ORATORIANI

 

ORATORIANI

Movimento spirituale-pedagogico francese - Movimento spirituale-pedagogico italiano.

1. Pierre de Bérulle (1575-1629, card. dal 1627) fonda nel 1611 (con approvazione pontificia del 1613), l’«Oratorio di Gesù Cristo», un’associazione di sacerdoti secolari che vivevano in comunità senza voti, dedicati alla formazione iniziale e permanente degli ecclesiastici. Accettano poi anche dei collegi, dove conducono in molte parti della Francia per quasi due secoli (vengono soppressi nel 1792) una esperienza di pedagogia cristiana con molti tratti originali. Il fondamento delle scuole è radicalmente religioso-spirituale, inteso a formare Gesù Cristo nel cuore degli allievi. L’istruzione letteraria è un mezzo a questo scopo. Vi è incluso l’insegnamento del fr., della storia, delle scienze (geografia, cartografia, matematica) e della filosofia moderna cartesiana, ma la base resta il trilinguismo (lat., gr., ebraico) che apre allo studio della Bibbia e dei Padri della Chiesa. Gli allievi appartengono alla piccola e media borghesia piuttosto che alla nobiltà. Si cerca di superare l’antitesi fra la pietà e lo studio, il metodo è quello della comprensione, dolcezza, riserbo, discrezione, fondati sulla carità, l’interiorità e una spiritualità teocentrica e cristocentrica.

2. Filippo Neri (1515-1595), sacerdote dal 1551 e proclamato santo nel 1622, trasferitosi da Firenze a Roma, vi promosse negli anni ’50 un movimento spirituale-educativo che prese il nome di​​ ​​ Oratorio e da cui scaturì nel 1575 una Congregazione di preti e chierici secolari viventi in comune, e dediti all’​​ ​​ educazione cristiana dei fedeli e in particolare dei giovani. L’Oratorio si presenta come un raggruppamento libero e diversificato di giovani e adulti, invitati a passare le ore pomeridiane in trattenimenti spirituali, nell’ascolto della Parola di Dio, esposta e commentata in modo familiare e in vista del perfezionamento della vita cristiana. Vi vengono promossi il culto eucaristico, la confessione e la direzione della coscienza, la musica e le arti figurative, e anche il gioco e il divertimento, in un’atmosfera di festosa cordialità. Alla pedagogia dell’Oratorio filippino si ispira il trattato di​​ ​​ Antoniano. La Congregazione si diffuse in Italia, in Europa, in America e in India. Ne furono membri, tra molti altri, il P. Faber e il card. Newman e i beati Giovenale Ancina, Antonio Grassi e Sebastiano Valfré, come pure i card.​​ Capecelatro e Giulio Bevilacqua.

Bibliografia

a) Su P. Bérulle: Dagens J.,​​ Bérulle et les origines de la restauration catholique (1575-1611),​​ Paris-Bruges, Desclée de Brouwer, 1952; Plongeron B., «Du modèle jésuite au modèle oratorien dans les collèges français à la fin du XVIIIe siècle», in J. Preaux (Ed.),​​ Église et enseignement,​​ Bruxelles, Éditions de l’Université de Bruxelles, 1977, 89-136;​​ Braido P. (Ed.),​​ Esperienze di pedagogia cristiana nella storia,​​ vol.​​ II, Roma, LAS, 1981, 9-64. b) Su F. Neri: Marciano G.,​​ Memorie historiche della Congregazione dell’Oratorio,​​ 5 voll., Napoli, De Bonis, 1693-1702; Capecelatro A.,​​ Vita di S. Filippo Neri,​​ Roma, Desclée et Lefebvre, 1901; Cistellini A.,​​ S.​​ Filippo Neri,​​ l’Oratorio e la Congregazione oratoriana. Storia e spiritualità,​​ Brescia, Morcelliana, 1989.

U. Gianetto

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ORATORIO

 

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1.​​ Il termine O. compare in Roma nel 1500 con san Filippo Neri, che inizia questo tipo di servizio pastorale “per avvicinare giovani e adulti lontani dalla pratica della vita cristiana, unendo all’insegnamento della dottrina momenti di svago, di canto e passeggiate” (P.​​ Pecchia!,​​ Roma nel cinquecento,​​ Bologna,​​ 1948, 393).​​ Nel 1537 a Roma Ignazio di Loyola e i compagni Lainez e Fabro “comenzaron​​ a​​ enseñar​​ la​​ doctrina​​ cristiana a​​ los niños”, riscuotendo grande successo tra la gente, e servendosi dell’insegnamento gratuito della grammatica e delle lettere per meglio raggiungere i ragazzi e istruirli nelle verità della fede (L. Battoli,​​ Vita di S. Ignazio,​​ Roma, 1650, 274). Nel 1592 è san Giuseppe Calasanzio che, a Roma, mostra il suo zelo per i fanciulli poveri e abbandonati raccogliendoli in luoghi di educazione detti “scuole pie”. Mentre a Milano sorgono le scuole della dottrina cristiana e gli​​ O.​​ di san Carlo, nel corso dei secoli seguenti altri cercarono di integrare l’insegnamento della dottrina cristiana con attività care ai fanciulli come il gioco, la vita di gruppo, il servizio di carità ai compagni... giungendo fino all’attuale formula degli O. che, se ha in D. Bosco l’ideatore per eccellenza, è però presente sotto diverse e svariate formule di attuazione (come la FOM [Federazione Oratori Milanesi], il COR [Centro Oratori Romani], l’ANSPI [Associazione Nazionale S. Paolo per gli Oratori], gli O. salesiani, orionini, guanelliani...) in Italia, i patronages in Francia e nel Belgio, ecc.

2.​​ Nella forma attuale 1’0. è spazio di accoglienza, di pastorale e di formazione dei fanciulli, dei ragazzi e dei giovani che, nella sua tipica popolarità crea una tensione dinamica tra dimensione personale e comunitaria, e attraverso una ben dosata azione pedagogico-pastorale ne sostiene la crescita integrale.

3.​​ La C. è nell’O. allo stesso tempo annuncio di un messaggio di salvezza liberante, risposta a un interrogativo di senso della vita e di fede, testimonianza degli adulti nella fede, iniziazione alla preghiera, alla vita sacramentale, al servizio di carità. I contenuti proposti, essendo la metodologia degli O. caratterizzata dalla spontaneità, dalla sincerità e dalla gioia, divengono motivazione delle scelte e sostegno ad una educazione concreta e globale. Nelle attività tipiche della vita oratoriana (teatro, canto, gioco, sport, musica, turismo...) il ragazzo incarnerà la propria esperienza di crescita nella fede, e nella vita comunitaria vissuta quotidianamente apprenderà ad essere “onesto cittadino e buon cristiano” (D. Bosco).

4.​​ Questo metodo di C. che privilegia l’esperienza di vita, non sempre fu sostenuto e apprezzato da coloro che ritenevano la C. come pura trasmissione di contenuti dottrinali. Sembrò per lungo tempo, ad alcuni, che il carattere popolare dell’ambiente oratoriano, il clima di spontaneità nelle relazioni facesse perdere credibilità e profondità all’insegnamento della dottrina cristiana, per cui gli stessi parroci trascurarono, o bandirono addirittura, gli O. dalle loro strutture di pastorale, con il conseguente abbandono da parte dei ragazzi e dei giovani dell’ambiente della parrocchia. La pastorale rimaneva limitata ai fanciulli in occasione della recezione dei sacramenti della prima comunione e cresima; prima e dopo, vuoto di presenze, o piccoli gruppi viventi in associazioni specifiche.

5.​​ Il provvidenziale movimento cat. postconciliare, l’assunzione dei principi delle scienze umane in ordine all’età evolutiva, l’affermazione (CT 51) che “la varietà nei metodi è segno di vita e di ricchezza”, hanno confermato e consacrato la formula della C. oratoriana fatta di trasmissione di solidi contenuti di fede in un ambiente vivo e vitale dove, attraverso interessi e impegni, vita di socialità e di comunione ecclesiale, si matura alla riflessione, all’incontro con Dio e con i fratelli, alla celebrazione della fede. Nell’O. tutto diviene spazio e occasione di evangelizzazione e di C. e rivela la sacramentalità del vissuto quotidiano. Assumendo nelle espressioni migliori la cultura dei giovani, si porta in essa la forza del Vangelo e la sua ricchezza in clima di fede e di carità, in proiezione di speranza, perché siano lucidi e coerenti nella loro fede (CT 57). La diversità delle programmazioni, la varietà dei metodi, la ricchezza delle attività che continuamente vengono proposte caratterizzano in modo peculiare la C. dell’O. e ne fanno la sua forza di attrattiva.

Bibliografia

P. Braido.​​ Esperienze di pedagogia cristiana nella storia,​​ Roma, LAS, 1981; G.​​ Franza,​​ Il Catechismo a Roma,​​ Roma, Ed. Paoline, 1958; G. Gatti,​​ La catechesi dei fanciulli,​​ Leumann-Torino, LDC, 1975; U. Gianetto – R. Giannatelli,​​ La catechesi dei ragazzi,​​ ivi, 1976; F. Pascucci,​​ L’insegnamento religioso in Roma dal Concilio di Trento ad oggi,​​ Roma, 1938; P. Ricaldone,​​ Oratorio festivo, catechismo...,​​ Torino, SEI, 1940; S. Riva,​​ La contestazione nella catechesi,​​ Brescia, La Scuola, 1971.

Lorenzina Golosi

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1.​​ Il termine O. compare in Roma nel 1500 con san Filippo Neri, che inizia questo tipo di servizio pastorale “per avvicinare giovani e adulti lontani dalla pratica della vita cristiana, unendo all’insegnamento della dottrina momenti di svago, di canto e passeggiate” (P.​​ Pecchia!,​​ Roma nel cinquecento,​​ Bologna,​​ 1948, 393).​​ Nel 1537 a Roma Ignazio di Loyola e i compagni Lainez e Fabro “comenzaron​​ a​​ enseñar​​ la​​ doctrina​​ cristiana a​​ los niños”, riscuotendo grande successo tra la gente, e servendosi dell’insegnamento gratuito della grammatica e delle lettere per meglio raggiungere i ragazzi e istruirli nelle verità della fede (L. Battoli,​​ Vita di S. Ignazio,​​ Roma, 1650, 274). Nel 1592 è san Giuseppe Calasanzio che, a Roma, mostra il suo zelo per i fanciulli poveri e abbandonati raccogliendoli in luoghi di educazione detti “scuole pie”. Mentre a Milano sorgono le scuole della dottrina cristiana e gli​​ O.​​ di san Carlo, nel corso dei secoli seguenti altri cercarono di integrare l’insegnamento della dottrina cristiana con attività care ai fanciulli come il gioco, la vita di gruppo, il servizio di carità ai compagni... giungendo fino all’attuale formula degli O. che, se ha in D. Bosco l’ideatore per eccellenza, è però presente sotto diverse e svariate formule di attuazione (come la FOM [Federazione Oratori Milanesi], il COR [Centro Oratori Romani], l’ANSPI [Associazione Nazionale S. Paolo per gli Oratori], gli O. salesiani, orionini, guanelliani...) in Italia, i patronages in Francia e nel Belgio, ecc.

2.​​ Nella forma attuale 1’0. è spazio di accoglienza, di pastorale e di formazione dei fanciulli, dei ragazzi e dei giovani che, nella sua tipica popolarità crea una tensione dinamica tra dimensione personale e comunitaria, e attraverso una ben dosata azione pedagogico-pastorale ne sostiene la crescita integrale.

3.​​ La C. è nell’O. allo stesso tempo annuncio di un messaggio di salvezza liberante, risposta a un interrogativo di senso della vita e di fede, testimonianza degli adulti nella fede, iniziazione alla preghiera, alla vita sacramentale, al servizio di carità. I contenuti proposti, essendo la metodologia degli O. caratterizzata dalla spontaneità, dalla sincerità e dalla gioia, divengono motivazione delle scelte e sostegno ad una educazione concreta e globale. Nelle attività tipiche della vita oratoriana (teatro, canto, gioco, sport, musica, turismo...) il ragazzo incarnerà la propria esperienza di crescita nella fede, e nella vita comunitaria vissuta quotidianamente apprenderà ad essere “onesto cittadino e buon cristiano” (D. Bosco).

4.​​ Questo metodo di C. che privilegia l’esperienza di vita, non sempre fu sostenuto e apprezzato da coloro che ritenevano la C. come pura trasmissione di contenuti dottrinali. Sembrò per lungo tempo, ad alcuni, che il carattere popolare dell’ambiente oratoriano, il clima di spontaneità nelle relazioni facesse perdere credibilità e profondità all’insegnamento della dottrina cristiana, per cui gli stessi parroci trascurarono, o bandirono addirittura, gli O. dalle loro strutture di pastorale, con il conseguente abbandono da parte dei ragazzi e dei giovani dell’ambiente della parrocchia. La pastorale rimaneva limitata ai fanciulli in occasione della recezione dei sacramenti della prima comunione e cresima; prima e dopo, vuoto di presenze, o piccoli gruppi viventi in associazioni specifiche.

5.​​ Il provvidenziale movimento cat. postconciliare, l’assunzione dei principi delle scienze umane in ordine all’età evolutiva, l’affermazione (CT 51) che “la varietà nei metodi è segno di vita e di ricchezza”, hanno confermato e consacrato la formula della C. oratoriana fatta di trasmissione di solidi contenuti di fede in un ambiente vivo e vitale dove, attraverso interessi e impegni, vita di socialità e di comunione ecclesiale, si matura alla riflessione, all’incontro con Dio e con i fratelli, alla celebrazione della fede. Nell’O. tutto diviene spazio e occasione di evangelizzazione e di C. e rivela la sacramentalità del vissuto quotidiano. Assumendo nelle espressioni migliori la cultura dei giovani, si porta in essa la forza del Vangelo e la sua ricchezza in clima di fede e di carità, in proiezione di speranza, perché siano lucidi e coerenti nella loro fede (CT 57). La diversità delle programmazioni, la varietà dei metodi, la ricchezza delle attività che continuamente vengono proposte caratterizzano in modo peculiare la C. dell’O. e ne fanno la sua forza di attrattiva.

Bibliografia

P. Braido.​​ Esperienze di pedagogia cristiana nella storia,​​ Roma, LAS, 1981; G.​​ Franza,​​ Il Catechismo a Roma,​​ Roma, Ed. Paoline, 1958; G. Gatti,​​ La catechesi dei fanciulli,​​ Leumann-Torino, LDC, 1975; U. Gianetto – R. Giannatelli,​​ La catechesi dei ragazzi,​​ ivi, 1976; F. Pascucci,​​ L’insegnamento religioso in Roma dal Concilio di Trento ad oggi,​​ Roma, 1938; P. Ricaldone,​​ Oratorio festivo, catechismo...,​​ Torino, SEI, 1940; S. Riva,​​ La contestazione nella catechesi,​​ Brescia, La Scuola, 1971.

Lorenzina Golosi

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ORATORIO

Juan Edmundo Vecchi

 

1. Importanza e diffusione

2. Problemi che pone oggi l’istituzione oratoriana

3. Linee di evoluzione

3.1. L’oratorio, una missione aperta

3.2. Un ambiente di riferimento e irradiazione

3.3. Missione aperta e ambiente di riferimento si propongono la salvezza dei giovani

3.4. Un programma originale di espressione giovanile, evangelizzazione, animazione culturale

4. Conclusione

 

1.​​ Importanza e diffusione

Lo sviluppo della pastorale giovanile è segnato dall’esistenza delle istituzioni educative. Esse hanno il merito di organizzare tutti gli elementi di un progetto: obiettivi, metodo, linee di azione, ruoli di responsabilità, strutture funzionali ai fini. Nate alle volte come risposta germinale a urgenze immediate, si consolidarono nel tempo e si estesero oltre i luoghi di origine.

L’oratorio è una di queste istituzioni. La sua storia completa è ancora da scriversi e le sue origini remote sono ancora da definirsi. Vanno riposte nell’opera catechistica, di pedagogia cristiana e di assistenza caritativa che già dal secolo XV aveva prodotto, ad opera di insigni apostoli, interessanti forme di aggregazione.

L’antenato più prossimo dell’odierno oratorio sono le scuole della dottrina cristiana e le compagnie, stabilite da san Carlo Borromeo per tutte le parrocchie dell’archidiocesi di Milano ed estese, in seguito, ad altre diocesi della Lombardia. Contemporanea, anche se di diverso genere, è l’iniziativa di san Filippo Neri a Roma, che contribuisce a consolidare il nome, la finalità e le caratteristiche dell’oratorio.

In Francia i Patronages e le «Ouvres de Jeunesse» risalgono al secolo XVIII e percorrono il secolo XIX con successivi adeguamenti e particolare attenzione alla gioventù lavoratrice.

Nello spirito e nella configurazione dell’oratorio moderno ebbe un influsso particolare l’opera di san Giovanni Bosco (1815-1888). Ma non sono mancati nuovi contributi di rinnovamento anche nel nostro secolo e fino agli ultimi anni.

