OBBEDIENZA

 

OBBEDIENZA

L’o. è accettazione di prescrizioni, è essenza di auto-realizzazione secondo bisogni di appartenenza, stima, auto-realizzazione (​​ Maslow).

1. La libertà del decidere d’accordo con​​ ​​ valori personali è centrale nell’educazione: il fine educativo non sarebbe tanto il dover obbedire, quanto l’imparare ad obbedire con personale responsabilità. L’intervento dell’autorità, in questa educazione, assume forme di relazione stimolante, offerte con prudenza, valutate in giustizia, applicate con moderazione, perseguite con perseveranza. L’educatore ha un’identità personale autentica ed un’identità sociale empatica (​​ Rogers, Curran). L’autorità educativa si esercita più con la propria eccellenza e competenza che con lo «status» professionale. La personalità dell’educatore garantisce l’auto-realizzazione nell’o. con una bontà ben disposta e una socievolezza stimolante (Remplein): allegria, buonumore, sicurezza, fiducia, empatia, comprensione. La​​ ​​ bontà è una condizione essenziale: per mezzo dell’amore, si passa dal dover obbedire al voler obbedire.

2. L’o. è disposizione attitudinale e risposta esistenziale all’ordine e all’autorità; matura con il volontario esercizio della​​ ​​ responsabilità. Si tratta d’un processo di allenamento per esperienze poggiate su verità riconosciute (​​ ragione) e convertite in spirito di amore gioioso (​​ amore). Il riferimento ad un Dio personale (​​ religione) mette in relazione religione ed etica, o. umana ed autorità divina, sempre in ordine al bene personale e sociale. Questi postulati richiamano la libertà e l’apertura dell’amore. In tale orizzonte di senso l’o. appare come promozione della fraternità universale in libertà ed uguaglianza. Questo tipo di o. è criterio valido dell’ordine sociale e si apre a progetti di solidarietà: in essi si esercita lo spirito dell’o. La volontà dell’ordine è fondamento dell’o.: dalla volontà dell’ordine personale in sé, alla volontà dell’ordine sociale. In tal senso essa rientra, ben motivata, nel contesto dell’educazione alla convivenza sociale, specie per ciò che attiene a comportamenti ed atteggiamenti di fronte alle leggi della società organizzata. Si tratta di una educazione difficile, perché l’o. è stata spesso invocata in relazione a comportamenti e atteggiamenti di passiva sottomissione a richieste od ordini ingiusti o perlomeno discutibili (obiezione di coscienza) e perché suppone il senso di appartenenza e quello di comunitarietà dell’esistere: atteggiamenti entrambi piuttosto difficili oggi a fronte del diffuso soggettivismo etico, individualismo sociale e tendenziale massificazione che caratterizza l’esistenza umana contemporanea.

Bibliografia

Curran Ch.,​​ Counseling in catholic life and education,​​ New York, Macmillan, 1952;​​ Remplein H.,​​ Psychologie der Persönlichkeit,​​ München, Reinhard,​​ 61967; Bachnaier H. K.,​​ L’o.,​​ fondamento dell’educazione,​​ Brescia, La Scuola, 1969;​​ Esteve Zugazaga J. M.,​​ Autoridad,​​ obediencia y educación,​​ Madrid, Narcea,​​ 1977; Marrocu G. (Ed.),​​ L’o.​​ e la disobbedienza nella Bibbia, L’Aquila, ISSRA, 1996; Gilardonti A.,​​ I meccanismi dell’o. e le tecniche della resistenza, Milano, Nimesis, 2005.

A. Sopeña

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OBBEDIENZA

OBBLIGO DISTRUZIONE

 

OBBLIGO D’ISTRUZIONE

Per o.d.i. si intende il dovere imposto per legge al cittadino di ricevere una formazione almeno sufficiente per inserirsi nella società o per continuare gli studi. Ad esso corrisponde il diritto del singolo all’istruzione e il diritto / dovere della società, da una parte, di esigere che il cittadino si istruisca e, dall’altra, di porre le condizioni affinché quest’ultimo possa a sua volta esercitare il suo diritto / dovere.

1.​​ Le tendenze generali.​​ Sull’introduzione dell’o.d.i. hanno influito​​ ragioni​​ di diversa natura. Anzitutto, vanno ricordati i motivi religiosi che risalgono al​​ ​​ Medioevo e che poi hanno trovato terreno fertile nella Riforma: si mirava, infatti, a favorire la partecipazione alla vita e alla cultura religiosa. Successivamente, l’​​ ​​ Illuminismo ha contribuito con la dottrina dei diritti naturali e in particolare di quello allo sviluppo integrale delle capacità ricevute dalla natura. I sovrani illuminati, i movimenti nazionali e recenti teorie economiche hanno messo in evidenza i benefici che una cittadinanza colta può fornire alla crescita del Paese. A loro volta, i sindacati e i partiti progressisti hanno insistito sulla promozione delle classi popolari anche attraverso l’istruzione. Nonostante ciò, l’introduzione dell’o. in Europa dovrà attendere la seconda metà del sec. XIX. Se veniamo ai nostri tempi, una prima tendenza consiste nel voler coniugare​​ contemporaneamente eguaglianza e diversità.​​ Il consenso generale sul principio che l’educazione è un diritto di tutti senza discriminazioni né per il singolo né per alcun gruppo, è accompagnato dalla crescente consapevolezza che esso non significa una formazione eguale per tutti riguardo alle strutture e ai contenuti. Inoltre, l’istruzione obbligatoria non può più essere concepita come una formazione sufficiente per tutta la vita, ma va pensata come una​​ preparazione iniziale​​ che si integra in un progetto di​​ ​​ educazione permanente. La politica di un progressivo allungamento dell’o. non ha mai incontrato opposizioni di principio nei Paesi dell’Unione Europea. In questi ultimi anni, si registra in proposito una tendenza interessante al​​ superamento del concetto stesso di o.d.i. e alla sua sostituzione con quello di diritto-dovere all’istruzione e alla formazione. Infatti, l’o.d.i., se dal punto di vista storico ha esercitato una funzione essenziale nel passaggio da una scuola per pochi a una per tutti, al presente sembra costituire piuttosto un impedimento alla piena realizzazione dei diritti di​​ ​​ cittadinanza. In una società complessa come l’attuale, la focalizzazione scolasticistica perde di senso perché ciò che conta è il risultato e la sua qualità e non i percorsi con cui si ottengono che possono essere i più vari. Inoltre, l’istruzione e la​​ ​​ formazione, prima che dei doveri, sono dei diritti della persona e vanno assicurati a tutti in modo pieno. Pertanto, le varie istituzioni che le garantiscono devono operare in​​ ​​ rete, in una prospettiva di​​ ​​ solidarietà cooperativa piuttosto che come alternative tra loro escludentisi.

2.​​ La situazione italiana.​​ In​​ ​​ Italia l’istruzione obbligatoria è stata introdotta dalla L. Casati (1859) per la durata di 2 anni ed elevata successivamente a 3 nel 1877, a 6 nel 1904 e a 8 nel 1923. La normativa è rimasta però ampiamente​​ disattesa​​ per molto tempo e soltanto negli anni ’70 ha trovato un’attuazione sostanziale. Anche se in un quadro di principi senz’altro più avanzato, la Costituzione repubblicana (1947) si è limitata a riaffermare all’art. 34 che l’istruzione inferiore è obbligatoria e gratuita per almeno 8 anni. Durante la decade successiva il dibattito si è concentrato sul significato dell’espressione «istruzione inferiore» se essa cioè volesse dire un’istruzione elementare in cui si fornivano i rudimenti del sapere – una interpretazione che implicava il mantenimento del doppio canale dell’avviamento e della media – oppure semplicemente un’istruzione che veniva prima. Alla fine è prevalsa la seconda interpretazione, giustificata anche da valide ragioni psico-pedagogiche e di giustizia sociale, ed è stata varata nel 1962 la scuola media unica, obbligatoria, orientativa e secondaria, benché di primo grado. Dalla fine degli anni ’70 esisteva anche un largo consenso sull’opportunità di prolungare l’o. da 8 a​​ 10 anni,​​ fino cioè ai 16 di età, per fornire a tutti i giovani una formazione in linea con gli altri Paesi dell’​​ ​​ Europa e corrispondente alle esigenze culturali e professionali sempre più elevate della società industriale. Nonostante ciò, l’elevazione è stata realizzata solo negli anni ’90. L’introduzione dell’o. formativo con la L. 144 / 1999, che sanciva l’o. di frequenza di attività formative fino al compimento del 18° anno di età da assolvere in percorsi anche integrati di istruzione e formazione nel sistema di istruzione scolastica, nel sistema della formazione professionale di competenza regionale o nell’esercizio dell’apprendistato, riconosceva la pari dignità a tutti gli itinerari formativi previsti dopo l’o.d.i. In altre parole, l’uscita dalla scuola per iscriversi alla formazione professionale non era più vista come un abbandono, ma come un completamento normale del proprio curricolo formativo in vista del conseguimento della qualifica. Ma la riforma Berlinguer (L. 30 / 2000) ha continuato a mantenere la formazione professionale in una posizione di fondamentale marginalità e di subalternità rispetto al percorso scolastico. Quasi contemporaneamente veniva innalzato l’o. scolastico di un anno con la L. 9 / 99, e in prospettiva di due anni con la L. 30 / 2000: questo ha fortemente penalizzato gli adolescenti, soprattutto i più svantaggiati e in difficoltà, per effetto sia dello spostamento della scelta dell’o. formativo al secondo anno della scuola secondaria superiore, sia soprattutto dell’imposizione dell’o. scolastico e di frequenza ad una scuola che li costringeva a un parcheggio di un anno nelle aule scolastiche. Al contrario, la riforma Moratti (L. 53 / 03) si è mossa nella linea della tendenza che è emersa recentemente in Europa al superamento del concetto stesso di o.d.i. ed ha assicurato a ognuno il​​ diritto all’istruzione e alla formazione,​​ per almeno 12 anni​​ o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica entro il diciottesimo anno di età. Da ultimo, il nuovo governo di centro-sinistra, pur deciso a mantenere come quadro generale di riferimento la riforma Moratti, e certamente con una intenzionalità positiva, ha innalzato di due anni l’o.d.i., cioè da 8 a 10 (cfr. comma 626 della L. 296 / 06), perché sarebbero necessari per rafforzare ed elevare le competenze di base e per effettuare le scelte di indirizzo e di percorso con una maggiore consapevolezza. Per le ragioni esposte sopra questo provvedimento mi sembra che costituisca un arretramento.

