sapienziale che il popolo di Israele viene a sapere della presenza e del ruolo della «parola» di Dio sin dai momenti originari. Alla luce della propria esperienza religiosa storica, Israele comprende che il modo più adeguato di rappresentarsi l’attività creatrice di Dio è quello della parola, ciò che anche nell’esperienza umana appare come realtà immateriale (o quasi) eppure capace di generare situazioni nuove (cf qui la voce «Parola»).

Una considerazione complessiva dei testi mostra piuttosto chiaramente che gli autori biblici utilizzano senza timore schemi antropomorfici: molto spesso essi affermano che Dio «parla», ma molte volte non sappiamo a quale esperienza facciano riferimento; certamente essi attestano il fatto della comunicazione; ma dicono ben poco circa il modo con cui essa si realizza. Comunque, non vi è traccia di percezione della parola di Dio al di fuori del quadro di parole pienamente umane (pensatori cristiani in seguito svilupperanno questa osservazione per dire: Dio si è «abbassato» fino a noi, la sua parola è una «kenosis»...).

Ci sembra di poter concludere che, nella tradizione giudaica, il frequente accenno alla «parola di Dio» dipende soprattutto dall’esperienza profetica (in senso ampio). Sicuramente essa indica un effettivo ed efficace evento di comunicazione, paragonabile a quello della parola umana. Forse, indica un fenomeno che per tanti aspetti è identico ad essa.

 

1.4. Dio parla: testimonianza del NT

Analogo è lo sviluppo che riscontriamo nella tradizione cristiana più antica, là dove essa ripete o sviluppa temi già dell’AT. Elenchiamo solamente alcuni testi del NT che accennano alla creazione-conservazione del mondo e ai messaggi di Dio nei tempi passati:

— «Per fede noi sappiamo che i mondi furono formati dalla parola di Dio» (Eb 11,3).

— «La terra (...) ricevette la sua forma grazie alla parola di Dio (...) i cieli e la terra attuali sono conservati dalla medesima parola (...)» (2 Pt 3,5.7).

— «Dio aveva già parlato nei tempi antichi molte volte (...)» (Eb 1,1).

— «Guardatevi perciò di non rifiutare colui che parla (...). La sua voce infatti un giorno scosse la terra; adesso invece ha fatto questa promessa (...)» (Eb 12,25-26).

Circa la modalità con cui la parola di Dio si è fatta presente, la tradizione cristiana conferma quella giudaica; infatti ricorda sempre il ruolo di alcuni uomini che furono profeti-mediatori (cf At 3,21: «(...) come ha detto Dio fin dall’antichità, per bocca dei suoi santi profeti»). Tutto il popolo è destinatario di «parole» che sono promesse, o comandamenti, o rivelazioni, ecc.; ma la comunicazione è costantemente mediata (cf 2 Pt 1,21: «(...) mossi da Spirito Santo parlarono quegli uomini da parte di Dio»).

Del tutto nuovo, e tipico della tradizione cristiana, è invece un altro elemento: l’identificazione della «parola di Dio» con una persona, cioè con Gesù. Ma di questo parliamo più avanti.

 

2. Fatti come parole?

La fede degli antichi Ebrei non si limita ad affermare che Dio ha parlato e parla; ancor più, essa sostiene che Dio ha agito e agisce nella storia degli uomini. Primaria è l’idea dell’azione: in un certo senso secondaria è quella della parola che l’accompagna (o prepara, o annuncia, o commenta, o spiega...). Oppure le due idee sono intrecciate: la parola è azione e l’azione è una specie di parola... La «parola di Dio» ha dato origine alle cose (creazione) e la medesima «parola» più volte è intervenuta e interviene a chiamare alcune persone, a giudicare certe situazioni, a indicare il futuro. La «parola di Dio» è potente, carica di tutta la forza di Dio stesso; essa non si limita a descrivere, nominare, esortare, ecc.; oltre a ciò, essa realizza la volontà di Dio, determina il corso degli eventi, guida la storia, conduce a compimento tutto quanto Dio ha deciso. Una tale estensione è «logica»: infatti, poiché la parola di Dio è considerata come parola-forza, coerentemente essa è vista come artefice di realtà.

A questo punto è opportuno un rilievo: se consideriamo l’AT come testimone della tradizione ebraica antica, vediamo che in esso non si parla tanto di eventi metaforicamente considerati come «parole» di Dio; piuttosto, si parla di eventi che accadono secondo la «parola di Dio», docilmente ubbidienti ad essa.

Il NT, testimone della tradizione cristiana antica, fornisce indicazioni simili. Anche qui gli eventi sono il risultato della volontà di Dio che, quando è comunicata agli uomini, si mostra come «parola». In questo senso si indica che gli eventi sono generati-guidati dalla «parola di Dio». Elenchiamo qui pochi testi (tra cui vi sono esempi di vocazione e di compimento) e notiamo una conclusione che se ne può trarre: più volte la «parola di Dio» è chiaramente intesa come realtà-forza.

— «Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta» (Mt 1,22).

— «(...) la parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto» (Lc 3,2).

— «Intanto la parola di Dio cresceva e si diffondeva» (At 12,24).

— «E ora vi affido al Signore e alla parola della sua grazia che ha il potere di edificare (...)» (At 20,32).

— «Io infatti non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio (...)» (Rm 1,16).

— «Tuttavia la parola di Dio non è venuta meno (...)» (Rm 9,6).

— «(...) l’avete accolta non quale parola di uomini, ma (...) quale parola di Dio che opera in voi che credete» (1 Ts 2,13).

— «(...) ma la parola di Dio non è incatenata» (2 Tm 2,9).

— «Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di una spada a doppio taglio (...)» (Eb 4,12).

— «Dio infatti ha messo loro in cuore di realizzare il suo disegno (...) finché si realizzassero le parole di Dio» (Ap 17,17 dove l’angelo spiega il simbolismo delle corna della bestia).

Globalmente, si riconosce che la «parola di Dio» è una realtà e una forza attiva. E, di converso, che l’azione di Dio è un mezzo per inviare messaggi. Molte volte nella bibbia un evento è commentato da espressioni del tipo: «Così conoscerete che io sono il Signore», «così si adempì la parola del Signore», ecc. «L’azione di Dio appare quasi come un’altra specie di linguaggio. L’opera di Dio appare come la sua parola sotto un’altra forma» (in questi termini si esprimono certi studiosi; si veda ad es. Otto Semmelroth, in​​ Teologia della parola,​​ Bari 1967, p. 60). Grazie a questa stretta connessione, Dio comunica anche attraverso i fatti. Quindi, essi possono esser considerati «parole di Dio»; ma più che la bibbia, sarà la tradizione successiva a usare questo modo di dire.

 

3. Gesù come parola

Il tema della «parola «-persona è tipico della fede cristiana, fin dai suoi inizi. Per motivi teologici consistenti, i primi cristiani avevano difficoltà a dire, semplicemente, che Gesù è Dio; infatti questo poteva costituire un attentato all’unicità e trascendenza di Dio. Più coerentemente con la fede giudaica, ma superando i suoi limiti, la fede cristiana afferma: la parola di Dio è venuta tra noi; e non soltanto come un messaggio o un evento di natura transitoria; ora essa ha preso stabile dimora tra gli uomini dopo aver assunto la realtà di una persona... La «parola» di Dio è talmente «di Dio» da poter essere detta suo «Figlio»; e il Figlio è diventato un uomo concreto, Gesù di Nazaret. Continuità e superamento rispetto al passato sono espressi più volte nel NT; alcuni testi sono particolarmente espliciti.

— Il Verbo = la parola di Dio «era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui (...). E il verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,10.14).

— «Dio, che aveva parlato già nei tempi antichi molte volte e in molti modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio (...). Questo Figlio (...) sostiene tutto con la potenza della sua parola» (Eb 1,1-3).

 

3.1. Gesù come parola: profeta, autorevole, uguale a Dio

Innanzitutto è da registrare la persuasione che Gesù annuncia la parola di Dio; la sua predicazione si colloca, almeno, sulla linea dei profeti. Cf Le 8,11: «Il seme è la parola di Dio»; Me 2,2: «Si radunarono tante persone (...) ed egli annunziava loro la parola»; Le 5,2: «La folla gli faceva ressa intorno per ascoltare la parola di Dio»; Gv 14,24: «La parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato»; At 10,36: «Questa è la parola che egli ha inviato ai figli di Israele, recando la buona novella della pace, per mezzo di Gesù Cristo (...)»; ecc. Notiamo che l’ultimo testo citato è particolarmente significativo in quanto, subito dopo, Pietro riassume «ciò che è accaduto», cioè la vita di Gesù ancor prima delle sue parole. Sulla stessa linea, ma ancor più avanzata, è la sensazione della straordianaria autorevolezza manifestata da Gesù; si vedano in proposito i molti «io vi dico» (specialmente contrapposti a parole dell’AT, come in Mt 5) a volte rafforzati da un solenne «amen, amen»; si veda l’impressione che Gesù fa sulle folle. Cf Mt 7,29 par.: «(...) insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi»; Me 4,41 par. : «(...) Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?». In molti racconti di miracoli si presenta la parola di Gesù come una forza capace di cambiare la situazione, proprio come fa la parola di Dio; egli stesso parla con autorevolezza che scandalizza: cf Me 2,7 par.: «Perché costui parla così? Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?». Speciale considerazione merita il misterioso uso dell’autodefinizione «io sono» che suggerisce proprio l’identità di Gesù con Dio mediante l’autoapplicazione del nome divino. Gv 8,28: «Quando avrete innalzato il Figlio dell’Uomo, allora saprete che Io Sono e (...) come mi ha insegnato il Padre, così io parlo»; 8,58: (...) prima che Abramo fosse, Io Sono»; 13,19: «Ve lo dico fin d’ora (...) perché, quando sarà avvenuto, crediate che Io Sono». Soprattutto nel quarto vangelo si intrecciano diversi livelli di idee relative a questo tema: Gesù dona la parola di Dio, Gesù è Dio, la sua parola genera la vita piena, ecc.

— Gv 5,24: «Chi ascolta la mia parola (...) ha la vita eterna».

— Gv 10,33: «(...) tu, che sei un uomo, ti fai Dio».

— Gv 17,8 (Gesù si rivolge a Dio Padre): «le parole che tu hai dato a me, io le ho date a loro (...)».

4. La parola scritta

Prima di Gesù, la «parola di Dio» è accolta da vari «profeti» e da loro ripetuta; oppure si manifesta nella realizzazione di certi eventi. Da quando è presente Gesù, la «parola di

Dio» si identifica con la sua persona, quindi con le sue parole e i suoi gesti, con la sua vita. Abbiamo visto sopra che le due fasi sono insieme distinte e per molti aspetti collegate; in particolare, un fatto le accomuna: il passaggio alla condizione scritta.

 

4.1. La parola scritta: AT

L’AT è una raccolta di scritti che contengono detti, racconti, ecc. La parola di Dio rivolta ai profeti o manifestata negli eventi, a un certo punto diviene parola scritta che la registra, la racconta, la commenta, la attualizza... Esperienze mistiche, comandamenti, narrazioni popolari, preghiere, ecc., conoscono in genere un primo stadio orale in cui la parola di Dio è parlata e ascoltata; poi, in momenti e modi diversi, qualcuno scrive; a volte egli fissa nello scritto un detto profetico; a volte descrive un evento, e lo dichiara esecuzione della «parola di Dio»; a volte narra vicende che preparano, accompagnano o seguono una parola o un evento di Dio; a volte riporta pensieri-commenti-preghiere... È interessante notare che gli scritti dell’AT sono costituiti da testi di origini e autorità e stili palesemente diversi.

Esiste la traccia di alcuni scritti che intendono essere la riproduzione diretta di «parole» parlate o di eventi accaduti.

— «Allora il Signore disse a Mosè: Scrivi questo per ricordo nel libro (...)» (Es 17,14); notiamo che qui Mosè è invitato a scrivere non un messaggio da lui ricevuto ma il resoconto di un fatto provocato e guidato da Dio, la vittoria contro Amalek.

— «Le tavole erano opera di Dio, la scrittura era scrittura di Dio» (Es 32,16; cf anche 24,12; 31,18; 34,1; 34,27).

— «Il Signore disse a Mosè: Scrivi queste parole, perché sulla base di queste parole io ho stabilito un’alleanza con te e con Israele» (Es 34,27).

— «(...) questa parola fu rivolta a Geremia da parte del Signore: Prendi un rotolo da scrivere e scrivici tutte le cose che ti ho detto (...)» (Ger 36,1-2).

Ma non tutti gli scritti dell’AT, anzi, soltanto una piccola parte di essi appartengono a quel genere. Tuttavia ciò basta a farci comprendere come la fede di Israele sia giunta alla convinzione di possedere alcune parole che devono essere dette «di Dio» perché possono essere fatte risalire a lui. Rimane tuttavia notevole e sorprendente il fatto che l’idea di «parola di Dio» sia stata poi enormemente ampliata: non soltanto le «dieci parole» ricevute da Mosè sul monte Sinai, ma anche tutta la legislazione mosaica successiva rientra nella stessa categoria; e analogamente: non solo gli oracoli dei profeti, ma anche il racconto delle loro vicende; non soltanto le parole che Samuele ha udito in sogno (cf 1 Sam 3), ma l’intera storia della sua vita e quella dei re; non solo la relazione di visioni e di eventi prodigiosi, ma anche le varie riflessioni sapienziali su di essi...

Quindi, per una specie di «contagio», tutto l’insieme degli scritti biblici a un certo punto è globalmente considerato «parola di Dio». In seguito, la tendenza a identificare la «parola di Dio» con il testo scritto si fa sempre più esplicita e solida. Anche le varie parole umane che riferiscono, o raccontano, o ricordano, o attualizzano la «parola di Dio» sono essé stesse considerate «parole di Dio». Quei primi scritti assumono ben presto un carattere sacro e normativo; di conseguenza, essi diventano una realtà definita, ben delimitata, distinta da ogni altra parola umana che la proclama, o la commenta, o la predica. In qualche maniera, la bibbia è​​ la​​ «parola di Dio» in senso esclusivo.

 

4.2. La parola scritta: NT

Il NT si presenta come fenomeno parallelo. Alla sua origine si trovano le parole di Gesù e le vicende della sua esistenza (come abbiamo visto, esse sono un inaudito eppure reale equivalente delle più antiche «parole» di Dio). Ma i primi cristiani non si sono limitati a fare una raccolta dei detti del Signore, delle sue parabole e delle sue dispute; alcuni di loro hanno voluto raccontare, meditare e spiegare le parole udite e i fatti accaduti. Nei loro scritti troviamo anche eventi marginali, parole e azioni relative alla vita dei discepoli, riflessioni teologiche, discussioni di problemi pastorali contingenti, brani di corrispondenza, ecc. A un certo punto, il tutto è considerato «parola di Dio». Così anche il NT costituisce la fissazione scritta di​​ alcune​​ «parole» che possono risalire a Dio (in questo caso: a Cristo, e quindi a Dio)​​ più​​ la fissazione di​​ altre​​ «parole» umane che costituiscono una sorta di cornice letteraria. L’insieme assume presto una fisionomia definita, diventa un «corpus» delimitato, un «canone» sacro e distinto da ogni altra parola; il tutto è considerato «parola di Dio».

 

4.3. La parola scritta: AT + NT

La bibbia intera (AT più NT) è questo: da una parte essa è lo scrigno che contiene alcune «parole di Dio» particolarmente dirette; dall’altra, essa stessa, anche come contenitore, è una realtà «sacra» nel senso che Dio l’ha voluta e quindi è un suo prodotto, una sua «parola». Su questo punto, le convinzioni giudaiche e cristiane convergono. In termini di riflessione teologica, si parla di «ispirazione» della Sacra Scrittura come di quella caratteristica grazie alla quale essa è interamente «parola di Dio» (cf DV 9.24).

 

5. Parola di Dio e sacra scrittura

Quando si parla di «parola di Dio» occorre quindi tener presenti due punti: per un verso la «parola di Dio» trascende la Scrittura, in quanto esiste già prima di essa, a un certo punto si incarna in essa, ma nulla permette di dire che vi sia come contenuta in maniera esaustiva e catturata in modo esclusivo; per altro verso, la Sacra Scrittura stessa è «parola di Dio»; tutto il suo contenuto — sia quello esplicitamente divino, sia quello palesemente umano — è un prodotto della volontà di Dio; nessun’altra parola umana può paragonarsi ad essa (proprio come nessuna carne umana è paragonabile alla carne umana di Gesù che — unica — è stata scelta da Dio come suo strumento specialissimo). Questa osservazione risulta concretamente utile per svolgere altri due temi: quello della diffusione della «parola di Dio» e quello della sua esistenza attuale. Li accenniamo qui di seguito in maniera schematica.