Oggi l’oratorio, con modalità e nomi diversi (centro giovanile, patronage...), è ritenuto da molte chiese locali un elemento caratteristico della propria pastorale giovanile, integrato armonicamente con altre istituzioni e iniziative. Questa diffusione e l’efficacia educativa permanente, dovuta alla sua capacità di rinnovarsi di fronte a nuovi bisogni giovanili, danno ragione dell’attenzione che le dispensano i Pastori e delle raccomandazioni date dai Pontefici, comparabili soltanto con quelle che riguardano la scuola cattolica.

In molte parti inoltre gli oratori si sono collegati in organizzazioni diocesane e confederazioni regionali, creando un ambito pastorale con una prassi comune, che viene continuamente sottoposta a vaglio, approfondimento e adeguamento attraverso numerosi convegni e studi.

 

2. Problemi che pone oggi l’istituzione oratoriana

Molte speranze vengono poste oggi sull’oratorio. La pastorale cerca un aggancio con quei ragazzi e giovani che conservano ancora un certo riferimento alla chiesa o alla dimensione religiosa e scorge nell’oratorio uno spazio di convocazione più largo di quanto non lo siano il servizio religioso parrocchiale, la catechesi, i gruppi e le associazioni ecclesiali.

Le famiglie stesse, praticanti e non, sono alla ricerca di spazi di incontro umanamente e culturalmente affidabili, per far fronte al problema del tempo libero dei giovani. I giovani medesimi, giunti ad un certo punto di consapevolezza sociale, si orientano verso ambienti e attività che facilitino il loro inserimento nella vita della comunità umana. Questa, d’altra parte, di fronte ai nuovi fenomeni (frammentazione, disinteresse per il politico...) valorizza tutte le modalità di aggregazione, per favorire la partecipazione e soddisfare domande sentite nel territorio. C’è dunque un incrocio di attese ecclesiali, educative, sociali e giovanili. E le prime non vanno considerate più «religiose» delle ultime, dato il nuovo modo di concepire la presenza della chiesa nella comunità umana e la partecipazione dei cristiani nella vita sociale. La chiesa considera propri non soltanto i problemi e le domande interne alla comunità credente, ma «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce» (GS 1) degli uomini tra cui vive e agisce.

Il primo problema è dunque come considerare e impostare l’oratorio: come «opera catechistica» o ampiamente educativa, come «opera parrocchiale» o aperta più in là dei confini territoriali e umani della parrocchia; come istituzione per soli aderenti o ambiente «tra comunità cristiana e società civile». Collegati a questo sorgono interrogativi riguardanti i soggetti a cui rivolgersi: se principalmente ai ragazzi o anche ai giovani, se a coloro nei quali è maturata l’appartenenza o anche ai lontani e agli «ultimi». È evidente che la risposta a questi due interrogativi determina gli obiettivi, i contenuti e le modalità di evangelizzazione e di pratica cristiana dell’oratorio.

E dato che si tende a un’azione pastorale unitaria, si pone il problema del rapporto o collegamento da stabilire tra l’oratorio e le altre espressioni della pastorale giovanile come l’attenzione religiosa ordinaria, i gruppi e movimenti, le istituzioni educative con obiettivi propri, il movimento verso i lontani.

 

3. Linee di evoluzione

Alcune caratteristiche dell’oratorio sono state costantemente affermate e sembrano scontate. Paolo VI lo definì «ovile che accoglie la massa, si manifesta eminentemente popolare, assicura un lavoro pedagogico, per cui si fanno esperienze di tale natura che esso costituisce una riserva nella quale le altre associazioni possono pescare per dare una formazione specifica» (Discorso del 23.1.1964). Apertura alla massa, educazione alla fede intesa in senso ampio, carattere esperienziale sembrano tratti costanti in una lunga tradizione.

Ma ciò non dà ancora il codice per una realizzazione attuale. Ciascuno di questi termini infatti può essere variamente inteso. È necessario allora esplicitare ulteriormente alcuni orientamenti.

 

3.1. L’oratorio, una missione aperta

L’oratorio si presenta oggi in primo luogo come una «missione nel mondo giovanile». Ciò corrisponde a una visione di chiesa e a una concezione missionaria della parrocchia. Si apre a tutti i giovani del proprio territorio e oltre, con i quali intende agganciare un dialogo di crescita sulla loro misura. Il punto di riferimento, anche quando viene istituito da una parrocchia, è un ambito umano e sociale piuttosto che una giurisdizione canonica. È una scelta di determinati soggetti, prima che una programmazione a priori di contenuti e attività. Dall’incontro con questi soggetti nascono i programmi.

L’oratorio appare così come un’iniziativa missionaria senza confini, come un movimento verso i giovani per incontrarli dove essi si trovano fisicamente e psicologicamente.

Il movimento è sempre verso le frontiere e i margini religiosi, sociali e umani, con lo sguardo volto a coloro che le istituzioni regolari non prendono in considerazione, senza escludere, anzi invitando, gli altri. E per tutti, non rivolto agli speciali dal punto di vista della eccellenza o della devianza, ma al ragazzo comune «povero» nel quale sono vive le risorse per accogliere una proposta di ricupero e crescita di fede. Da questa scelta si apre a urgenze più particolari nella misura in cui l’ambiente lo consente e la comunità si è resa capace di dare soluzioni a questi bisogni attraverso iniziative specifiche e articolate.

La domanda sui soggetti riguarda anche il problema dell’età. L’oratorio nato per i ragazzi fino all’adolescenza, sente oggi la necessità di adeguare le sue proposte alla gioventù, non soltanto per la diminuzione demografica, ma soprattutto per l’allargamento dell’età giovanile e del periodo educativo. È infatti nell’età giovanile dove appaiono oggi i fenomeni più preoccupanti di abbandono, i rischi più gravi di emarginazione e anche le manifestazioni più interessanti di impegno e coinvolgimento.

Un’altra serie di riflessioni che scaturisce dalla «missionarietà» sia degli oratori parrocchiali che di quelli che servono a un’area più vasta, si riferisce al suo inserimento in una pastorale organica. Esso sembra non soltanto possibile, ma raccomandabile. Tuttavia come l’oratorio non può esaurire tutte le possibilità di pastorale giovanile di una o più parrocchie, così l’azione parrocchiale non potrà inquadrare tutte le possibilità di un oratorio. Questo sarà sempre un’iniziativa alle frontiere, nel punto d’incontro tra comunità cristiana e società civile: una presenza dei cristiani tra la gioventù e un’iniziativa di evangelizzazione della comunità ecclesiale.

Vanno quindi mantenuti i due poli della tensione: essere missionari oltre le parrocchie, operare entro la comunione ecclesiale, diventando sensibilizzatori delle comunità riguardo alla condizione giovanile e ai problemi che ne emergono. Il «territorio» diventa allora un riferimento obbligato e un punto di attenzione preferenziale come «campo di rilevamento» e come spazio di lavoro, ma anche come soggetto agente che ci permette di raggiungere i giovani e in forma più totale.

 

3.2. Un ambiente di riferimento e irradiazione

La missione aperta si esprime e si concentra in un ambiente, anche se non si limita ad esso. Se non ci fosse l’ambiente diventerebbe problematico, se non impossibile, sviluppare programmi consistenti di ricupero e crescita; ma se l’oratorio si rinchiudesse nel proprio ambiente, la sua missionarietà svanirebbe, diventando così un normale servizio di «mantenimento» religioso. L’ambiente è allora la base dove si opera, da dove si parte e verso cui si confluisce.

Il significato di ambiente è composito: in genere lo si intende come l’insieme completo ed equilibrato di fattori che favoriscono la qualità della vita.

Il primo riferimento per definire l’ambiente è quello umano: l’ambiente è costituito da una comunità e da un tessuto di rapporti personali in cui ci si riferisce perché ci si sente riconosciuti, accolti e valorizzati in quello che si è e per quello che si ha attualmente.

La comunità ha una fisionomia propria, un’organizzazione, delle finalità. Consiste nella comunicazione spontanea, nella corresponsabilità partecipata, nel coinvolgimento in obiettivi conosciuti, chiariti e accettati. Le persone con i loro ruoli sono i punti forti di questa trama. Il direttore, più che un organizzatore di cose, è colui che ha un’attenzione particolare per ogni persona, conosce i problemi giovanili e sa parlare «al cuore» dei giovani proprio sulla loro vita.

Insieme a lui ci sono gli adulti, qualificati per portare i giovani attraverso un itinerario di crescita mediante il contatto informale, l’amicizia, le attività (animatori, catechisti, assistenti, tecnici, cooperatori...).

La composizione, animazione e corresponsabilità della componente adulta sono indispensabili perché si riesca a lavorare senza un’eccessiva selezione iniziale. Il suo influsso infatti è superiore a quello dei «locali» e delle offerte di attività. La sua formazione è quindi uno dei primi punti di attenzione.

Si cercheranno laici che «siano testimoni autenticamente cristiani, motivati, consapevoli e adeguatamente preparati. Essi devono avere un vivo senso ecclesiale che si esprime nella comunione interiore e visibile con la chiesa e nella coralità dell’azione pastorale; una profonda convinzione di essere educatori missionari inviati da Cristo in un oratorio missionario» (cf​​ Direttive pastorali per gli oratori della diocesi di Bergamo, in NPG, 1987, n. 9, p. 43).

L’ambiente non si presenta dunque come risultato di un semplice affluire di giovani, un «porte aperte» in cui si mettono a disposizione spazi e cose; ma come un complesso di incontri significativi e un assumere qualche cosa in comune.

In questa comunità i giovani, piuttosto che invitati a fruire delle iniziative preparate dagli incaricati dell’opera, sono componente principale. La loro partecipazione dà il volto alla comunità: è un elemento della sua identità.

Proprio per questo parliamo di un ambiente giovanile: non soltanto destinato ai giovani, quanto costruito da loro con l’aiuto degli educatori. La comunità viene ad essere così quello spazio umano in cui circolano le proposte elaborate con il contributo proprio di ciascuna età ed esperienza di vita.

I gruppi giovanili con finalità specifiche danno un tono all’ambiente. Essi favoriscono la corresponsabilità e la partecipazione, arricchiscono l’ambiente con molteplici espressioni e attività e «personalizzano» i rapporti tra i giovani e tra questi e gli adulti. L’ambiente richiede una sede, un luogo fisico adeguato in cui dare volto alla comunità giovanile. Esso sta alla comunità come la casa sta alla famiglia. L’ambiente così costituito, comunità-organizzazione-spazio-programma-struttura, ha una caratterizzazione: è cristiano. Lo si sa collegato alla comunità ecclesiale, di cui è mediazione. Lo dicono i segni, i gesti della comunità e alcune esigenze ragionevoli di comportamento.

Ma esso non si presenta solo come luogo religioso. L’ambiente è onnicomprensivo. Assume la totalità della vita del giovane, più che nella materialità delle sue molteplici manifestazioni, negli aspetti che determinano la sua qualità e che lui sente come più urgenti e meno soddisfatti.

A chi vi si inserisce si chiede, come minimo, la disponibilità a fare un cammino, non importa quali siano i ritmi e gli esiti. Si chiede anche la volontà di costruire assieme e non soltanto di adoperare in maniera «anonima» impianti e attrezzature.

L’accenno all’ambiente fa sorgere un interrogativo: la qualità da ottenere e i requisiti per crearlo e mantenerlo in un mondo «aperto» in cui le protezioni, i limiti e le norme hanno efficacia relativa.

Per alcuni il problema va risolto attraverso la «selezione», anche soltanto indiretta, dei soggetti. È un punto che può far parte di una soluzione globale, ma non può essere l’unico. Se ci si ispira al criterio «missionario», si tenderà a potenziare la capacità della comunità ad assimilare elementi ancora non identificati totalmente con l’ambiente. Questo cercherà di essere a tal punto propositivo da attirare e «vincere» piuttosto che allontanare. Ma tale capacità risiede proprio nella convergenza studiata, non casuale, di svariati elementi che, separati, sono insufficienti. Nella misura in cui ciò non accade, l’indice di incidenza e quindi di tolleranza dell’ambiente scende e bisogna procedere per «tagli».

 

3.3. Missione aperta e ambiente di riferimento si propongono la salvezza dei giovani

La parola «salvezza» è forse inattesa. Pur essendo ricca di significati, può apparire troppo comprensiva e quindi generica per esprimere le finalità concrete da proporre in una iniziativa particolare.

È utile però al nostro scopo approfondire il suo significato di evento oggettivo e di esperienza soggettiva. Come evento oggettivo la salvezza è liberazione reale dai rischi che possono compromettere lo sviluppo di una esistenza conforme alla vocazione dell’uomo, l’apertura a possibilità nuove di vita, l’offerta di opportunità e aiuto per realizzare queste possibilità intraviste.

In quanto esperienza soggettiva, è consapevolezza, vissuta gioiosamente dal soggetto, del proprio ricupero, dell’allontanamento dalle condizioni negative di esistenza e della scoperta di orizzonti di vita, incarnati in persone, proposte e ambienti.

All’oratorio non corrisponde come prima e principale definizione quella di «catechismo», né quella di istituzione «educativa» in senso formale, né quella di iniziativa per il «tempo libero». È tutto ciò insieme in una «miscela» conveniente per aprire alla vita soggetti di un determinato contesto, mediante l’accoglienza e la valorizzazione di quello che essi già portano in sé come desiderio, tensio ni, patrimonio acquisito, prospettive e mediante proposte che spingono ad andare oltre. Per operare la salvezza, l’oratorio, tra le molte possibili, preferisce la via «educativa». Essa viene intesa come capacità di affrontare la vita nelle sue attuali sfide e di prepararsi al futuro, piuttosto che come sviluppo di programmi formali e sistematici.

Si approda così a una formula totale man mano che si prende contatto con le condizioni di vita dei ragazzi. La forte connotazione catechistica rimane come un tratto fondamentale, non unico e nemmeno isolato dagli altri che conformano la risposta globale.

Agli oratori di oggi si pone il problema del come essere evento di salvezza e come farla diventare esperienza soggettiva per i giovani. L’oratorio si colloca nel tempo che lasciano libero gli altri impegni, ma non necessariamente si limita ad esso, né si propone di risolvere soltanto i problemi che esso pone. Il riferimento non è al «tempo», ma alla vita. Per molti giovani e famiglie il tempo libero si riduce ad attività che si esauriscono in sé stesse, quasi fossero soddisfazione di un bisogno marginale, da consumare all’insegna dell’effimero. Il tempo libero, piuttosto che integrato nella vita, viene considerato a sé stante, «staccato», vissuto in maniera individualistica, non progettuale.

Può darsi, dunque, che i giovani e le loro famiglie presentino domande povere. E coloro che orientano l’oratorio possono essere esposti, per mancanza di attenzione o per rassegnazione di fronte alla mentalità corrente, ad attribuire senz’altro carattere educativo al tempo libero trascorso «senza pericoli». L’oratorio si colloca nel tempo libero e oltre come momento di sintesi tra gratuito e funzionale, tra obbligo e distensione, con un certo progetto, per aiutare ad elaborare una visione e un senso che salvi la qualità della vita. Si inserisce nel processo di formazione dell’identità che il giovane percorre. Questa richiede di sperimentare valori, criteri e visioni della realtà e, attraverso una disanima e interiorizzazione, approdare a scelte personali. Più che di contenuti sistematici alternativi o aggiunti, il giovane ha bisogno di radicare nella vita quello che va ricevendo in altri momenti, inclusi quelli catechistici. Ed è questo che intende fare l’oratorio.

Sa di offrire qualcosa che famiglia, scuola e parrocchia non possono assicurare e di non doverle sostituire. Perciò le completa. Tale completamento non consiste tanto nell’inserire «pezzi mancanti», quanto nel fondere la totalità delle esperienze in un cammino educativo tipico, fortemente sociale e partecipativo.

L’oratorio dunque ricicla, ridimensiona, integra e ristruttura messaggi ed esperienze per aiutare a farne una sintesi che è vitale, prima ancora che mentale, per l’incidenza degli incontri (persone significative), per l’influsso del clima, per le attività e per il sistema totale di comunicazione.

 

3.4. Un programma originale di espressione giovanile, evangelizzazione, animazione culturale

I tre elementi su cui si fondava l’oratorio nel passato erano: giuoco, catechismo, promozione (in seguito «dopo-scuola»). Ciascuno di essi sembra aver trovato oggi luoghi propri, per cui l’insieme non serve più come legittimazione per l’esistenza dell’oratorio. Da questo spunto emerge il bisogno di una verifica accurata di ciascuna delle aree di attività dell’oratorio e del loro insieme, proprio in rapporto alla sua identità e alle domande educative attuali dei giovani.

Problema importante è il contenuto materiale di ciascuno di questi aspetti, ma più ancora la loro qualità. E questo ci porta ad approfondirne il versante educativo e pastorale, anziché quello «tecnico».

Il primo elemento a porre problemi è il giuoco-espressione. Da esso, più che da qualunque altro elemento, l’oratorio trae la sua originalità. Non che sia il più importante; ma costituisce il segno dell’accoglienza della vitalità giovanile.

Si sa che in un’eventuale dissoluzione degli elementi che compongono il «sistema» oratorio, il giuoco-sport è l’ultimo ad affondare, anzi sovente fagocita gli altri. In quale misura e con quale modalità gli si deve fare spazio perché risponda alle finalità dell’oratorio: il giuoco passatempo e svago, il giuoco-sport a livello di competitività e professionalismo, i giuoco attrazione e strumento di evangelizzazione, lo sport-agonismo e palestra di educazione fisica?