Bibliografia

Rapporto del Gruppo Ristretto di Lavoro costituito con D. M. n. 672 del 18 luglio 2001, in «Annali dell’Istruzione» 47 (2001) 1 / 2, 3-176; Malizia G., «La legge 53 / 2003 nel quadro della storia della riforma scolastica in Italia», in R. Franchini - R. Cerri (Edd.),​​ Per​​ una istruzione e formazione professionale di eccellenza, Milano, Angeli, 2005, 42-63;​​ Audizione del Ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni. VII Commissione Cultura,​​ Scienza e Istruzione​​ (29 giugno 2006), Roma, 2006; Nicoli D.,​​ Diritto-dovere di istruzione e formazione o o. scolastico, in «Presenza CONFAP» (2006) 1-2, 53-59.

G. Malizia

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OBBLIGO DISTRUZIONE

OBERLIN Jean-Frédéric

 

OBERLIN Jean-Frédéric

n. a Strasburgo nel 1740 - m. a Waldersbach nel 1826, pastore evangelico e educatore francese.

1. Nasce in una famiglia numerosa. Il padre, professore di ginnasio, inculca nei figli «abiti di ordine, di economia e di generosità verso i poveri». Compiuti gli studi umanistici e teologici, O. esercita l’ufficio di precettore. Nel 1767 è nominato pastore di Ban de la Roche, località montuosa, tra l’Alsazia e la Lorena. La popolazione, costituita da rudi contadini, era per la maggior parte analfabeta, sfruttata dai proprietari terrieri. Convinto dell’efficacia dell’istruzione per migliorare tale situazione, O. fornisce di scuola i villaggi che comprende la parrocchia. Sulla sua esperienza si conserva solo un regolamento inedito:​​ Règlement de police et de discipline pour les écoles​​ (1778).

2. L’organizzazione scolastica delineata riflette il modello militare a cui O., adolescente, si era interessato. Gli alunni più grandi partecipano alla responsabilità della vita della scuola mediante l’esercizio di diverse cariche (le guardie, i comandanti di un plotone, il giurato, l’anziano). L’aspetto più noto e originale dell’opera sociale e educativa di O. è quello di aver avviato una «sorta di scuola materna» per i figli dei contadini. I bambini vengono raccolti in sale chiamate​​ asiles,​​ dove le «conduttrici dell’infanzia» li lasciano giocare liberamente (a contatto con la natura, coltivando aiole e giardini) e insegnano loro «alcune regole di pulizia, l’orrore alla menzogna, il rispetto verso i poveri», mediante il racconto di storie edificanti e attraverso l’esempio. Nella proposta si racchiudono elementi significativi della​​ ​​ scuola dell’infanzia.

Bibliografia

Stucki​​ A.,​​ J.F.O.,​​ Basilée, [s.e.],1945; Missinne L. E.,​​ J.F.O. (1740-1826):​​ un précurseur de la planification de l’enseignement,​​ in «Revue de Psychologie et de Pédagogie»​​ 29 (1967) 117, 29-32; Prellezo J. M. - R. Lanfranchi,​​ Educazione e pedagogia nei solchi della storia, vol. 3, Torino, SEI, 2004, 55-58.

J. M. Prellezo

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OBERLIN Jean-Frédéric

OBIETTIVI

 

OBIETTIVI

L’azione cat. e pastorale, come ogni azione umana, è diretta a uno o più fini. Studiare i fini generali della C. e della pastorale è compito della riflessione teoretica. Tuttavia un’azione educativa sistematica ha bisogno di un riferimento più vicino alla situazione contestuale e alle condizioni di crescita personale dei vari soggetti interessati. Per questo si parla di O.

In senso generico un O. indica una meta o riferimento intenzionale posto in maniera esplicita a un percorso o a un progetto. Non basta quindi un intento implicito, sempre presente nell’azione umana (“homo agii propter finem”), occorre che esso assuma forma riflessa e comunicabile, anche se, forse, mai comunicata. In senso più tecnico (o tecnologico) la definizione può suonare in questo modo: intento espresso in modo chiaro e non ambiguo, rispetto al quale è possibile decidere se un percorso o un processo è giunto al termine o è valido per giungervi. Nel campo cat. e pastorale tale definizione va riferita al campo di intervento: intento definito ed espresso in modo chiaro e non ambiguo da una comunità educativa e/o ecclesiale come riferimento esplicito per la progettazione, la conduzione e la verifica di un itinerario formativo.

È inerente quindi a questa definizione il processo decisionale attraverso il quale la comunità giunge alla determinazione e alla formulazione delle mete da porre a fondamento dell’azione educativa volta a favore di un gruppo di giovani preciso. Tale processo si svolge tra due poli di riferimento fondamentali: le finalità generali della C. e della pastorale e i bisogni di educazione dei giovani. Le prime vanno lette e interpretate contestualizzandole alla cultura e alla condizione giovanile dell’ambiente in cui si opera, i secondi vanno rilevati nella maniera la più possibile fedele e rispondente al tipo di intervento prefigurato e quindi interpretati alla luce dei valori e delle finalità generali contestualizzati. Si tratta di realizzare una vera e propria mediazione operativa tra un quadro ideale e una situazione reale, tra un dover essere e un dato di fatto. Questo lavoro consente anche di assegnare priorità tra i vari obiettivi. Da una parte infatti sono considerati i valori e le finalità educative secondo un ordine di importanza dettato da considerazioni generali, dall’altra viene studiata la distanza o discrepanza esistente tra la loro presenza ideale nei giovani e la loro attuale presenza. Questo lavoro consentirà alla comunità la scelta e l’organizzazione degli O. concreti.

La definizione degli O. cat. o pastorali da parte della comunità educativa ecclesiale è un’impresa che porta in sé qualche difficoltà e può risultare causa di tensioni. In essa infatti si possono mettere a nudo differenze anche notevoli, se non insanabili, di concezioni dell’uomo, della società e della Chiesa, di senso e prospettiva dell’azione cat. e pastorale, di comprensione dei problemi dei giovani e di disponibilità a rispondere ad essi in maniera seria e aggiornata, ecc. Questo lavoro implica da una parte competenze specifiche nella raccolta delle informazioni, nella loro interpretazione, nella loro integrazione e sintesi operativa, ma anche l’accettazione inequivocabile della partecipazione, della corresponsabilità e della pluralità delle competenze. Un progetto è una risposta propositiva che indica un cammino orientato a mete condivisibili e comprensibili.

D’altra parte perché una volta giunti, anche se faticosamente, a un’intesa sugli O., questi possano essere veramente il polo di riferimento di cui si è detto, occorre che siano formulati in modo opportuno. Questo implica il passaggio da un’espressione orale a una espressione scritta e quindi a un’accentuazione della componente analitica e discorsiva rispetto a quella globale e operativa. L’esigenza di mettere per iscritto gli intenti del nostro lavoro aiuta però anche a capire meglio quanto è stato oggetto di negoziazioni nel dialogo vivo. Ma negoziare con un testo è diverso dal discutere con persone. Il pericolo è che le esigenze di una corretta e valida formulazione scritta tendano a occupare talmente il tempo e le energie da creare quasi un’ondata di rigetto nei riguardi di questo compito, rendendo vana gran parte della fatica precedente.

Bibliografia

E. De Corte et al.,​​ Les fondamente de l’action​​ didactique,​​ Bruxelles, De Boeck, 1979; V. e G. De Landsheere,​​ Definire gli obiettivi dell'educazione,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1977; R. M. Gagné – L. J. Briggs,​​ Principies​​ of Instructional Design,​​ New York, Holt Rinehart & Winston, 1979; M.​​ Pellerey,​​ Progettazione didattica,​​ Torino, SEI, 1979.

Michele Pellerey

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OBIETTIVI

Intenti educativi, formativi o didattici che la​​ ​​ comunità educativa o formativa, o anche il singolo insegnante, elabora in modo chiaro e non ambiguo come riferimento esplicito per la​​ ​​ progettazione, conduzione e​​ ​​ valutazione della propria​​ ​​ azione educativa e didattica. Si distingue spesso in base al carattere di generalità e astrattezza che assume l’espressione di tali intenti tra finalità, propositi, mete e o.