 

6. Diffusione della parola: diffusione della​​ sacra scrittura

Come si diffonde la «parola di Dio»? Fondamentalmente in due direzioni: data la sua esistenza nella Sacra Scrittura, diffondendo quest’ultima; data la sua trascendenza rispetto ad essa, continuando la tradizione profetica. Le due direzioni non sono totalmente separate (anzi, per certi aspetti si sovrappongono); ma in una presentazione schematica come la nostra sembra pratico distinguerle. Circa il primo aspetto potremmo descrivere i molti modi con cui si favorisce il contatto con la bibbia; per ragioni di brevità, ci limitiamo a un elenco delle principali vie.

1. Definizione e difesa critica del testo;

2. moltiplicazione (trascrizioni, stampa...);

3. lettura (liturgica, di gruppo, individuale...);

4. traduzione (in varie lingue e a vari livelli linguistici...);

5. attualizzazione (omelia, lectlo divina...);

6. introduzione (l’ambiente, la letteratura...);

7. commento (note, sintesi...);

8. illustrazione (immagini, fumetti...);

9. registrazione (dischi, nastri magnetici...);

10. adattamento (teatrale, cinematografico...).

Ciascuno dei punti indicati costituisce un’attività sufficiente a richiedere la competenza di una disciplina a sé stante (dalla critica testuale all’omiletica, alla linguistica del tradurre...). Qui basti pensare che la diffusione della «parola di Dio» scritta è un’impresa complessa e multiforme (per un panorama di quanto è stato fatto in passato e si può-deve fare oggi si veda Carlo Buzzetti,​​ La Bibbia e la sua comunicazione,Torino 1987).

6.1. Continuazione della profezia

Per il secondo aspetto, occorre saper percepire e saper comprendere volta per volta la volontà di Dio, e occorre saper ubbidire. La Sacra Scrittura non contiene tutto ciò che Dio ha detto e dice; il Signore ha parlato e parla in molti modi. Nella chiesa è compito specifico delle guide maggiori quello di ascoltare e conservare tutte le parole (anche la bibbia!), interpretarle, applicarle, riformularle, diffonderle. Si tratta di un ruolo profetico. Ma esso non è impegno esclusivo dei «capi»; ogni credente, ciascuno nella sua misura, può e deve ascoltare, capire e riesprimere le parole di Dio che vengono a lui attraverso la «tradizione» (nel senso più ampio e più teologica-menteuserio del termine).

Parlare della fede significa dare (oppure: ridare) voce umana alle «parole di Dio»; raccontare la fede, commentarla, applicarla alle varie situazioni della vita umana nei vari tempi: tutto ciò costituisce una vera attività profetica. La profezia non è una realtà esclusiva del passato, tipica dell’AT; essa continua a esistere anche in epoca cristiana (cf 1 Cor 12,28-30). È da considerare parziale, e in questo senso errata, l’idea che esistono ancora profeti soltanto nella misura in cui esistono nuove «parole» di Dio (di tale aspetto parliamo brevemente più avanti). Invece, profeta è anche colui che ascolta, conserva, medita «parole» preesistenti e le comunica, le spiega, le ricomprende, le collega a nuove situazioni, le attualizza... Così intesa, l’attività profetica è un principalissimo canale di diffusione della «parola di Dio».

 

6.2. Bibbia e profezia

Notavamo poco sopra la non totale separazione tra divulgazione biblica ed esercizio della profezia. Ora, dopo aver indicato a grandi linee la loro distinzione, possiamo aggiungere: chi divulga la Sacra Scrittura svolge anche un ruolo profetico (nel senso che sempre comprende e aiuta a far comprendere le «parole di Dio» depositate negli scritti ispirati); e, reciprocamente, il profeta attento ad accogliere e a prolungare la «tradizione» della fede, deve accogliere e comunicare principalmente la Bibbia. Di fatto, alcuni si dedicano prevalentemente alle «parole di Dio» che costituiscono la Sacra Scrittura, altri si prendono cura soprattutto delle parole di Dio disseminate nella storia del mondo e del popolo di Dio (cf​​ Dei Verbum​​ 8-10).

 

7. Dio parla ancora?

È un tema di fronte al quale la coscienza dei credenti è particolarmente sensibile in certi periodi, anche oggi. Per un verso, molti credenti pensano che il riferimento al passato sia decisivo, ineludibile ed essenziale; per altro verso, molti credenti considerano mortificante e piuttosto sacrilego immaginare l’azione di Dio quasi come esaurita e imbalsamata nei documenti del passato, costretta entro i limiti del già avvenuto e del già stabilito... Effettivamente bisogna comprendere e sostenere con decisione che noi oggi non stiamo vivendo una qualsiasi tappa della storia del mondo in cammino verso la salvezza definitiva: piuttosto, è vero che noi siamo nell’ultimo periodo, siamo ormai di fronte all’ultimo segmento di una lunga catena di «parole» che vanno dalla creazione fino a Cristo; quindi non dobbiamo più attendere nuove «parole» in grado di superare le precedenti così come il vangelo ha superato il messaggio anticotestamentario; il Cristo è «l’ultima parola» di Dio (cf DV 4).

Ma la fine totale non è ancor giunta; nel frattempo, noi viviamo una specie di intervallo: tra la Pasqua e la Parusia; ci sembra a volte un intervallo complesso e misterioso; ma questo non dovrebbe indurci ad alimentare fantasiose speranze circa ulteriori novità: infatti dalla Pasqua in poi nessuna parola, per quanto possa sembrare «nuova», sarà mai radicalmente nuova. Qui si insinua l’obiezione cui accennavamo prima: questo modo di vedere e pensare non finisce per incatenare Dio stesso, per negare la sua libertà, per mortificare la vivacità sempre imprevedibile del suo Spirito? Rispondiamo di no; e per due gruppi di motivi: 1. Dio stesso è l’autore di questo progetto, egli stesso ha stabilito una storia dove i suoi interventi (cioè le sue «parole») per moltissimi millenni sono stati una continua preparazione (all’insegna della gradualità, quindi all’insegna del continuo superamento) e dove il punto finale è costituito dalla presenza della parola-Gesù; 2. durante l’intervallo che esiste tra la Pasqua e la Parusia (cioè tra la parola ultima e la sua piena realizzazione) si snoda un periodo di tempo, forse lunghissimo, nel quale Dio continua a «parlare» per ripetere, commentare, tener viva, attualizzare la sua parola-vangelo che egli ci ha rivolto mediante Gesù.

7.1. Vita, liturgia, magistero...

Quindi, durante il periodo che stiamo vivendo, si può dire che Dio parla ancora? Se per «ancora» si intende un messaggio totalmente nuovo, la risposta è negativa; se invece per «ancora» si intende un’ampia e imprevedibile varietà di forme e mezzi con cui Dio ripresenta le parole già dette in Cristo, la risposta deve essere nettamente positiva. Quando qualcuno afferma che Dio parla attraverso gli eventi, la vita delle persone, la storia di ogni giorno, le cose, ecc., dice qualcosa di esatto; a condizione però che — esplicitamente o implicitamente — egli affermi un legame con il vangelo. Anche la liturgia, la predicazione e il magistero della Chiesa sono, per i credenti, luoghi speciali nei quali continua a risuonare la «parola» di Dio: ripetuta, meditata, applicata o autorevolmente interpretata...

Sì, Dio «parla» ancora; non per dire parole del tutto inaudite, ma per aiutare il mondo a comprendere la parola-vangelo che è già stata detta eppure non è stata ancora compresa del tutto né da tutti. In questo senso vi è ampio spazio per la «moderna» profezia: quella di chi percepisce e diffonde le «moderne» «parole» di Dio tese a far accogliere-assimilare l’ultima sua «parola». Esistono ancora «parole di Dio»: quelle che chiamano certe persone a compiti speciali, oppure esortano a particolari attenzioni, indicano concrete urgenze, promettono certi interventi concreti, ecc. Di conseguenza, devono esistere ancora i profeti: persone che sanno leggere nei fatti e nelle situazioni una «parola di Dio» rivolta agli uomini di un certo tempo e un certo ambiente affinché essi sappiano comprendere un aspetto trascurato del vangelo e possiedano la luce e la forza di metterlo in pratica.

Come nel passato, tutti, uomini e donne, anziani e giovani, possono improvvisamente essere chiamati ad essere profeti...

E come nel passato, la Parola di Dio, conserva due caratteristiche: è sempre espressa soltanto nel quadro delle parole umane, in modo che la conoscenza della parola umana è condizione anche per percepire i messaggi di Dio; a volte la Parola sembra stranamente muta, quasi assente: è il «silenzio di Dio» che si impone agli uomini per renderli più pensierosi, oppure per punirli delle loro nonattenzioni, oppure per prepararli a un messaggio particolarmente impegnativo; nella vita dell’umanità come nell’esistenza degli individui esistono di questi penosi periodi (cf Is 63-64): essi possono condurre alla preghiera oppure alla disperazione; in ogni caso, sono una sfida alla fede.

 

Bibliografia

Alonso Schoekel L.,​​ L’AT come parola dell'uomo e parola di Dio,​​ in «Parola e Messaggio»,​​ Bari 1970; Buzzetti C.,​​ La Bibbia e la sua comunicazione,​​ LDC, Leumann 1987; Cavedo R.,​​ Libro sacro​​ in «Nuovo Dizionario di teologia», Ed. Paoline, Roma 1979; Grelot P.,​​ La Bible parole de Dieu,​​ Desclée, Paris 1965; Scheffczyk L.,​​ Parola, parola di Dio​​ in «Sacramentum mundi»,​​ Morcelliana, Brescia 1976; Schlier H.,​​ La Parola di Dio,​​ Ed. Paoline, Roma 1963; Semmelroth O.,​​ Teologia della Parola,​​ Ed. Paoline, Bari 1968.

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PAROLA DI DIO

PARROCCHIA

 

PARROCCHIA

La P. è la cellula della diocesi. Essa costituisce la prima e insostituibile forma di comunità ecclesiale. È comunità di​​ fede,​​ illuminata e sorretta dalla Parola di Dio; è comunità di​​ culto,​​ per l’azione dei sacramenti che vi si celebrano; è comunità di​​ carità,​​ dove la realtà della comunione è vissuta nel servizio, nell’aiuto reciproco, nella testimonianza (Comunione e Comunità,​​ 44).

La P. è il “luogo privilegiato della C.” (CT 67), il luogo concreto per l’inserimento dei singoli fedeli nella Chiesa particolare e universale, l’ambito in cui si realizza la piena presentazione della Parola di Dio e in cui il credente deve poter vivere la vita cristiana in tutte le sue dimensioni.

1.​​ Il servizio profetico nella P.​​ Nell’adempimento del suo servizio profetico, la P. si avvale di molteplici risorse educative, di vari “canali cat.” e del collegamento con il territorio.

a)​​ La P. è il luogo dove i battezzati prendono coscienza di essere “popolo di Dio” e crescono nella vita cristiana grazie al radicamento nella realtà culturale e nella tradizione religiosa dell’ambiente, alla prossimità di persone e di famiglie credenti, alle varie forme di vita associativa che in essa si sviluppano, alle celebrazioni cristiane e in particolare all’eucaristia domenicale, alle feste dell’anno liturgico, all’esercizio della carità che in essa si promuove.

b)​​ Per annunciare la Parola di Dio e per promuovere la vita di fede nei battezzati la P. ha la possibilità di avvalersi dell’apporto convergente delle aggregazioni che in essa sono nate o possono nascere: gruppi di famiglie, associazioni e piccole comunità che riuniscono persone per affinità di interessi e di sensibilità, o per carismi particolari, o per compiti specifici di evangelizzazione e di promozione umana.

c)​​ La C. in P., più che altrove, può arricchirsi mediante il riferimento costante ai segni vivi della fede, i sacramenti; il confronto con testimonianze tangibili di carità e di impegno sociale; l’esperienza diretta della comunione ecclesiale con tutta la varietà dei suoi membri; l’impatto con i problemi umani, le situazioni sociali e gli avvenimenti di attualità che coinvolgono la comunità.

d)​​ La C. in P. si caratterizza anche come iniziazione all’apostolato. In P. si aprono gli spazi per la partecipazione attiva dei battezzati alla vita ecclesiale e le vie dell’impegno operativo nella società. Ad essa possono sempre fare riferimento anche coloro che hanno smarrito o non hanno mai conosciuto la fede cristiana.

2.​​ Le scelte pastorali per il servizio profetico della P.​​ La P., per diventare sempre più comunità profetica e missionaria e per poter adempiere efficacemente tale compito, deve far proprie alcune scelte pastorali.

a)​​ Anzitutto deve mettersi in​​ ascolto​​ permanente della Parola di Dio e dei “segni del tempo”, per convertirsi dalle possibili infedeltà alla sua missione e per restare aperta e accogliente verso le nuove istanze e i problemi che sorgono in essa e attorno a essa.

b)​​ La P. è chiamata a promuovere in tutti i suoi membri il senso della​​ comune responsabilità​​ nei confronti dell’annuncio del Vangelo e dell’educazione della vita di fede. In tal modo ogni problema educativo diviene ansia per tutti, e tutti collaborano per il bene comune secondo le proprie competenze (cf RdC 148).

c)​​ Una cura particolare deve essere rivolta dalla P. alla formazione degli​​ operatori​​ della C. sistematica, offrendo loro la possibilità di vivere una costruttiva esperienza di gruppo, di partecipare alle scuole e ai corsi di qualificazione, di mantenere un rapporto dinamico con tutta la realtà parrocchiale.

d)​​ Per promuovere una C. organica e sistematica, la P. è tenuta anche a delineare la necessaria programmazione cat., che consiste nella scelta organica e razionale di una serie di interventi pastorali, orientati al raggiungimento di alcuni obiettivi preordinati di formazione.

e)​​ È necessario che la P. coordini e dia unità ai contributi cat. delle varie “agenzie educative” cristiane: famiglia, associazioni, incontri vari, vita della comunità parrocchiale e IR nella scuola. Inoltre è necessario che essa crei​​ strutture​​ adeguate per l’evangelizzazione e “luoghi” di C.: itinerari di iniziazione cristiana per l’età evolutiva, occasioni di evangelizzazione per gli indifferenti e i non credenti, itinerari di formazione cristiana permanente per giovani e adulti credenti.

Lungo il suo itinerario di crescita e in questo servizio per l’educazione della vita cristiana la comunità par. si esprime secondo modalità che variano da luogo a luogo, in corrispondenza alla situazione locale, ma sempre in comunione con il vescovo e con l’intera Chiesa particolare.

Bibliografia

V. Bo,​​ Parrocchia Ira passato e futuro,​​ Assisi, Cittadella, 1977 (bibl. 190-198); A. Mazzoleni,​​ L'evangelizzazione nella comunità parrocchiale,​​ Alba, Ed. Paoline, 1975; L. Soravito,​​ La programmazione catechistica della comunità parrocchiale,​​ nel vol.​​ Formare i catechisti in Italia negli anni '80,​​ Leumann-Torino, LDC, 1982, 146-159.

Lucio Soravito

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PARROCCHIA

Pino Scabini

 

1. Ragioni di un travaglio

1.1. Tra indifferenza e radicalismo

1.2. Tra «cristianità» e sana laicità

1.3. Tra pluralismo e unità

1.4. Tra clericalismo e ministerialità diffusa

1.4. Tipologia della parrocchia, tra vecchio e nuovo

2. I parametri di una nuova stagione della parrocchia

2.1. La parrocchia nel Codice di Diritto Canonico

2.2. Apporti della riflessione teologica

3. Per un itinerario pastorale sinfonico

3.1. Accettare e attuare il «principio del rinnovamento»

3.2. Verso una forma storica di parrocchia sanamente popolare, flessibile e integrata

3.3. Cercare, anziché subire, l’integrazione con altre forme

3.4. Accogliere con gratitudine la complessità di una comunità ministeriale

3.5. Rivalutare la «primarietà» della comunità parrocchiale

4. Quale parrocchia? Oggi per domani

 

Quanto di vecchio debba essere gettato, di antico debba continuare per giungere a compimento, di nuovo debba essere cercato e innestato in un ceppo secolare, come è la parrocchia, è oggi motivo di riflessione e di preoccupazione. Le mutate condizioni storiche e le innovazioni teologiche richiedono un​​ ripensamento​​ della parrocchia, perché possa essere una comunità evangelizzatrice e missionaria; d’altra parte, il realismo e il buon senso, non solo pastorale, consigliano di​​ continuare​​ nella strada che mantiene la parrocchia ma tende a restituirle, dove sia necessario, strutture più adeguate e, soprattutto, nuovo vigore, nuovo senso (cf CT, 67; CEI,​​ L ’Evangelizzazione nel mondo contemporaneo,​​ 1974, n. 78). È convinzione diffusa che la natura teologico-pastorale, e non puramente sociologica, della parrocchia s’innesta nel mistero della Chiesa e nella intrinseca sua tensione alla salvezza degli uomini. Di qui l’interrogativo dominante:​​ quale parrocchia, oggi?​​ In questa prospettiva, saranno sviluppati i punti indicati nel sommario, quali passaggi di una tensione pastorale che, attenta alla vita delle nuove generazioni, ne coglie le domande e vuole offrire risposte adeguate.