Un quadro di suggerimenti a battute rapide possono fornire l’immagine del giuoco «oratoriano».

Il giuoco è incontro: l’oratorio non è in primo luogo «giuochi», ma cortile: giuocare per stare insieme. Quello che più vale nel giuoco è la sua condivisione. Il giuoco è uno strumento di socializzazione.

II giuoco forma un clima. Perché tutti partecipano e perché nell’ambiente emerge la gioia e la gratuità, tutto diventa «ludico». Il giuoco, come espressione libera e gioiosa, impregna tutti gli impegni. Raggiunge il livello di celebrazione come forma di rito e festa che accompagna gli eventi più importanti e sottolinea il senso dei misteri più profondi.

E dunque un aiuto alla normalità e alla crescita. Diventa espressione di vita: sviluppa e fa affiorare le risorse di immaginazione che non trovano posto nella vita «regolata». Ciò comporta che sia spontaneo, svariato, creativo secondo le caratteristiche delle diverse età... e abbia a disposizione molteplici ambienti e attività.

Il giuoco viene ad essere un’esperienza educativa. Il ragazzo cresce nella percezione e assunzione di alcuni valori e nella conoscenza di sé. Allo stesso tempo va maturando una cultura. Acquisisce la capacità critica per giudicare i fenomeni che hanno luogo nella società attorno all’esperienza del giuoco. Coglie il suo carattere subalterno rispetto agli altri problemi e desideri dell’uomo, spogliandolo di una certa autosufficienza anche riguardo alle proprie finalità, e supera la dipendenza da esso per includerlo in un progetto più ampio.

Per alcuni allora diventa impegno sociale e apostolico, perché offrono gratuitamente le proprie capacità e tempo per aiutare i «più poveri» ad accedere ai beni della convivenza attraverso il giuoco. Sono gli animatori che l’oratorio va formando.

Da ultimo il giuoco è elemento e occasione di evangelizzazione: scoperta progressiva e forse «occasionale» del problema del senso, della «qualità deliavita», della rilevanza della fede con risposte da parte dell’ambiente e degli educatori.

Ma l’oratorio si caratterizza dal fatto che la vitalità giovanile è lievitata dell’annuncio del Vangelo, dal suo approfondimento attraverso un cammino «catechistico» e dalla proposta di una spiritualità da vivere, che si ispira alle beatitudini. Questo annuncio dà ragione dell’accoglienza della gioia giovanile spontanea fino a farla diventare programma.

L’oratorio fu dall’inizio un luogo di insegnamento della dottrina e di pratica religiosa personale e comunitaria.

Anche riguardo all’evangelizzazione si pone l’interrogativo sulla qualità e sulle modalità possibili e desiderabili nell’oratorio. Infatti ci sono diversi modelli di comunicazione della fede: c’è il modello «familiare», quello «scolastico», quello «parrocchiale», quello «associazionistico», quello «secolare».

Qual è il modello oratoriano che non sostituisce gli altri ma li ricicla in una nuova sintesi?

L’oratorio si propone di fare un’evangelizzazione «missionaria»: parte dall’annuncio essenziale e lo riprende continuamente per collocarsi a livello degli «ultimi» e per ancorare ogni nuovo progresso cognitivo e pratico all’esperienza fondamentale.

L’oratorio fa un’evangelizzazione esperienziale. In esso i «fatti» che coinvolgono i giovani diventano evento e annuncio di salvezza. Valorizza ciò che i giovani si portano dentro come desideri e ideali e raccoglie le domande che provengono dal vissuto. Il vangelo lo si vive nell’ambiente prima ancora che proporlo con spiegazioni verbali. Perciò parla dalla vita e sulla vita dei giovani e degli animatori.

L’oratorio fa un’evangelizzazione che è più ricerca provocata e accompagnata che «lezione» anche didatticamente pregevole. Il grande mistero da esplorare è la vita dei cristiani e di Gesù Cristo che cammina con loro. Il catechista si presenta più come amicoanimatore che «maestro». Le vie sono molteplici. Tutto porta un messaggio di salvezza: giuoco, incontro personale, gruppo, celebrazione, comunità. Sono vie complementari e convergenti. Il criterio fondamentale: riuscire a dire ciò che i giovani sono capaci di vivere e vivere ciò che hanno potuto dire: percepire, imparare e riesprimere la fede. L’evangelizzazione dell’oratorio sa anche essere «sistematica» senza staccarsi dal vissuto. La sua sistematicità può ricopiare quella della catechesi ordinaria o selezionare alcuni nuclei in cui l’esperienza vita-salvezza-Gesù Cristo viene meglio illuminata. I punti di riferimento per la scelta di questi nuclei sono l’età dei ragazzi (ciclo scolastico), il ritmo liturgico, i problemi culturali, gli eventi più significativi vissuti all’oratorio e nel contesto.

L’evangelizzazione nell’oratorio si propone anche traguardi «qualificanti» e cerca di raggiungerli seguendo il ritmo dei ragazzi: partendo dalla formazione cristiana di base, che è sua caratteristica, vuole arrivare a una conoscenza matura dei contenuti della fede, all’elaborazione di una «cultura» ispirata ad essa, a una proposta di spiritualità cristiana e a una presenza impegnata nell’area professionale e sociale. Infine il programma dell’oratorio ha un terzo elemento: l’animazione culturale. L’espressione richiama alcune realtà la cui conoscenza diamo per scontata. Ricordiamo soltanto che la cultura comprende l’allargamento dell’esperienza personale, la percezione di nuove dimensioni della vita e della storia, la ricerca e l’elaborazione di un senso per resistenza, l’incontro creativo con lo sforzo che persone e comunità fanno per la qualità della vita personale e sociale. L’animazione culturale mette in evidenza una modalità di approfondire la fede attraverso il confronto con i problemi della cultura e della convivenza, e di chiarire questi cercando il loro senso nella fede.

Quale l’animazione culturale che si fa nell’oratorio?

Un’animazione culturale che parte dai «frammenti» o «semi» che i soggetti portano; accoglie per quello che si è e inserisce nella dinamica comunitaria di partecipazione e di crescita, svegliando l’aspirazione profonda di vivere e di crescere.

Ma cerca di essere propositiva. Senza cedere a richieste riduttive e andando oltre le attività funzionali all’ambiente, aiuta i giovani a maturare quadri di riferimento, visioni della vita, impegni. Si preoccupa di ricondurre le esperienze particolari e le riflessioni occasionali verso una sintesi ancorata ad alcuni nuclei catalizzatori: il valore della persona, il bisogno di senso, la fecondità delle risposte etiche ai problemi che la vita e la cultura pongono, la solidarietà e la comunione, l’apertura al mistero che la vita si porta dentro. Per questo è aperta ai confronti e decentrata da istituzioni e famiglia. La socializzazione dell’oratorio introduce in un cerchio più ampio di rapporti e di idee.

L’oratorio è specialmente per i giovani luogo di incontro di persone e tendenze significative, laboratorio di iniziative da cui si irradiano proposte e interventi alla comunità umana ed ecclesiale, spazio dove si vanno plasmando visioni e scelte attraverso l’esercizio della razionalità.

Si tratta dunque di un’animazione culturale «critica» che prepara a vivere e intervenire in un contesto pluralista, secolare, deideologizzato, complesso e frammentato. Sviluppa la capacità di imparare dalla vita piuttosto che fissare posizioni definitive o comportamenti immodificabili.

 

4. Conclusione

Nell’oratorio tutto è progressivo e in apparenza «povero»: l’appartenenza e la identificazione, la crescita umana, la maturazione della fede, il coinvolgimento attivo. L’oratorio è «quantitativo»: è per tutti. Potrebbe sembrare una «formula» subalterna, una «fase» che prepara semplicemente alla pratica cristiana e che finisce dove cominciano le espressioni adulte di chiesa: associazioni, movimenti, ecc.

Se la si approfondisce bene però si scorgerà che possiede tutti gli elementi per rispondere ai bisogni giovanili in svariate situazioni e per rinnovarsi di fronte a nuove sfide.

Bibliografia

Barzaghi G.,​​ Tre secoli di storia e pastorale degli Oratori milanesi, LDC, Leumann 1985; Centro Salesiano Pastorale Giovanile,​​ Ragazzi all’Oratorio, LDC, Leumann 1977; CISI,​​ Oratorio tra società civile e comunità ecclesiale, Atti della Conferenza Nazionale CISI, Roma 14-18 dicembre 1987; Dicastero per la Pastorale Giovanile,​​ Progetto Educativo-Pastorale negli Oratori e Centri Giovanili Salesiani, Roma 1980.

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ORATORIO

ORDINE

 

ORDINE

Per un tema così vasto è importante e urgente fornire alcune piste orientative perseguibili per ulteriori approfondimenti contenutistici e metodologici. Non si tratta infatti di fermarci alla C. della celebrazione del sacramento in causa. Se così fosse si dovrebbe trattare solo della​​ Catechesi e Ordinazione;​​ ovviamente distinguendo in tale caso i tre momenti celebrativi: del diaconato, del presbiterato, dell’episcopato. Il tema invece è più ampio, poiché è rapportabile alla realtà della liturgia, esercizio del sacerdozio di Gesù Cristo, coesteso al suo Corpo mistico (cf SC 7). Si profilano così almeno​​ quattro aree​​ di interesse per l’azione cat. in rapporto all’O.

1.​​ L’ambito da cui si parte.​​ Il sacerdozio comune di tutti i battezzati-cresimati è il​​ punto di auto-coscientizzazione​​ da cui il sacerdozio ministeriale (ordinato) prende l’avvio. L’azione cat. si espleta​​ in​​ un popolo sacerdotale,​​ per​​ questo popolo agisce,​​ da​​ questo popolo sacerdotale viene ogni suo sviluppo. La liturgia della vita nuova in Cristo, sommo ed eterno sacerdote, è in funzione della liturgia della vita quotidiana. La C. si riscopre come​​ attività​​ compartecipe di una​​ dimensione sacerdotale ministeriale.​​ Il tessuto dei​​ ministeri​​ presenti nel vissuto ecclesiale è l’ambito da cui emerge (cf​​ Eb​​ 5,lss) il ministero ordinato, articolato in tre stadi o gradi: diaconato, presbiterato, episcopato. E se è vero che dall’episcopato si comprende il presbiterato e il diaconato (cf PO 2), è importante che l’azione cat.​​ evidenzi​​ che la dignità sacerdotale dei fedeli non si può circoscrivere solo al momento celebrativo (cf partecipazione attiva e piena alla celebrazione delle azioni lit.), ma va estesa a tutta la vita, che è — nelle sue molteplici mansioni — una vita di diaconia. Ogni vocazione battesimale e cresimale si concretizza in servizio (diaconia). Da questo “humus” sboccia la vocazione al ministero ordinato. Qui si inserisce la​​ pedagogia vocazionale​​ che deve servirsi dell’azione cat. pastorale per suscitare la disponibilità — per dono dello Spirito — al dono di sé con atteggiamento di servizio a tempo pieno per Cristo-Chiesa.

2.​​ La via da percorrere.​​ L’azione cat. può facilmente strutturarsi, per quanto concerne il sacr. dell’O., ricorrendo agli orientamenti conciliari circa​​ Videntità​​ del diacono (LG 29; AG 16), del presbitero (PO; LG 37; GS 43; CD 28; AG 39; AA 25), del vescovo (CD); ispirandosi anche al Pontificale Romano con la Cost. Apost. di Paolo VI “Pontificalis Romani recognitio”, e alle linee teologico-liturgiche emergenti dall’analisi del rito (1968). Inoltre si vedano i “motu proprio” di Paolo VI “Ecclesiae suae” (1966) per il vescovo e il presbitero, e “Sacrum diaconatus ordinem” (1967) per il diacono. L’identità nella​​ diversità​​ dei ministeri è da ricercarsi​​ attraverso​​ la​​ Chiesa​​ alla cui origine si pone il​​ mistero pasquale​​ di Cristo, a redenzione degli uomini e a gloria di Dio, nel quale tutta l’attività umana, nelle sue diverse forme di espressione, raggiunge la sua perfezione finale (cf GS 38-39).

La C. deve quindi sottolineare che il​​ ministero ordinato​​ è una realtà che appartiene all’organicità​​ della Chiesa. Esso è​​ continuazione​​ e​​ manifestazione​​ particolare, a servizio della Chiesa tutta, del “munus” di Cristo Sacerdote, Profeta e Pastore. Egli agisce principalmente attraverso il ministero ordinato (cf OT 14). Dal mistero pasquale, dalla Chiesa che da esso profluisce, dal Cristo liturgo presente (cf​​ Nlt​​ 28,20) nel suo popolo sacerdotale, devono muovere le linee dell’azione cat. con l’intento di far recepire da ogni fedele la​​ necessità di essere un suscitatore​​ di vocazioni ai ministeri ordinati, necessari alla vitalità della Chiesa. Similmente, chi nella compagine ecclesiale si deve occupare della formazione dei candidati al diaconato permanente e al presbiterato deve altresì preoccuparsi che la preparazione culturale, spirituale, pastorale, dei candidati potenzi i fulcri tipici che sono connessi con Cristo sommo sacerdote, con il suo mistero pasquale, liturgia per eccellenza, e con la Chiesa popolo cultuale. Infatti la via da percorrere si avvantaggia dalla terza area di interesse per l’azione cat., che ancor più serve a sottolineare come essa debba procedere in simbiosi e di pari passo con le realtà liturgiche.

3.​​ Le mete da perseguire.​​ Sintetizzando, si può convenire che l’azione cat. per 1’0. deve preoccuparsi che i candidati, ai ministeri in genere e specialmente a quelli ordinati, siano esperti nelle realtà di Dio e sufficientemente formati per dialogare con le realtà terrene.

a)​​ Esperti nelle realtà di Dio.​​ La C. deve conseguire che ogni fedele conosca, apprezzi, e conseguentemente sia disposto e atto ad aiutare l’ordinato ad espletare in modo del tutto specifico per ogni grado dell’O. specialmente​​ tre​​ ministeri, che fanno perno sulle realtà che appartengono direttamente alla storia della salvezza:

— Il​​ ministero della Parola,​​ mediante il quale l’ordinato continua l’azione profetica di Cristo. Egli insignì in modo peculiare gli apostoli e, con loro, i continuatori nel tempo del suo “munus”: predicare, annunciare, insegnare, “spezzare la Parola”, interpretarla ufficialmente nella vita della Chiesa. La C. dovrebbe creare nei fedeli una mentalità per mezzo della quale si avveri il detto di Gregorio Magno: “Disce cor Dei in verbis Dei” (Ep.​​ 5,46).

— Il​​ ministero della santificazione e del culto,​​ mediante il quale l’ordinato continua l’azione sacerdotale di Cristo. Dal popolo sacerdotale, cioè dal sacerdozio comune dei fedeli, è tratto chi viene “ordinato” per il sacerdozio ministeriale. Questo è a servizio (diaconia) della santificazione dei membri del Corpo di Cristo, e perché ogni fedele possa esprimere nella celebrazione il culto in spirito e vita che Cristo ha iniziato a gloria del Padre, in forza dello Spirito Santo. Educare a queste visuali è compito della pastorale e della C., che sfrutterà ogni occasione per inculcare queste idee basilari.

— Il​​ ministero di guida,​​ mediante il quale l’ordinato continua l’azione di Pastore-Re del Cristo stesso. Non ci si improvvisa dotati di peculiarità per questo ministero. Anche i fedeli devono essere catechizzati in modo che conoscano di quali oneri sono carichi gli ordinati, aiutino ad espletarli, si affianchino all’azione educatrice e cat. della Chiesa. Tre ministeri che portano a tre ambiti di azione quali:​​ Y azione evangelizzatrice, sacramentale​​ e​​ pastorale​​ proprie agli ordinati per poter agire nel mondo. Infatti essi devono essere:

b)​​ Esperti nelle realtà terrene.​​ La C. non deve disattendere la formazione dei credenti, i quali, secondo le aperture pastorali del Vaticano II, dovrebbero essi stessi avere capacità di dialogo con le culture, con le realtà terrene, ecc. (cf GS). Da credenti così formati, più facilmente potranno uscire persone che con i ministeri ordinati aiutino, essi per primi, ad essere “fermento” (cf Àfi 13) nel mondo, vessillo elevato sui popoli (cf SC 2). Essere cioè Chiesa posta nel mondo senza essere del mondo (cf​​ Gv​​ 17), Chiesa cioè in stato di missione.