1.​​ Finalità istituzionali e o. educativi e didattici.​​ L’azione educativa che si svolge nella scuola, come ogni azione umana, è orientata verso dei fini. Discutere dei​​ ​​ fini dell’azione educativa scolastica è compito delle teorie dell’​​ ​​ educazione e della scuola. Più specifico e immediato, invece, è il discorso relativo alle finalità istituzionali della scuola, finalità proprie dell’istituzione in cui si opera e che quindi superano la competenza del singolo insegnante, come della stessa scuola. Il processo educativo scolastico è, infatti, un processo intenzionale e l’istituzione scolastica è al servizio della comunità nazionale e locale. La fonte di tali finalità sta nelle leggi e nei decreti che hanno dato origine e caratterizzazione ai vari ordini e gradi scolastici e nei programmi di studio in vigore.

2.​​ O. educativi e didattici e comunità educativa.​​ È inerente alla definizione di o. il processo decisionale attraverso il quale la comunità educativa locale giunge alla determinazione e alla formulazione non solo delle mete da porre a fondamento dell’azione educativa e didattica a favore di un gruppo di giovani preciso, ma​​ anche dei modi di verifica del loro raggiungimento. Tale processo si svolge tra due poli di riferimento fondamentali: le finalità istituzionali e i bisogni di educazione dei giovani. Le prime vanno lette e interpretate contestualizzandole alla cultura e alla condizione giovanile dell’ambiente in cui si opera; i secondi vanno rilevati nella maniera più fedele possibile e rispondente al tipo di intervento prefigurato e quindi interpretati alla luce dei valori e delle finalità istituzionali contestualizzate. Si tratta di realizzare una vera e propria mediazione operativa tra un quadro ideale e una situazione reale, tra un dover essere e dati di fatto. Questo lavoro consente anche di assegnare priorità tra i vari o. Da una parte infatti sono considerati i valori e le finalità educative secondo un ordine di importanza dettato da considerazioni generali, dall’altro viene studiata la distanza o discrepanza esistente tra la loro presenza ideale nei giovani e la loro attuale presenza. Questo lavoro consentirà alla comunità la scelta e l’organizzazione degli o. educativi.

3.​​ O. educativi e o. didattici.​​ La distinzione tra o. educativi e o. didattici può essere fatta derivare da tre elementi fondamentali (Pellerey, 1994): a) il contesto di riferimento, se cioè riguardano la crescita della persona considerata nella sua totalità (o. educativi) o se si riferiscono all’acquisizione di conoscenze, abilità e atteggiamenti connessi con una disciplina o un’area disciplinare particolare (o. didattici); b) l’estensione temporale a cui fanno appello, se cioè riguardano una formazione da raggiungere in un lasso di tempo considerevole, al limite nel corso di tutta la vita (o. educativi), oppure mirano al conseguimento di competenze in un tempo ragionevolmente breve (o. didattici); c) il grado di specificità, precisione e verificabilità (o. didattici), o se restano ad un livello di specificazione minore e di conseguenza la possibilità di verificarne il conseguimento è collegata a indizi e mediazioni (o. educativi). Recentemente Baldacci (2006) ha proposto di distinguere i due livelli, riferendo il primo ai singoli contenuti delle discipline di insegnamento, e attribuendo al secondo mete a più a lungo termine, tenendo conto dello sviluppo di competenze e di disposizioni stabili (abiti).

4.​​ Ruolo e funzione degli o.​​ Il ruolo e la funzione degli o. possono essere riassunti sotto quattro titoli. Il primo concerne la necessità di convergenza delle iniziative educative delle azioni e intenzioni dei singoli e dei gruppi particolari. Un secondo titolo riguarda la possibilità stessa di elaborare un itinerario educativo e una​​ ​​ programmazione dei tempi, delle persone, dei luoghi e delle risorse. Gli o. sono criteri di giudizio e di decisione nella predisposizione di percorsi educativi concreti. Senza di essi è ben difficile riuscire a trovare e a selezionare quanto è necessario, o anche solo utile, alla realizzazione dell’impresa educativa che la comunità vuole sviluppare. Il terzo titolo si riferisce alle questioni di comunicazione. Comunicazione tra gli educatori e le famiglie, tra le comunità educative e le altre comunità (civile, ecclesiastica...). I giovani da una parte debbono poter partecipare alla definizione degli o., a mano a mano che l’età e la maturazione personale li rendano capaci di giudizio e di discernimento (sarebbe ben strano che i primi interessati al processo formativo venissero esclusi da questo momento decisionale), dall’altra debbono essere informati sia all’inizio sia costantemente circa gli intenti che guidano l’azione e l’impegno educativo dell’istituzione. Il quarto titolo è connesso con i primi. Gli o. educativi sono il concreto orizzonte di valori entro il quale la comunità educativa cammina. Costantemente quindi ci si dovrà confrontare con essi per verificare se le iniziative, il clima, i rapporti, le scelte, i risultati, sono con essi coerenti o se invece se ne discostano più o meno fortemente e per quali cause.

5.​​ La determinazione degli o. educativi.​​ La determinazione degli o. educativi impegna tutta la comunità educativa locale. Le strade che possono essere percorse sono sostanzialmente tre: una ascendente, che parte cioè dalla realtà della popolazione scolastica, l’altra discendente, che cerca di derivare le indicazioni da quadri di riferimento teorici più generali (di natura filosofica, psicologica, sociologica, ecc.); una terza che integra in maniera dinamica le prospettive dell’una e dell’altra. Quest’ultima via si basa sul concetto di bisogno educativo inteso come discrepanza, o distanza, esistente tra una situazione o stato educativo desiderato o «quale dovrebbe essere» e la situazione «quale essa è». Il primo riferimento è quindi messo in relazione con un giudizio di valore, il secondo con una rilevazione, quanto è possibile oggettiva e pertinente. La valutazione dei bisogni è in sintesi il processo che porta alla determinazione degli o. sulla base di assunzioni di ordine valoriale e di rilevazioni empiriche e che conduce alle decisioni relative all’ordine di precedenza degli interventi. Per la determinazione degli o. didattici è ormai consuetudine seguire l’impostazione suggerita da R. Tyler (1949), secondo il quale, se si vuole giungere a degli o. veramente utili nello scegliere le esperienze di apprendimento più opportune e nel pilotare l’insegnamento, non basta indicare quello che farà l’insegnante e nemmeno elencare gli argomenti o i contenuti dell’apprendimento; occorre, invece, tenere presente contemporaneamente sia la condotta da apprendere sia l’area nella quale essa deve essere esplicata. Dal momento che si tratta di due dimensioni strettamente intersecate tra di loro è naturale usare una matrice a doppia entrata dove in una dimensione sono elencate le capacità che l’allievo deve sviluppare e nell’altra sono enumerate le specificazioni contenutistiche in cui tali capacità devono essere sviluppate. Negli anni sessanta e settanta sono state elaborate molte indicazioni operative basate su questa impostazione. Tra queste si possono ricordare la varie tassonomie degli o. educativi, tra le quali le più diffuse furono quelle dovute a B.S. Bloom e collaboratori.

6.​​ Gli o. comportamentali e le critiche sviluppate nei loro riguardi.​​ Sono stati​​ definiti comportamentali quegli o. che rispondono alla definizione che ne ha data R. Mager (1972, 3): «intento comunicato da una definizione che descrive un cambiamento che ci si prefigge di realizzare in un allievo: definizione di come un allievo dovrebbe comportarsi quando ha completato con successo una esperienza di apprendimento. È la descrizione di un modello di comportamento che, a nostro avviso, l’allievo deve saper esibire». Numerose critiche sono state avanzate nei riguardi degli o. comportamentali. Si è ad es. affermato (Eisner, 1985) che solo in parte gli o. possono essere espressi in termini comportamentali. Questo è possibile quando si tratta di abilità abbastanza precise e facilmente osservabili, ma è oltremodo difficile farlo quando si tratta di processi cognitivi più generali e complessi, come la capacità di soluzione di problemi, o di attività di natura espressiva i cui risultati in termini di esperienze di apprendimento non possono essere predefiniti con chiarezza in quanto dipendono da molti fattori concorrenti.

7.​​ Critiche alla pedagogia per o.​​ L’impianto educativo poggiato sul principio di progettazione dell’azione didattica sulla base di o. predefiniti è stato spesso contestato. In primo luogo si mette in risalto la fondamentale e irripetibile caratterizzazione dei diversi soggetti educandi. Volerli tutti imbrigliare in un unico progetto e in un analogo percorso educativo significa da una parte misconoscere la realtà e la dignità delle singole persone, dall’altra esporsi a brucianti delusioni e fallimenti. In secondo luogo si constata che è difficile prevedere in anticipo tutti i bisogni e le possibilità educative che durante l’attività formativa emergeranno. Essere prigionieri di un progetto prefabbricato rende ciechi e sordi a nuove istanze, a occasioni inaspettate, a nuove presenze e a nuove prospettive. Le cose veramente importanti nel fatto educativo sono l’attività e l’esperienza che vengono proposte, che devono essere in sé cariche di potenzialità e di valori in molte direzioni. Ciascun giovane le vivrà secondo il suo animo e la sua motivazione, le farà fruttificare secondo i propri ritmi, il proprio stile, arricchendo se stesso secondo le proprie esigenze e prospettive (Stenhouse, 1977). In terzo luogo ci si espone a pericoli di formalismo tecnicista, di burocraticismo, di comportamentismo riduttivo (Damiano, 1991). A questa serie di obiezioni si risponde generalmente con una molteplicità di argomentazioni. Si afferma in primo luogo che il processo educativo promosso dalla scuola è un processo caratterizzato dall’intenzionalità e dalla sistematicità e quindi ha bisogno di riferimenti chiari per poter essere impostato, attuato e valutato. Occorre poi mettere in evidenza che non è possibile a una comunità di tale fatta agire senza elaborare una ipotesi educativa, che coinvolga sia nella sua definizione, che nella sua realizzazione tutte le componenti interessate. Infine occorre certamente evitare tecnicismi e riduzionismi pericolosi, ma 1’azione educativa esige per sua stessa natura un riferimento progettuale sia per quanto concerne la sua dimensione etico-sociale, sia per quanto riguarda la sua componente tecnico-pratica.