 

1.​​ Ragioni di un travaglio

«Parrocchia in crisi» è espressione corrente; logico appare di conseguenza il duplice schieramento dei difensori e degli accusatori, nessuno dei quali è vincitore.

La difesa della parrocchia, oggetto di non scarsa letteratura, tradisce l’affanno di una difficoltà che ha radici annose, fino a mostrarsi come un malessere diffuso. Ne sono segnali inequivocabili la variegata valutazione degli studiosi; la stanchezza di alcuni parroci; l’uscita di sicurezza di laici che cercano altrove spazi per la loro dignità e operosità; l’aggravio burocratico di alcuni servizi; l’indifferenza nemmeno problematica di molti ragazzi che nella parrocchia ci stanno fino alla cresima, il sacramento del congedo; l’aggressività di alcuni movimenti e gruppi, ecc. Ogni fatto ha la sua particolare spiegazione che peraltro risulta insufficiente in ordine anche al solo diagnosticare la messa in stato di accusa della parrocchia. Perché, ad esempio, si chiama in causa la parrocchia in sé stessa quando taluni movimenti creano problemi nelle celebrazioni liturgiche? Non sarebbe sufficiente correggere queste?

Il quadro è ovviamente più complesso. Gli aspetti particolari rimandano alla problematicità globale suscitata da alcuni avvenimenti ampi e sconvolgenti: la secolarizzazione con i suoi valori di soggettività e libertà, non sempre congrui a una istituzione; la forza del rinnovamento insita nel Vaticano II che può essere frenata ma non vanificata; la misteriosa (in senso teologico) polarità nella chiesa tra sacerdozio ordinato e sacerdozio comune dei fedeli, forse non ancora vissuta al meglio nell’esperienza cattolica sia pur secolare, e oggi urgente al punto tale da non sopportare soluzioni evasive oppure scorrette, come il neo-clericalismo e un insidioso «laicalismo». Non basta, dunque, scavare nelle pieghe della storia della parrocchia per diagnosticarne carenze e infedeltà. La più ampia storia degli uomini e della Chiesa, lo stesso incalzare misterico della storia della salvezza inquadrano gli avvenimenti citati e consentono una lettura di essi più incisiva in relazione ai bisogni attuali dalla parrocchia. L’impatto di tali avvenimenti sulla parrocchia — vero avamposto e crogiuolo di esperienze umane — si evince da alcune situazioni-limite variamente indagate, riassumibili nel seguente quadro di tensioni.

 

1.1. Tra indifferenza e radicalismo

La presenza dominante, almeno nell’area occidentale, del fenomeno dell’indifferenza sconvolge equilibri tradizionali e appare come una sfida alla strategia pastorale consolidata di cui si è avvalsa la grande maggioranza delle parrocchie fino a tempi recenti o ancora perdurante.

Il non terminato processo di secolarizzazione, anche quando non sfocia nel secolarismo, crea attorno all’uomo una atmosfera di assenza di Dio e di naturalismo agnostico che non solo non aiuta l’ascolto del messaggio evangelico ma positivamente lo impedisce. Si consolida di conseguenza la tendenza a mettere l’uomo al vertice assoluto, affermandone la piena autonomia da Dio e da ogni verità e norma morale trascendenti; Dio, la religione, la Chiesa e, più ampiamente, il sacroreligioso debbono considerarsi come nonvalori e, soprattutto, come irrilevanti per l’esistenza e l’attività umana. Si tende a privilegiare in modo esclusivo la realtà storicomondana con i suoi valori, ritenuti come unici e decisivi, così che tutto è chiuso nell’orizzonte dell’esperienza storicistica; tutto è​​ debole,​​ dal pensiero a Dio.

Si ipotizzano due ambiti separati e non comunicanti, l’umano-storico (o​​ profano)​​ e il religioso (o​​ sacro)​​ escludendo ogni influsso di questo su quello e delimitandolo sempre più nell’ambito del privato e del soggettivo; al religioso viene impedito l’accesso nella sfera pubblica o, nel migliore dei casi, se ne mette in dubbio la competenza così che i momenti decisionali prescindono sempre dai principi e dagli orientamenti religiosi. Quanto più si rende indifferente, l’uomo diviene chiuso o estraneo al problema religioso e al messaggio evangelico, conservando al massimo la nostalgia di un orizzonte trascendente che identifica nella sopravvivenza di alcune pratiche.

11 processo di secolarizzazione è attraversato, peraltro, da profonde inquietudini che ne impediscono una crescita lineare — come sembrerebbe quella sopra descritta — e ne svelano un volto segreto, non del tutto negativo. La crisi delle ideologie e dei grandi «miti» contemporanei — il benessere senza solidarietà, il progresso senza limiti, la scienza senza sapienza, la libertà senza responsabilità — acuiscono la domanda di senso, il bisogno di valori, la necessità di punti di riferimento comuni e di evidenze etiche, l’importanza delle istituzioni. L’inquietudine suscita nell’uomo attese di nuove certezze rassicuranti, unite a una nuova problematica nella quale rientrano, almeno come ipotesi, il bisogno di Dio e della comunità religiosa. C’è forse un bisogno emergente di radicalità, di trovare le radici, non esente da ambiguità. La caduta della razionalità infatti apre nuovi spazi per il mondo dei sentimenti e delle emozioni, ingenera il ricorso a nuovi «dogmi» all’insegna del radicalismo e stabilisce inedite regole di convivenza dove lo spontaneismo è soppiantato dalle esigenze rigide del gruppo. Tutto è nuova scoperta, rifondazione, modernità. In una parola, l’esigenza di radicalità porta con sé il rischio di un insidioso radicalismo.

In questa situazione di «rivoluzione silenziosa», a cui sono sensibili più di altre le nuove generazioni, la parrocchia stenta a decifrare il suo ruolo e, in concreto, «oscilla con moto pendolare tra integralismo e permissivismo, tra tradizionalismo conservatore e rottura totale con il passato, tra puro cultualismo e prevalente (se non esclusivo) impegno politico» (V. Bo,​​ Parrocchia,​​ 413). Alcuni s’interrogano onestamente sia sul senso di quanto avviene sia sull’adeguatezza dell’istituzione parrocchiale a rispondere ai nuovi bisogni. Ma si ha l’impressione che nella maggioranza dei casi si ricorre alla ricetta di moda o si difende ottusamente una prassi che non ha il minimo accento di modernità. In questo modo si autorizza l’interrogativo se al posto del rinnovamento non si debba affrontare il cambiamento del modello (cf G. Cardaropoli,​​ La pastorale parrocchiale,​​ 109). L’incertezza non è amica dell’azione pastorale che appare come paralizzata soprattutto nella parrocchia perché carente di progettazione e di continuità.

 

1.2. Tra «cristianità» e sana laicità

Fenomeni ampi e sconvolgenti dei tradizionali equilibri — quali l’urbanizzazione, la rottura tra cultura e vangelo, il «primato» della politica e l’aggressività marxista, il dominio dei mass-media, ecc. — non hanno trovato nel mondo cattolico, almeno in Italia, né una resistenza né una risposta concorde. Se ciò è comprensibile e in parte giustificabile, sul piano delle conseguenze pratiche non si può non rilevare una preoccupante ambiguità, esistente nell’ambito cattolico, che tocca da vicino l’identità della parrocchia e la sua capacità pastorale.

Sotto l’etichetta di «mondo cattolico» convivono due atteggiamenti pratici — o forse due «anime», come qualcuno dice — che in comune hanno soltanto una certa professione dell’unica fede e il soprassalto d’orgoglio di dirsi «cattolici». Il divario diventa evidente nell’interpretazione della parola e della realtà​​ mondo, con i conseguenti atteggiamenti di fronte ad esso.

Per alcuni​​ mondo​​ è il campo estraneo al vangelo e ai credenti, luogo sostanzialmente d’iniquità e d’incredulità considerato più come una «cosa» che non fatto di persone. Ciò che avviene nel mondo riguarda lui solo; ai cristiani è sufficiente la propria città che deve badare a difendersi dagli attacchi mondani e a non contaminarsi mai. Quanto più, ad esempio, la parrocchia è impermeabile ai venti diversi e chiusa nella gelosia della propria identità diversa, tanto meglio riesce a compiere la sua missione che deve esprimersi in realtà marcatamente ed esplicitamente «cattoliche». Alle opere mondane si risponde con le opere cattoliche; all’umanità-società con la «cristianità».

Altri ritengono che nell’unico​​ mondo​​ offerto dalla bontà di Dio alle creature umane, creato e salvato dal peccato dalla misericordia del Signore, occorre porre lo scenario sul quale s’incontrano e si distinguono, non separate né identificate, la storia umana e la storia della salvezza e le loro rispettive forme storiche, la comunità umana e la comunità ecclesiale.

Tutti sono titolari a pieno titolo della prima; tutti sono chiamati a vivere la seconda, anche se di fatto chi la sperimenta appartiene al mistero dei «pochi a favore di tutti».

Il cristiano sa di avere una duplice e indivisa cittadinanza; nel mondo e nella Chiesa. Sa anche che ciò l’autorizza non al privilegio né all’estraneità bensì al servizio agapico dove il dialogo, il confronto, il camminare insieme — dove e quando è possibile — diventano coefficienti necessari, mai disgiunti da una limpida testimonianza del dono ricevuto. Possono e devono coesistere comunità cristiana e comunità degli uomini, opere civili e «religiose», credenti e non credenti. Oltre che coesistere, i cristiani hanno viva coscienza di un’opera gigantesca da compiere: «purificare, assumere e consolidare, trascendere e elevare» (LG 13). Con amore, anzitutto, con discernimento, con perseveranza e pazienza, consapevoli di essere segni di contraddizione e nello stesso tempo solidali compagni di strada.

La parrocchia che deriva dall’una o dall’altra visione non è la stessa; luogo della «cristianità» la prima; segno e strumento di una presenza misteriosa, visibile e invisibile, la seconda. Tutta protesa alla cattura, per convertirlo, del sistema mondano è la parrocchia, come alternativa della convivenza umana, nel primo caso; spazio umano, dove dimora il trascendente, con carattere istituzionale e sanamente funzionale, umile realtà che non tiene per sé i doni ricevuti ma si sforza di vivere in missione, offrendo un esempio di reale comunione, nel secondo caso.

Di fatto le parrocchie attuali sono un solo e medesimo ambiente dove convivono sia i nostalgici della «cristianità» sia i cultori di un umanesimo plenario che ha in Cristo il suo centro focale e nella Chiesa un umile segno e strumento. La tensione è forte, e dà vita a fenomeni contrapposti. C’è chi cerca uscite di sicurezza, abbandonando la casa antica o volendo buttare fuori gli «altri»; c’è poi chi s’impegna nel progetto di comunione, comunità, missione, carità, pagando a volte prezzi eccessivi nella mediazione; c’è infine chi reputa inutile coltivare la corresponsabilità, scegliendo o accontentandosi di dare alla parrocchia un minimo di sé e di appartenenza e costruendosi un mondo a latere dove vivere in pienezza il proprio impegno e la propria appartenenza e spiritualità. Forse c’è dell’altro ancora, in una situazione davvero complessa e qualche volta confusa.

Non stupisce che venga chiamato in causa il Vaticano II; infatti, dalla qualità della recezione del Concilio dipende in gran parte la qualità della parrocchia odierna.

 

1.3. Tra pluralismo e unità

Proprio dal Vaticano II sgorga uno dei criteri più limpidi e corroboranti per assumere in modo adeguato l’impegno di una nuova evangelizzazione. Com’è noto, «nuova evangelizzazione» è per così dire l’urgenza odierna che la Chiesa, in varie sedi e in vari modi, sente per sé stessa. «La Chiesa è chiamata a dare un’anima alla società odierna, sia essa quella complessa e pluralistica dell’occidente, sia quella monolitica dell’oriente. E quest’anima la Chiesa deve infonderla non​​ al di sopra o al di fuori,​​ ma passando​​ al di dentro,​​ facendosi prossima dell’uomo d’oggi. S’impone quindi la presenza attiva e la partecipazione intensa alla vita dell’uomo» (Giovanni Paolo II, Discorso al simposio dei vescovi europei,​​ L​​ ’Europa, secolarizzazione e evangelizzazione,​​ ottobre 1985). L’evangelizzazione, dunque, passa attraverso l’inculturazione, una presenza​​ al di dentro,​​ una​​ fervida prossimità​​ all’uomo. Questo calarsi nella storia del vangelo non può disattendere né sottrarsi alla realtà della varietà pluralistica delle culture e delle situazioni. La pluralità diventa coefficiente necessario dell’evangelizzazione. Come conciliare unità e pluralità? Entrambe sono un’esigenza intrinseca del Vangelo e della Chiesa, riferite al loro radicamento nella storia. Il Vaticano II non ha paura di questo connubio e proclama la legittimità dell’una e dell’altra, così che non c’è unità senza multiformità e non esiste autentica pluralità senza cogente tensione all’unità. Non solo; una più approfondita accezione della «cattolicità» della Chiesa conduce alla sinergia di unità e pluralità, richiesta non solo da circostanze sociali ma dalla realtà dei carismi e dalla consistenza delle chiese locali o particolari (cf LG 13).

Una debole attenzione e, ancor più, la disattenzione a uno dei due poli, conducono ad arroccarsi nell’uniformità oppure nel pluralismo anarchico. Ambedue i fatti sono presenti oggi nella Chiesa e si ripercuotono negativamente nella fisionomia e nella vita delle parrocchie, dando spazio — non sempre, per fortuna — a modelli radicalizzati e contrapposti.

Da una parte si persìste a esaltare l’unità come sinonimo di conformismo e di uniformità culturale, liturgica, pastorale, politica, ecc. D’altra parte, si celebra un dissennato pluralismo di idee e di prassi che, come minimo, crea disorientamento. Ne segue che «la vitalità, la carica espressiva, la testimonianza della parrocchia vengono spesso mortificati da veti o limitazioni pretestuose in nome di una ortodossia o di una ortoprassi non pertinenti» (V. Bo,​​ Parrocchia,​​ 413). Si crea così la convinzione in alcuni che la parrocchia non possa mai essere uno spazio di libertà. Si autorizza in altri la determinazione a ritenere che non possa esistere che un modello unico di parrocchia. E ciò è deleterio. Il tutto si ripercuote sulla parrocchia odierna che, anche quando non è dominata dagli eccessi citati, rischia di scontentare molti e di diventare il rifugio dei «senza nome e cognome».

 

1.4. Tra clericalismo e ministerialità diffusa

Epigoni di opposte concezioni e prassi sono spesso indicati i preti e i laici. Il rapporto pastori-laici soffre certamente di squilibri e di mancata armonia; ma sembra fuori della verità ricondurre solo a questo fatto una dinamica più grande, messa in moto dal Vaticano IL

I testi conciliari affermano a chiare lettere che tra sacerdozio ordinato e sacerdozio comune esiste uno stretto legame di reciprocità funzionale, anche se differiscono fondamentalmente (cf LG 10); aprono anche la strada alla ministerialità laicale che rompe la lunga solitudine del ministero ordinato. Lo sviluppo di una tale prospettiva ha prodotto sicure acquisizioni e, nello stesso tempo, questioni tuttora aperte, come testimonia il Sinodo dei Vescovi 1987. Di fatto, le linee pastoralmente cariche di vitalità del Vaticano II trovano attuazioni esitanti e nelle parrocchie non è ancora fugata la tentazione di un neoclericalismo che tende a regolare la vita parrocchiale su parametri che svuotano e vanificano le indicazioni conciliari.