4.​​ Il punto di partenza per un ulteriore cammino.​​ Come la C. matrimoniale deve far capire ai fidanzati che la celebrazione del matrimonio è il punto di arrivo, ma ancor più di partenza per la vita coniugale, così la C. all’O. deve far recepire dai fedeli che un diacono, un presbitero, un vescovo, ha bisogno di tempo per raggiungere un “equilibrio” stabilizzatore di metodi, di stili di azione, ecc. I fedeli devono affiancarsi agli ordinati per aiutarli nell’itinerario del loro ministero tipico. A loro volta gli ordinati devono prendere coscienza che sono essi stessi soggetti di una continua C. (aggiornamento; corsi di riciclaggio; formazione permanente, ecc.) mediante la quale si confanno a un nuovo stile di vita che li vede impegnati in fraternità presbiteriale, in comunione episcopale, in sintonia diaconale. Inoltre ogni ordinato, secondo le caratteristiche del suo grado, deve conseguire la meta che, nel suo itinerario, sia modello di vita ai laici, fermento della loro azione cristiana, ecc., senza dimenticare che hanno una missione specifica nel riguardo delle vocazioni dei fedeli. L’azione cat. dell’ordinato si risolverebbe nell’essere forgiatrice di autentici fedeli che, nell’unica vocazione battesimale, già differenziata per azione dello Spirito con quella​​ confirmatoria,​​ ancor più si specifica o nella vocazione matrimoniale o in quella verginale. La​​ tensione bivalente​​ della C. pre-ordinazione e post-ordinazione è facilmente intuibile: C. che riguarda ogni fedele e C. che concerne il soggetto dell’O. Esso è memoriale del sacerdozio di Cristo, unico sommo ed eterno sacerdote; comporta una presenza e azione dello Spirito Santo speciale; coinvolge la partecipazione non solo degli ordinandi o ordinati, ma quella dei fedeli dai quali sono tratti.

Bibliografia

Sulla base delle ricerche sull’ambito​​ liturgico-celebrativo​​ che qui non possiamo ricordare, per​​ l’ambito catechetico​​ citiamo:

B. Baroffio,​​ Sacerdozio,​​ in NDL, 1233-1253; L. Brandolini,​​ Ministeri e servizi nella Chiesa oggi,​​ Roma, Ed. Liturgiche, 1980; T. Citrini,​​ Sul fondamento teologico dei ministeri liturgici non ordinati,​​ in «La Scuola Cattolica» 112 (1984) 435-448; G. Ferraro,​​ Ordine-ordinazione,​​ in NDL, 943-960 (bibl.); In.,​​ Catechesi liturgica nel ministero sacerdotale,​​ in «Presenza pastorale» 48 (1978) 117-123; 234-240; 338-343; 445-450; 597-602 ; 706-712;​​ 868872;​​ 980-987; E. Lodi,​​ Ministero-ministeri,​​ in NDL, 838-855;​​ I ministeri ecclesiali,​​ in “La Scuola Cattolica” 104 (1976) 5, 411-563; A. M. Trucca,​​ Per una teologia liturgica del sacramento dell’Ordine in occidente. Linee metodologiche,​​ in​​ II ministero ordinato nel dialogo ecumenico,​​ Roma, Ed. Anselmiana,​​ 1985; S. Virgulin,​​ Ministeri e ordinazione in Oriente,​​ ivi.

Achille Maria Triacca

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ORDINE

ORGANI COLLEGIALI SCOLASTICI

 

ORGANI COLLEGIALI​​ SCOLASTICI

Strumenti di partecipazione alla vita e alla gestione della​​ ​​ scuola. Previsti in Italia fin dal 1859 a livello provinciale e nazionale, sono stati successivamente modificati, integrati e democratizzati negli anni ’70.

1.​​ L’evoluzione della collegialità nella scuola.​​ La necessità di uscire da un lungo periodo di tensione, soprattutto fra studenti e docenti, contrapposti da una schematica ideologia rivoluzionaria elaborata nella seconda metà degli anni ’60, periodo della cosiddetta contestazione globale, portò le forze culturali e politiche a cui si deve la Costituzione italiana a ricercare una nuova mediazione culturale, che rendesse possibile la convivenza delle componenti e delle forze che confliggevano nella scuola. Ne uscirono la L. delega 477 / 1973 e i decreti delegati del 1974, che fornirono alla scuola una mappa complessivamente accettabile di mediazione verso l’alto, che non solo riconosceva le posizioni guadagnate sul campo dalle diverse componenti, ma le impegnava tutte a un «lavoro» culturale e relazionale che i più prudenti chiamavano​​ ​​ partecipazione​​ (rispettivamente dei docenti, studenti, genitori e forze sociali, queste ultime solo a livello distrettuale) alla vita e alla gestione della scuola (con la distinzione fra ambiti politico, didattico, amministrativo, in riferimento ai diversi o.c.), e che i più innovatori chiamavano, con indubbia enfasi,​​ gestione sociale​​ della scuola. I luoghi istituzionali di questa nuova concezione della scuola e dell’organizzazione incaricata di darle concretezza sono appunto gli o.c., rinnovati nella composizione e nei poteri o istituiti​​ ex novo,​​ a livello di classe e d’interclasse, d’istituto e di circolo, di distretto (novità assoluta, ora abbandonata), di provincia e di nazione (il Consiglio nazionale della P.I. sostituì il Consiglio superiore di antica memoria). Per i genitori e per gli studenti sono state previste​​ assemblee​​ a livello d’istituto, e​​ comitati di rappresentanti, con poteri solo di tipo espressivo-consultivo, mentre veniva rafforzato il​​ collegio dei docenti, cui spettano poteri di tipo didattico-disciplinare, e veniva istituito​​ ex novo​​ il​​ consiglio d’istituto e di circolo, composto dai rappresentanti delle componenti scolastiche, oltre al capo d’istituto, con poteri di tipo organizzativo-gestionale. Fra sistema delle assemblee, dei comitati e dei consigli non esiste però un raccordo di tipo rappresentativo e funzionale. Dei​​ consigli di classe​​ e dei​​ consigli di circolo e d’istituto​​ fanno parte i rappresentanti dei genitori (e degli alunni nelle scuole secondarie superiori): essi non sono invece presenti a livello nazionale, nel CNPI,​​ Consiglio nazionale della P. I.​​ I genitori sono anche presenti a livello distrettuale e provinciale, mentre gli studenti solo a​​ livello distrettuale. Nonostante alcuni tentativi di modifiche parlamentari, questo disegno è sostanzialmente immutato dal 1974, e mostra tutti i suoi anni. I limiti del compromesso fra centralismo e partecipazione non hanno tardato però a manifestarsi. Il «carburante ideologico» spinse per un certo tratto in avanti la «macchina» scolastica, ma non riuscì ad alimentare quella cultura pedagogica e quella capacità d’interazione finalizzata all’educazione, nel rispetto di ruoli e competenze diverse, che costituiscono il vero fondamento di una relazionalità matura e produttiva. D’altra parte il legislatore delegato del ’74 previde che il nuovo apparato partecipativo avesse il compito di fare della scuola una​​ comunità​​ aperta all’ambiente, ma non riuscì a fornirgli strumenti normativi e finanziari utili a renderlo motivante ed efficiente. Si cercò in tal modo di contenere, sotto un ombrello di tipo valoriale, le spinte conflittuali relative alla conquista degli spazi e dei poteri. Dopo iniziali entusiasmi, l’alleanza tra docenti e genitori in funzione antiburocratica entrò in crisi. Molti docenti hanno temuto i genitori vicini più che i ministri lontani: la comunicazione, appena avviata, si è rallentata e talora interrotta per equivoci, per beghe locali o per astratte contrapposizioni ideologiche, e per caduta di interesse nei riguardi di un meccanismo che si rivelava più complicato e meno gratificante del previsto. All’interno dei consigli di classe il dialogo è risultato talora vivace e produttivo, talora stentato, per la difficoltà di ottenere reciproca non superficiale conoscenza e chiarezza di ruoli e di compiti fra insegnanti, genitori e studenti. Il cambiamento insomma non è stato pienamente vissuto e attuato.

2.​​ Conquiste e limiti della democratizzazione degli anni ’70.​​ Il legislatore ha implicitamente riconosciuto, sia pure in termini un po’ approssimativi, i diritti degli studenti, ha solennemente sancito la libertà d’insegnamento dei docenti, finalizzandola però alla promozione della personalità dello studente e vincolandola al rispetto della sua coscienza, ha riconosciuto spazi e diritti ai genitori, legittimando la pluralità delle visioni della vita e dei ruoli, impegnando però tutti al confronto collegiale, dai consigli di classe a quelli d’istituto a quelli di distretto, a quelli provinciali, nella prospettiva di una scuola intesa come​​ comunità​​ educativa che interagisca con la più vasta comunità sociale e civica. Tali diritti sono stati poi precisati, per gli studenti, col dpr 10.10.1996, n. 567 e col dpr 24.6.1998, n. 249,​​ Statuto delle studentesse e degli studenti, e per i genitori col dpr 301 2005, che istituisce i​​ Forum delle associazioni di genitori, FONAGS, a livello nazionale e regionale. Conquiste importanti, ma di debole impatto nel costume scolastico. Centralismo e decentramento, libertà del docente e collegialità, didattica e amministrazione, pluralismo e impegno educativo, apprendimento e partecipazione, discipline curricolari e attività extracurricolari sono coppie di valori non alternative, ma componibili: questo il succo della «difficile convivenza» resa possibile dalle scelte pedagogiche e organizzative compiute dai decreti delegati. Come spiegare il nuovo disagio, la cattiva comunicazione, i sospetti e il pratico abbandono del campo della maggior parte dei genitori? Qualcuno denuncia la scarsità o l’illusorietà dei poteri trasferiti alla base, qualche altro invece ritiene che questi poteri siano troppi e che gli organismi partecipativi siano una palla al piede di chi vuole modernizzare, o, all’opposto, conservare la scuola. Indubbiamente il «taglio» dei diversi o.c., lo scollegamento fra il sistema delle assemblee generali, dei previsti comitati dei rappresentanti e dei consigli hanno le loro responsabilità. Le critiche però sono state talora globalistiche e poco attente alla distinzione di piani e livelli, dei valori in gioco e degli strumenti previsti per salvare questi valori. Il rischio maggiore è quello di tentare di uscirne semplicemente con la rimozione del problema, come se tutto il tema della democrazia scolastica fosse frutto di un equivoco, di un problema mal posto o di una congiuntura un po’ folle, che ha confuso le idee alle persone per bene, inducendole a cose inutili o sconvenienti.

3.​​ La collegialità sfidata dalle «educazioni»,​​ dalle competenze e dall’efficienza.​​ Di fatto questa scuola, che difende la sua autonomia anche nei riguardi della componente genitori, deve poi registrare notevoli difficoltà per quanto concerne gli apprendimenti, come rivelano le indagini OCSE PISA, che vedono i ragazzi italiani in complesso meno preparati dei loro compagni europei; difficoltà che hanno a che fare non solo con le competenze didattiche dei docenti, ma anche, da parte degli studenti, col disagio, la demotivazione, la devianza, la droga, la dispersione scolastica, la delinquenza e la disoccupazione: tutti temi che chiamano in causa le dimensioni esistenziale, motivazionale, relazionale del lavoro scolastico e i rapporti fra scuola e sistema formativo. Il ricupero dell’esistenziale può giustificare una nuova fase d’intesa tra scuola e famiglia, che prenda in considerazione, come ha fatto la L. 309 / 1992, il concetto di​​ salute.​​ Se la​​ salute​​ può essere intesa come quello stato di benessere fisico, psichico, sociale, morale che dà energia, tono e prospettive alla vita, e che dalla cultura ricava ragioni e significati positivi, di essa non deve interessarsi solo una famiglia che istituzionalmente ha il diritto e il dovere di «mantenere, istruire ed educare i figli», ma anche una scuola, che abbia il compito di «promuovere attraverso un confronto aperto di posizioni culturali, la piena formazione della personalità degli alunni» e cioè non solo di «trasmettere», ma di «elaborare» cultura, nel rispetto della coscienza morale e civile degli alunni. La teoria pedagogica del sistema formativo integrato, prima che utopia legata alle idee della società educante e dell’educazione permanente, è frutto della necessità operativa di chi intenda risolvere i problemi in termini istituzionalmente e professionalmente corretti. Il tutto va coordinato col dovere di una​​ valutazione, che sia attenta agli aspetti nazionali e internazionali, come agli aspetti locali e personali. L’INVALSI e l’INDIRE vanno ripensati come agenzie di supporto all’autonomia e alla funzionalità del​​ sistema educativo d’istruzione e formazione.

4.​​ Il ridisegno dei confini del sistema costituzionale di educazione e di istruzione.​​ Dopo la fase della scuola nazionalburocratica e la fase della scuola democratica, registriamo infatti, a partire dalla fine degli anni ’80, una domanda insistente di efficacia / efficienza del servizio, identificato nella prospettiva della scuola autonoma, manageriale, di qualità. Le fasi precedenti non sono superate, ma restano presenti nell’organismo della scuola, come negli alberi i cerchi di fasi di vita precedenti. La terza fase è iniziata sul piano normativo, ma non ha raggiunto ancora standard di efficacia / efficienza soddisfacenti. Dopo i cambiamenti vorticosi della stagione del primo Centro sinistra, che hanno introdotto novità istituzionali rimaste poi in vigore (il dpr 8.3.1999, n. 275 attribuisce alle singole scuole autonomia e personalità giuridica; la nuova Costituzione varata dalla l. cost. 3 / 2001 la riconosce all’art. 117), è giunta la legge delega 28.3.2003 n. 53 del ministro Letizia Moratti, con i relativi provvedimenti delegati, fra cui le​​ Indicazioni nazionali​​ per i piani di studio personalizzati, ispirate dall’idea guida della​​ personalizzazione, che ha introdotto il concetto di​​ cooperazione tra scuola e genitori​​ (art.1), ma che mette in ombra la collegialità. Su questa base si rende ancor più necessaria la modifica dei decreti delegati del ’74, sia quelli a livello scolastico, sia quelli a livello territoriale. Quanto ai primi, le novità che derivano dall’autonomia, dal dimensionamento-accorpamento delle scuole comprensive, in verticale e in orizzontale (1998) e dal conferimento della dirigenza ai capi d’istituto, dotati di poteri e responsabilità gestionali (d. leg. 30.3.2001, n. 165), pongono problemi di difficile armonizzazione delle procedure decisionali. Quanto agli o. a livello nazionale e periferico, il d. leg. 30.6.1999, n. 233 di Berlinguer che li ha riordinati non è entrato in vigore. Lo stesso è accaduto al testo «Norme concernenti il governo delle istituzioni scolastiche», votato nella passata legislatura il 23.2.2005 dalla VII Commissione della Camera. Il clima culturale si è fatto più incerto. Si può dire che si sia abbassata la marea delle energie motivazionali di tipo ideale, ideologico, pedagogico e politico, e anche demografico e finanziario, che avevano indotto il Parlamento ad un’apertura di credito verso le componenti scolastiche e le forze sociali, mettendo in cantiere le navicelle degli o.c. La nuova stagione del Centro sinistra, iniziata il 2006, sta cercando di consolidare gli ordinamenti sul piano della definizione giuridica e operativa dei confini fra ambiti e poteri sul piano della​​ governance,​​ anzitutto nel Tavolo Stato-Regioni; e cerca di rilanciare la partecipazione, con una rinnovata iniziativa parlamentare, sul «governo partecipato delle istituzioni scolastiche» e sui «rapporti tra queste, le istituzioni della Repubblica e il territorio». Il «sistema educativo d’istruzione e formazione», articolato in sottosistemi statale e paritario, va governato a quattro livelli relativamente indipendenti: statale, regionale, locale e scolastico, secondo le prospettive ancora acerbe del nuovo testo costituzionale, che affidano allo Stato le «norme generali sull’istruzione» e «la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» (art. 117, m e n). Che cosa è bene dire a livello di legge statale e che cosa lasciare alle regioni e all’autonomia dei singoli istituti, in materia di regolamento sugli o.c.? È certo che la normativa dev’essere a maglie più larghe.

5.​​ Un quadro di riferimento per l’azione.​​ Per quanto riguarda la vita degli o.c. interni alla scuola, si tratta di superare la distonia attuale e di valorizzare quel poco di partecipazione che si riesce ad ottenere, con criteri di accoglienza, di trasparenza, di spirito di servizio, non disgiunto dal rispetto dell’istituzione, dei ruoli e delle persone. A livello di istituto e di classe, si possono indicare gli elementi di una possibile matrice decisionale, da cui risultino risposte pertinenti ad un complesso sistematico di domande: chi partecipa a che cosa, perché, come, dove, quando, con quali risultati. Ricordiamo intanto che si possono raggiungere diversi livelli di partecipazione: si va dall’informazione,​​ alla​​ consultazione,​​ all’elaborazione,​​ alla​​ decisione,​​ all’esecuzione.​​ Non è opportuno che per ogni materia i genitori e gli studenti debbano salire ogni gradino di questa scala. Occorre poi passare in rassegna i momenti fondamentali del curricolo scolastico, dagli obiettivi educativi agli obiettivi didattici, ai contenuti disciplinari, ai metodi, alla condotta o disciplina nella scuola, alla valutazione, e metterli in relazione, in una tabella a doppia entrata, con i soggetti della comunità scolastica, dirigenti, docenti, genitori, personale ATA, altre figure professionali esterne. Se sulla conoscenza dei ragazzi, sugli obiettivi educativi, sulla disciplina, sui comportamenti, sulle motivazioni, sul complesso dell’organizzazione scolastica l’intervento dei genitori appare utile e pertinente, sui metodi d’insegnamento e sulla valutazione certo lo è meno, o non lo è affatto. L’ipotesi da verificare è che la partecipazione quale si è attuata finora nella scuola debba il suo relativo insuccesso alla mancata distinzione fra momenti​​ espressivi​​ e momenti​​ decisionali​​ e che ai genitori (e agli studenti) interessi assai più poter esprimere le loro aspettative, i loro bisogni e le loro valutazioni che partecipare alla presa di decisioni in materia di curricolo.