Bibliografia

Tyler R. W.,​​ Principles of curriculum and instruction,​​ Chicago, University of Chicago Press, 1949; Mager R.,​​ Gli o. didattici,​​ Teramo, Lisciani e Zampetti, 1972; Id.,​​ L’analisi degli o.,​​ Ibid., 1974; Stenhouse L.,​​ Dalla scuola del programma alla scuola del curricolo,​​ Roma, Armando, 1977; De Landsheere V. e G.,​​ Definire gli o. dell’educazione,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1977;​​ D’Hainaut L.,​​ Des fins aux objectifs de l’éducation,​​ Bruxelles, Labor, 1979; Hameline D.,​​ Les objectifs pédagogiques,​​ Paris, ESF,​​ 21979; Bloom B. S. (Ed.),​​ Tassonomia degli o. educativi:​​ Vol. 1:​​ Area cognitiva,​​ Teramo, Lisciani e Giunti, 1983; Bloom B. S. - D. R. Krathwohl - B. B. Masia,​​ Tassonomia degli o. educativi:​​ Vol. 2:​​ Area affettiva,​​ Ibid., 1984; Eisner E.,​​ The educational imagination: On the design and evaluation of educational programs,​​ New York, Macmillan,​​ 21985; Damiano E.,​​ La razionalità dell’insegnare. Per un bilancio della «Pedagogia per o.»,​​ in «Il Quadrante Scolastico» 14 (1991) 51, 10-42; Pellerey M.,​​ Progettazione didattica,​​ Torino, SEI,​​ 21994.

M. Pellerey

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OBIETTIVI

OCCASIONALE – Catechesi

 

OCCASIONALE (Catechesi)

Viene contrapposta alla C. organizzata e → sistematica, per indicare quella C. che viene fatta in opportune “occasioni”.

Va sotto questo nome la C. fatta in occasione di un battesimo, un funerale, un matrimonio, una festa o altra celebrazione particolare, a un pubblico che sovente è fatto di “lontani” che solo in quelle occasioni è dato di avvicinare. Una C. occasionale intensa può avvenire nell’ambiente della famiglia o della associazione, quando i genitori o gli educatori interpretano in senso religioso e cristiano le azioni quotidiane o le attività associative, spesso promosse anche per questo scopo.

Può essere definita come “quelle spiegazioni su un punto o l’altro dei misteri cristiani che gli adulti nella fede danno ai minori (o​​ rudes)​​ in occasione di una qualche esperienza religiosa o profana”. È di grandissimo valore educativo, poiché l’occasione è un momento nella vita del soggetto in cui egli si trova totalmente presente, impegnato, recettivo e attivo in alto grado. Vi sono due tipi di occasione cat.: quella in cui il soggetto stesso pone esplicitamente un problema religioso, e quella in cui l’aspetto religioso è virtuale e viene esplicitato dall’intervento dell’adulto. L’elemento specifico è la testimonianza dell’adulto, cioè il fatto che la sua parola non è solo spiegazione, ma anche presa di posizione, convinzione sicura, scelta e impegno pratico, se necessario.

Vi possono essere​​ occasioni maggiori,​​ che sono come un arresto della vita per approfondirla e poi riprendere in nuove direzioni, e​​ occasioni minori​​ che, senza arrestare la vita, si producono rapidamente, ma permettono di inserire nel profondo un seme. Esse possono essere provocate, frequenti, tempestive, opportune e convergenti verso una occasione maggiore, che sia coerente con esse. Per​​ es.,​​ un ritiro o un corso di esercizi spirituali non devono dimenticare la vita quotidiana, e questa deve fare appello alle esperienze religiose fatte in quelli e viverle nella realtà, richiamandole nelle varie occasioni. Così la vita di associazione è occasione quasi continua per rivivere e prolungare la C. nel quotidiano, soprattutto esercitando i giudizi pratici cristiani sui fatti del giorno.

Bibliografia

P. Braido (ed.),​​ Educare,​​ vol. III,​​ Zürich, PAS-Verlag,​​ 1964, 197, 262-265 e anche 307, 362, 373, 493, 504; CEI,​​ Il Rinnovamento della Catechesi,​​ Roma 1970, nn. 21, 23.

Ubaldo Gianetto

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OCCASIONALE – Catechesi

OCEANIA sistemi educativi

 

OCEANIA: sistemi educativi

In quella che E. Sabatier chiamava la «via lattea terrestre» l’universo educativo appare altrettanto differenziato e costituito da piccole unità indipendenti. Sebbene le numerose isole dell’Oceano Pacifico si trovino vicino a paesi altamente industrializzati, non condividono con essi i concetti di «sviluppo» e di «povertà», mentre prevale la norma etico-culturale del​​ self-help.​​ Dell’O. fanno parte tre grandi complessi insulari: Melanesia, Micronesia, Polinesia.

1.​​ L’istruzione in Melanesia​​ (Papuasia Nuova Guinea, Isole Salomone, Nuova Caledonia, Figi, Vanuatu). In Papuasia Nuova Guinea e nelle Isole Salomone l’istruzione formalmente intesa inizia con l’arrivo degli europei e con le missioni cristiane divenute stabili dal 1870. Nel 1873 la «London Missionary Society» lancia il primo programma di alfabetizzazione ed apre la prima scuola di formazione degli insegnanti a Port Moresby. Dal punto di vista amministrativo vige il decentramento dei poteri ed ogni responsabilità scolastica è di competenza provinciale. L’istruzione non è obbligatoria. La primaria (community schools) inizia a 7 anni e dura 6 anni. La secondaria comincia a 13 anni e prevede dai 4 ai 6 anni di studio, 5 nelle Isole Salomone. La frequenza della scuola non è generalizzata e diminuisce sensibilmente al livello secondario; anche per questa ragione i curricoli sono predisposti in modo da favorire il reinserimento dei ragazzi, soprattutto se provenienti dalle aree rurali. Dopo il decimo anno di scuola inizia l’istruzione al terzo livello che comprende l’università, i centri per la formazione dei docenti, gli istituti tecnici, collegi statali e non statali. Gli indirizzi maggiormente potenziati sono quelli di carattere economico. Dal 1977 ad Honiara (Isole Salomone) funziona il Centro dell’Università del Pacifico del Sud. Nella Nuova Caledonia la prima scuola aperta dal governo francese risale al 1860. Dopo l’autonomia (1976), l’istruzione preprimaria (4-6 anni di età) e quella primaria, quinquennale, sono di responsabilità locale, mentre la scuola secondaria, settennale (4+3 anni di corso) e l’istruzione di terzo livello seguono le direttive della Francia. Nelle scuole si insegna in fr. ed il modello di insegnamento è quello della scuola francese. L’obbligo dura fino a 14 anni. In tutta la Melanesia è rilevante l’abbandono della scuola anche per la selettività delle prove di passaggio da un livello all’altro. Il fenomeno interessa in minor misura i bambini europei. Per l’istruzione superiore in genere i giovani si recano nelle università francesi. L’arcipelago delle Figi, indipendente dalla corona britannica dal 1970, continua a mantenere legami politici e sociali con il Regno Unito, la Nuova Zelanda, l’Australia attraverso l’appartenenza al Commonwealth Britannico, nonché con l’India dal momento che dal 1879 vi è stata un’alta immigrazione di lavoratori indiani. La scuola fu di iniziativa metodista (sec. XIX) ed ancora oggi la chiesa metodista risulta la più seguita. Anche nelle Figi l’istruzione non è obbligatoria, sebbene ci siano piani volti alla generalizzazione dell’istruzione per i primi 10 anni di scuola. Le scuole multirazziali convivono con le scuole dove vi è una unica componente etnica. Nell’arcipelago è organizzata la formazione degli insegnanti della secondaria; possono essere conseguiti i titoli di​​ bachelor,​​ master,​​ Ph.D.;​​ sono predisposti corsi di educazione degli adulti e per corrispondenza. A Vanuatu (ex Isole Ebridi) si parlano più di 100 dialetti melanesiani oltre a fr. e ingl., bislama (il cosiddetto ingl.​​ pidgin​​ nato dall’incontro tra lingua europea e lingua locale). Ancora negli anni ’80 l’analfabetismo adulto (oltre 15 anni di età) è intorno al 47%. Dall’indipendenza (1980) Vanuatu cerca di emanciparsi dai precedenti modelli educativi coloniali, promuovendo un sistema nazionale d’istruzione a livello di scuola secondaria.