La tribolata vicenda degli organismi di partecipazione (consigli pastorali, assemblee parrocchiali, ecc.) e, più ampiamente, la non precisa assunzione di responsabilità da parte dei laici testimoniano la crescita lenta della corresponsabilità ecclesiale e il disagio esistente nelle parrocchie non messe in grado di presentarsi come soggetto unitario, anziché uniforme.

 

1.5. Tipologia della parrocchia, tra vecchio e nuovo

L’esito di queste tensioni, spia a loro volta sia di problemi teorici mai sufficientemente affrontati sia di una evoluzione inerente alle strutture della Chiesa, si riscontra su un duplice piano.​​ 1

a) Sul piano immediato della prassi pastorale ritorna anzitutto l’annosa questione se la parrocchia abbia>ancora una legittimazione a esistere e a operare. Anziché in termini radicali o in forma teorica, prende consistenza l’alternativa di fatto alla parrocchia mediante nuove realtà comunitarie che — diverse per origine e per i nomi che si danno — operano come «altre» parrocchie o dentro all’antica struttura più o meno come «chiese parallele» o esplicitamente al di fuori, chiedendo riconoscimenti all’autorità episcopale o pontificia.

Anche coloro che rifiutano una scelta così radicale — almeno in Italia sono maggioranza

— non sono più concordi nella proposta di un’identità della parrocchia. Si assiste così alla compresenza di varie forme di parrocchia, a seconda dell’ottica iniziale con cui si guarda a questa realtà. In altre parole, diverse risultano le forme storiche se si pensa alla parrocchia come «chiesa di popolo», simile alla fontana del villaggio alla quale va ad abbeverarsi la gente che vuole e come vuole e che tende a «dare un’anima» a tutto quello che si fa, oppure se la parrocchia è concepita come comunità di cristiani in diaspora. Ugualmente è diverso se si guarda alla parrocchia come comunità fraterna con forti scambi interpersonali di quei «pochi» che dicono sì a Cristo e lottano per la sua causa oppure come a un efficiente centro di iniziative e di servizi.

Da queste impostazioni pregiudiziali nasce una tipologia della parrocchia odierna frastagliata e mista di vecchio e nuovo:

— la​​ parrocchia «gruppo esecutivo»,​​ come momento terminale di un movimento di Chiesa che predispone al centro i fini e i mezzi e che fa sentire «parte» di un qualcosa di grande e di affascinante;

— la​​ parrocchia​​ «centrale di iniziative»,​​ di attività e di proposte che, essendo attenta ai bisogni individuali, si pone essa stessa in prima persona come istituzione o stazione di servizi religiosi e moltiplica le proposte per poter coinvolgere quanti più è possibile;

— la​​ parrocchia «comunità fraterna»,​​ come piccolo gruppo di fedeli-testimoni-operatori, momento di vita e di intensa esperienza comunionale nella quale ognuno trova la sua identità, si sente accolto, responsabile e responsabilizzato, in grado di dare e di ricevere;

— la​​ parrocchia​​ «comunità di comunità»,​​ quasi come un contenitore di forme ben organizzate che convergono in un comune centro; altri invece intendono con questo nome la parrocchia come centro focale e unificatore di piccole comunità, tessuto associativo secondario che fa da epicentro.

E ovvio osservare che nessuna delle forme descritte vive allo stato puro; in realtà si assiste a una contaminazione che non alleggerisce i problemi e spinge a cercare nuove forme (cf C. Bonicelli,​​ Chiesa e parrocchia, oggi,​​ 11 ls; G. Ambrosio,​​ Chiesa e parrocchia).

b) Sul piano della ricerca teorica si notano un ritorno di attenzione, un impegno di nuova elaborazione e una ricerca di risposte a una duplice serie di osservazioni critiche, sollevate soprattutto dagli operatori pastorali. Essi osservano che quanto è stato elaborato in passato non risulta sufficiente né convincente (lo stesso Magistero non ha riservato molto spazio alla trattazione specifica sulla parrocchia); inoltre ritengono che i nodi problematici esistenti e i cammini storici aperti offrano nuovi spazi di riflessione, anzi incalzino la teologia a decidersi per una visione più organica della parrocchia. Solo una minoranza ristretta sembra optare per configurare la parrocchia nell’ambito di una entità sociologica; generalmente si ritiene che la parrocchia, se non è certamente possibile vederla come un istituto di diritto divino, abbia natura teologico-pastorale; la sua innegabile realtà sociologica, si osserva, non ne esaurisce la comprensione e va indagata con criteri e parametri che esprimono il mistero della Chiesa e l’intrinseca sua tensione alla salvezza degli uomini.

 

 

2.​​ I parametri di una nuova stagione della parrocchia

Nella consapevolezza di non dover partire da zero, la ricerca teorica sulla parrocchia indica anzitutto i parametri, i punti di riferimento da tener presenti, come un materiale da elaborare e come altrettanti segnavia che non possono essere disattesi.

Si tratta anzitutto della recente normativa canonica, quale appare nel Codice di Diritto Canonico del 1983 e che si presenta come sintesi, ovviamente non preclusa a futuri apporti, di elementi storici, magisteriali e pastora

li. La sua autorevolezza e il suo decisivo influsso sulla prassi parrocchiale, di cui si è ben coscienti, inducono a confrontarla con le fonti autentiche della tradizione cristiana, a valutarne i contenuti e a stimolarne un ripensamento là dove si pensa che sia necessario. Segue poi l’impegno di una riflessione teologica a carattere speculativo, con maggior completezza e organicità di quanto sia stato fatto finora.

C’è infine la disponibilità a lasciarsi interpellare dai segni dei tempi veicolati in maniera particolare dalle giovani generazioni che di fronte alla parrocchia — e anche alla Chiesa in senso più ampio — sembrano comportarsi come di fronte alle loro famiglie: forse non le amano ma non se ne vogliono allontanare; non sono particolarmente pronte a impegnarsi, ma si rivelano sensibili e capaci di apprezzare quanto di autentico v’è in esse. L’operatore pastorale e anche il semplice credente che non si rassegnano alla stasi e alle confusioni, possono contare, in definitiva, su parametri non scialbi per un lavoro di rigenerazione della parrocchia. Dell’ultimo parametro non si dirà qui nulla, rimandando alle voci apposite di questo dizionario, che sono state tenute ben presenti. Del primo parametro si presenterà una rapida scheda, rinviando anche qui alla letteratura apposita. Alla riflessione teologica in senso più proprio sarà dato maggior spazio.

 

2.1. La parrocchia nel Codice di Diritto Canonico

Giova premettere che nella normativa canonica confluiscono sia gli elementi storici che si ritiene facciano parte di una​​ continuità​​ della Chiesa da coniugarsi con una sapiente​​ innovazione,​​ sia il pensiero del Magistero ecclesiale che viene tradotto in norme e orientamenti. Soprattutto la presenza del Magistero porta a considerare come principio ermeneutico della lettura del Codice del 1983 il suo riferimento alla dottrina del Vaticano II e del tempo post-conciliare. Per cogliere dunque il concetto di parrocchia nel Codice occorre presentare, come in parallelo, l’analogo concetto nel Vaticano II e nel Magistero pontificio.

 

2.1.1. Il pensiero conciliare

Secondo il pensiero conciliare, la parrocchia si configura in questi termini: «comunità di fedeli, territorialmente individuata (“locale”, appunto) nell’ambito di una diocesi, avente a capo un presbitero che fa le veci del vescovo e lo rende in certo modo presente. Così strutturata, la parrocchia attua in un certo luogo la visibilità e la presenza della Chiesa e di Cristo» (F. Coccopalmerio,​​ La parrocchia nel nuovo Codice,​​ 149).

Sono qui compresi gli elementi basilari forniti dai documenti conciliari SC 42; LG 28 e 26. Se questa prima configurazione può dare l’impressione di una realtà statico-strutturale, altri testi (in particolare AA 10; AG 15 e 37; CD 30) completano la figura della parrocchia dandole un aspetto anche finalistico-dinamico: la parrocchia è da considerare come un soggetto unitario agente che svolge nel mondo i compiti​​ (munera)​​ sacerdotale-profetico-regale propri di Cristo e della Chiesa e che della Chiesa, nella sua misura, ha le attribuzioni e le attività. Così la parrocchia è «in un certo modo» (quodam modo)​​ rappresentazione della Chiesa visibile stabilita su tutta la terra e con la testimonianza della vita cristiana manifesta nel mondo la presenza salvifica del Signore.

 

2.1.2.​​ Il magistero postconciliare

Il Magistero del postconcilio sviluppa e mette in luce l’aspetto finalistico-dinamico della parrocchia. Si vedano Paolo VI, EN 58 e i due testi seguenti riassuntivi del magistero recente, specie della CEI sull’argomento.

«È indispensabile che la parrocchia si configuri sempre più secondo l’immagine offerta dal vigente Codice di diritto canonico, dove, a differenza della precedente legislazione, l’accento viene posto non più sul territorio, ma sul suo carattere di comunità di persone (can. 515, 1). Di qui la necessità che la parrocchia riscopra la sua funzione specifica di comunità di fede e di carità, che costituisce la sua ragion d’essere e la sua caratteristica più profonda. Ciò vuol dire fare dell’evangelizzazione il perno di tutta l’azione pastorale, quale esigenza prioritaria, preminente, privilegiata. Si supera così una visione puramente orizzontale di presenza solo sociale, e si rafforza l’aspetto sacramentale della chiesa; aspetto che si manifesta in modo tutto speciale nella comunità parrocchiale, quando questa attende ad essere formatrice della fede dei suoi figli e svolge la sua funzione missionaria ed evangelizzatrice. Altro punto importante, da tenere sempre presente, è la necessità della più stretta, organica, personale collaborazione di tutte le componenti della parrocchia con il proprio pastore. In modo particolare, potenziare e qualificare tutte le forze vive — religiosi e laici — per quei servizi che non richiedono la funzione insostituibile del sacerdozio ministeriale, è l’unico mezzo per un’adeguata cura pastorale là dove è eccessivo il numero dei fedeli, e per intraprendere un’attiva opera di penetrazione missionaria nell’ambito degli indifferenti e dei lontani. I laici, infatti, non sono soltanto destinatari del ministero pastorale, ma devono diventare operatori attivi di esso, per vocazione nativa dei laici stessi e per esigenza intrinseca della chiesa» (Giovanni Paolo II,​​ All’assemblea plenaria della Congregazione del clero,​​ 20.10.1984, nn. 4 e 5).

«Secondo il Concilio, la parrocchia è la “cellula” della diocesi, la famiglia di Dio, come fraternità animata nell’unità, o come insieme di fratelli animati da un solo spirito, capace di fondere insieme tutte le differenze umane che vi si trovano e inserirle nell’universalità della Chiesa. In essa, il credente può vivere di fatto la sua vita cristiana quotidiana. In essa quotidianamente pervengono i problemi di ciascuno e del mondo e le questioni spettanti la salvezza degli uomini, perché siano esaminati e risolti con il concorso di tutti. Il sacerdote vi rende presente il Vescovo, e così la parrocchia rende presente in sé stessa la Chiesa universale. A motivo della sua relazione alla Chiesa particolare, la parrocchia costituisce, di fatto ancora oggi, la prima e insostituibile forma di comunità ecclesiale, strutturata e integrata anche con esperienze articolate e aggregazioni intermedie, che ad essa devono naturalmente convergere o da essa non possono normalmente prescindere.

La parrocchia, organizzata localmente sotto la guida di un pastore che fa le veci del Vescovo, è pertanto una comunità di fede, illuminata e sorretta dalla parola di Dio, investita del dovere dell’annuncio e di una catechesi che riveli l’intero mistero di Cristo con tutta la pienezza delle sue implicazioni e dei suoi sviluppi; è una comunità di preghiera, soprattutto nel giorno del Signore, per l’azione dei sacramenti che vi si celebrano e per l’Eucaristia, vertice dell’azione liturgica; ed è comunità d’amore, dove la realtà della comunione è vissuta nell’insieme dei gesti che, partendo dall’Eucaristia, traducono la fraternità dei discepoli del Signore nel servizio, nell’aiuto reciproco, nella testimonianza. La comunità parrocchiale riunisce i credenti senza chiedere nessun’altra condivisione che quella della fede e dell’unità cattolica. La sua ambizione pastorale è quella di raccogliere nell’unità persone le più diverse tra loro per età, estrazione sociale, mentalità ed esperienza spirituale. Inserita di regola nella popolazione di un territorio, la parrocchia è la comunità cristiana che ne assume la responsabilità. Ha il dovere di portare l’annuncio della fede a coloro che vi risiedono e sono lontani da essa, e deve farsi carico di tutti i problemi umani che accompagnano la vita di un popolo, per assicurare il contributo che la Chiesa può e deve portare. Così essa è dentro la società non solo luogo della comunione dei credenti, ma anche segno e strumento di comunione per tutti coloro che credono nei veri valori dell’uomo: simile alla fontana del villaggio, come amava dire papa Giovanni, a cui tutti ricorrono per la loro sete» (CEI,​​ Comunione e comunità,​​ documento pastorale, 1981, nn. 42-44). Per il pensiero CEI, cf anche​​ Evangelizzazione e sacramenti,​​ 1973, n. 94;​​ Eucaristia, comunione e comunità,​​ 1983, n. 71;​​ Comunione e comunità missionaria,​​ 1986, nn. 15, 17 e 35.

 

2.1.3. Indicazioni del CIC

Nel Codice di Diritto Canonico la parrocchia è presentata nei canoni 515-552, sotto il titolo:​​ Parrocchia, parroci e vicari parrocchiali.​​ Dall’insieme degli elementi offerti si desume il seguente concetto di parrocchia:​​ comunità di fedeli

territorialmente individuata nella chiesa particolare

stabilmente costituita

con un parroco come pastore

sotto l’autorità di un vescovo diocesano

e con la collaborazione degli altri presbiteri,

dei diaconi e dei fedeli laici.

Nei propri luoghi si rilevano le differenze non secondarie con il precedente Codice del 1917 e si confronta il dettato canonistico con il pensiero del Vaticano II sottolineandone le acquisizioni ma anche lamentandone la non piena recezione o almeno qualche incoerenza soprattutto nel non aver sempre presente che ad essere soggetto comunitario agente è la parrocchia. Sembra che talora si sposti l’asse del discorso sul parroco e sulla sua funzione, esaltandolo di più come​​ pastore​​ (di fronte al​​ gregge)​​ che non come​​ colui che presiede​​ ed è​​ capo​​ in una comunità di soggetti attivi (Coccopalmerio, cit., 152-154).

Qui s’impone di sottolineare che, come afferma il can. 529,2, «il parroco riconosca e promuova la parte propria che i fedeli laici hanno nella missione della Chiesa».​​ Parte propria​​ è indicazione di una dignità e di una responsabilità originale dei cristiani laici che non è sufficientemente recepita quando si continua a parlare di​​ collaborazione​​ e​​ collaboratori parrocchiali​​ nella missione propria del parroco. È aperta la via alla presenza di​​ operatori pastorali​​ veri e propri, alla luce di una ecclesiologia di comunione. Lo sviluppo dei ministeri ecclesiali e le acquisizioni del Sinodo dei Vescovi su​​ La vocazione e la missione dei cristiani laici​​ (1987) porteranno più maturi frutti anche nell’ambito parrocchiale.

 

2.2. Apporti della riflessione teologica

Per quanto non sia facile, si può tentare di dare conto della elaborazione teologica in movimento, costringendo entro brevi sintesi apporti di largo respiro.

Due sembrano essere i punti di cristallizzazione della rinnovata riflessione teologica.

 

2.2.1. Natura ecclesiale della parrocchia

Anzitutto, ci si chiede in quale ambito si debba indagare sulla realtà e sulla natura profonda della parrocchia. È pressoché unanime la risposta nell’indicare l’ecclesiologia come ambito proprio dello studio della parrocchia. La natura misterica della Chiesa, il suo essere​​ comunione-per-la-missione,​​ la sua teandrìa che la configura come visibile e nel contempo trascendente, la sua unità e unicità che non si oppone alla multiformità, consentono e impongono di sottrarre la parrocchia dal recinto chiuso di un dato solo giuridico-positivo per iscriverla come realtà spirituale nella natura della Chiesa. Di questa la parrocchia esalta e concretizza la funzione missionaria; la salvezza infatti investe le persone con una mediazione che non può esimersi dall'assumere in sé, dall’entrare dentro alla struttura sociale umana e allo stesso territorio. La parrocchia è appunto la forma primaria più normale della comunità ecclesiale che si rende «luogo» all’interno del vissuto umano. È la «concentrazione della Chiesa nella sua natura di avvenimento nel territorio» (K. Rahner).