Bibliografia

Corradini L.,​​ Democrazia scolastica,​​ Brescia, La Scuola, 1975; Id.,​​ La comunità incompiuta,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1979; Agazzi L.,​​ Struttura organizzazione e attività degli o.c.,​​ Brescia, La Scuola, 1982; Corradini L.,​​ Educare nella scuola. Cultura comunità curricolo,​​ Ibid., 1983; Id., «I nessi tra famiglia e scuola e l’associazionismo familiare in campo scolastico», in P. Donati (Ed.),​​ Terzo Rapporto sulla famiglia in Italia,​​ Cinisello Balsamo (MI), CISF-San Paolo, 1993, 193-244; Auriemma S. - M. Tiriticco,​​ Carta dei servizi e progetto d’istituto,​​ Napoli, Tecnodid, 1995; Corradini L.,​​ Essere scuola nel cantiere dell’educazione,​​ Roma, SEAM, 1995; Osservatorio sulla Scuola dell’Autonomia,​​ Rapporto sulla scuola dell’autonomia 2004, Roma, LUISS University Press / Armando, 2004; Associazione Treelle,​​ Il governo della scuola autonoma: responsabilità e accountability, Fondazione per la scuola della Compagnia di San Paolo, Seminario n. 5, settembre, 2005; Barbieri E., «Governo della scuola», in G. Cerini - M. Spinosi,​​ Voci della scuola, vol. V, Napoli, Tecnodid, 2005.

L. Corradini

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ORGANI COLLEGIALI SCOLASTICI

ORGANISMO

 

ORGANISMO

Si intende per o. un’entità unitaria risultante dall’organizzazione strutturale e funzionale di diverse componenti che prendono il nome di organi, apparati, sistemi.

1. Il termine è usato in diverse discipline, dalla fisica alla cibernetica, alla sociologia e alla stessa pedagogia (​​ organi collegiali,​​ ​​ istituzioni educative). Ma l’uso più comune è quello della biologia, dove si dà particolare risalto all’o. vivente. Tale entità è capace di svolgere le «funzioni vitali» o funzioni biologiche di base, che sono: la capacità di assimilazione, di adattamento attivo e passivo, di riproduzione, di autogestione. Tali capacità sono espresse in forma più elementare degli altri o. più semplici della scala dei viventi e in forma più elaborata man mano che cresce la complessificazione degli o. stessi. Negli animali più elevati della scala zoologica si può parlare, con sempre maggiore chiarezza, di funzioni più strettamente biologiche e funzioni psichiche.

2. Nell’​​ ​​ uomo (homo sapiens)​​ si parla anche di attività mentale. L’essere infatti, data la complessità della sua struttura, è capace di svolgere funzioni che si denominano «culturali». L’o. umano, o​​ soma​​ dell’essere umano, consta di organi e sistemi appropriati fra cui i più importanti sono: il​​ sistema nervoso​​ che coordina tutte le attività dell’o. e costituisce il substrato delle più elevate funzioni psichiche e mentali; il​​ sistema cardio-circolatorio​​ che consente l’irrorazione di ogni parte dell’o.; il​​ sistema muscolo-scheletrico​​ che, coordinato dal sistema nervoso, attua le posture e i movimenti; l’apparato digerente​​ che serve per l’alimentazione; il​​ sistema secretore​​ che provvede alla depurazione.

3. È evidente che per educare adeguatamente un soggetto umano è necessario conoscere bene anche le esigenze del suo o. e le risonanze di esse nei sentimenti, negli atteggiamenti e nei comportamenti del soggetto medesimo. Lo studio appropriato della biologia entra così a far parte del curriculum delle scienze dell’educazione (​​ biologia e educazione).

Bibliografia

Polizzi V.,​​ Psiche e soma,​​ Roma, LAS, 1976; Martínez Costa J.,​​ Biología,​​ personalidad y conducta,​​ Madrid, Paraninfo, 1981; Polizzi V.,​​ Identità dell’homo sapiens,​​ Roma, LAS, 1986; Umiltà C. (Ed.),​​ Manuale di neuroscienze,​​ Bologna, Il Mulino, 1995; Reitano M. (Ed.),​​ Appunti di fondamenti anatomo-fisiologici dei processi psichici,​​ Roma, Kappa, 1996.

V. Polizzi

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ORGANISMO

ORGANIZZAZIONE SCOLASTICA

 

ORGANIZZAZIONE SCOLASTICA

L’o.s. è quella disciplina delle​​ ​​ scienze dell’educazione che studia la gestione dei sistemi formativi a livello​​ micro​​ (singola scuola) allo scopo di conoscerla meglio e di renderla più efficace. Per il livello​​ macro,​​ come per la giustificazione della definizione di o.s. vedi​​ ​​ amministrazione scolastica: data la difficoltà di tracciare un confine netto tra le due voci si consiglia di leggerle insieme. L’o.s. è anche il complesso degli organi, delle persone e delle strutture che provvede al funzionamento della singola scuola.

1.​​ La nuova cultura delle o.​​ Nell’accezione più condivisa o. significa quel tipo di unità sociale che si caratterizza per la finalizzazione a obiettivi specifici. In questo senso si distingue da una famiglia, da una comunità, da una nazione che, invece, perseguono una pluralità di fini generali. La definizione è stata messa in discussione in relazione alla scuola in quanto se è vero che quest’ultima si propone la meta dell’educazione, tuttavia tale finalità si presenta complessa e molteplice. Un altro tratto distintivo dell’o. sarebbe costituito dal coordinamento delle attività individuali in vista dell’interesse generale. Non mancano anche in questo caso osservazioni circa l’eccessiva sottolineatura del controllo dall’alto, implicita nel concetto appena richiamato, rispetto alle più comuni forme di autodisciplina dei membri. La teoria organizzativa più antica si caratterizza per la focalizzazione sulla​​ razionalità​​ tecnica e funzionale, sull’efficienza, sul rapporto ottimale tra mezzi e scopi. L’accento è posto su due proprietà strutturali: la specificità dei fini e la formalizzazione dell’o. Un secondo approccio, la scuola delle​​ relazioni umane,​​ benché sia sorto in contrapposizione alla concezione razionale, ha di fatto sottolineato due aspetti che si presentano come complementari ai precedenti, piuttosto che contraddittori. Le o. non possono essere concepite semplicemente come meccanismi mirati al perseguimento di fini specifici esterni di produzione, ma costituiscono anche dei gruppi sociali che devono preoccuparsi di soddisfare una serie di bisogni di autosostentamento e di mantenimento del sistema. In secondo luogo viene affermata l’importanza delle strutture informali che possono incidere su quelle formali, perfezionandole, condizionandole e persino cambiandole. Nonostante gli indubbi progressi compiuti dalla riflessione e dalla prassi, le due concezioni citate conservano un carattere autocentrato. Tuttavia, già negli anni ’70 l’o. viene ad essere concepita in termini di​​ sistema,​​ cioè come un insieme di parti tra loro interrelate, e questo sistema è​​ aperto​​ nel senso che si trova in un rapporto di stretta interdipendenza con il contesto in cui opera. Esso può conservarsi solo sulla base di un flusso continuo di risorse da e per l’ambiente; lo scambio con il contesto costituisce il meccanismo fondamentale che consente il funzionamento dell’o. Indubbiamente, apertura non significa assenza di confini, ma piuttosto sta a sottolineare la loro flessibilità: l’o. deve certamente impegnarsi per conservarli, ma al tempo stesso svolge attività che si situano oltre i confini stessi. Il collegamento con l’ambiente mette in crisi tra l’altro uno degli assunti di fondo della prospettiva razionale che presupponeva l’esistenza di un modello di o. migliore in assoluto e si sforzava di elaborarlo; la formula più valida dipende al contrario dalle caratteristiche del contesto in cui opera l’o. L’approccio del sistema aperto mette in evidenza come le o. (con particolare riguardo a quelle formative) non si presentano sempre come strutture compatte le cui parti siano strettamente collegate e coordinate tra loro, ma anche come o.​​ a maglie larghe​​ (loose coupling).​​ Le relazioni tra le varie componenti si caratterizzano spesso per la complessità e la variabilità, per la mancanza di rigidità delle connessioni per la forte autonomia operativa di ciascun sottosistema. La​​ leadership​​ non appare sempre come un’unità di comando monolitica, ma si rivela anche come una coalizione piuttosto allentata di gruppi mutevoli, ciascuno con i propri interessi, obiettivi e strategie. La presenza di collegamenti non molto rigidi non costituisce di per sé un ostacolo allo sviluppo, ma può contribuire in maniera importante alla crescita, stimolando l’intraprendenza delle componenti. Il sistema aperto è anche in grado di regolarsi autonomamente in base a propri parametri. La complessità della società attuale pone tre sfide alle o.: cresce la diversità, cioè il numero degli elementi tra loro differenti, anche fortemente, da trattare al medesimo tempo; l’imprevedibilità diviene una condizione normale; aumenta l’interdipendenza tra i fattori da tenere sotto controllo. Questa situazione ha messo in risalto l’insufficienza dei meccanismi strutturali con cui le o. avevano cercato finora di far fronte alla complessità, quali, per citare quelli comuni anche alle scuole, i regolamenti, i programmi, gli orari, l’articolazione in dipartimenti, la gerarchia e la delega. Una strada alternativa è consistita nel rafforzamento dei centri decisionali mediante la diffusione della distinzione «staff / line». Gli esperti che compongono lo «staff» forniscono consulenza tecnica ai dirigenti generalisti che sono incaricati delle deliberazioni definitive: ciò consente di aumentare la capacità di trattare le informazioni senza introdurre un decentramento formale e senza infrangere il principio dell’unicità della funzione di comando, anche se molto potere viene acquisito dagli esperti. Una strategia promettente è costituita dall’o.​​ a matrice​​ che consiste nell’introduzione di un gruppo di meccanismi strutturali che mirano alla promozione della comunicazione delle informazioni a livello orizzontale, mentre finora si era generalmente cercato di potenziare i canali verso l’alto o il basso. Il tratto qualificante è dato dalla compresenza sia di reparti funzionali che garantiscono lo svolgimento dei dinamismi verticali e rispondono a bisogni consolidati, sia di gruppi di progetto che assicurano le connessioni laterali e vengono incontro alle domande mutevoli del contesto. Un’altra strategia rilevante è offerta dal modello della​​ qualità totale. La qualità viene intesa in base a una prospettiva non più interna all’impresa, ma esterna, e consiste nella soddisfazione del cliente per cui diviene centrale nel rapporto con l’esterno l’impegno per identificare la domanda: è la qualità percepita che è decisiva e la misura operativa è fornita dal successo commerciale. All’interno, poi, il collega non deve più essere immaginato come un competitore, ma come un cliente a cui fornire un prodotto di qualità. A monte vi sarebbe la riscoperta della finalizzazione del processo produttivo all’uomo che tornerebbe al centro della scena, anche se lo sganciamento della definizione della qualità da parametri assoluti potrebbe essere foriero di un relativismo pericoloso. Comunque, i modelli a matrice, progettuale e della qualità totale segnano il passaggio dalla burocrazia alla «adhocrazia».​​ Un ulteriore progresso è rappresentato dai​​ modelli culturali​​ di o. che concentrano l’attenzione sui principi, le idee, i simboli e le tradizioni condivisi dai membri di una o. in quanto contribuiscono a definire l’identità dell’o. L’approccio ritiene che l’o.s. non sia un scienza applicativa, come nell’impostazione tradizionale, ma sostiene che il suo oggetto è la pratica riflessiva, cioè una interrelazione tra teoria, intuizione ed esperienza. Dal punto di vista organizzativo, i principi fondamentali sono quelli della cooperazione, dell’empowerment​​ dei membri dell’o., della responsabilità nella gestione, della partecipazione, della significatività del proprio lavoro e dell’equilibrio tra competenza e autorità.

2.​​ Modelli di o.s.​​ Tra i più antichi e diffusi si può ricordare quello​​ burocratico​​ ispirato alle teorie organizzative di​​ ​​ Weber. La singola scuola è qualificata da tratti come il carattere gerarchico dell’autorità, la divisione del lavoro, la specializzazione basata sulla competenza, la strutturazione in ruoli impersonali, una regolamentazione fondata su norme generali e astratte, una carriera per merito. La formula burocratica ha costituito uno strumento utile per regolare i rapporti tra diritti, responsabilità, ruoli e funzioni e per coordinare o. complesse; inoltre, ha trovato ampie applicazioni nei sistemi formativi centralizzati e più recentemente nei Paesi in via di sviluppo durante la fase di costruzione delle strutture statali. Sul piano negativo, essa non offre adeguato riconoscimento a dimensioni importanti dei processi educativi come l’autonomia della singola scuola, la professionalità degli insegnanti, la personalizzazione dell’azione educativa, l’efficacia, la flessibilità e l’innovatività degli interventi. Il modello​​ industriale​​ classico segue i principi dell’o. tayloristica del lavoro: standardizzazione, che si manifesta nella presenza di un curricolo nazionale, di esami centralizzati, di requisiti minimi di conoscenze e di competenze; specializzazione, a livello di insegnanti e di programmi; sincronizzazione, che si esprime in calendari ed in orari dettagliati; concentrazione, per cui si tende a coniugare varie attività nella stessa istituzione; razionalizzazione delle offerte sul territorio; centralizzazione dei controlli. La formula presenta i suoi vantaggi soprattutto in un contesto di espansione della scuola, ma può portare a gravi inconvenienti perché la scuola non è del tutto identificabile con una grande impresa stile anni ’30 o ’60. Il modello​​ politico,​​ ispirato alle teorie conflittuali di Weber e neo-marxiste, concepisce la scuola come un’o. in cui la lotta per il potere o sui valori tra gruppi di interesse è normale e va risolta attraverso la negoziazione. La formula è utile per rispondere alla domanda di partecipazione e di democrazia che ha raggiunto il sistema formativo durante soprattutto gli anni ’70 e per correggere una visione troppo idilliaca della scuola. Al tempo stesso non manca di svantaggi perché può portare a una conflittualità endemica, a una svalutazione della professionalità, a forme di assemblearismo e soprattutto si muove in controtendenza rispetto agli orientamenti attuali del rinnovamento della scuola che sottolineano la collaborazione, la comunità e il lavoro di gruppo. Il modello​​ culturale​​ è caratterizzato da: complementarità tra coordinamento centrale e potere d’iniziativa e decisionale locale, focalizzazione sulla comunità educativa, partecipazione delle varie componenti, centralità dell’educando, responsabilità per i risultati, imprenditorialità, innovazione dal basso, introduzione di una funzione intermedia fra dirigenti e docenti. Corrisponde agli orientamenti più recenti della teoria organizzativa e può essere interpretato in due forme diverse, una manageriale che subordina le finalità formative alle esigenze organizzative e di mercato e una educativa che afferma la priorità della formazione. Il modello nella seconda accezione sembra adeguato sia sul piano ideale sia su quello pratico della corrispondenza alle caratteristiche della società complessa. La sua realizzazione, però, presuppone una cultura organizzativa conforme nelle componenti della scuola, soprattutto nel personale docente e dirigente, e una politica di impulso, sostegno, coordinamento e verifica da parte del centro senza indebite ingerenze gestionali. Il modello culturale ha approfondito in particolare le funzione della​​ leadership​​ educativa, articolandola nelle seguenti direzioni: la funzione tecnica che consiste nell’uso di valide tecniche di gestione (pianificazione, gestione del tempo, coordinamento, programmazione e o.); la funzione di gestione delle relazioni umane che si esprime nella capacità di rapportarsi con le persone, si esplica nel sostegno al miglioramento e ha come base la motivazione e lo sviluppo degli studenti e del personale, a partire da quello docente, nella prospettiva della collegialità e dell’autonomia scolastica; la funzione educativa in senso stretto che deriva dalla conoscenza esperta dell’istruzione e dell’educazione e fa percepire il dirigente come leader riconosciuto dai propri insegnanti; la funzione simbolica che si esprime nella capacità di finalizzazione, di visione, o di far cogliere il senso delle cose, di indicare le priorità, di orientare ed identificare le varie componenti della scuola e interpretare i loro sentimenti e aspettative; la funzione culturale che è la forza chiave per creare un’identità condivisa attorno ai valori distintivi dell’istituto e per inserire i nuovi collaboratori e studenti, per costruire un pensiero comune e una «comunità morale».

Bibliografia

Bredeson P. V., «Organizational theory in education: comparative management perspectives», in T. Husen - T. N. Postlethwaite (Edd.),​​ The International encyclopedia of education,​​ Oxford, Pergamon Press, 1994, 4240-4246; Scott W. R.,​​ Le o., Bologna, Il Mulino, 1994; Bush T.,​​ Manuale di management scolastico, Trento, Erickson, 1997; Everard B. - G. Morris,​​ Gestire l’autonomia.​​ Manuale per dirigenti e staff di direzione, Ibid., 1999; Ribolzi L. (Ed.),​​ Il dirigente scolastico, Firenze, Giunti, 1999; Malizia G. (Ed.),​​ Un’educazione di qualità per il XXI secolo, in «Orientamenti Pedagogici» 48 (2001) 577-828; Sergiovanni T. J.,​​ Dirigere la scuola comunità che apprende, Roma, LAS, 2002; Serpieri R.,​​ Leadership senza gerarchia, Napoli, Liguori, 2002; Cssc-Centro Studi Scuola Cattolica,​​ Dirigere e coordinare le scuole. Scuola Cattolica in Italia. Sesto Rapporto, Brescia, La Scuola, 2004; Toni R.,​​ Il dirigente scolastico, Milano, Mondadori, 2005; English F. W. (Ed.),​​ Encyclopedia of educational leadership and administration, Thousand Oaks, Sage, 2006.