2.​​ L’istruzione in Micronesia​​ (Isole Caroline, Isole Marshall, Marianne settentrionali, Kiribati). Dalla dissoluzione del precedente «Territorio di amministrazione fiduciaria degli USA» (1947) nasce nel 1986 la Confederazione degli Stati della Micronesia (Yap, Truk, Pohnpei, Kosrae) che con Palau forma l’arcipelago delle Isole Caroline. Nel 1989 solo la Repubblica di Palau continua a far parte del precedente «Territorio». Progressivamente gli USA hanno cessato di essere presenti con l’amministrazione fiduciaria, ma restano responsabili per la difesa e gli aiuti economici. In Micronesia l’obbligo va dai 6 ai 14 anni di età e l’offerta di istruzione copre i tre livelli. Gli insegnanti sono formati nel Community College (Marianne settentrionali) ed in base ai programmi comuni alle Università di Guam e delle Hawaii, esperti dell’educazione bilingue producono materiali didattici e sussidi nelle sette maggiori lingue micronesiane. Kiribati, ex Isole Gilbert britanniche, è indipendente dal 1979. Su questi atolli l’istruzione è obbligatoria da 6 a 15 anni di età (6 anni di primaria e almeno 3 di secondaria) e funziona il collegamento via satellite con l’Università del Pacifico del Sud (Figi).

3.​​ L’istruzione in Polinesia​​ (Nuova Zelanda, Isole Cook, Niue, Tokelau, Tonga, Samoa, Polinesia francese, Tuvalu, Isole Wallis e Futuna). I Maori, primi abitanti della Nuova Zelanda, rappresentano oggi circa il 12% della popolazione e il passato coloniale britannico (1792-1947) si fa ancora sentire nell’impostazione dell’educazione. La preprimaria (4-5 anni) è organizzata in modi diversi ed è significativo che nella comunità dei Maori sono le madri stesse a seguire i figli. L’istruzione obbligatoria e gratuita, di competenza delle autorità distrettuali, va dai 5 o 6 ai 15 anni di età (primaria + secondaria di primo ciclo). L’istruzione al secondo livello riceve fondi dal Ministero dell’Istruzione. Servizi specifici sono offerti a coloro che vivono nelle zone più interne (corsi per corrispondenza) e ai portatori di handicap. Al terzo livello d’istruzione si accede previo superamento di appositi esami. Diverse iniziative riguardano l’educazione degli adulti ed altrettanto curata è la ricerca pedagogica, il​​ New Zealand Council for Educational Research​​ è attivo dal 1934. Le Isole Cook, Niue, Tokelau sono territori autonomi uniti alla Nuova Zelanda da un’associazione libera che contempla la cittadinanza neozelandese, aiuti economici, scambio di personale e materiale scolastico. Nelle Isole Cook la prima istruzione formale su modello occidentale fu introdotta dal missionario J. Williams (1823); in precedenza l’educazione dell’infanzia era di esclusiva competenza della famiglia e degli anziani. Oggi si prevedono dieci anni di obbligo scolastico (6-16 anni di età). L’istruzione secondaria è offerta presso Colleges locali e per l’università i giovani si recano nelle Figi, in Papuasia-Nuova Guinea, in Australia, nelle Samoa occidentali. Accanto alla scuola statale funziona la scuola non statale ad opera delle missioni, cristiane. A Niue e a Tonga l’obbligo è dai 6 ai 14 anni. L’arcipelago delle Samoa, già occupato dagli Olandesi (1722), passò nel 1900 agli USA (l’Est) e alla Germania (l’Ovest). Nelle Samoa occidentali, indipendenti dal 1962, l’obbligo è di 11 anni (3+3+2+3) e sussistono i due modelli educativi: quello tradizionale fondato sulla vita del villaggio, e quello occidentale. Nelle Samoa orientali alla primaria di 8 anni segue la secondaria di 4 anni. In genere nelle scuole primarie viene mantenuta la lingua locale, mentre nelle secondarie si insegna in ingl. nella Polinesia francese l’obbligo è dai 6 ai 14 anni, la secondaria è sia statale che confessionale, e dal 1986 il governo francese ha promosso la costruzione di una università a Tahiti. A Tuvalu, già Isole Ellice, la scuola primaria dura 7 anni e la secondaria 3 anni con un sistema di studio e di valutazione che riprende quello ingl. nelle Isole Wallis e Futuna la scuola segue il modello francese.

4.​​ Problemi in discussione.​​ Questioni aperte restano: a) la decolonizzazione delle aree ancora politicamente dipendenti e la creazione di modelli educativi autonomi; b) il finanziamento di piani per superare l’analfabetismo e promuovere lo sviluppo dell’istruzione obbligatoria, nonché la qualificazione professionale dei giovani; c) la pressione del movimento antinucleare che prefigura un altro ecosistema globale; d) la creazione della Comunità del Pacifico utile anche all’istruzione a distanza.

Bibliografia

Cantero C. L.,​​ The evolution of formal education in Micronesia. A future prospects,​​ in «Asian Culture Quarterly» 12 (1984) 3, 91-96; Thomas R. M. - T. N. Postlethwaite (Edd.),​​ Schooling in the Pacific Islands. Colonies in transition,​​ Oxford, Pergamon, 1984; Marshall J. - M. Peters,​​ Te Reo O Te Tai Tokerau. The assessment of oral Maori,​​ in «Journal of Multilingual and Multicultural Development» 10 (1989) 6, 499-514; Chistolini S., «Australia e O., Educazione», in M. Laeng (Ed.),​​ Enciclopedia pedagogica.​​ Appendice A-Z, Brescia, La Scuola, 2003, 106-108; Garzella S.,​​ Sottosopra: scrittori contemporanei del Sud Pacifico,​​ Roma, Robin, 2006; Mapelli N.,​​ O.: oltre l’orizzonte dei Mari del Sud, Roma, Bulzoni, 2006.

S. Chistolini

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OCEANIA sistemi educativi

OLANDA

 

OLANDA

La storia della C. cattolica in O. dal 1945 in poi può essere divisa in quattro periodi: 1) la C. neoscolastica del catechismo; 2) la C. nel segno della storia della salvezza; 3) la C. esperienziale; 4) la C. nel segno della liberazione. La nostra descrizione è storicosistematica. Il quadro di riferimento è il rapporto della C. con il contesto ecclesiale e sociale.

1.​​ C.​​ neoscolastica del catechismo.​​ La C. neoscolastica del catechismo nel periodo postbellico può essere considerata l’ultima fase di un periodo cat., le cui radici risalgono alla metà del sec. XIX. Le domande e le risposte del catechismo ufficiale, promulgato nel 1948, venivano presentate al catechizzando per mezzo di determinati schemi didattici e imparate a memoria. Il catechismo era una elaborazione di una delle edizioni della tradizione cat. neoscolastica di → Deharbe, il quale già nel 1847 vide adottato il suo catechismo in molte diocesi e province ecclesiastiche della Germania. Gli schemi didattici della C. olandese provenivano dal “Metodo di → Monaco”, come pure dall’”Erlebnis” e “Arbeitsunterricht”, molto apprezzati all’inizio del XX secolo in Germania e altrove.

Il vol. di Weber,​​ Die Münchener katechetische Methode,​​ fu già tradotto in olandese nel 1907. Nel suo vol.​​ Gedachten over​​ theorie​​ en practijk der katechese​​ (1912) Van den Hengel assunse sistematicamente nella propria riflessione cat. gli schemi del “Metodo di Monaco”. Nel 1913 De Kok e Van den Hengel composero la loro​​ Verklaring van den Nederlandschen katechismus,​​ seguendo sistematicamente i gradi formali del “Metodo di Monaco”: introduzione e finalità, presentazione, spiegazione, sintesi, applicazione. Ogni domanda o gruppo di domande del catechismo veniva sistematicamente elaborata secondo questo schema. Anche la​​ Katechetiek​​ di De Jong, pubblicata nel 1934, è chiaramente segnata dal movimento didattico tedesco. Tutto ciò continuò a caratterizzare la C. del catechismo nel periodo postbellico. In questa C. si riscontrano pure idee provenienti dal movimento biblico e liturgico. Non modificarono però in modo fondamentale le finalità di questa C.: inculcare la dottrina della Chiesa e per mezzo di essa garantire il (permanente) inserimento nella Chiesa.

Questo, fra l’altro, risulta anche dalle roventi discussioni nell’immediato dopoguerra circa la base permanente della C.: sono le tematiche biblico-liturgiche dell’anno liturgico, oppure i contenuti e le strutture del catechismo? I difensori della prima alternativa cercarono di legittimarla appellandosi al fatto che la C. deve essere un necessario contributo all’annuncio della fede cristiana e allo sviluppo personale della fede nel catechizzando. Si giudicò che questo sviluppo personale della fede poteva essere favorito meglio attraverso una C. maggiormente incentrata sulla concretezza dell’anno liturgico — più vicino alla vita, più carico di mistero — che non attraverso l’intellettualismo speculativo del catechismo. Si pensò, come afferma una pubblicazione di Rombouts (1945), che questo era​​ il problema di fondo della pedagogia religiosa.​​ Invece i difensori della (esclusiva) C. del catechismo cercarono di legittimare la propria posizione appellandosi al significato della dottrina di fede e della morale della Chiesa, e all’importanza di una loro presentazione sintetica al catechizzando, che gli doveva permettere di raggiungere una conoscenza globale della rivelazione cristiana. Questo punto di vista era calorosamente difeso da Bless nel vol.​​ Ons Godsdienstonderricht​​ (1945), il quale però sostenne nello stesso tempo la necessità di un rinnovamento dogmatico della C. del catechismo.