Decisiva, in questa prospettiva, è stata la riflessione sulla chiesa locale, recepita in forme ancora acerbe nel Vaticano II e da esso rilanciata con grande vigore. Più che il principio territoriale ha avuto incidenza e priorità il «principio comunità». L’unico popolo​​ 1​​ di Dio, convocato da ogni razza, popolo e nazione, è la realtà da cui partire e a cui tornare. Ogni comunità che nella fede, speranza e carità rimane fedele al suo Signore e ne accoglie il comando missionario nel​​ qui​​ e​​ ora,​​ realizza la totalità della Chiesa, popolo di Dio. Il tutto è nel frammento. Se ciò in senso pieno si deve dire della chiesa particolare, in senso partecipato e analogico si attribuisce alla parrocchia solo in questo senso si può dire che le parrocchie nella loro sede rendono visibile la Chiesa universale e lavorano efficacemente all’edificazione di tutto il corpo di Cristo (cf LG 28); la chiesa di Cristo poi è veramente presente in tutte le legittime assemblee locali dei fedeli, anche piccole, povere e disperse, le quali aderendo ai loro pastori sono anch’esse chiamate chiese del nuovo testamento (cf LG 26).

In sintesi si può dire che la parrocchia ha la sua consistenza nell’essere partecipe della chiesa locale. In sé stessa non ha la pienezza dell’ecclesialità e va sempre collocata nel contesto della chiesa episcopale di cui è come una cellula (cf AA 10). È dunque un’assemblea locale eminente (non esclusiva) in cui convergono armonicamente, come elementi caratterizzanti, il principio di comunità e il principio territoriale (a ben riflettere, non c’è contraddizione se il territorio è inteso, come avviene oggi, in senso prevalentemente antropologico e culturale). Solo «relativamente», cioè nella propria misura di realtà partecipata, la parrocchia è rappresentazione della chiesa visibile (cf SC 42).

Collegando l’esperienza storica con la riflessione teologica, si ritiene che la ragione d’essere della parrocchia sia teologico-pastorale. La parrocchia risponde a una duplice esigenza.

1) Istituzionalizzare, nelle concrete condizioni storiche dell’esistenza, la figura cristiana della fede o, in altre parole, essere modello specifico in cui si concretizza il dato oggettivo a cui si aderisce con scelta personale nella fede. In questo senso il modello istituzionale della parrocchia si oppone al modello «congregazionalista» che tende a dare a ogni percezione personale della fede una sua propria configurazione.

2) «Coprire a tappeto la faccia della terra», così che nessuno tra i fedeli resti senza una​​ comunità di appartenenza,​​ e così che anche nessuno tra i non credenti resti senza una comunità di tendenziale riferimento a cui rivolgersi quando la nostalgia o il desiderio e l’esigenza della fede cristiana diventano forti. Il non credente ha il diritto di cercare e di trovare non un qualsiasi referente, ma quello che, dentro alle proprie finalità istituzionali, abbia il compito di farsi carico della missione ecclesiale proprio verso i non credenti (T. Citrini,​​ Per una ecclesiologia postsinodale, 22).

La parrocchia, in quanto fatta «propria» come elemento di appartenenza da credenti e non credenti, garantisce dunque un riferimento obiettivo, carico di un significato enorme nell’ottica teologico-pastorale. «Il significato enorme sta nel fatto che la premura per ogni uomo è essenziale alla missione; che la parrocchia porta questa tensione scritta nei lineamenti stessi della propria forma istituzionale; che attorno a questo valore è e risulta possibile costruire progetti sensati di pastorale, significativi, fruttuosi» (T. Citrini,​​ cit.y​​ 23).

Tutto ciò conduce a concludere che la parrocchia è istituzione ecclesiastica, una forma storica di Chiesa, soggetta nella sua storia a non pochi cambiamenti, esigita da una superiore logica teologica e pastorale che ne connota la natura. Realtà non puramente sociologica, intrisa del mistero della Chiesa, la parrocchia rivendica una sua originalità di comunità cristiana che non consente affrettati parallelismi con altre entità ecclesiali.

La sua insostituibilità può essere affermata con sapienza, unitamente alla sua «relatività» e non compiutezza. In sede pastorale, può essere affermata unitamente anche alla sua attuale o, forse, connaturale insufficienza (cf G. Cardaropoli,​​ La pastorale parrocchiale,​​ 141-142).

 

2.2.2. Attuale configurazione della parrocchia

Il secondo punto di indagine teologica si coagula intorno alla questione di come debba configurarsi l’immagine della parrocchia all’interno dell’oggi socio-culturale e pastorale. Si tratta di elaborare un «modello» adeguato di parrocchia, teologicamente fondato. Qui la riflessione è variegata, articolata e non sempre concorde. A prima vista sembra emergere una polarizzazione di posizioni intorno alla parrocchia come​​ chiesa di popolo​​ oppure alla parrocchia come comunità.

La prima intendo la parrocchia come realtà comunitaria a vasto respiro antropologico e sociale, dotata di tutto rimpianto sacramentale e degna del nome di Chiesa in senso proprio, che si sostanzia del materiale umano della popolazione in mezzo alla quale si trova a esistere. L’aggregazione ecclesiale è diritto-dovere della popolazione di un luogo di cui occorre accogliere tutte le espressioni, i valori, le angosce e le speranze. Senza identificarsi con un popolo nel quale essa nasce e vive, la parrocchia ha fondamentalmente un carattere​​ popolare; i sacramenti, la catechesi, la carità sono per tutti, e per tutti, oltre che diritto, divengono doveri.

Evidente è il carattere di​​ globalità​​ della parrocchia. Questa si presenta come «luogo globale dell’esperienza cristiana, di per sé completo nella sua struttura sacramentale, in quanto tutto il sacerdozio nella vita vi trova il suo compimento sacramentale nel sacrificio eucaristico, anche se per l’ordinazione dei suoi pastori dipende dalla grande Chiesa e dal ministero episcopale» (S. Dianich,​​ La teologia della parrocchia,​​ 78).

Di grande rilievo, a questo punto, è la considerazione che il cammino dalla comunione alla comunità ammette, certo, configurazioni comunitarie diversificate ma non consente di attribuire il carattere di comunità ecclesiale in senso proprio se non a quelle strutturate intorno allo strumento normativo della sacra Scrittura e, in pari tempo, intorno al ministero ordinato e alla realtà sacramentale. Altre comunità saranno pre e paraeucaristiche e vivranno alTinterno della comunità ecclesiale o dovranno fare ad essa riferimento. Determinante è poi la​​ dimensione territoriale​​ della parrocchia. Essa «non fornisce solamente un criterio amministrativo all’organizzazione della vita ecclesiale, bensì chiama la comunità cristiana a misurarsi direttamente con la dimensione storica concreta della popolazione che risiede nel quartiere o nel villaggio sulla quale essa è situata. Anzi, proprio questo rapporto ne diventa una dimensione vitale e caratterizzante: non solo la popolazione del luogo offre alla chiesa la sua materia umana e il suo tessuto di fondo, ma anche la comunità cristiana fondata sul criterio del territorio resta essenzialmente legata alla popolazione tutta del territorio medesimo. In questo senso la comunità parrocchiale è necessariamente condizionata dalla cultura specifica della popolazione da cui nasce ed è determinata nella sua missione dal primo e principale interlocutore del suo annuncio e del suo dialogo che è ancora la popolazione del territorio in cui abita essa. Tradizione e missione, le due componenti fondamentali in forza delle quali dalla​​ communio​​ si sviluppa una​​ communitas,​​ saranno anche i legami di una chiesa disegnata sul territorio con la comunità umana vivente sul territorio» (S. Dianich,​​ La teologia della parrocchia,​​ 83).

L’altro modello che attrae teologi e pastoralisti è quello della​​ parrocchia comunità.​​ A partire dalla Chiesa nella sua natura di comunione-per-la missione, si tende a dare tutto il debito rilievo al fatto che la comunità cristiana dev’essere anzitutto comunità di credenti, dove ambedue i termini hanno il loro spessore. L’insignificanza odierna di molte parrocchie dipende non tanto da una presunta incapacità culturale e sociale quanto piuttosto da una carenza di vitalità di fede e di aggregazione comunitaria. La parrocchia merita questo nome sia, certo, quando supera una visione narcisistica o statica di sé sia quando prende sul serio la dimensione soggettiva della fede e delle persone. Sorgente primigenia della missionarietà è la testimonianza della fede che è comunicazione delle esperienze di fede ad altrui (fratelli o no) e costituisce così la chiesa: «edificazione del corpo di Cristo» (cf V. Bo,​​ Parrocchia,​​ 415). La presenza inefficace di parrocchie troppo grandi o troppo piccole, l’anonimato e la burocrazia religiosa, gli stimoli incalzanti delle recenti scienze umane, le esigenze della soggettività e del «movimentismo» sono altrettanti motivi per decidersi a favore della parrocchia come comunità di comunione, a misura umana, con il forte sigillo di una fede vissuta e alimentata adeguatamente dalla parola e dalla liturgia, ricca di comunicazione interpersonale e con una partecipazione attiva e consapevole, intelligentemente flessibile per adeguarsi alle esigenze della missione cioè — si dice — delle persone. Con tutto ciò, senza mai rinunciare agli elementi fondamentali della tradizione, ivi compreso il sacerdozio ordinato dei pastori e al loro compito ministeriale proprio. Importante risulta, in questa visione, l’assorbimento — per così dire — della vitalità spontanea odierna così che la parrocchia risulterebbe essere nello stesso tempo istituzione e movimento; rilevante infine la coltivazione dei ministeri o, meglio, dei doni-carismi e la scelta di essere poveri per i poveri.

Come appare dall’esposizione presentata, la polarizzazione non è radicale, se si eccettua qualche isolata applicazione dell’uno o dell’altro modello. Come già si è accennato, la tipologia della parrocchia odierna è multiforme («stazione» di servizi religiosi, comunità di sostituzione, comunità di comunità, comunità intenzionale, ecc.). La discussione poi va oltre le posizioni delineate. Resta il fatto che i due modelli accennati consentono, nel loro incrociarsi, di indicare elementi basilari di una corretta impostazione teologica della comunità cristiana nel suo volto efficace e odierno di parrocchia. Tali elementi ci sembrano i seguenti.

1.​​ La dimensione territoriale.​​ A quanto già si è detto, si può aggiungere che la parrocchia è anzitutto una figura storica privilegiata del «farsi luogo» della Chiesa, segno particolarmente espressivo della sua edificazione e della sua missione. In un luogo umano determinato e con caratteri di globalità essa offre a una certa comunità di credenti la possibilità reale di costituirsi come segno efficace dell’annuncio evangelico, come manifestazione visibile con proprietà istituzionali di una comunità di salvati. È proprio l’elemento territoriale che rende ciò possibile per tutti e per ogni condizione. «La parrocchia custodisce il principio di una universale accessibilità all’Évangelo. È in essa che la condizione civile comune si apre alla radicalità della fede» (L. Prezzi,​​ La parrocchia,​​ 136). Non sarà facile né sembra prossimo togliere dalla scena della Chiesa una simile realtà, a causa del dovere d’annuncio evangelico e di non banali motivi interni alla vita della fede. Rimane peraltro il problema di realizzare una forma concreta e attiva di comunità cristiana che la dimensione territoriale da sola non configura interamente.

2.​​ Il criterio di appartenenza.​​ Non facile problema in relazione al popolo di Dio (cf LG 14-16), l’appartenenza in ordine alla parrocchia diventa criterio coessenziale per realizzare una autentica comunità ecclesiale. Se l’appartenenza al territorio è già significativa, altrettanto lo è la professione di fede (prospettiva soggettiva) mai separata e anzi unita a una profonda radicazione nel contesto culturale. Il titolo del battesimo è motivo forte di appartenenza, purché sia completato da una forte e progressiva professione di fede e da una viva e personalizzata coscienza di responsabilità e di missione.

Nella realtà della situazioni odierne, il puro battesimo ricevuto da bambini diventa titolo assai debole di appartenenza; la maturazione della vita di fede poi è così variegata che nella parrocchia coesistono, come nel popolo di Dio, i fedeli pienamente congiunti con Cristo dai vincoli della professione di fede, dei sacramenti, del governo ecclesiastico e della comunione; i cristiani che non professano la fede integrale o non conservano la pienezza della comunione con i pastori; i non più cristiani, se non di nome, che al pari dei non cristiani​​ tout court​​ sono tuttavia ordinati e orientati al Vangelo. Nessuno può essere escluso in via pregiudiziale ma resta la tensione da coltivare perché tutti arrivino a una professione di fede matura, attiva e missionaria.

L’appartenenza diventa così elemento essenziale di ogni modello concreto di parrocchia. Più che di «appartenenza graduata» con schemi pregiudiziali che risultano infondati, parleremmo di una «gradualità dell’appartenenza» che da iniziale deve diventare totale e matura.

3.​​ Il sigillo eucaristico.

Una comunità è autenticamente ecclesiale in forza dell’eucaristia nella quale si trovano, come in sintesi, tutti gli altri elementi necessari per essere chiesa. In essa si alimenta e si realizza il vero segno di comunione e missione; da essa scaturisce l’esigenza per ogni membro della comunità cristiana di attivare le disposizioni che consentono la pratica del vangelo, ossia le virtù teologiche della fedesperanzacarità. La celebrazione della fede che avviene nell’eucaristia deve dare forma concreta a un​​ ethos​​ capace di inverare il significato della fede stessa nella storia umana (cf G. Angelini,​​ Chiesa e parrocchia). L’eucaristia è comunione-per-la missione. Si vuol dire che dall’eucaristia la comunità parrocchiale attinge il comando («andate») e la forza di farsi «prossima», dando forme storiche di giustizia e di pace al comandamento della carità e attrezzando le coscienze dei suoi membri come il discernimento necessario per essere cristiani in ogni altra occasione della vita.

Particolarmente negli​​ habitat​​ urbani, la parrocchia potrebbe assumere la forma di una realtà comunitaria che cerca e valorizza tutte le occasioni di «prossimità», in vista non solo di una convivenza umana più piena ma di una originale esperienza del regno di Dio nel presente, sia pure con carattere di germe e di primizia. Una comunità eucaristica è il regno di Cristo già presente in mistero (cf Lg 3 e 5); l’eucaristia è il sigillo di una comunità ecclesiale autenticamente tale.

Non siamo ancora al modello o ai modelli concreti che la comunità ecclesiale può assumere oggi per svelare la sua identità e per adempiere la sua missione. Dalla pur vivace discussione teologica non si può attendere la realizzazione della forma storica bensì l’indicazione fondata degli elementi necessari ad essa. Da quanto si è venuto esponendo risulta che la parrocchia, oggi, è contrassegnata dalla dimensione territoriale, da un senso esplicito di appartenenza e dal sigillo eucaristico. È un insieme di elementi che la rende originale e nel contempo aperta, anzi bisognosa di altre integrazioni. È una formula umile e preziosa di una presenza misterica dalla quale ciascuno, credente e non credente, si sente più o meno attratto ma a cui si sente di non dover rinunciare, come non si rinuncia mai alla propria anima. La parrocchia è, come qualcuno ha detto, un «polo dell’anima». Si può aggiungere, dell’anima «comune» (che non significa mediocre).

 

3.​​ Per un itinerario pastorale sinfonico

La parrocchia sembra essere ancora oggi uno strumento indispensabile alla Chiesa. E proprio sul versante pastorale, peraltro, che affiorano le maggiori inquietudini: «La parrocchia, per sua natura, risulta figura pastorale impegnativa da gestire, a volerla gestire bene; porta in sé il rischio continuo dell’anonimato (tutti accolti, ma con una accoglienza di basso livello); porta il peso di tanti cristiani la cui appartenenza è di basso tono» (T. Citrini,​​ Per una ecclesiologia postsinodale,​​ 23).