G. Malizia

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ORGANIZZAZIONE SCOLASTICA

ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI

 

ORGANIZZAZIONI​​ INTERNAZIONALI

Molte sono le o.i. che, direttamente o indirettamente, si occupano di problemi educativi; soltanto poche, però, sono tali in senso stretto, cioè interstatali. Sorte per promuovere e rendere stabile e organica la cooperazione fra gli Stati membri in vista del conseguimento di scopi comuni, esse hanno struttura, organi e norme giuridiche propri che disciplinano gli interessi di ciascun Paese.

1. Al di là degli scopi specifici, gli obiettivi comuni in ambito pedagogico sono: offrire una visione di insieme sui problemi educativi, individuare tendenze e indirizzi, proporre soluzioni ai problemi, valutare i risultati di queste e confrontarli. L’efficacia reale del loro operato dipende dal potere effettivo che ciascuna ha di impegnare gli Stati membri. Gli strumenti operativi di cui dispongono sono​​ Direttive​​ e​​ Regolamenti​​ (gli unici per sé vincolanti perché hanno valore di leggi),​​ Convenzioni​​ (forme decisionali con possibilità di diventare vincolanti ma soltanto se ratificate dagli Stati e integrate nella legislazione nazionale),​​ Raccomandazioni,​​ Risoluzioni,​​ Dichiarazioni​​ e​​ Avvisi​​ (non vincolanti se non come impegno morale, e con contenuti sovente di natura pratica). Tutte le o.i. offrono un contributo significativo a livello conoscitivo (studi, ricerche, incontri, dibattiti), operativo (sperimentazioni, progetti pilota) e informativo. Reti per la raccolta di documentazione e per lo scambio di informazioni sui sistemi formativi europei sono state attivate dalla CEE con EURYDICE, dal CdE con l’EUDISED, sull’istruzione e l’educazione mondiale dall’UNESCO con il BIE. Quest’ultima, in collaborazione con le altre o.i., elabora le statistiche educative attraverso un ufficio con sede a Parigi a cui si deve, tra l’altro, la pubblicazione dell’annuario internazionale dell’educazione.

2. CEE (Comunità economica europea)​​ ora UE (Unione Europea): è dotata di strutture istituzionali dal Trattato di Roma (1957) e si è occupata, dal suo nascere, della​​ ​​ formazione professionale nei Paesi aderenti (art. 118 e 128 del Trattato). L’obiettivo limitato rispecchia lo scopo proprio dell’istituzione: «promuovere lo sviluppo economico degli Stati Membri». Soltanto con difficoltà e lentamente gli interessi educativi si espandono fino al Trattato di Maastricht (1991), in cui, per la prima volta, le competenze comunitarie riguardanti l’educazione e la formazione vengono ufficialmente ampliate e ratificate (art. 126 e 127). Nel 1975 viene creato a Berlino il CEDEFOP (Centro Europeo per lo sviluppo e la formazione professionale)​​ con il compito di fornire consigli e informazioni tecniche e scientifiche alle istituzioni della Comunità. La CEE è l’unica o.i. che ha un’autorità reale sancita da poteri sovranazionali, con possibilità di emanare​​ Direttive​​ e​​ Regolamenti.

3. CdE (Consiglio d’Europa):​​ è la prima o.i. europea creata nel dopoguerra (1949) con lo scopo di promuovere la riconciliazione e la pace tra i popoli. Fin dal suo nascere il CdE ha sostenuto la cooperazione culturale e educativa come mezzo per avvicinare gli Stati e per raggiungere una pace durevole. Nel 1954 ha attivato al suo interno la «Convenzione Europea della Cultura», a cui possono aderire anche Stati che non fanno parte a pieno titolo dell’o., per partecipare ai programmi in materia di cultura, educazione, sport e gioventù. Il programma riguardante la cultura e l’educazione, parte integrante dell’o., è sviluppato dal CDCC (Consiglio per la cooperazione culturale)​​ al cui interno operano 4 comitati permanenti.

4. OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico):​​ è creata a Parigi nel 1961 con lo scopo di promuovere la cooperazione e lo sviluppo economico, condividendo la fiducia nei valori democratici e in una economia di libero mercato. La sua politica formativa riflette gli scopi istituzionali. L’o. non dispone di alcun potere coercitivo né finanziario. Il Comitato per l’educazione (uno tra i tanti) e il CERI (Centro per la ricerca e l’innovazione nell’insegnamento),​​ organismo che funziona in modo autonomo in seno all’OCSE, attuano congiuntamente i programmi in tale ambito. I principali interessi dell’o. sono: il contributo dell’istruzione allo sviluppo sociale e alla perequazione economica; il miglioramento della qualità dell’insegnamento.

5. UNESCO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione,​​ la scienza e la cultura):​​ Istituto specializzato e autonomo dell’ONU, fu fondato a Londra nel 1945 e iniziò le sue attività a Parigi nel 1946. L’o. si propone di contribuire al mantenimento della pace e della sicurezza, rafforzando, attraverso educazione, scienza e cultura la collaborazione tra le nazioni. Per il numero degli Stati aderenti è la prima e sicuramente la più importante o.i. che si occupa di problemi educativi. La sua peculiarità strutturale e operativa deriva dal suo carattere mondiale. La struttura di lavoro dell’Unesco è costituita innanzitutto dalle «Commissioni nazionali». L’o. dà grande importanza alla cooperazione.

Bibliografia

Unesco (Ed.),​​ L’Unesco et l’éducation dans le monde,​​ Paris, 1985; Conseil de l’Europe, Conférence permanente des Ministres Européens de l’éducation,​​ La coopération européenne en matière d’éducation: activités de l’Unesco,​​ du Conseil de l’Europe,​​ des Communautés européennes…,​​ Strasbourg,​​ 1991; Rissom H. W.,​​ Unesco​​ and the new Europe,​​ in «International Review of Education» 38 (1992) 700-705; Skilbeck M. - I. Whitman,​​ OECD and education links with central and eastern Europe,​​ in Ibid., 696-700; Unità Italiana di Eurydice,​​ Normativa comunitaria in materia di istruzione,​​ Firenze, Biblioteca di Documentazione Pedagogica, 1992;​​ Allegri M. R.,​​ Le o.i. Strategie e strumenti della comunità internazionale,​​ Padova, CEDAM, 2002.

C. Di Agresti

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ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI

ORIENTAMENTO

 

ORIENTAMENTO

L’o. è un processo educativo unitario in cui vengono distinti alcuni aspetti ed accentuati alcuni obiettivi dando in tal modo origine alle seguenti specificazioni: o. vocazionale, scolastico, personale e professionale. Nel senso generale, che sta alla base di queste specificazioni, l’o. consiste nell’aiuto che l’educatore offre al soggetto perché egli possa elaborare un progetto di vita e realizzarlo durante le singole fasi dello sviluppo.

1. Tipi.​​ Con l’o.​​ vocazionale​​ il soggetto è aiutato a scoprire la sua chiamata ad una vita impostata sui valori sociali e religiosi a servizio degli altri. L’o.​​ scolastico​​ consiste nel costante aiuto dato all’alunno perché egli possa avere successo negli studi e perché possa operare progressivamente le scelte scolastiche consone al suo modo di essere. L’o.​​ personale​​ consiste nell’aiuto al soggetto perché affronti in modo adeguato la vita e prenda le sue decisioni in modo costruttivo, assumendo responsabilmente le conseguenze delle sue scelte. Infine l’o.​​ professionale​​ consiste nell’aiuto offerto al soggetto perché sviluppi alcune sue caratteristiche in vista di una futura occupazione, formi le sue preferenze in rapporto a tale occupazione per realizzare poi, esercitando la relativa attività lavorativa, determinati​​ ​​ valori. Questi aspetti dell’o. sono basati sull’aiuto dato al soggetto ad autodefinirsi, a formare in tal modo la sua identità personale e sociale e ad autorealizzarsi (Macario et al., 1989). L’esito di questo processo formativo è rappresentato dalla collocazione del soggetto nella vita attiva svolta con soddisfazione e dal raggiungimento di un determinato stato sociale.

2.​​ Discipline fondanti.​​ L’o. trae contenuti e metodi da numerose discipline: la​​ ​​ filosofia dell’educazione offre l’informazione sul significato del destino umano e in modo specifico sul significato della attività lavorativa; la​​ ​​ metodologia pedagogica offre delle norme sul come deve avvenire la formazione intellettiva, sociale, etica e professionale del soggetto; la​​ ​​ sociologia della gioventù dà delle importanti informazioni sulle aspirazioni, atteggiamenti, tendenze dei giovani e in modo particolare sul significato che il lavoro assume nei loro progetti esistenziali. Segue poi il contributo delle singole psicologie: la​​ ​​ psicologia dello sviluppo, con la descrizione delle fasi evolutive, offre dei criteri di valutazione dei processi maturativi e dei condizionamenti che gli specifici sviluppi subiscono, come quello affettivo, sociale, intellettivo ed etico; su tali sviluppi si innesterà quello professionale; la​​ ​​ psicologia differenziale informa sulle caratteristiche individuali nel loro aspetto attitudinale, emozionale, motivazionale e sulla caratterizzazione dei gruppi professionali; la​​ ​​ psicologia del lavoro, in una prospettiva piuttosto remota, media informazioni sull’adattamento al lavoro e sulle possibili fonti di soddisfazione; la​​ ​​ psicologia clinica infine offre informazioni sulle eventuali tendenze devianti del soggetto e quindi controindicazioni all’esercizio di una specifica attività lavorativa. In sintesi, nelle discipline citate possono essere distinti i contributi che si riferiscono ai fini, alle conoscenze della società e del soggetto. Da esse vengono tratti dei​​ ​​ costrutti e adottati dei metodi in base ai quali vengono elaborati dei progetti di o.

3.​​ Metodi e approcci.​​ Il passaggio del soggetto dalla scuola al lavoro viene mediato con vari metodi. Il primo è rappresentato dalla diagnosi con la quale vengono esaminate varie componenti del soggetto. A tale scopo sono adatte scale di valutazione destinate all’insegnante, questionari per rilevare le più svariate dimensioni della personalità ed alcuni test dai quali emerge l’individualità del soggetto nei suoi lati forti e deboli e le sue capacità. Un secondo metodo è rappresentato dalla valutazione dell’apprendimento delle singole materie condotto dall’insegnante; il successo scolastico ne costituisce il migliore predittore. Il terzo metodo è rappresentato dal​​ ​​ colloquio nella sua duplice funzione: completare le informazioni mancanti e operare una sintesi di tutti i dati in un quadro organico e consistente in stretto rapporto con il progetto di vita e con quello professionale del soggetto. Tale sintesi è un presupposto per una valida decisione professionale. In tale contesto si possono individuare tre approcci all’o.: scelta professionale, sviluppo professionale e processo decisionale. Nel primo l’orientatore aiuta il soggetto a operare una valida scelta, che consiste nell’accordo della struttura della personalità con i requisiti specifici dell’occupazione. Il secondo è articolato in base alle fasi della vita umana; e pertanto lo sviluppo professionale viene visto come una parte della crescita. Gli stadi evolutivi sono caratterizzati da competenze acquisite che impongono decisioni da prendere e che rappresentano nello stesso tempo indici di maturità. Nel terzo approccio il soggetto raccoglie informazioni sulle varie attività lavorative, seleziona alternative adatte valutandone vantaggi e svantaggi, opera la prima scelta e la verifica con un’ulteriore riflessione ed infine la valuta. La finalità di questo approccio consiste soprattutto nell’acquisizione della capacità decisionale. Il processo viene articolato in alcuni stili decisionali, come quello razionale, intuitivo ed emozionale. Nel primo predominano i fattori logici e vengono esaminati i pro e contro della scelta; il secondo tiene conto dei vantaggi e degli svantaggi in modo globale; il terzo infine è basato sui motivi affettivi. Lo stile razionale sembra più adatto degli altri due in quanto risulta correlato con l’età dei soggetti; si nota infatti un progressivo spostamento in rapporto all’età dei soggetti dallo stile intuitivo ed emozionale allo stile razionale.

4.​​ Teorie.​​ Sull’o. professionale sono state elaborate varie teorie tra le quali le più note sono quella di A. Roe, di J. L. Holland e di D. E. Super. La Roe sostiene che lo sviluppo professionale sia guidato dallo stile educativo dei genitori. L’autrice distingue vari stili educativi che soddisfano i bisogni dei figli in modo differente e che quindi li formano o li deformano. In base ai bisogni formati il figlio opta per una specifica area professionale; per es., il figlio amato dai genitori, acquisendo le competenze di una valida interazione con le persone si orienterebbe verso le professioni che richiedono il contatto sociale; al contrario, il figlio rifiutato dai genitori si orienterebbe invece verso il settore tecnico. La teoria offre delle utili indicazioni per capire la struttura dei bisogni del soggetto e il modo in cui tende a soddisfarli nell’attività lavorativa. Holland fonda la sua teoria sui tipi professionali; sostiene che vi sono fondamentalmente sei tipi professionali e sei identiche aree. Il tipo è attratto dalla rispettiva area e se entrerà in essa sarà soddisfatto, renderà bene nel lavoro e sarà perseverante. Le stesse conseguenze sono previste in rapporto agli indirizzi scolastici e alle facoltà universitarie. La teoria offre, quindi, delle valide predizioni sull’esito dell’interazione del soggetto con il suo ambiente scolastico e lavorativo. Super basa la sua teoria sulle fasi evolutive e successivamente sulle fasi della vita umana dalla preparazione all’abbandono dell’attività lavorativa. Lo sviluppo viene visto come potenziamento del concetto di sé ed è articolato nell’arco evolutivo principalmente in tre costrutti:​​ ​​ interessi,​​ ​​ abilità e​​ ​​ valori. Nell’infanzia le prime preferenze professionali sono basate sul sentimento di piacevolezza, nell’adolescenza vengono prese in considerazione le abilità mentre in giovane età emergono i valori. Il​​ ​​ concetto di sé positivo è un valido presupposto alla continuità dello sviluppo; se potenziato inoltre esso equivale ad una buona maturazione professionale. Viceversa, un concetto di sé negativo limiterà l’esplorazione professionale alle aree professionali meno impegnative; se poi è anche indifferenziato non permetterà al soggetto di confrontarsi con aree professionali specifiche, renderà difficile la sua scelta e se sarà effettuata essa risulterà instabile. Le tre teorie si completano: la prima pone l’accento sull’origine del progetto professionale, la seconda sulla sua consolidazione per mezzo dell’interazione sociale e la terza sulla realizzazione e la conduzione dell’intero processo professionale.

5.​​ Fattori ed effetti.​​ L’o. si realizza in una determinata cultura intesa come un sistema di credenze, costumi, valori e istituzioni che rappresentano il significato dell’esistenza umana e in modo specifico il significato del lavoro. Tra le istituzioni, la prima è la famiglia che entra nel processo dell’o. con il suo livello socioculturale e con i suoi valori ed atteggiamenti. Insieme con le aspirazioni sul futuro del figlio i genitori facilitano oppure involontariamente ostacolano il suo sviluppo professionale. La seconda istituzione formativa è la scuola con i suoi primi modelli professionali per l’alunno, le differenti discipline scolastiche e con la valutazione dell’apprendimento. Infine, la terza consiste nei centri di o. che guidano l’intero processo in vista di un valido inserimento del soggetto nella società. Al giorno d’oggi il processo dell’o. può essere gestito efficacemente con il computer, usufruendo di banche dati o di informazioni di rete.

Bibliografia

Viglietti M.,​​ O.: una modalità educativa permanente,​​ Torino, SEI, 1988; Macario L. et al.,​​ Orientare educando,​​ Roma, LAS, 1989;​​ Walsh W. B. - S. H. Osipow (Edd.),​​ Career counseling: contemporary topics in vocational psychology,​​ Hillsdale, Erlbaum, 1990;​​ Macario L. - S. Sarti,​​ Crescita e o.,​​ Roma, LAS, 1992; Guichard J. - M. Huteau,​​ Psicologia dell’o. professionale,​​ Milano, Cortina, 2003; Cospes,​​ Orientare alle scelte: Percorsi evolutivi,​​ strategie e strumenti operativi, Roma, LAS, 2005; Guindon M. H. - L. J. Richmond,​​ Practice and research in career counseling and development-2004, in «The Career​​ Development Quarterly» 54 (2005) 90-137; Greenhaus J. H., «Career dynamics», in I. B.​​ Weiner (Ed.),​​ Handbook of psychology, vol. 12, New Jersey, Wiley, 2003, 519-540; Harrington T. E. - T. A. Harrigan,​​ Practice and research in career counseling and development-2005, in «The Career Development Quarterly» 55 (2006) 98-167.