2.​​ Catechesi storico-salvifica.​​ Il 1964 pone definitivamente fine alla C. neoscolastica del catechismo. In quell’anno i vescovi olandesi rinunciano all’obbligo di far memorizzare il catechismo del 1948. In quel medesimo anno esce​​ Grondlijnen voor een vernieuwde schoolkatechese,​​ a cura del HKI (Hoger Katechetisch Instituut) di Nimega, eretto nel 1954 (trad. ital.t​​ Linee fondamentali per una nuova catechesi,​​ Leumann-Torino, LDC, 1969). I due fatti sono connessi.​​ Linee fondamentali​​ rompe esplicitamente con l’idea di rivelazione intesa come​​ depositum fidei.​​ La → rivelazione è considerata come → storia della salvezza. Conseguentemente la C. non è al servizio della trasmissione e memorizzazione di un numero di verità di fede stabilite una volta per sempre, dei mezzi sacramentali e dei comandamenti. La C. deve rendere visibile la presenza salvifica di Dio negli eventi sociali e personali nel corso della storia. In questa ottica la storia della salvezza da parte di Dio si realizza nell’AT e nel NT e continua fino alla storia contemporanea della Chiesa. La finalità della C. è che la “grande storia” della società e la “piccola storia” della vita personale vengano comprese come storia dell’amorevole presenza di Dio e della speranza di un compimento finale in Dio.

La svolta dalla C. neoscolastica verso la C. storico-salvifica può essere intesa come risultato di uno sviluppo all’interno della C. e della teologia. Già prima della seconda guerra mondiale era sentito in O. l’influsso della teologia e della C. kerygmatica della scuola di Innsbruck (Jungmann). Essa non metteva più al centro il​​ depositum fidei,​​ ma il significato del messaggio evangelico per il cristiano del nostro secolo. Anche il pensiero di Guardini ha contribuito al rinnovamento contenutistico della C. Non sono mancati influssi provenienti dal Belgio, per es. la pratica della teologia più vicina alla vita, di Opdenbosch, e l’elaborazione del valore pedagogico dei dogmi da parte di Decoene. Ambedue ebbero un grande influsso su Bless, il quale ha realizzato in O. il passaggio dalla C. neoscolastica verso la C. storico-salvifica. Con zelo instancabile Bless ha agito e lavorato in favore di un rinnovamento dogmatico della C., come risulta, tra l’altro, dal già menzionato​​ Ons Godsdienstonderricht​​ (1945).

Successivamente il clima teologico e cat. in O. è stato influenzato notevolmente dalla “nouvelle théologie” francese, con i suoi rappresentanti Chenu, Congar, de Lubac e Daniélou. Lo si può documentare progressivamente negli anni ’50 nei manuali per l’insegnamento della C. nella scuola primaria, quali ad es. i 4 vol.​​ Christus tegemoet​​ (Hollander),​​ De nieuwe aarde​​ (Hijman e Dinjens),​​ Met brandend kart​​ (HKI, in coll, con i Fratelli di Maastricht). Anche l’opera sistematica di Hollander,​​ Katechetiek​​ (1957), è segnata da questo influsso: pur tenendosi sulla linea di passaggio tra C. neoscolastica e C. storico-salvifica, è fortemente influenzata dal movimento biblico e liturgico come pure dalle vedute della “nouvelle théologie”. In quel periodo si nota sempre più un influsso diretto dell’Institut Supérieur de Pastorale Catéchétique di Parigi. Diversi collaboratori del HKI vi ricevettero la formazione teologica e cat. Perciò ci fu in O. una reazione costernata quando nel 1957 fu condannata l’impostazione cat. dell’Istituto di Parigi.

Un fattore importante, che in modo paradossale ha contribuito al rinnovamento della C. nella scuola, fu l’attenzione alla C. degli adulti. Integrando la C. degli adulti nella strategia cat. globale, è stato possibile relativizzare fondamentalmente la ripercussione della condanna romana sulla C. nell’ambito scolastico. L’attenzione alla C. degli adulti — connessa con i lavori preparatori del Vaticano II e con lo spirito che pervade questi documenti — sbocciò nel 1966 nel​​ Nieuwe katechismus​​ (trad. ital.:​​ Il nuovo catechismo olandese,​​ Leumann-Torino, LDC, 1969), “annuncio della fede agli adulti”, come precisa il sottotitolo, redatto su incarico dell’episcopato olandese”. All’estero è noto come “catechismo olandese”, e fu tradotto in 15 lingue. Divenne oggetto di un grave conflitto tra i vescovi olandesi e la Curia romana. Si trattava primariamente di problemi di contenuto, quali per es. la creazione degli angeli e degli spiriti puri, la creazione diretta dell’anima da parte di Dio, la caduta, ecc. La richiesta romana che le traduzioni di questo catechismo fossero revisionate in questi punti discussi fu respinta dai vescovi olandesi. Decisero di pubblicare un’”appendice al nuovo catechismo» (1969). In questo modo si considerò chiuso il conflitto. I documenti e i comunicati riguardanti questo periodo conflittuale (1966-1969) furono pubblicati nel​​ Witboek over de Nieuwe katechismus.

3.​​ Catechesi esperienziale.​​ La C. esperienziale può essere interpretata come elaborazione e focalizzazione di una determinata dimensione della C. storico-salvifica. Si tratta dell’esperienza del catechizzando. Per esperienza s’intende qui l’insieme del vissuto, sentimenti, immagini, racconti, idee, valori e rapporti presenti nel catechizzando, in riferimento alla vita personale e per mezzo di essa alla vita sociale. La C. esperienziale, in particolare quella sviluppata dal HKI nei vol.​​ Katechese​​ op de basisschool​​ (trad. ital.:​​ L’insegnamento della religione nella scuola primaria,​​ Leumann-Torino, LDC, 1977) e​​ Werkboek voor katechese,​​ può essere caratterizzata secondo tre aspetti. Il primo aspetto riguarda l’importanza attribuita all’autoesplorazione dell’esperienza del catechizzando: la C. esperienziale ha il compito di aiutare il catechizzando a essere consapevole della propria esperienza e a comprenderla. Il secondo aspetto riguarda la dimensione religiosa di questa esperienza: la C. esperienziale ha il compito di aprire il catechizzando all’esperienza religiosa, quale si presenta nell’esperienza di tutti i giorni. Il terzo aspetto riguarda il collegamento tra l’esperienza religiosa e le narrazioni, immagini e idee contenute nell’esperienza ebraico-cristiana: la C. esperienziale ha il compito di aiutare il catechizzando affinché, partendo dall’esperienza religiosa, possa cogliere il significato delle tematiche della fede cristiana per la sua vita personale. La caratteristica della C. esperienziale è data dal posto e dal ruolo del concetto di esperienza religiosa. Tale concetto è frequentemente usato nel senso formale o funzionale. Esso si riferisce alla dimensione del profondo nell’uomo. Il presupposto della C. esperienziale è che il significato della fede cristiana può essere chiarito nella misura in cui l’esperienza religiosa si è sviluppata nel catechizzando. Queste idee furono già sviluppate da Van der Horst all’inizio degli anni 1970.

Ci si deve chiedere perché in dette pubblicazioni, poco più di dieci anni dopo​​ Linee jondamentali,​​ l’orientamento si sposta dalla C. storico-salvifica verso la C. esperienziale. Si è accennato al fatto che la C. esperienziale può essere considerata come elaborazione o focalizzazione particolare di una determinata dimensione della C. storico-salvifica. Tale elaborazione fu giudicata necessaria, perché risultò con sempre maggiore frequenza che la C. storico-salvifica presupponeva una condizione che di fatto non era più o almeno era insufficientemente presente. Questa condizione riguarda la capacità del catechizzando di comprendere, con gli occhi della fede, la piccola e la grande storia come storia di salvezza in cui Dio è presente e opera per la salvezza. Questa capacità risultò sempre più frequentemente intaccata dall’invadente processo di secolarizzazione.

Ora la C. esperienziale può essere compresa come una forma di adeguata reazione contro la evanescente capacità o la crescente incapacità di accogliere un’esperienza in cui Dio appare soggetto della storia e in cui la storia diventa storia di salvezza. Essa cerca di creare la necessaria condizione per sviluppare tale capacità. A questo fine dedica molta attenzione ai due primi aspetti di cui sopra: l’aspetto della autoesplorazione dell’esperienza del catechizzando e l’aspetto dell’esperienza religiosa. Soltanto quando e nella misura in cui questi due aspetti hanno raggiunto un sufficiente sviluppo, ha senso passare alla spiegazione del significato della fede cristiana.

4.​​ Catechesi liberatrice.​​ La C. liberatrice a sua volta può essere considerata come reazione critica nei confronti della C. esperienziale. Essa non mette più al centro la libertà dell’uomo individuale, ma l’uguaglianza di tutti gli esseri umani e la giustizia. La C. liberatrice non è un totale rovesciamento della C. esperienziale. Infatti anche la C. liberatrice mette spesso un forte accento sull’esperienza del catechizzando. La differenza riguarda invece il secondo aspetto della C. esperienziale. Nella C. liberatrice l’esperienza del catechizzando non viene illustrata primariamente nell’ottica della dimensione religiosa, ma nell'ottica della dimensione sociale. L’orientamento della C. liberatrice non riguarda primariamente la profondità esistenziale dell’esperienza, ma la sua ampiezza e profondità storica e sociale. Essa implica anche una critica e una correzione di questa esperienza. Infatti, nella misura in cui questa esperienza è segnata da aspetti ideologici, questi ultimi vengono resi consapevoli dalla critica dell’ → ideologia. Per il terzo aspetto della C. esperienziale si trova nuovamente una corrispondenza: le idee acquisite nel secondo aspetto vengono ora sistematicamente riferite alle tematiche della fede cristiana.