I punti critici di maggior spessore sembrano, almeno nell’attuale situazione, quello di accompagnare la progressiva soggettività dell’atto di fede, una fede che appunto deve diventare sempre più personale ma che non può disattendere l’oggettività della tradizione e della «dottrina» cattolica; e quello di integrare la tendenza «settaria» (in senso socioculturale) oggi assai forte all’interno del compito istituzionale proprio della parrocchia. Alla parrocchia è chiesto di essere luogo formativo di buona qualità che, senza rinunciare agli apporti di tante «agenzie» educative, sia in grado di dare l’apporto decisivo in ordine al problema dell’unità tra fede e vita che deve risplendere in una personalità cristiana; si chiede pure di essere uno strumento e quasi un laboratorio di riconciliazione che della conflittualità esalti gli aspetti positivi, ma attenta a non sanzionare mai la spartizione illegittima e devastante tra comunità parrocchiale e altre ad essa alternative. Orientamenti, proposte e esperienze non mancano, con una tensione non dissimulata e ben esplicita al rinnovamento della parrocchia. Si consolida la convinzione che «nonostante le crisi, vere e supposte, da cui sarebbe stata colpita, la parrocchia è un istituto da conservare come​​ espressione normale e primaria​​ della cura d’anime» (Giovanni Paolo II,​​ All’assemblea plenaria della Congregazione per il clero,​​ 20.10.1984). In questa direzione si fa pure evidente l’opera di tutti affinché la parrocchia non si rinchiuda in forme statiche ma sviluppi le sue potenzialità a servizio della fede dei cristiani e del bene dell’uomo.

Con l’occhio attento alle esigenze e alle prospettive delle nuove generazioni, si può cogliere il seguente quadro di potenzialità da sviluppare, nel quadro di una pastorale che accetta la sfida di una nuova evangelizzazione e vuole caratterizzarsi sempre più come proposta anziché come difesa dell’esistente.

 

3.1. Accettare e attuare il «principio del rinnovamento»

Accettato serenamente il punto basilare secondo il quale, oggi, la parrocchia è un istituto canonico, con una specifica fisionomia giuridico-istituzionale, occorre aggiungere che essa appartiene all’ordine dei mezzi e strumenti in ordine alla edificazione visibile della comunità cristiana. Per questo la sua legge di vita è quella di rinnovarsi continuamente con la duplice fedeltà al vangelo e all’uomo. Senza rinnovamento la parrocchia rischia di anchilosarsi, diventando una pietra d’inciampo; le strutture e le organizzazioni esistono non per sé stesse ma per servire superiori finalità.

L’attuale normativa canonica sulla parrocchia va accettata e attuata con l’interiore convinzione che esiste sempre una più o meno considerevole distanza tra ciò che la parrocchia è realmente e ciò che dovrebbe e potrebbe essere.

 

3.2. Verso una forma storica di parrocchia sanamente popolare, flessibile e integrata

È ben noto che il «parrocchialismo» non è un’invenzione di malevoli. È esistito e non cessa di esistere, all’insegna di un infondato pregiudizio: «La parrocchia è tutto; tutto nella parrocchia».

Il superamento del «parrocchialismo» avviene accogliendo la realtà e le esigenze della natura «popolare» della chiesa, riflessa nella parrocchia. La comunità parrocchiale è popolare quando si sforza di realizzare nel suo vissuto feriale le seguenti condizioni: essere il popolo di Dio nella sua varietà di componenti e nella sua unità di fede e di testimonianza, che si pone come soggetto primario e responsabile di vita e di azione; l’apertura alle persone, colte nella loro condizione di vita e di fede, favorendo lo sviluppo di appartenenza che da iniziale e parziale deve diventare sempre più completa; l’immersione nella storia umana, nel territorio, dove il popolo, più che i singoli e le élites, è il vero e umile protagonista. Va da sé che si tratta di una immersione che ha le sue ben note regole, perché non diventi un asservimento e perché si tenga lontana dalle tentazioni del potere e del dominio.

Si può, dunque, parlare di una parrocchia necessariamente flessibile perché deve fare fronte a esigenze diversificate e non facilmente componibili tra loro.

 

3.3. Cercare, anziché subire, l’integrazione con altre forme

La conseguenza maggiore di questa caratteristica popolare sembra essere la convinzione permanente, da parte della comunità parrocchiale, della sua incompletezza (o, come altri dicono, insufficienza). Di qui la continua ricerca di integrazione con altre forme che con la storia della salvezza hanno pure a che fare.

In primo luogo l’integrazione della parrocchia deve avvenire con la chiesa particolareepiscopale (diocesi) e con la chiesa domestica, comunità cristiana a dimensione coniugale-familiare. Al di là delle affermazioni di principio di sicuro valore, ciò che sembra mancare oggi è l’armonia di una costruttiva coesistenza e di una comune azione tra diocesi-parrocchia-famiglia. La multiformità delle espressioni storiche della chiesa non contrasta con la loro armonia, anzi le esige.

A questo scopo possono servire forme organizzative e strumentali come la zona pastorale e le varie consulte dei componenti del popolo di Dio. Servirà certamente l’elaborazione di un progetto pastorale diocesano che consenta l’attuazione di programmi pastorali più legati ai soggetti interessati e alle circostanze socio-culturali.

In secondo luogo, l’integrazione cercata dalla comunità parrocchiale riguarda altre figure pastorali, come le associazioni tradizionali o i movimenti, gruppi, ecc. Non è tanto sul piano puramente organizzativo e operativo che l’integrazione va cercata ma nello sviluppare una viva coscienza dei vari doni e ministeri che anima la comunità ecclesiale. Non deve turbare più di tanto qualche momento di conflitto, se la ricerca di comunione è primaria, sincera e continua. Opportuni strumenti, come gli organismi pastorali collegiali, con chiara impronta sinodale, consentiranno di crescere insieme.

 

3.4. Accogliere con gratitudine la complessità di una comunità ministeriale

Il passaggio della concezione della parrocchia da territorio ecclesiastico a «una certa comunità dei fedeli», recepita e sancita nel Codice di Diritto Canonico, risponde a una logica profonda che si vuole persino rivoluzionaria. Soggetto unitario di santità, di mediazione salvifica e quindi di azione pastorale, di compresenza e di corresponsabilità non è tanto un singolo elemento della Chiesa — sia pure singolare nella sua origine e autorevolezza come è il «pastore» — quanto il popolo di Dio nella sua forma storica di comunità ecclesiale che vive di comunione-per-la missione. Non esiste dunque il parroco come sinonimo della parrocchia o come separato da essa; esiste una comunità ecclesiale nel cui seno la grazia del Signore suscita responsabilità ministeriali varie e molteplici per un integrale sevizio missionario. Ministero ordinato e ministeri «laicali» si armonizzano reciprocamente, senza snaturarsi e senza sopraffarsi.

Tutto ciò pone una non breve serie di interrogativi sulla qualità pastorale dei presbiteri e dei laici. Il paradigma a cui deve ispirarsi la prima è la presidenza dell’eucaristia e, dunque, della comunità. Il presbitero è chiamato a una presidenza tanto ospitale quanto imprevedibile, con viva coscienza che lo Spirito Santo «talvolta previene visibilmente l’azione apostolica, come incessantemente in vari modi l’accompagna e dirige» (AG 4). Quanto ai laici, il problema vero ci sembra essere quello di diventare, oggi, e di costituirsi soggetto di pastorale anziché restare solo oggetto destinatario. Con quali modi e strumenti? La risposta è ancora acerba, a cominciare dall’impasse​​ posto dal Diritto Canonico che non riconosce ancora ai cristiani «comuni» nessuna modalità per esprimersi come soggetto collettivo. Si aggiunga l’esilità degli strumenti a disposizione per influire sulle decisioni che contano; lungi dal voler discutere il diritto di chi ha autorità per «prendere la decisione», ci sembra di dover rivendicare il diritto a «elaborare» o preparare le decisioni (nella lingua inglese è nota la differenza tra​​ lo take​​ e​​ to make thè decisioni).​​ In questa prospettiva, sembra opportuno ripensare la funzione dei gruppi e delle associazioni giovanili che, talvolta, al di là delle intenzioni, contribuiscono a fare dei giovani altrettanti soggetti separati della vita ecclesiale parrocchiale, visti soltanto come utili strumenti per attuare quanto altri pensano, impostano e decidono.

 

3.5. Rivalutare la «primarietà» della comunità parrocchiale

Il fenomeno culturale di un esasperato «specialismo», nei suoi molteplici campi di attualizzazione, non risparmia nemmeno l’ambito cristiano e si fa sentire come una tentazione nella progettazione odierna della pastorale giovanile. Si vorrebbero giovani cristiani con una tale caratura di personalità che di fatto porta a emarginare la massa giovanile, costringendola sulla strada, incapace di riconoscersi nei modelli di giovani cristiani coltivati nei ghetti di qualche gruppo a vocazione speciale, vera o presunta. Le stesse parrocchie curano un piccolo resto di giovani, disattendendo la preziosa indicazione di don Bosco e di altri santi educatori per una «santità popolare». L’oratorio è soppiantato dai cenacoli.

Occorre riconoscere che il problema non è di facile soluzione. Un apporto non indifferente verrà dal rivalutare la parrocchia nel suo compito di «primarietà», soprattutto nell’ambito formativo. Valga qui una sintetica e lucida indicazione, pregnante nel suo contenuto: «La parrocchia è la​​ prima​​ comunità ecclesiale: dopo (o, meglio, con) la famiglia è la prima scuola della fede, della preghiera e del costume cristiano; è il primo campo della carità ecclesiale; il primo organo dell’azione pastorale e sociale; il terreno più adatto per fare sbocciare le vocazioni sacerdotali e religiose; la sede primaria della catechesi» (Giovanni Paolo II,​​ All’assemblea Congregazione del clero,​​ cit.).

È evidente che la​​ primarietà​​ indicata va nel senso di ciò che è basilare, essenziale, organico e strutturale. La parrocchia va attrezzata in ordine a questo, lasciando perdere specializzazioni che la superano e preziosità sofisticate da consumato giardiniere. Nella parrocchia si compie una necessaria e talora rude aratura; il giardinaggio non le appartiene. Sull’orizzonte appare anche la necessità di discernere bene le vocazioni; la vocazione parrocchiale ha sue esigenze da coltivare nei presbiteri e nei laici. Senza concludere, con questo, che vi siano coloro che sono chiamati alla parrocchia e altri no, si vuol dire che una forte formazione alla parrocchialità è uno dei problemi maggiori oggi esistenti.

 

4.​​ Quale parrocchia? Oggi per domani

Quale parrocchia, oggi? L’interrogativo è dominante in tutte le pagine dedicate alla voce​​ Parrocchia​​ in questo Dizionario. Sottintende una risposta positiva ma non già pronta; la ricerca di essa ha un suo prezzo. Richiede anzitutto una analisi delle radici profonde che alimentano l’attuale travaglio della parrocchia. Si tratta di una crisi, non necessariamente negativa, sulla quale influiscono il processo di secolarizzazione, la forza del rinnovamento del Vaticano II e alcune recenti acquisizioni di carattere teologico e, più ampiamente, culturale. Solo una tenace opera di «aggiornamento» consentirà di non perdere le non poche possibilità emergenti dal travaglio in atto, a cui sono assai sensibili le nuove generazioni.

Notevole contributo danno — a coloro che si sentono impegnati nel configurare la parrocchia come comunità tipicamente ecclesiale, animata da una forte tensione missionaria — sia la nuova normativa canonica sia i primi esiti di una vivace riflessione teologica. Più che modelli precisi, è possibile avere ormai a disposizione i parametri solidamente fondati di una multiforme iniziativa per adeguare la parrocchia ai compiti che l’attendono oggi in vista di un futuro già incominciato.

Si può pensare che la parrocchia dovrà essere sempre più una forma, primaria e necessaria, della presenza della Chiesa nell’ambito umano. Come tale, si richiede di avere una sua identità, per così dire una «personalità» matura e integrata, flessibile e sollecita di ricapitolare energie e attività molteplici. Occorre lavorare perché sia un luogo dell’inculturazione, aperta al futuro e all’universale, un laboratorio del discernimento in grado di coniugare contemplazione e azione, servizio agàpico e attività evangelizzatrice, che trova nell’Eucaristia il momento costitutivo e fondante del suo essere e del suo agire, del sacerdozio comune e di quello ordinato.

Così devono essere oggi i suoi pastori. Così saranno domani tutti i suoi membri, ciascuno secondo il proprio dono. A nessuno è concesso di essere parte passiva.

 

Bibliografia

Bo V.,​​ Parrocchia, in​​ Dizionario di Pastorale della comunità cristiana,​​ a cura di V. Bo, C. Bonicelli, I. Castellani, F. Peradotto, Cittadella, Assisi 1980, pp. 412-418; Bonicelli C.,​​ Chiesa e parrocchia oggi: quale forma storico-sociale,​​ in COP,​​ Oltre l’indifferenza. La parrocchia a vent’anni dal Concilio,​​ Dehoniane, Napoli-Roma 1985, pp. 111-121;​​ Chiesa e parrocchia,​​ LDC, Leumann 1989; Citrini T.,​​ Per una ecclesiologia postsinodale,​​ in «La rivista del clero italiano», n. 1-1988, p. 18-27; Coccopalmerio F.,​​ La parrocchia nel nuovo Codice,​​ in «Orientamenti pastorali», 9-11-1983, pp. 143-168;​​ Il ministero delparroco nel nuovo Codice di Diritto Canonico,​​ in «Orientamenti pastorali» n. 5-1985, pp. 11-34;​​ Scommesa sulla parrocchia,​​ Ancora, Milano 1989.

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PARROCCHIA

PARSONS Talcott

 

PARSONS Talcott

n. a Colorado Springs nel 1902 - m. a München nel 1979, sociologo statunitense funzionalista.

1.​​ La formazione iniziale.​​ È il principale esponente del​​ ​​ funzionalismo e l’erede intellettuale di​​ ​​ Weber. Nella sua formazione scientifica egli è debitore a Cooley,​​ ​​ Durkheim, ma soprattutto a Veblen, a Malinowski e a Weber. Nel 1927 entrò come docente alla Harvard University.​​ La struttura dell’azione sociale​​ (1937) è stata la sua prima opera sociologica importante, cui seguì tra le altre nel 1951​​ Il​​ sistema sociale,​​ e nel 1955​​ Famiglia e socializzazione,​​ in cui fa convergere elementi della teoria psicanalitica.

2.​​ Lo sviluppo del pensiero.​​ Riflettendo sull’educazione in prospettiva funzionalista,​​ P. assume come punto di partenza: il rifiuto del determinismo organicista di Durkheim (accettandone però il principio evoluzionista che considera la presente società come la migliore possibile) e il rifiuto del determinismo culturale che attribuisce alla cultura un peso assoluto nell’interazione sociale. P. ritiene che gli attori sociali agiscono teleologicamente in base alle richieste della società. Essa determina le singole azioni individuali e collettive, orientate verso l’integrazione sociale. Gli individui agirebbero in base ad una serie di regole apprese e interiorizzate tramite i processi di socializzazione primaria e secondaria. Nella misura in cui l’attore sociale viene ad integrarsi nel sistema, egli contribuisce al suo mantenimento e il suo agire risulta funzionalmente positivo («eufunzionale»); in caso contrario egli diventerà funzionalmente negativo («disfunzionale»). L’educazione​​ ha il compito di creare le condizioni essenziali perché il sistema possa funzionare bene favorendo la partecipazione (mediante la socializzazione specie quella familiare, il decondizionamento degli istinti, l’interiorizzazione dei modelli cooperativistici), orientando l’assunzione dei ruoli adatti (mediante lo sviluppo delle predisposizioni attraverso la scuola), rafforzando l’interiorizzazione delle motivazioni (mediante l’apprendimento di modelli che favoriscono l’uniformità delle condotte e gli «orientamenti di valore» conformi alla cultura vigente). Ne risulterà una personalità adattata al sistema, il quale da tutto ciò sarà garantito nel suo ordine e nel suo equilibrio.

3.​​ Valutazione.​​ La concezione della società superintegrata non trova facili riscontri nel contesto contemporaneo delle società complesse (​​ complessità sociale) attraversate dagli squilibri del pluralismo, e della conflittualità negli stessi processi di socializzazione. In definitiva il valore e il limite delle teorie di P., sta nel legittimare la socializzazione come tecnica di organizzazione del consenso generalizzato attorno alle norme e ai modelli già legittimati dalla società, senza porsi però interrogativi sulla società stessa in continua trasformazione.

Bibliografia

Hamilton P.,​​ T.P., Bologna, Il Mulino, 1989; Alexander J.,​​ Teoria sociologica e mutamento sociale,​​ Milano, Angeli, 1990; Holmwood J.,​​ La sociologia dopo l’epoca delle ideologie. T.P. e la sociologia come professione, in «Quaderni di Teoria Sociale», 2002, 2, 61-84; Sciortino G. et al.,​​ T.P., Milano, B. Mondadori, 2005; Bortolini M.,​​ L’immunità necessaria. T.P. e la sociologia della modernità, Roma, Meltemi, 2005.