K. Poláček

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ORIENTAMENTO

ORIGENE

 

ORIGENE

Nato ad Alessandria intorno al 185 da padre cristiano, Leonida, che fu martirizzato nella persecuzione di Settimio Severo, ed educato cristianamente, appena diciottenne divenne catechista della Chiesa locale. Il suo insegnamento col passar del tempo ottenne un successo tale che le sue lezioni furono frequentate anche da pagani. Per tal motivo e per essere più libero di esporre le sue idee, intorno al 220 O. lasciò l’istruzione dei catecumeni e si riservò un tipo d’insegnamento di livello superiore. A questa data si fa iniziare la Scuola di → Alessandria. Ma il suo successo e la fama che gliene derivò anche presso i pagani dettero ombra al vescovo Demetrio che, sotto pretesto di una irregolarità formale (O. era stato ordinato sacerdote in Palestina senza che Demetrio ne fosse informato), lo fece condannare nel 233 da due concili di vescovi egiziani. O. abbandonò l’Egitto e si stabilì a Cesarea di Palestina, ove continuò la sua scuola e si dette anche alla predicazione in chiesa. In effetti le Chiese d’Oriente non sottoscrissero la condanna e continuarono ad apprezzare O. e a valersi della sua opera. Arrestato durante la persecuzione di Decio (250), confessò la fede, pur fra i tormenti. Rilasciato in cattive condizioni di salute, morì nel 253 a Tiro.

La sua grande attività letteraria si esplicò soprattutto nel campo dell’interpretazione della Scrittura, con omelie e commentari, in buona parte perduti. Fra le opere superstiti, ricordiamo​​ omelie su Genesi, Esodo, Geremia, Luca; commentari al Cantico, Matteo, Giovanni​​ (incompleti). Gran parte di questi scritti, e la sua opera dottrinale più importante,​​ 1 princìpi,​​ ci sono giunti soltanto in traduzione latina. Ricordiamo ancora lo scritto apologetico​​ Contro Celso.

Nella prefazione a​​ I princìpi​​ O. distingue nel deposito della fede dottrine già dogmaticamente definite e questioni ancora aperte. Sia lo studio di tali questioni sia l’approfondimento delle dottrine già definite sono compito di chi vuole studiare a fondo la propria fede. Viene così fissato un duplice livello d’istruzione, quello dei semplici e quello dei perfetti, che corrispondono ai veri gnostici di → Clemente. Ma rispetto a Clemente (di cui O. non fu discepolo, come spesso si afferma, ma ne conobbe e apprezzò le opere) questa distinzione è più chiaramente fondata su una concezione della realtà di impronta platonica: i semplici sono coloro che restano nell’ambito della realtà corporea, i perfetti sono coloro che sanno innalzarsi dalla realtà sensibile a quella intelligibile e spirituale, non perché dotati di natura superiore — come volevano gli gnostici —, ma in forza dell’applicazione e dell’ascesi, alla maniera di Clemente.

In effetti O. condivise il programma culturale di Clemente, mirante a ricuperare alla Chiesa cattolica, mediante un’approfondita riflessione sul dato di fede, quei cristiani di elevata condizione sociale che più sentivano l’influsso dell’intellettualismo gnostico; lo potenziò ulteriormente in forza di un insegnamento più organico e più direttamente impostato sullo studio della Sacra Scrittura; lo fondò filosoficamente mediante l’acquisizione dello spiritualismo platonico in modo più completo e approfondito di quanto si fosse fatto fino allora in ambiente cristiano. Il tentativo di sintesi rappresentato da I​​ princìpi,​​ che sono non un’esposizione elementare di dottrina bensì la trattazione problematica di punti dogmatici fondamentali (Dio, il Logos, il mondo, la fine) sulla base appunto di moduli e concetti derivati dalla filosofia greca, nonostante la rischiosità di alcune soluzioni proposte, dimostrò sia ai pagani sia agli gnostici che il cristianesimo non poteva più essere considerato religione adatta solo a fanatici e ignoranti, perché era ormai in grado di soddisfare le più sofisticate esigenze intellettuali.

Il fondamento dell’attività culturale di O. fu l’insegnamento nella scuola, che — a differenza dell’insegnamento di Clemente — fu imperniato sulla sistematica interpretazione della Sacra Scrittura. Sappiamo però che O. faceva precedere questo studio da un corso propedeutico nel quale gli allievi apprendevano i fondamenti delle principali correnti filosofiche greche, soprattutto platonismo e stoicismo, in quanto li considerava utili per introdurre allo studio approfondito della Scrittura.

Da quando si trasferì a Cesarea O. affiancò a questo insegnamento, necessariamente riservato a pochi, la predicazione in chiesa, anch’essa consistente nella spiegazione sistematica della Scrittura. Egli usava predicare, in certe parti dell’anno, ogni giorno, o comunque parecchi giorni della settimana, e così poteva sviluppare l’interpretazione organica di interi libri della Scrittura o di vaste parti di essi. L’insegnamento impartito in questa sede era certamente meno complesso di quello svolto nella scuola; ma non si deve pensare a un livello d’istruzione meramente elementare: la possibilità di confrontare le omelie e il commentario relativi a uno stesso libro (il​​ Cantico)​​ ci permette di constatare uno stesso tipo d’interpretazione, che ovviamente nel commentario è più ricca di dettagli e più portata alla divagazione di vario argomento, soprattutto dottrinale, ma in sostanza è la stessa.

Il suo fondamento riposa in un apprezzamento filologico del testo biblico, che costituì una novità in ambiente cristiano: gli​​ Hexapla,​​ una concordanza delle principali traduzioni greche dell’AT (LXX, Aquila, Simmaco, Teodozione), fornirono ad O. lo strumento critico per accertare la lezione esatta del testo sacro. Se ne servì soprattutto nei commentari, ma talvolta vi faceva ricorso anche durante la predicazione in chiesa. Su questa base O. sviluppava l’interpretazione del testo sacro a due livelli, corrispondenti ai due livelli platonici di realtà: la prima interpretazione è letterale, limitata all’ambito della realtà sensibile; essa ha il compito di introdurre l’esegeta all’interpretazione superiore, spirituale, corrispondente al livello della realtà intelligibile.

Il passaggio avviene mediante il metodo allegorico, già da Paolo applicato all’interpretazione cristiana dell’AT, e che O. perfezionò e applicò con metodica regolarità a tutto, o quasi, il testo biblico, non solo dell’AT ma anche del NT, sulla base di un assioma fondamentale: le realtà sensibili sono di per sé reali, ma sono anche, e soprattutto, simbolo di realtà spirituali: la manna che aveva saziato gli Israeliti nel deserto, al di là della sua materialità, prefigura il nutrimento della parola divina; le guarigioni operate da Gesù, ben reali, simboleggiano spiritualmente la guarigione dell’anima.​​ Copheleia,​​ cioè la vera utilità che il cristiano deve trarre dallo studio della Scrittura, consiste soprattutto in questa comprensione spirituale, che lo aiuta a distaccarsi progressivamente dalle realtà sensibili, per aderire sempre di più alla realtà divina, che è puro spirito.

La sintesi origeniana rappresentò qualcosa di nuovo e grande nel mondo cristiano di allora, culturalmente ancora molto arretrato. Si spiegano così da una parte la grande fortuna ch’essa ottenne in ambienti intellettualmente preparati ed esigenti, e dall’altra l’avversione che provocò in ambienti non soltanto popolari ma anche di più elevata condizione, dove però la nuova fede veniva sentita come incompatibile con la cultura greca. Di qui l’accusa ad O. di aver troppo concesso a Platone, di aver ecceduto nell’allegorizzazione del testo sacro, di aver professato dottrine pericolose (apocatastasi, preesistenza delle anime). Col tempo si allargarono consensi e dissensi, in un susseguirsi di polemiche in cui si radicalizzarono, ad opera di troppo entusiasti discepoli, vari esiti della speculazione origeniana. Di qui varie condanne, culminate in quella del Concilio Costantinopolitano del 553.

Anche se O. continuò ad essere letto e apprezzato soprattutto negli ambienti monastici d’Occidente, solo da pochi decenni è cominciata un’opera di valorizzazione e ricupero dell’autentico significato della sintesi origeniana, non tanto sul piano culturale, dove non era mai stato messo in dubbio, ma anche sul piano confessionale. Dal punto di vista che qui più immediatamente c’interessa va soprattutto rilevato che, al di là di consensi e dissensi, la C. scritturistica fu radicalmente modificata dall’opera di O. e trasferita dal piano dell’improvvisazione, anche geniale, a quello dello studio sistematico e ben fondato anche sul piano filologico, rappresentando così una conquista perenne della C. cristiana.

Bibliografia

H.​​ Crouzel,​​ Bihliographie​​ critique​​ d'Origène,​​ Steenbrugge, 1971 (supplemento 1982); P. Nantin,​​ Origene. Sa vie et​​ son​​ oeuvre,​​ Paris, 1977; M. Simonetti,​​ Origene catecheta,​​ in S. Felici (ed.).​​ Valori attuali della catechesi patristica,​​ Roma, LAS, 1979, 93-102.

Mario Simonetti

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ORIGENE​​ 

(c. 185-253)

 

Calogero Riggi

 

1. Vita di Origene

2. Opere di Origene

3. Lo stile pastorale secondo Origene

 

1.​​ Vita di origene

La biografia di O. ci è nota in gran parte per via del sesto libro della​​ Storia Ecclesiastica​​ di Eusebio e del​​ Discorso di ringraziamento​​ di Gregorio il Taumaturgo. Sono notizie fondamentalmente vere, ma da prendere con giusto beneficio d’inventario poiché, come è noto, il genere letterario antico consentiva di rappresentare il personaggio nel suo stato di compiutezza secondo gli schemi della paideia filosofica o retorica, indulgendo alla ricerca psicologica con ottica talora deformante alla luce di precomprensioni etico-religiose e dogmatico-polemiche. A maggior ragione non bisogna prestar fede alle notizie di quegli autori che combatterono l’origenismo tra il III e IV secolo, cui si oppossero​​ l’Apologià di Origene​​ scritta da Panfilo e gli interventi di Giovanni di Gerusalemme, ecc. Eppure lo storico moderno, non più ispirato ai canoni della biografia alessandrina o peripatetica ma a quelli fondati​​ sine ira et studio​​ sui documenti, non può fare a meno di ricorrere anche alle fonti antiorigeniste.

Capitò talora, come scrive Fozio​​ (Bibl. Cod. 117),​​ che chi fanaticamente si fosse messo a farne l’apologià ne facesse l’accusa​​ (sunegoria tés kategori'as);​​ ma avvenne pure, come riscontriamo in Epifanio​​ (Haer.​​ 64), che chi si fosse schierato più apertamente contro il sommo teologo in fondo poi facesse il miglior panegirico della sua santità, ammettendone l’impegno per la missione al servizio del regno di Dio; la diaconia per l’educazione dei pagani, dei catecumeni e dei fedeli, alla verità liberatrice; lo spirito di unità con la gerarchia nella comunione con i fratelli; la medesima testimonianza della Parola nella catechesi evangelizzatrice e nella predicazione liturgica, coronata dal martirio del sangue e da quello della coscienza; la dottrina mistica dei segni sacramentali, della pietà ecclesiale e dell’unione con Dio nella preghiera pura. Epifanio non nasconde la sua venerazione per questo stupendo asceta e testimone dai santi costumi, di zelo catechetico-culturale eminente per la ricostruzione dei sacri testi, di una castità selvaggia dello spirito e del corpo (che evirò letteralmente per il regno dei cieli). Fozio, pur biasimandone le dottrine come opinioni odiose dinanzi a Dio (theostugà dógmata),​​ ne esalta lo zelo per il martirio, che lo indusse a scrivere «a suo padre Leonida per incoraggiarlo alla prova della testimonianza durante le persecuzioni sotto Severo», e che lo rese promotore di tale testimonianza presso chi lo conobbe «ai tempi di Decio, a Cesarea, pervenuto forse alla gloria del martirio» (Cod​​ 117.118).

Secondo Fozio, fu soprannominato Adamanzio, uomo d’acciaio, perché avendo studiato e insegnato in ogni branca del sapere, «era capace di stringere con i suoi argomenti come con vincoli d’acciaio» (Cod​​ 118). Secondo Eusebio, fu il padre ad esercitarlo a ragionare e a convincere con gli strumenti della paideia profana e biblica; e il fanciullo, ben lungi dal mostrar ripugnanza per il travaglio mentale, doveva essere frenato nell’approfondimento di cui era insaziabilmente bramoso​​ (àgan prothumótata: HE 2,7-11). Leonida era felice di tali prodigi che compiva in lui il Signore: «Durante il sonno spesso andava da lui, gli scopriva il petto e lo baciava religiosamente (sebasmios),​​ come se di quel cuore lo Spirito Santo avesse fatto il suo santuario» (HE 2,11).

Era nato verso il 185, ai tempi dell’imperatore Commodo (180-192); visse la sua fanciullezza e adolescenza precoce sotto Settimio Severo (193-211); superando i normali livelli della maturità fisica, ebbe funzioni e mediazioni ecclesiali ai tempi di Caracalla (211217), di Eliogabalo (218-222), di Alessandro Severo (222-235), di Pupieno e dei Gordiani (238-244), di Filippo l’Arabo (244-249); terminò la sua vita di testimonianza al tempo di Decio (250-253: Decio morì lo stesso anno in cui morì Origene). Sessantasei anni di vita, che corrispondono a un periodo travagliato di storia politica, letteraria e anche filosofico-teologica. È infatti il secolo che vide il passaggio dalla cosiddetta monarchia illuminata degli Antonini alla dominazione assoluta di Diocleziano, che ebbe i suoi riflessi nella struttura ecclesiale; è pure il tempo in cui la Seconda Sofistica e il Novellismo fanno ricercare la tradizione classica come denominatore comune della nuova cultura generazionale; è soprattutto il periodo sincretistico per antonomasia delle dottrine che sfociano nel neoplatonismo, e delle religioni che si confrontano nei culti misterici dei mitrei pagani e nei didascalei teologici, ortodossi ed eterodossi. Origene supera i momenti della crisi tra il vecchio e il nuovo, e apre il periodo della lisi senza peraltro raggiungere la sintesi.

Narra Eusebio che quando Settimio Severo scatenò anche in Egitto la persecuzione, e Clemente Alessandrino fu costretto a fuggire, Origene invece fu preso dall’amore del martirio, sicché la madre ne dovette frenare lo slancio, fino al punto di nascondergli i vestiti per impedirgli di accorrere là dove venivano martirizzati, con la vergine Potamiena, il suo discepolo Basilide e suo padre Leonida. Tutta la sua vita d’allora in poi non fu che un anelito alla testimonianza del sangue. Morto il padre Leonida nel 202, accettò con gioia anche la confisca dei beni da parte degli agenti del fisco, andò incontro al bisogno di provvedere alla madre e ai fratelli più piccoli: «Messosi più di prima con impegno nella via degli studi, potè presto esercitare la professione di grammatico per sostentare la sua famiglia» (HE 2,15).

Trovò una benefattrice, che lo mise in contatto con un noto esponente dell’eresia di nome Paolo, ma egli, fedele alla regola della chiesa, non consentì di unirsi a lui nella preghiera, iniziando allora il suo itinerario di controversista fedele alla disciplina ecclesiale. Mentre era occupato nell’insegnamento, poiché vennero a mancare i catechisti «allontanati dalla minaccia della persecuzione», si offrì da laico impegnato, all’età di diciotto anni, per la «scuola di catechesi ad Alessandria»; e a lui tanti accorrevano, anche i pagani. Poi, quando il vescovo Demetrio che lo aveva fatto solo responsabile del​​ didaskaleton​​ giudicò incompatibile l’insegnamento profano con quello sacro, smise senz’altro la professione del grammatico per la diaconia della catechesi, cedendo persino «le opere antiche che aveva, benché mirabilmente copiate»​​ (HE, 3,1-8).​​ Da quel momento fu un laico impegnato nella proclamazione della Parola e nell’evangelizzazione per via dell’insegnamento catechetico.

La predicazione era già monopolio dei sacerdoti, almeno ad Alessandria; ma benché non fosse insignito del sacerdozio, i vescovi di Cesarea, di Gerusalemme e di altre città palestinesi lo invitarono a predicare alle loro comunità. Fu allora che il vescovo di Alessandria, Demetrio, deplorando il fatto, gli ordinò di tornare in sede: erano i tempi di Caracalla, che aveva chiuse le scuole e perseguitato i maestri di Alessandria. Origene tornò allora all’insegnamento catechetico, che si protrasse fino al 231, cioè fino ai tempi di Eliogabalo e di Alessandro Severo, il primo sacerdote del Sole che ammise nel senato Giulia Domna​​ mater castrorum,​​ il secondo manovrato da Giulia Mamea e da Giulia Mesa nella sua opera di riforma tollerante verso i cristiani.