Si tratta però di una corrispondenza solamente formale. Infatti, nella C. esperienziale l’interpretazione della fede cristiana è fatta in termini di realizzazione di sé, cioè dell’uomo che in realtà è il borghese. I racconti e le immagini della tradizione cristiana funzionano spesso come riconoscimento e legittimazione religiosa della libertà, dell’autonomia, della simpatia verso il prossimo e dell’orientamento verso il futuro, che caratterizzano la autorealizzazione del borghese. È spesso difficile riconoscere in questa interpretazione lo specifico della tradizione cristiana. Ora nella C. liberatrice si cerca di separare le due fonti: le fonti della cultura borghese e le fonti della tradizione ebraico-cristiana. Alla luce di questo terzo aspetto la C. liberatrice assume perciò frequentemente un carattere di confronto: proprio in virtù della fede cristiana il borghese viene incitato a convertirsi ai “più piccoli dei miei”. Inoltre la C. liberatrice rende manifesto il male dell’uomo, il peccato: tematiche che si riscontrano poco nella C. esperienziale. Nel vol.​​ Dossier bevrijdingskatechese​​ del HKI, come pure in J. A.​​ van​​ der​​ Ven,​​ Kritische​​ godsdienstdidactiek​​ e​​ Vorming tot waarden en​​ normen​​ sono formulate le nozioni fondamentali della C. liberatrice.

Occorre nuovamente domandarsi perché si è verificato il passaggio dalla C. esperienziale verso la C. liberatrice. Dal punto di vista cat. si può annotare che la C. liberatrice in O. è collegata e influenzata dallo sviluppo che si è verificato a livello europeo, per es. dal documento redatto dall’Équipe europea per la C. degli adolescenti (Bled 1977), ulteriormente sviluppato da​​ Van​​ Lier,​​ Schlattmann​​ e Gleissner. Due fattori sembrano importanti per capire la situazione olandese: il primo teologico, l’altro pedagogico-didattico. Il primo viene costituito dall’influsso della teologia politica, rappresentata in Germania da Metz, ed elaborata in forma autonoma da diversi teologi olandesi. Questa teologia ha acuito la sensibilità per gli aspetti ideologici presenti nell’interpretazione della fede cristiana. Anche la teologia della liberazione dell’America Latina esercita un grande influsso sulla C. liberatrice in O. Il secondo sviluppo è caratterizzato dalla pedagogia dell’emancipazione e della liberazione, che provengono nuovamente dalla Germania, soprattutto da Mollenhauer e Gamm, ma anche dall’America Latina, in particolare da​​ Freire.​​ Anche in questo approccio la coscientizzazione delle strutture sociali opprimenti occupa un posto centrale, e attraverso essa lo Sviluppo della libertà personale e sociale: libertà per tutti senza eccezione. Ciò significa che il concetto di libertà viene pensato attraverso quello di uguaglianza. Libertà e uguaglianza si possono raggiungere solamente se il concetto di giustizia sociale prende il posto centrale: soltanto allora diventa possibile offrire ai più diseredati e privi di libertà un trattamento di privilegio.

Conclusione.​​ La C. storico-salvifica può essere interpretata come la cristallizzazione pastorale-educativa della nuova apertura, che nel Vaticano II ricevette l’approvazione — comunque ambivalente — da parte della Chiesa universale. Di conseguenza la C. neoscolastica del catechismo divenne tempo passato. La C. esperienziale può essere compresa come la cristallizzazione di una manovra di ricupero attraverso l’interazione con il liberalismo borghese. La C. liberatrice può essere compresa come cristallizzazione di una manovra di ricupero attraverso l’interazione con il socialismo e il marxismo. Questa interpretazione spiega forse il particolare fatto storico che la C. olandese del dopoguerra — periodo di appena 40 anni — si divide in non meno di quattro fasi diverse. Il fatto è tanto più rilevante se si considera che la storia della C. in O. fino alla seconda guerra mondiale era relativamente serena. Abbiamo infatti segnalato che si usavano tradizioni secolari di catechismi, che hanno trasmesso da una generazione all’altra una solida struttura contenutistica. Comunque questo non si è verificato soltanto in O. ma anche in altri paesi.

Bibliografia

W. Bless,​​ Ons Godsdienstonderricht,​​ Maastricht, 1945; Io. (ed.),​​ Witboek over de nieuwe​​ katechismus,​​ Utrecht, 1969; P. Cooreman,​​ De NoordNederlandse R. K. schoolcatechese in bel spanningsveld tussen theologie en pedagogiek,​​ Leuven, 1974 (tesi); In.,​​ La tensione tra pedagogia e teologia nella catechesi scolastica olandese,​​ in “Orientamenti Pedagogici” 24 (1977) 684-705; J. Dreissen,​​ Diagnosi del Catechismo Olandese,​​ Brescia, Morcelliana, 1968; HKI,​​ L'insegnamento della religione nella scuola primaria,​​ Leumann-Torino, LDC, 1977; In.,​​ Linee fondamentali per una nuova catechesi,​​ ivi, 1969; In.,​​ Werkboek voor katechese,​​ Nijmegen, 1977; H.​​ Hollander,​​ Catechetica. Metodologia per l’insegnamento religioso nella scuola primaria,​​ Leumann-Torino, LDC, 1961; J.​​ van​​ Lier – G. Schlattmann,​​ Europese jongerenkatechese,​​ in “Verbum” 42 (1975) 164-174; C. Neven,​​ Le mouvement catéchétique aux Pays-Bas,​​ in “Lumen Vitae” 30 (1975) 345-359; S. Rombouts (ed.),​​ Het kernprobleem der godsdienst pedagogiek,​​ Tilburg, 1945; R. Sonnen,​​ Olanda,​​ nel vol.​​ Scuola e religione.​​ Vol. I.​​ Una ricerca internazionale,​​ Leumann-Torino, LDC, 1971, 315-351; E.​​ Thuring,​​ Houding en Verhouding.​​ Gedachten​​ over hedendaagse katechese,​​ Den Bosch,​​ 1970;​​ Tussen jeugdzorg en emancipatie,​​ in “Jeugd en Samenleving” 9 (1979) n. 7-8; J. A.​​ van der​​ Ven,​​ Katechetische​​ leerplanontwikkeling,​​ Den Bosch,​​ 1973; Id.,​​ Katechese,​​ Heilsgeschichle und Zukunft,​​ nel vol.​​ Bilanz der niederländischen Kirche,​​ Düsseldorf, 1976, 186-215; Id.,​​ Der Schüler: Geschichte eines Problems, tibersicht über die wichtigsten Aspekte der niederländischen katholischen Katechese und Katechetik,​​ in “Religionspädagogische Beiträge” 2 (1979) 3, 148-180; Id.,​​ Kritische godsdienstdidactiek,​​ Kämpen, Kok, 1982; Id.,​​ L’insegnamento​​ della​​ religione nelle scuole olandesi,​​ in “Religione e Scuola” 11 (1983) 328-331.

Catechismo olandese.

J. A.​​ van der​​ Ven

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OLANDA

OMELIA

 

OMELIA

Dall’antichità cristiana, quando l’O. era tenuta in grande valore, si passò alla decadenza propria di certi periodi storici (per es. in alcune aree geografiche del medioevo) in cui l’eclissi dell’O. spinse alcuni sotto l’azione dello Spirito Santo alla fondazione degli “ordines praedicatorum”; si venne poi al risveglio del periodo della controriforma, alla standardizzazione di tipi di O. avulsi dall’azione liturgica e più propri ad altre forme di predicazione; solo con il Vaticano II l’O. ritrova i suoi connotati genuini. Purtroppo gli operatori, nel caso i presidenti delle assemblee lit., non sono ancora entrati completamente nello spirito del Vaticano II La cost. lit. distingue la​​ lectio,​​ l’allocutio,​​ il​​ sermo,​​ l’admonitio,​​ la​​ sacra celebratio Verbi Dei,​​ la​​ catechesis,​​ il​​ praeconium salutis,​​ che è quello rivolto ai non credenti (cf S. Maggiolini). Di qui la necessità di avere dinanzi almeno la seguente griglia di dati per agire operativamente.

1.​​ Omelia lit. e catechesi.​​ L’OL propriamente è la spiegazione dei testi (→ Parola di Dio e preghiere presidenziali) fatta dal ministro competente di una celebrazione durante l’azione liturgica stessa (cf sacramenti, sacramentali, lit. delle ore). In questo ambito si comprende la necessità di ricordare in che cosa l’OL si differenzia da altri tipi di O. (sermone, ammonizioni, didascalie liturgiche, ecc.) e dalla C. Tenendo poi presenti anche i punti di contatto tra OL e C. si avranno delle linee per l’operatività. OL e C. differiscono per i​​ mezzi​​ usati per conseguire gli​​ scopi​​ propri ad ogni forma di “profezia – annuncio – trasmissione” nell’ambito della Chiesa. A loro volta gli scopi sono in connessione coi mezzi e si condizionano a vicenda. La C. è svolgimento di contenuti unitari per necessità particolari e contingenti ai soggetti catechizzandi (cf loro età, loro situazioni socio-culturali, psicopedagogiche, ecc.) per portarli a maturazione (comprensione di contenuti, adesione nella vita) della fede, a realizzazione della medesima nelle diverse forme manifestati ve. La più alta di esse è la celebrazione della fede nella lit. La C. è preparazione anche alla comprensione dell’O. Essa ha carattere edificante, esortatorio, didascalico, più direttamente in rapporto ai testi lit., con lo scopo di aiutare la comunità dei fedeli (quasi sempre eterogenea per età, situazioni, capacità comprensive, mobilità di attenzione, ecc.) ad esercitare nell’azione liturgica in modo pieno il sacerdozio comune dei fedeli, in unione con quello di Cristo, per espletare pienamente il culto in spirito e vita, in ragione di una traduzione nella vita del quotidiano vivere di ciò che si celebra.