R. Mion

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PARSONS Talcott

PARTECIPAZIONE SCOLASTICA

 

PARTECIPAZIONE SCOLASTICA

Processo socioculturale per cui i soggetti che direttamente o indirettamente (e quindi con diversi titoli, motivazioni e capacità) danno vita all’istituzione scolastica, concorrono con ruoli diversi e con interazioni formali e informali a qualificarne le finalità e la natura e a determinare le modalità concrete di esercizio delle sue funzioni.

1. Il​​ concetto di p.​​ Partecipare è un verbo che qualifica i suoi significati in rapporto all’attività e alla funzione a cui si «prende parte». Il partecipare a certi tipi di attività è spesso condizione di felicità per i singoli ed è aumento delle probabilità di riuscita, come diceva eudemonisticamente il Rapporto Faure (Unesco, 1972); ma può anche essere un’occasione di ostacolo e di rallentamento dell’attività stessa; e può, per i singoli, aumentare la sofferenza e il senso dell’impotenza, anziché la soddisfazione. I processi di p. nascono spesso dalle rivendicazioni di chi considera il proprio stato di marginalità o di emarginazione come un’ingiustizia. Come dimostra un’esperienza anche non lontana, i movimenti partecipativi sono però esposti sia al ricatto colpevolizzante dei detentori del potere, sia al corto circuito ideologico di chi veda come unicamente valida e dotata di legittimità e di senso la propria azione volta a contestare e a rivendicare il potere. D’altra parte l’esperienza stessa della p.​​ politica​​ entro le strutture democratiche del paese e della p.​​ sociale,​​ entro le strutture previste dalle leggi degli anni ’70, dai quartieri alla scuola, alla sanità, alle aziende, ha profondamente deluso quelle consistenti masse di persone, che avevano creduto di poter fare esperienze esaltanti di dialogo e di cambiamento istituzionale, attraverso il contributo di tutti, dai professionisti agli utenti ai semplici cittadini. Le ricerche sociali degli ultimi anni hanno messo in luce il calo di atteggiamenti partecipativi e di disponibilità all’impegno sociale nelle istituzioni. Le responsabilità, come di solito succede di fronte a fenomeni vasti e complessi, sono di ordine economico-sociale, di ordine istituzionale e di ordine culturale, anche se diverse analisi attribuiscono maggior peso all’uno o all’altro fattore. C’è chi denuncia la scarsità degli spazi di decisionalità offerti alla p. sociale, chi denuncia la chiusura del personale tecnico e burocratico di fronte agli «esterni», chi lamenta l’impreparazione e l’invadenza o la latitanza dei soggetti chiamati a partecipare, c’è chi dichiara addirittura improponibile la p. per certi settori, come quello scolastico, che per la loro natura dovrebbero essere riservati solo agli «addetti ai lavori».

2.​​ Ripensare le ragioni,​​ gli ambiti e i metodi della p.s.​​ Il discorso vale in particolare per la scuola. Risulta indispensabile un chiarimento intorno al concetto di​​ p.s.,​​ che viene spesso frainteso o relegato ai margini della vita della scuola, contro la previsione costituzionale che fa della p. un fine di tutto l’ordinamento repubblicano (art. 3). Una concezione pedagogicamente corretta esige che la p. si caratterizzi in modo coerente ai diversi processi e momenti in cui si articola la scuola, in modo da valorizzarne e non da snaturarne le caratteristiche educative. E poiché la p. da un lato «produce», dall’altro «costa», e cioè ostacola il raggiungimento di altri fini concorrenti, si dovrà prendere in considerazione ogni momento del curricolo, per valutare, in rapporto alla diverse componenti, ai diversi organi e ai diversi soggetti,​​ chi è bene che partecipi,​​ a che cosa,​​ quando,​​ come e perché.​​ Inclusioni e preclusioni apodittiche mal si accordano con la natura della relazione educativa e con la natura dell’istituzione scolastica, che è un’organizzazione «sui generis» (​​ organi collegiali scolastici). Occorre perciò una chiara distinzione tra momento​​ espressivo-comunicativo,​​ che trova spazio soprattutto in assemblee adeguatamente preparate, di classe e di istituto, nonché nei comitati dei rappresentanti dei genitori e degli studenti, e momento​​ elaborativo-decisionale,​​ che trova spazio soprattutto nei collegi dei docenti, nei consigli di classe e d’interclasse, con particolare rilievo per gli insegnanti, e nei consigli d’istituto. Il problema, a questo proposito, è quello di verificare se la formula istituzionale uscita dai decreti delegati del 1974 preveda una equilibrata distinzione tra ambiti tecnici di tipo amministrativo e di tipo didattico e ambiti politici e pedagogici, aperti per natura loro all’apporto degli studenti, dei genitori e, per certi aspetti, anche delle forze sociali. Ciò è venuto chiarendosi a metà degli anni ’90, nel contesto del varo, da parte del Governo, delle «Carte dei servizi sociali», tra cui la «Carta del servizio scolastico», che andrebbe elaborata in termini di «contratto formativo» fra docenti, genitori e studenti e che si caratterizza essenzialmente per il PEI, il progetto educativo d’istituto, divenuto POF dopo il dpr 275 / 1999 sull’autonomia. Chi è portatore del bisogno, ha titolo a farlo presente, a chiarirlo a se stesso, a presentarlo in un contesto in cui la domanda di beni e servizi possa emergere con chiarezza, senza intimidazioni, confusioni e mistificazioni: in un contesto in cui la domanda possa anzi precisarsi in un dialogo con i responsabili tecnici del servizio, per arricchirsi di conoscenze e di possibilità d’influire sulla qualità del servizio stesso, in termini sempre più competenti, rispettosi ed efficaci. Chi è portatore della competenza è tenuto ad aiutare la domanda a precisarsi, a confrontarsi con le caratteristiche e con i limiti del servizio, a impegnarsi ad attuare, per la propria parte, il progetto educativo, nei suoi risvolti organizzativi e didattici. In sede di auspicabile modifica dei decreti delegati si dovrebbe precisare, lasciando spazio all’autonomia delle scuole, che l’organizzazione delle istituzioni scolastiche s’ispira ai principi costituzionali di p., di promozione del pieno sviluppo della persona umana, di autonomia, di sussidiarietà, dando alla scuola i caratteri di una comunità che interagisca con la più vasta comunità sociale e civica. In essa si distinguono le funzioni di​​ indirizzo​​ e di​​ programmazione, che spettano agli organi di governo, consiglio d’istituto e collegio dei docenti, le funzioni di​​ deliberazione pedagogico-didattica​​ e​​ disciplinare,​​ che spettano agli organi tecnico-didattici e disciplinari dei docenti, le funzioni di​​ gestione​​ e di​​ coordinamento, che spettano in particolare al dirigente scolastico, e le funzioni di​​ comunicazione,​​ consultazione e proposta​​ che spettano, oltre che alla componente professionale della scuola, anche agli organismi dei genitori e degli studenti. Una concezione aggiornata e non aziendalistica della scuola implica non solo le funzioni del​​ gestire, ma anche quelle dell’informare, del​​ comunicare, dell’educare all’esercizio di qualche forma di democrazia, per assicurare ai giovani anche​​ competenze di cittadinanza, a cui tra l’altro si riferisce l’educazione alla​​ convivenza civile, presente nella L. 53 / 2003 e nelle​​ Indicazioni nazionali.​​ Nei regolamenti delle singole scuole è corretto pensare alla definizione dei modi della p., che possono variare da scuola a scuola. Continuità, buona amministrazione e snellezza organizzativa, p., autonomia, efficacia ed efficienza dell’insegnamento e dell’apprendimento non sono valori alternativi, ma valori concorrenti, tra cui mediare con prudenza, in rapporto alle diverse condizioni storiche, psicologiche e sociali. Una scuola accogliente, dialogica, capace di decidere, assume la responsabilità di «governare» i processi d’insegnamento, di comunicazione, di decisione e cioè di motivare, di chiarire, sostenere e limitare i diversi ruoli, con modalità coerenti al raggiungimento delle finalità istituzionali. La p. chiama in causa la​​ comprensione​​ di complesse e ambivalenti dinamiche e la​​ fiducia​​ che uno ha nei propri mezzi e in quelli dei propri simili, in rapporto alla speranza e alla volontà di rendere più umano l’ordine sociale e più vicina la soluzione di uno o più problemi. In questo contesto si può notare che​​ educare alla p.​​ significa indurre i meno informati, motivati, provveduti e disponibili, non solo all’offerta, alla richiesta, alla protesta, ma anche alla corresponsabilità e insieme al distacco. Si tratta quindi di accettare la dinamica della rivendicazione, del conflitto, della colpa, di qualche vittoria e di qualche sconfitta inevitabile: la p. è cioè anche lotta, ma un tipo di lotta che aspira o dovrebbe aspirare non solo alla giustizia e all’efficacia / efficienza, ma anche alla riconciliazione e alla pace: una pace intesa come l’ordine che rende possibile l’eguale esercizio di tutti del diritto ad essere, a crescere, a produrre, a contare e ad avere di più, ma non tanto da compromettere o da distruggere quel bene di cui si vuole parte o essere parte, o che si vuol concorrere a produrre.

3.​​ Nuove prospettive,​​ nel contesto di una paideia ispirata alla Costituzione.​​ È questo il senso profondo dell’autonomia scolastica. Ma in questo contesto si vede anche il senso di metodologie e tecniche nuove che aiutino la p. Attraverso la stampa e Internet si comunica in rete e si pongono le premesse per una p. meno mitologica e rissosa, ma più attenta e produttiva di quella degli anni ’70, con cui è iniziata la fase della p. istituzionalizzata. L’informatica aiuta. Un documento-quadro entro cui sembra rimotivabile un nuovo processo partecipativo è quello allegato alla d.m. 8.2.1996 n. 58, dal titolo​​ Nuove dimensioni formative,​​ educazione civica e cultura costituzionale,​​ che conduce a sintesi le norme e le iniziative tese a fare della scuola un terreno accogliente per le diverse «educazioni» veicolate da altrettante emergenze negative e che, scavando nel codice genetico della scuola repubblicana, rintraccia un orizzonte di senso per l’esperienza scolastica, schiacciata fra degrado e cyberspazio, fra culturalismo e burocratismo, fra sogni e delusioni, fra volontariato e bullismo. A sua volta il dpr 567 / 1996 e successive modifiche offre opportunità di utilizzazione più ampia degli spazi e delle potenzialità formative della scuola, e quindi della p. dei soggetti, sia a livello di rappresentanti (i cosiddetti gruppi di p.) sia a livello di gruppi di riferimento. Fra questi si segnalano i tre​​ forum​​ rispettivamente​​ delle​​ associazioni​​ di studenti, di genitori e di insegnanti, riconosciuti dal MPI.

Bibliografia

Corradini L.,​​ La difficile convivenza. Dalla scuola di stato alla scuola della comunità,​​ Brescia, La Scuola,​​ 61975; Id.,​​ Democrazia scolastica,​​ Ibid., 1975; Censis,​​ Scuola e p. sociale. Il primo anno di applicazione dei decreti delegati,​​ Roma, 1976; Corradini L.,​​ La comunità incompiuta,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1979; Id.,​​ Essere scuola nel cantiere dell’educazione,​​ Roma, SEAM, 1995; Corradini L. - W. Fornasa - S. Poli (Edd.),​​ Educazione alla convivenza civile, Roma, Armando, 2003; Richiedei G.,​​ Genitori in associazione: una risorsa per il Paese, AGe Lombardia, Brescia, Tipolitografia Queriniana, 2006; Chistolini S. (Ed.),​​ Cittadinanza e convivenza civile nella scuola europea, Ibid., 2006; Corradini L.,​​ Educare nella scuola nella prospettiva dell’UCIIM.​​ Nuovi scenari nuove responsabilità, Ibid., 2006; Id.,​​ La fiducia,​​ radice della cittadinanza,​​ nel dialogo tra famiglia e scuola, in Id. (Ed.),​​ Pedagogia e cultura per educare,​​ Cosenza, Pellegrini, 2006; Id.,​​ Cittadinanza, in G. Cerini - M. Spinosi,​​ Voci della scuola, VI, Napoli, Tecnodid, 2007; Gruppo di​​ lavoro​​ ministeriale (coord. da L. Corradini), «Legalità e cittadinanza», in​​ Scuola e legalità.​​ Primo rapporto del Comitato Nazionale Scuola e Legalità, Roma, MPI, 2007.

L. Corradini

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PARTECIPAZIONE SCOLASTICA

PASTORALE

 

PASTORALE

P. è l’insieme delle azioni che la comunità ecclesiale, animata dallo Spirito Santo, realizza per l’attuazione nel tempo del progetto di salvezza di Dio sull’uomo e sulla sua storia, con riferimento alle concrete situazioni di vita. La p. si interessa di problemi concreti. Essa è azione, prassi, organizzazione di risorse e progettazione d’interventi. Certamente però tutto questo è possibile solo all’interno di un’attenta e intensa riflessione, soprattutto teologica. La p. riflette sull’insieme delle azioni che la comunità ecclesiale pone per attuare la salvezza, per interpretarle, verificarle, riprogettarle. La dimensione pratica della p. la pone continuamente nella necessità di confrontarsi con tutte quelle discipline che, in qualche modo, si interessano degli stessi problemi e ne cercano soluzioni, eventualmente a​​ partire da preoccupazioni differenti. È tipico, a questo proposito, il confronto con 1’educazione sul piano pratico della comprensione e della soluzione dei problemi, a partire da una riflessione che li sappia comprendere ed interpretare. La definizione del tipo di rapporto da instaurare tra educazione e p. riguarda lo statuto delle due discipline. In questa voce, si propone un’ipotesi che assume come punto di riferimento il dato teologico relativo alla natura e ai compiti della p.

1.​​ Modelli diversi.​​ P. e educazione non sono la stessa realtà, dal punto di vista formale e sostanziale. Eppure sono molti e intensi i punti di contatto, come porta a supporre, almeno implicitamente, un certo modo di esprimersi comune tra gli addetti ai lavori. Per indicare i compiti e le responsabilità di coloro che sono impegnati nell’ambito della p. si utilizza spesso la formula: «educazione alla fede» (o «educazione della fede», come preferisce dire qualcuno). Il termine​​ ​​ educazione possiede una sua innegabile rilevanza tecnica, che le​​ ​​ scienze dell’educazione analizzano e precisano. È corretto attribuire questi riferimenti ai processi che riguardano la fede e il suo sviluppo? O, al contrario, si tratta di un modo di dire solo analogico? La tradizione p., vissuta e riflessa, offre differenti risposte a questi interrogativi.

1.1.​​ Primo modello: ricomprendere l’educativo a partire dal teologico.​​ Nel modello che per tanto tempo ha dominato il campo della p., si parla molto di educazione alla fede e s’insiste sugli interventi necessari per attuarla. In esso però la voce «educazione» è assunta solo in una visione analogica rispetto a quella caratteristica delle scienze dell’educazione. Il suo contenuto è derivato, quasi deduttivamente, dal dato teologico. Così, in ultima analisi, è svuotata ogni seria preoccupazione educativa nell’azione p. Questo modo di comprendere il rapporto tra teologia ed educazione è ormai in concreto superato nella riflessione e nella prassi p. Sono possibili però quelle sue rivisitazioni, accorte e intelligenti, che conservano l’abitudine di comprendere i problemi p. solo a partire dalle esigenze del dato teologico. Nella definizione delle procedure relative all’​​ ​​ evangelizzazione, per es., si insiste molto sulla dimensione oggettiva e veritativa dell’esperienza cristiana. È attivato un continuo confronto critico tra la sapienza dell’uomo e il dato della fede, quasi per restaurare quelle esigenze a carattere «apologetico», troppo frettolosamente accantonate nel recente passato. I giovani sono sollecitati ad apprendere, con pazienza e fermezza, i contenuti oggettivi della fede nella loro precisa codificazione linguistica. Si parte dall’ipotesi che l’educazione ad accogliere e a comprendere il linguaggio oggettivo della fede aiuti e sostenga la vita di fede, sotto il profilo della consapevolezza riflessa e del confronto con le varie istanze del sapere umano.