Direttore della scuola catechetica di Alessandria, a un certo punto affidò ad Eracla le materie preparatorie, e si riservò la formazione superiore, trovando il tempo per seguire le lezioni di Ammonio Sacca e di viaggiare per apprendere: a Roma, in Arabia, ad Antiochia, a Cesarea, in Grecia. Secondo Eusebio, i suoi successi destarono nel suo vescovo «sentimenti troppo umani» (HE 6,6,4); ma egli continuò a evangelizzare. Quando Mamea gli mandò delle guardie del corpo per invitarlo, egli «dimorò per qualche tempo ad Antiochia, per illuminarla sulla gloria del Salvatore e sulla potenza della dottrina divina» (HE, 21,3). A Cesarea, infine, i vescovi Alessandro e Teoctisto lo ordinarono sacerdote. Demetrio lo depose dal sacerdozio in un sinodo nel 231. E Origene allora fondò una nuova scuola a Cesarea. Ne conosciamo i contenuti pedagogici e culturali dal​​ Discorso d’addio​​ di Gregorio il Taumaturgo: era una scuola evangelizzatrice propedeutica al cristianesimo, che invogliava alla metafisica per via del discernimento personale dell’educando, attraverso i contenuti della​​ egkuklios paideia,​​ con la pedagogia della ragione e dell’amore; secondo il Taumaturgo, Origene faceva leggere agli allievi tutti gli scritti degli antichi filosofi, fatta eccezione solo per quelli degli atei. Lì continuava ad essere consultato, e soprattutto predicava, sapendo unire all’abilità di adattarsi a tutti i fedeli un pluralismo ideologico liberante e umanizzante, secondo la regola della fede in dialogo sincero e convincente. Quando però scoppiò la persecuzione di Massimino Trace (235-238), intervenne per esortare al martirio il presbitero Prottetto e l’amico suo, il mecenate dotto Ambrogio, che aveva convertito dalla gnosi valentiniana.

Quando infine, dopo la pace della chiesa sotto Filippo l’Arabo (244-249), Decio ordinò a tutti i cittadini di partecipare ai sacrifizi pagani e di offrire l’incenso facendosi rilasciare un certificato, anch’egli subì il martirio; ma il giudice... si preoccupò di non togliergli la vita (Eusebio, HE 6,39,5). A causa delle torture subite, morì poco dopo a Tiro nel 253, all’età di sessantasei anni.

 

2. Opere di origene

La maggior parte degli scritti del sommo alessandrino, forse l’autore più fecondo dell’antichità, è stata perduta per la​​ damnatio memoriae,​​ perché sospettata di eresia e riprovata dai detrattori, esasperata dai suoi seguaci. Le critiche, già cominciate lui vivente, furono riprese tra la fine del III secolo e l’inizio del IV (Metodio, Pietro di Alessandria, Eustazio di Antiochia) e specie durante le lotte tra coloro che in nome suo combattevano l’antropomorfismo e lo spiritualismo alla fine del IV (Girolamo, Epifanio e Teofilo). Si parlò di una sua apostasia materiale, in quanto avrebbe preferito sacrificare agli idoli piuttosto che assoggettarsi ad atti di libidine, oltre che di un suo rifiuto di esercitare la diaconia della predicazione per obbedienza ai ministri della chiesa ufficiale (CGS 31,404409). Ma egli di fatto fu sempre il catecheta ed esegeta stimato da eretici e da pagani, che convertì o conquistò alla fede ortodossa. I malintesi crebbero nel V e VI secolo tra i monaci palestinesi; sicché Giustiniano, imperatore-teologo, Io condannò nel 543; e il concilio ecumenico V (Costantinopolitano li) ratificò la condanna nel 553, benché i Padri conciliari intendessero condannarne probabilmente solo gli errori pullulati dalle incomprensioni delle sue ipotesi teologiche. Lo stesso Epifanio lodò il suo intento e comportamento kerigmatico, che pur non comprese; nell’interpretare quindi le opere genialmente ispirate alla parresia evangelica, egli ne fraintese lo spirito, limitandosi a lodare il frutto di tante veglie e fatiche, la ricostruzione filologica della Bibbia. L’Esapla​​ era disposta in sei colonne: il testo ebraico in caratteri ebraici, greci, nelle traduzioni greche di Aquila, di Simmaco, dei Settanta, di Teodozione. Ne fece l’esegesi in​​ scoli​​ (=​​ excerpta), omilie​​ (=​​ tractatus),​​ commentari ( = volumina).​​ Ci restano: 20 omelie su Geremia e una su Samuele, in greco; 16 sulla Genesi, 13 sull’Esodo, 16 sul Levitico, 28 sui Numeri, 26 su Giosuè, 9 sui Giudici, 1 su Samuele, 9 sui Salmi, nella traduzione di Rufino; 2 sul Cantico, 9 su Isaia, 14 su Ezechiele, 39 su Luca, nella traduzione di Girolamo; parti dei commentari al Cantico, a Matteo, a Giovanni, alla Lettera ai Romani, nell’originale o in traduzioni che servono a integrare il greco perduto.

Oltre che filologo della bibbia, egli fu il primo teologo sistematore. Nel​​ Perì archón, 4​​ libri pervenutici nella traduzione di Rufino, espose le sue teorie su Dio e sul mondo, sulla libertà e sulla rivelazione.

Questi punti fondamentali del kerigma furono da lui approfonditi secondo la fede in Cristo-Verità, ma anche secondo prospettive opinabili e nei termini filosofici del III secolo:​​ en gymnasia,​​ cioè a mo’ di una filosofica ricerca che non pretendeva proclamare​​ dogmatikós​​ le ipotesi esegetiche possibili. Di qui la reazione dei contemporanei e dei posteri, che non seppero comprendere le sue suggestioni: sulla distinzione delle Persone Trinitarie (antimodaliste e antimonarchiane, antiantropomorfitiche e antifatalistiche); sulla distinzione delle creature angeliche o umane per via di una​​ materia quantitate signata,​​ solo per libera scelta caricatesi del peso corporeo; sulla distinzione dell’uomo in carne e spirito, dell’anima duplice nel dinamismo sinergico per natura e grazia ( =​​ nous​​ e​​ pnelima)',​​ sulla distinzione in Dio di giustizia e di misericordia nei rapporti con le anime, preesistenti nell’eterno progetto e chiamate tutte a restaurare l’originaria purezza.

Altre opere teologiche sono​​ La disputa con Eraclide,​​ ritrovata nel 1941 tra i papiri di Tura;​​ Sulla risurrezione,​​ di cui abbiamo solo dei frammenti; gli​​ Stromati,​​ scritto del tutto scomparso;​​ Sulla preghiera,​​ trattato che studia la preghiera in generale (c. 3-17) e il Padre nostro in particolare (c. 18-30), nonché i valori sacramentali dell’orazione celebrata col corpo e con l’anima, per opera dell’intercessione del Cristo presso il Padre, solo degno di essere pregato secondo 1 Tm 2,1​​ (énteuxis =​​ intercessione);​​ Esortazione al martirio,​​ indirizzata ad Ambrogio e Protetteto, operatori della chiesa di Cesarea durante la persecuzione di Massimino Trace, entrambi illustri per la diaconia, sul punto di essere arrestati e processati per la loro predicazione del Vangelo.

Come presbitero e teologo si fece apologeta, e scrisse il trattato​​ Contro Celso​​ per confutare il​​ Discorso vero​​ di questo avversario del cristianesimo, che non ricorreva alle solite accuse popolari ma agli argomenti dei greci sprezzatori delle favole giudaiche e cristiane. L’Alessandrino segue punto per punto gli argomenti del trattato da confutare cosicché è possibile ricostruirlo quasi integralmente;

condivide dei greci l’anelito per l’ordine, la ricerca della verità; accetta alcune loro fondamentali teorie filosofiche e strutture culturali, particolarmente il cosmopolitismo che si poteva considerare precursore dell’universalismo cristiano. Con i greci egli crede che gli astri sono esseri viventi illuminati dalla luce intellettuale (5,10), che lo Spirito è fuoco di vita e di intelligenza partecipantesi. Fa sua la dottrina platonica affermatasi con quella stoica (6,70) dell’autorità politica e sociale, unicamente fondata su quella divina cui si deve sottomissione (8,65). L’apologià del cristianesimo è intesa da lui come dialogo con i non credenti nella verità e nella carità. Molti errori contestatigli riflettono il suo sforzo di adattamento alla dottrina platonica del mondo intelligibile, a quella stoica delle ragioni seminali, al realismo aristotelico che convergeva nel medio-platonismo.

L’apologià spesso è rivolta contro il giudaismo, restio alla purificazione evangelica delle figure messianiche e ad accogliere lo Spirito di Cristo che infine farà del popolo della promessa l’Israele spirituale​​ (Homil. in Num.​​ 15). È illuminante il trattato recentemente rinvenuto a Tura su​​ La Pasqua​​ (testo critico 1984). Alla fine della lista geronimiana delle opere vi sono le​​ Lettere.​​ Ci sono pervenute intere quella indirizzata a Gregorio Taumaturgo e quella inviata a Giulio Africano. La​​ Filocalia,​​ che contiene la prima al c. 13, sintetizza il pensiero apologetico dell’Alessandrino circa la filosofia pagana da cui possiamo trarre quanto può essere utile come protrettico alla fede, secondo la tradizione veterotestamentaria che si espresse utilizzando le ricchezze d’Egitto per adattarle al culto divino. Maria, sorella di Mosè, secondo​​ l’Homil. in Num.​​ 6, è una figura del popolo giudaico lebbroso finché non sarà risanato dal Cristo, della sinagoga indegna finché non comprenderà cosa siano la circoncisione del cuore, gli azzimi della verità e della sincerità, il riscatto dal peccato e dalle prescrizioni materiali, la chiesa libera di sposare la cultura greca ovvero laica come Mosè, che si unì all’Etiope «facendo uscire Maria dal campo e dalla Tenda della Testimonianza».

 

3. Lo stile pastorale secondo origene

La figura poliedrica di Origene è stata studiata da diverse angolature: come filosofo religioso dall’Ellade sviato in terra barbarica (Porfirio), maestro impareggiabile di teologia (Panfilo), modello da imitare e talora pericolo da fuggire (Girolamo), ideale umano del mistico cristiano (Vòlker), dottore di spiritualità (Pourrat), fonte della duplice corrente ascetica bizantina e occidentale (Viller), pioniere della dottrina dei gradi nella conoscenza religiosa (Lebreton), moralista di tendenza mistica (Bardy), intellettualista religioso (de Faye), teologo dell’intelligenza (Cadiou), mistico del Logos (Balthasar e Lieske), esegeta del Verbo abbreviato nella Scrittura (de Lubac), esegeta della funzione rivelatrice del Verbo incarnato (Harl), esegeta del Dio rivelantesi al cuore dell’uomo totale (Crouzel), ecc. Cristo e il suo Spirito, vivificante e illuminante la Chiesa, furono i suoi punti di continuo riferimento, secondo la memoria costante della tradizione apostolica aperta alla profezia e alle realtà sempre nuove del tempo mutevole. Promosse su tale base la maturazione del senso ecclesiale, nello spirito dell’efficienza nella carità sentendosi mobilitato come laico e come presbitero per la valorizzazione di tutti i carismi ecclesiali comuni ai semplici e ai perfetti, fraternamente in osmosi nella​​ koinonia​​ e nella​​ diakonia​​ per il trionfo del Verbo, immerso eppure distaccato dal cosmo.

Sentì come sua missione l’interpretazione del Logos abbreviato in tutto il creato e nella Scrittura ispirata, in ogni forma di catechesi che convoca la chiesa e la realizza nel mondo, nell’omelia pastorale stimolatrice alla testimonianza delle verità essenziali che fa sentire la freschezza del vangelo liberante. Propose il cammino dell’esodo, lanciando il popolo di Dio verso le ascensioni a livello personale e sociale; restio a combattere gli avversari della regola di fede eppure impegnato a smascherare l’errore deviante dalla verità rivelata, interpretò con discernimento e con libertà la parola di Dio. Per lui il vero pastore è il Cristo, guida di ogni anima già nell’AT e pedagogo amoroso anche dei meno dotati o impegnati nel NT. I pastori della chiesa ne sono vicari, attenti al profitto delle pecorelle del gregge di Cristo.

Del suo metodo pastorale abbiamo notizia nel​​ Discorso d’addio​​ del Taumaturgo. Questi lo ricorda come modello spirituale da imitare secondo i dati della teodicea e della teologia, maestro che avvalorava la teoria con la testimonianza, esegeta del Verbo che comandò di spogliare gli Egiziani del materiale adatto ad apprestare gli arredi per il culto divino, predicatore della ricerca fondata sui sacri testi e di un impegno creativo in sinergismo orante. Metteva alle strette con la forza delle discipline ausiliarie della teologia per far trionfare le ragioni del​​ noùs,​​ e nel medesimo tempo pregava perché ottenessero da Dio luce per l’intelligenza e fuoco d’amore capace di vincere ogni resistenza. Considerò inscindibili i due momenti della​​ theoria​​ e della​​ pràxis,​​ del​​ lògos​​ e dellaphili'a​​ per via della pietà che sorregge la natura del​​ noùs​​ con la grazia dello​​ pneuma.​​ Da parte sua prevedeva i pericoli e provvedeva ad evitarli, imponendosi soltanto con il fascino dell’amorevolezza, facendosi discepolo con i discepoli dell’unico Pastore e Maestro, angelo con gli angeli custodi di ognuno, instancabili nel prevedere e nel provvedere.

Pastore per Origene è non il custode platonico reggitore politico ma l’amico e vicario del Verbo, capace di aiutare a far progredire l’immagine fino alla somiglianza: «La sua parola ci aveva trafitti a guisa d’un dardo, fin dal primo momento operava con soave grazia mista a persuasione, in tal senso quasi con forza di costrizione» (77). Rendeva partecipi «del Maestro di pietà, del Verbo salvatore», innamorando tutti di lui (81). Seminava a piene mani i semi della verità, e li innaffiava insegnando a non limitare l’indagine alla superficie (102), disciplinando gli affetti per via di una sempre maggiore presa di coscienza (117-118).

Fu così​​ uomo di chiesa,​​ prima ai tempi del​​ didaskaleìon​​ da laico o da predicatore della parola, poi a Cesarea nelle omelie che fece instancabilmente soprattutto da presbitero. Ai discepoli proponeva gradatamente le sue ipotesi teologiche; agli ascoltatori delle omelie si adattava, preoccupato di non imbarazzarli con questioni metafisiche, desideroso di sollecitarne soltanto la preghiera e la contemplazione nell’ascolto e nella meditazione, di essere nell’esegesi intermediario del Cristo: uno e molteplice, carne e spirito, anima e mente.

Si elevò sopra gli altri per questo discernimento spirituale, che mancò ai suoi sostenitori oltranzisti, causa delle condanne seriori. Pastore e mistico, non parlò mai di sé, in umiltà e in unione con lo Sposo Divino.

Non identificandosi (come i montanisti o i messaliani) al Cristo ma facendosene generatore, volle operare come la luna che trasmette i raggi solari, cosciente della relatività dell’umano insegnamento e dello spirituale progresso. Scrisse: «Vorrei essere un figlio della Chiesa, non essere conosciuto come l’iniziatore di una qualunque eresia, ma portare il nome di Cristo; desidero portarlo come benedizione sulla terra..., ho come missione l’annuncio della parola»​​ (In Lue. hom.​​ 16). È impossibile dire quanto egli abbia fecondato il pensiero cristiano, certo almeno quanto un Agostino o un Tommaso.

Il Concilio Vaticano II, rifacendosi ai grandi Padri della Chiesa (che dicendosene comunque continuatori o avversari, ne furono certo seguaci in esegesi biblica e teologia speculativa), è stato fermentato dalla parola di Origene: ogni volta, per esempio, che ha citato il passo d’un Ambrogio che lo conosceva e lo copiava originalmente, o d’un Epifanio che diceva di conoscerlo e lo combatteva copiandolo. Egli quindi continua a educare la chiesa: a sentirsi coinvolta nella situazione del mondo nell’ascolto dell’altro la cui anima partorisce parimenti ma diversamente il Cristo; a prendere coscienza dei valori dello spirito senza trascurare quelli del corpo santificato dal Cristo morto e risorto; a spiritualizzare infine questo nostro tempio del Signore perché riecheggi, sempre per via intermedia, la sua parola in relazione amorosa con lui e con i fratelli. La chiesa​​ casta meretrìx​​ è da lui sollecitata a purificarsi in tensione di epectasi verso il cielo e verso il mondo, superando le barriere tra cristiani e pagani, fedeli e infedeli, distinguendosi e non separandosi, come​​ universo nell’universo.

Questo messaggio soprattutto, ci sembra, può coinvolgere ancora nel mistero della parola il mondo, spingendolo a uscire dall’indifferenza e a entrare nella ricerca di Dio, e sollecitandolo con la voce del Vaticano II a una prassi pastorale capace di superare quella spesso esasperata da secoli in atteggiamenti illiberali.

 

Bibliografia

La bibliografia su Origene è immensa, cf. Crouzel H.,​​ Bibliographie critique d’Origène,​​ La Haye-Steenbrugge 1971. 1980. 1982. Di facile consultazione il testo edito da Ch. Delarue e pubblicato dal Migne, PC 11-17; più curata l’edizione di CGS in 12 volumi.

Di particolare utilità pastorale gli studi di Crouzel H.,​​ Théologie de l’image de Dieu chez Origene,​​ Aubier, Parigi 1951; Balthasar H. U. von,​​ Parole et mystère chez Origene,​​ Éd. du Cerf, Parigi 1957.

 

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