1.2.​​ Secondo modello: l’autonomia dell’educativo.​​ Il modello precedente ha una specie di rovescio della medaglia in quelle prassi che tendono a far prevalere l’educativo sopra ogni impegno p. La logica è semplice: la coscienza di quanto sia stretto il rapporto tra dimensioni antropologiche e teologiche porta a concludere che i compiti della p. sono già egregiamente assolti quando si realizza una corretta azione educativa. Prevale l’abitudine di chiamare le cose con i loro nomi concreti, evitando l’astrattismo del linguaggio religioso. Sono accolti i ritmi e i tempi dei normali processi evolutivi. La fiducia verso le scienze dell’educazione sollecita a programmare con serietà e competenza gli interventi adeguati. L’azione p. parte di conseguenza da una gerarchia di preoccupazioni e di esigenze, diversa da quella tradizionale. Molti problemi religiosi passano in secondo piano, per fare spazio ad altri, vissuti come più urgenti.

1.3.​​ Terzo modello: la separazione netta degli ambiti.​​ Lo stimolo della «teologia dialettica» si è fatto sentire presto anche nell’ambito della p. Alcune sue indicazioni, particolarmente incisive, hanno trovato facile risonanza in operatori di p., reattivi rispetto all’eccessiva pedagogizzazione della fede e della vita cristiana. Alla base sta l’affermata irriducibilità del mondo della fede al mondo profano e la constatazione teologica che nella Rivelazione c’è solo un discorso soteriologico, estraneo ad ogni interesse educativo. Dio è Dio; egli è il totalmente altro, colui che è nascosto e avvolto nel mistero. All’assoluta e somma superiorità di Dio va contrapposta l’estrema e infinita inferiorità dell’uomo. Cito alcune indicazioni pratiche che, in qualche modo, si ispirano a questa prospettiva teologica: il rifiuto di ogni mescolamento dell’educativo nell’ambito della p.; l’affermazione che l’unica preoccupazione veramente urgente è quella in fondo più semplice: moltiplicare le occasioni di contatto tra Dio e l’uomo. Di qui l’insistenza sui momenti di preghiera, sulle celebrazioni liturgiche e sacramentali, sull’ascolto della Parola di Dio; la contestazione, almeno pratica, dell’esistenza di un problema originale di «p. giovanile», come se i giovani avessero titoli e difficoltà particolari rispetto alla salvezza di Dio; l’enfasi sulla comunità di fede e di vita ecclesiale come luogo, accogliente e pervasivo, dove tutti i problemi possono essere risolti.

1.4.​​ Quarto modello: la scelta educativa in​​ uno «sguardo di fede».​​ Esistono modelli p. in cui è facile riconoscere una fiducia nell’educazione, costruita a partire da una teologia della Rivelazione. La Parola di Dio, offerta della Rivelazione, assume una sua speciale visibilità umana per farsi conoscere, per rendersi vicina e accessibile all’uomo in vista della fede. C’è quindi un aspetto della Rivelazione, inseparabile da quello trascendente, che è alla portata delle capacità di apprendimento dell’uomo. Esiste, in altre parole, un visibile, rivelatore dell’invisibile, un contenente veicolo al contenuto, un significante che conduce al significato. Per questo è affidato all’educazione un contributo irrinunciabile anche per la p.: il visibile è il luogo di presenza del mistero e via privilegiata per entrarvi.

2.​​ Una prospettiva.​​ Chiariti i termini, si può entrare nel merito, alla ricerca di soluzioni. È certo che la risposta deve nascere da una chiara meditazione sulla fede perché la questione riguarda la natura dell’esperienza di fede e non solo le modalità pratiche della sua trasmissione.

2.1.​​ Leggere il processo nella logica dell’Incarnazione.​​ Consideriamo l’evento che dà origine alla decisione di fede: la Rivelazione. Essa rappresenta il punto centrale per sapere se si può parlare di educabilità della fede ed eventualmente in che senso. Il contenuto della Rivelazione è Gesù Cristo: il mistero di Dio in Gesù Cristo. E cioè l’alleanza: un’alleanza d’amore fra tre Persone nell’unità di una stessa vita (ciò che Dio è); un’alleanza d’amore tra Dio e l’uomo per la realizzazione della salvezza (ciò che Dio fa); un’alleanza d’amore tra gli uomini e Dio nella e per la fede (ciò che Dio attende). Quest’annuncio presenta un carattere trascendente. Si possono prendere seriamente le esigenze dell’educazione, quando ci poniamo al servizio di un evento di questa natura? Non è possibile rispondere in astratto, dimenticando il modo con cui di fatto Dio ha voluto realizzare la Rivelazione. La Tradizione ci sollecita a pensare alla Rivelazione alla luce e nel mistero dell’Incarnazione, perché l’evento di Gesù il Cristo ne rappresenta il contenuto e il modello più radicale. Il riferimento all’Incarnazione ci ricorda che la Parola di Dio è «incarnata»; assume, in altre parole, una sua visibilità. Questo visibile è la vita umana, quell’esistenza concreta e quotidiana che forma l’oggetto delle cure educative. Nella Rivelazione è importante distinguere tra il dono di Dio e il modo con cui questo dono si rende presente, vicino, provocante. La presenza di Dio è sempre «mistero» santo, sottratto ad ogni possibilità di manipolazione e di comprensione esaustiva. Dal dono di Dio scaturisce l’appello alla libertà e responsabilità d’ogni uomo. Tutto questo investe innegabilmente il dialogo diretto e immediato tra Dio e ogni uomo e tocca quelle profondità dell’esistenza umana che sfuggono ad ogni processo educativo. Dono e chiamata si realizzano però «in parole umane»: assumono una dimensione di visibilità storica e quotidiana, legata a quelle regole educativo-comunicative, che sono oggetto anche delle scienze dell’educazione e, in generale, dell’approccio antropologico. La conclusione è immediata: se la Rivelazione assume la vita quotidiana e i suoi dinamismi come suo strumento espressivo, il rapporto tra educazione e p. è molto stretto (proprio dal punto di vista dei compiti della p. stessa).

2.2.​​ Il​​ concreto.​​ Queste distinzioni orientano verso un modello di p. che fa spazio ai contributi, teorici e pratici, delle scienze dell’educazione, fino a riconoscere la loro funzionalità indiretta nella maturazione della fede. a)​​ La priorità del dono di Dio per la fede.​​ Prima di tutto è indispensabile riconoscere che la fede si sviluppa sul piano misterioso del dialogo tra Dio e ogni uomo. Questo spazio di vita sfugge ad ogni tentativo di intervento dell’uomo. In esso va riconosciuta la priorità dell’iniziativa di Dio. La risposta dell’uomo consiste nell’obbedienza accogliente: la fede è un dono, in senso totale; proviene quindi dall’udire e non dal riflettere, è accoglienza e non elaborazione. b)​​ L’educazione alla fede sul piano delle mediazioni educative.​​ L’appello di Dio che costituisce il fondamento del processo di salvezza, si fa sempre parola d’uomo, per risuonare come parola comprensibile dall’uomo, e cerca una risposta personale, espressa in gesti e parole dell’esistenza quotidiana. C’è quindi una dimensione del processo di salvezza che si svolge secondo modi comuni ad ogni processo educativo e comunicativo. Non rappresenta un aspetto che s’aggiunge a quello dell’immediatezza dell’azione di Dio, ma un’esigenza che la pervade tutta. L’azione p. è, nello stesso tempo e con la stessa intensità, un atto sottratto alla qualità della relazione interpersonale, perché attinge direttamente nel mistero di Dio potenza ed efficacia, ed è intensamente condizionato dalla qualità umana dei gesti e delle parole poste e dalla disponibilità «educabile» del soggetto. Il condizionamento (positivo o negativo) è collocato nel rapporto del «segno» rispetto all’evento. Attraverso le modalità antropologiche in cui si svolge, il segno diventa sempre più espressivo rispetto alle attese del soggetto e sono ricostruite queste attese per sintonizzarle con l’offerta della fede e della salvezza. Questo è l’ambito tipico dell’azione p. Riconosce la funzione insostituibile di tutti gli interventi educativi rispetto all’educazione della fede: essi hanno il compito di attivare, sostenere, mediare il processo di salvezza, nel doppio movimento di proposta e di risposta. c)​​ La potenza di Dio investe anche gli interventi educativi.​​ Le due modalità (quella misteriosa in cui si esprime l’appello di Dio alla libertà dell’uomo e quella delle mediazioni educative) non sono sullo stesso piano. Bisogna riconoscere, in una fede confessante, la priorità dell’intervento divino anche nell’ambito educativo, più direttamente manipolabile dall’uomo e dalla sua cultura. La fede dunque riconosce la grandezza dell’educazione: liberando la capacità dell’uomo e rendendo trasparenti i segni della salvezza, essa libera e sostiene la sua capacità di risposta responsabile e matura a Dio. Ma la fede riconosce che anche l’educazione rimane, come tutti i fatti umani, sotto il segno del peccato. La fede dunque deve esprimere un giudizio sull’educazione dell’uomo in genere e, in particolare, sul modello educativo umano che può essere utilizzato nel proporre la fede alle nuove generazioni. Questo, in fondo, non è attentato al dovere di rispettare l’autonomia dei fatti umani. Significa invece che l’approccio educativo e comunicativo è giudicato dall’evento al cui servizio si pone. Nel nostro caso comporta la constatazione che questo approccio, anche se è legato ad esigenze tecniche, avviene sempre nel mistero di una potenza di salvezza che tutto avvolge: la grazia salvifica possiede una sua rilevanza educativa, certa e intensa anche se non è misurabile attraverso gli approcci delle scienze dell’educazione.

3.​​ Una p. attenta all’educazione.​​ Le riflessioni appena suggerite portano a concludere sulla necessità di assumere gli atti educativi anche nei processi di educazione alla fede, almeno fino ad un certo punto. Il confine non è di quantità ma di qualità. Infatti non c’è un primo tratto di strada percorribile in compagnia con i dinamismi antropologici, e un secondo tratto dove tutto resta affidato all’imponderabile presenza dello Spirito. Potenza di Dio e competenza umana sono invece compagni di viaggio dalla partenza all’arrivo, anche se sono interlocutori diversi, cui va riconosciuto uno spazio pratico molto differente.

3.1.​​ A confronto.​​ Il confronto tra educazione e p. sollecita a realizzare i due processi in modo da assicurare a ciascuno il guadagno che il contributo dell’altro è in grado di offrire. La p. assume le esigenze dell’educativo, con disponibilità e attenzione, superando ogni tentazione di strumentalizzazione. Il pluralismo, però, investe e attraversa anche l’educazione e la frammenta in diverse figure. Il riferimento antropologico sotteso non è indifferente per la qualità del servizio di promozione della vita e della speranza, cui l’educazione tende. Essa cerca quindi un’ispirazione che la collochi pienamente dalla parte della vita e della sua qualità. Un dialogo e un confronto possono introdurre nei due processi un principio interessante di verifica e di rinnovamento. Tra i tanti modi attraverso cui si può realizzare la p., chi crede all’educazione preferisce quelli in cui è rispettata meglio la preoccupazione della gradualità, della chiamata alla responsabilità. Essa si realizza sempre in una presenza accogliente, che fa dei gesti di vicinanza, di servizio, di promozione e di amore la sua parola più convincente. In un tempo in cui lo scontro tra le culture avviene sempre di più attorno alla qualità della vita, alla ricerca di senso e ai fondamenti della speranza, chi è impegnato sulla frontiera dell’educazione riconosce di avere un compito che riempie di gioia e di responsabilità, riguardo alla vita e alla sua promozione. La collaborazione, teorica e pratica, con chi opera nell’ambito della p. aiuta ad inventare e sperimentare modelli di esistenza, capaci di dire oggi chi è l’uomo e la donna al cui servizio tutti sono sollecitati a piegarsi.

3.2.​​ L’educazione è il nome concreto per dire oggi «promozione umana».​​ L’educazione è la grande sfida che la cultura attuale lancia a coloro che credono all’uomo e alla sua dignità. Per questo, anche chi è impegnato esplicitamente nell’ambito della p., riconosce di assolvere intensamente il suo compito, impegnando tutte le risorse nell’ambito dell’educazione. Nel nome dell’educazione gioca la sua fede e la sua speranza. Attorno alle esigenze dell’educazione chiede la collaborazione di tutte le persone che amano l’uomo e ne cercano una promozione, oltre le differenze culturali e religiose. La comunità ecclesiale riconosce la «portata salvifica dell’educazione» anche come evento già compiuto e preciso (anche se parziale), nell’ordine della salvezza di cui è sacramento. La comunità ecclesiale riconosce così nell’educazione il modo privilegiato per realizzare oggi i necessari impegni di «promozione umana» nell’ambito dell’evangelizzazione. Affermando la sua fiducia nell’educazione, sente di essere fedele al suo Signore. Con lui crede all’efficacia dei mezzi poveri per la rigenerazione personale e collettiva e crede all’uomo come principio di rigenerazione: restituito alla gioia di vivere e al coraggio di sperare, riconciliato con se stesso, con gli altri e con Dio, può costruire nel tempo il Regno della definitività.

Bibliografia

Schillebeeckx E.,​​ Intelligenza della fede. Interpretazione e critica,​​ Roma, Paoline, 1975; Coudreau F.,​​ Si può insegnare la fede? Riflessioni e orientamenti per una pedagogia della fede,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1978; Latourelle R. - G. O’Collins (Edd.),​​ Problemi e prospettive di teologia fondamentale,​​ Brescia, Queriniana, 1980; Vecchi J. E. - J. M. Prellezo (Edd.),​​ Prassi educativa p. e scienze dell’educazione,​​ Roma, Editrice SDB, 1988; Tonelli R.,​​ Per la vita e la speranza. Un progetto di p. giovanile,​​ Roma, LAS, 1996; Istituto di Teologia​​ p. - Università Pontificia Salesiana,​​ P. giovanile. Sfide,​​ prospettive ed esperienze,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 2003.

R. Tonelli

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PASTORALE

PASTORALE CATECHISTICA

 

PASTORALE CATECHISTICA

La CT, nella esposizione che fa della C., osserva che questa “mantiene l’ottica tutta pastorale, sotto la quale il Sinodo (1977) ha voluto considerarla. Questo senso largo della C. non contraddice, ma comprende, oltrepassandolo, il senso più stretto, una volta impiegato più comunemente nelle esposizioni didattiche: il semplice insegnamento delle formule che esprimono la fede” (n. 25). Del radicamento della C. in una pastorale più vasta si era andato prendendo coscienza negli anni immediatamente precedenti il Concilio. La rivista “Vérité et Vie” iniziò nel 1959, con articoli di J. Colomb, la rubrica “Pastorale catéchétique”. L’Istituto Superiore di Catechetica di Parigi, nel suo secondo periodo, 1958-1968, cambiò il nome in Istituto Superiore di Pastorale Catechistica, e la rivista “Catéchèse” apparve, verso la fine del 1960, come “Revue de Pastorale Catéchétique”, così come il Direttorio francese del 1964 nacque come “Directoire de Pastorale Catéchétique”.

La rivista “Catechesi”, assumendo lo stesso sottotitolo nel gennaio 1970 (come faranno altri Centri e riviste), così lo giustificava: “Se la C. è insegnamento, lo è non in vista di un nozionismo religioso, ma in vista di una vera e propria mentalità di fede, per la vita di fede nelle concrete situazioni dell’esistenza individuale e sociale. Così la C. è necessariamente iniziazione alla vita liturgico-sacramentale, nella quale si celebrano i sacramenti della fede, perché tutta la vita, innestata nel mistero della salvezza, sia santificata in radice e in ogni suo atto, mettendola in contatto col mistero pasquale di Cristo. Ed è formazione alla vita ecclesiale, che fa della comunità dei credenti in Cristo una comunione di vita, di amore, di verità”.

Così l’Istituto di Catechetica dell’Università Pontificia Salesiana, caratterizzato dalla sua collocazione in una Facoltà di Scienze dell’Educazione, ha cercato, a partire dal 1981, anche un collegamento più stretto con la Pastorale, entrando a formare una Struttura Dipartimentale con l’Istituto di Pastorale Giovanile della Facoltà di Teologia della stessa Università.

Bibliografia

Catechesi” rivista di Pastorale Catechistica,​​ in “Catechesi” 39 (1970) 1, 1-3;​​ Directorium Catecheticum Generale,​​ Roma, Ed. Vaticana, 1971, Parte II, cap. II:​​ La catechesi nella missione pastorale della Chiesa,​​ nn. 17-35.

Ubaldo Gianetto

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