Così il​​ linguaggio​​ dell’O. è più vicino a quello biblico lit. senza disattendere di adattarsi ai modi espressivi delle culture. Quello cat. si preoccupa di più di adattarsi al linguaggio degli uomini per introdurli gradualmente a quelli biblici e liturgici. Nel kerygma e nella C. il linguaggio è sempre in tensione di adattamento. Nell’O. è in tensione di realizzazione. Infatti l’OL è parte dell’azione lit. ove si attua la salvezza che la C. annuncia e cerca di far capire. Lo stesso​​ ambito​​ in cui 1’0. è espletata, cioè una azione lit. nel luogo adatto, nel canovaccio di quanto è stabilito, la differenzia dalla C. che può e deve essere attuata ovunque, in ogni tempo, da ogni fedele con le dimensioni di missionarietà e di testimonianza che le sono connaturate dalle celebrazioni battesimali – cresimali – eucaristiche, ecc. È certo che l’OL, per non falsare la sua natura, finalità, efficacia, deve essere preceduta da adeguata C. biblica e liturgica, e può usufruire anche degli altri generi omiletici, essi pure finalizzati all’OL. Si pensi alle ammonizioni e didascalie liturgiche di carattere didattico e frammentario, ma anch’esse del genere omiletico; ai sermoni e omelie extra-liturgiche magari tenuti da laici, preceduti da una lettura biblica e svolti con terminologia e metodi esegetici identici a quelli impiegati nell’OL, la quale è ben delineata nella sua costitutività dai documenti recenti.

2.​​ L’OL nei recenti documenti.​​ Sia quelli conciliari, sia i libri liturgici riformati a norma del Vaticano II si occupano dell’OL. Dalle norme e più ancora dallo spirito ivi trasmesso anche l’operatore catecheta deve essere beneficamente influenzato, ben sapendo che la C. più genuina costituisce la propedeutica più adeguata all’OL.

a)​​ Documenti conciliari.​​ La cost. lit. sottolinea che l’O è “actio lit.”. Infatti il soggetto è il ministro che imbandisce la mensa della Parola di Dio e del Corpo di Cristo (SC 48.51). Il destinatario è l’assemblea dei fedeli che partecipa ad un’azione lit. le cui due parti: liturgia della Parola e lit. sacramentaria (battesimale, confirmataria, eucaristica, ecc.) costituiscono un solo atto di culto (SC 56). L’OL è essa stessa la catalizzatrice dell'atto di culto. Lo scopo dell’O. è di annunciare la storia della salvezza che si attua nella celebrazione (SC 16.35) di cui 1’0. è parte costitutiva (SC 52) e serve per spiegare le letture (SC 24). Sulla scia della SC si devono leggere e comprendere gli altri interventi conciliari. È dovere dei vescovi (LG 25), dei presbiteri (PO 4) e dei diaconi (LG 29), per attuare la volontà di Cristo significata agli apostoli (DV 7) continuare il​​ munus​​ profetico (LG 12) proprio ai cristiani (LG 35) e che il ministro espleta in modo pieno nella celebrazione. La predicazione della Chiesa è Parola di Dio se la si accoglie con fede (AG 13; PO 4) e se essa è in relazione con la Parola rivelata (DV 2-6), con la tradizione più perenne propria alla Chiesa (DV​​ 710),​​ e dunque come attuazione dell’interpretazione ecclesiale e magisteriale (LG 25) che con la celebrazione lit. è portata ad esplicitazione (SC 33.35). Il catecheta che nell’agire è egli pure partecipe del compito missionario (AG 13) e profetico (LG 12) proprio ad ogni fedele, con la C. deve facilitare il conseguimento delle finalità connaturate all’O.

b)​​ I libri lit. postconciliari.​​ Sottolineano l’obbligatorietà dell’OL (Institutio Generalis Missalis Romani​​ [= IGMR] 41-42 e prima SC 52). Essa fa parte della lit. della Parola (IGMR 33) che nell’O. trova la possibilità per concretizzare l’efficacia della stessa Parola (IGMR 9). L’O. deve anche adattarsi alle sensibilità della nostra epoca (cf Istruz.​​ Liturgicae instaurationes​​ del 1970 al n. 2). Particolari disposizioni che meritano un’appropriata trattazione​​ neiVOrdo Lectionum Missae​​ (II ed. del 1981; cf A. M. Triacca, in “Notitiae” 18 [1982] 243-280), e che un catecheta deve preoccuparsi di conoscere, portano chiarimenti sulle finalità, caratteristiche, dimensioni teologico-liturgiche e pastorali proprie all’O. La quale nella messa per i fanciulli (cf​​ Direttorio per le messe dei fanciulli)​​ può essere dialogata e, se al sacerdote riesce difficile adattarsi alla mentalità dei piccoli ascoltatori, può essere tenuta da un fedele adulto (ivi,​​ 24).

L’importanza dell’omelia è così grande che il​​ RICA​​ più volte la inculca nell’itinerario catecumenale, e nel Rito per la confermazione si consiglia una O. di tipo mistagogico. Altrove e sovente si richiama la necessità che eia fatta sui testi sacri proclamati con la preoccupazione di illustrare il mistero-sacramento che viene celebrato. Così per 1’0. al matrimonio, al sacramento della penitenza, l’unzione degli infermi, ecc. A volte, come per il sacramento dell’ordine, addirittura il libro lit. fornisce un canovaccio. Essa comunque è sempre consigliata anche per la celebrazione di sacramentali, come la lit. delle ore, per la celebrazione della comunione fuori della messa e per il culto eucaristico (esposizione e benedizione), per le esequie, per le veglie liturgiche, ecc. In pratica i libri lit. postconciliari ricalcano l’importanza dell’OL e la sua inderogabile funzionalità come parte costitutiva della celebrazione.

Al catecheta spetta prendere atto che la sua azione preparatoria, concomitante e susseguente la celebrazione, non deve disattendere o discostarsi troppo dalla celebrazione, che postula una C. adeguata. Anzi il catecheta prenda coscienza che deve preparare i fedeli a interagire con 1’0., che non è mai un monologo del ministro ma deve diventare un dialogo tra la Parola di Dio “spezzata” dall’O. e il fedele che, inserito nell’”ecclesia” (= assemblea lit.) di cui fa parte costitutiva, deve corrispondere alle interpellanze di Dio Tripersonale che gli parla per mezzo della Chiesa (= l’azione lit. non è di alcuni, ma è di tutta la Chiesa). Si faccia quindi caso a:

3.​​ L’OL e sue implicanze operative.​​ L’O., dovendo tener conto sia del mistero celebrato, sia delle particolari necessità di chi ascolta, assume il tono giusto e i contenuti secondo le diverse circostanze. Essa quindi, pur non essendo dialogata, deve assumere tono, modalità, finalità tipici del dialogo se non disattende le proprietà: del primo annuncio (O. come​​ kerygma)​​ che ha in sé una carica di meravigliosità; dell’invito a mettere in pratica quanto si apprende con la fede (O. come C.) che ha in sé una carica di sistematicità di idee e di realtà; dell’esortazione a perdurare nel praticare la via del Signore (O. come​​ parenesi)​​ che ha in sé la carica che proviene dall’incoraggiamento fraterno; della comunicazione con il mistero attraverso l’interpretazione dei segni rituali (O. come​​ mistagogia)​​ che ha in sé la carica di novità. Il mistero in sé è sempre lo stesso. Ma il fedele “rinnovatamente” lo celebra per una novità di vita perennizzata nel quotidiano.

Si faccia dunque caso che (’emittente,​​ colui che tiene l’OL, è uno che presiede un’azione lit. I​​ riceventi​​ sono dei fedeli (anche il catecumeno è tale, anche se non ha ancora celebrato il sacr. dell’inizio della fede, il battesimo) membri di un’assemblea. La loro partecipazione è uditiva per essere operativa nella vita. Il​​ rapporto dialogico o comunicativo​​ fra predicatore e uditori non è facile. Però si deve rammentare che tale rapporto non è​​ mediato​​ dalla sola O. considerata in sé, ma​​ da tutto il messaggio contestualizzato​​ nella concreta celebrazione che codifica segni, riti, Parola di Dio, O., ecc. in determinate coordinate. Un’O. per gli sposi fatta con il testo di​​ Rm​​ 8 è diversa dalla celebrazione del battesimo fatta ancora con​​ Rm​​ 8. Si aggiunga che il messaggio dell’OL sarà tanto più polivalente quanto migliore sarà la preparazione alla celebrazione espletata dalla C. Essa aiuta a far sì che 1’0. non sia una comunicazione depauperata o a senso unico. Gli operatori della C., verificando se esistano veramente le condizioni per una comunicazione autentica, possono aiutare a rettificarle se fossero alterate e a porre le coordinate perché più facilmente possano costituirsi.

Bibliografia

L. Della Torre (ed.),​​ La predicazione dei laici. Comunicazione della fede e nuovi ministeri della Parola,​​ Brescia, Queriniana, 1978; In.,​​ Omelia,​​ in D. Sartore – A. M. Trucca (ed.),​​ Nuovo Dizionario di Liturgia,​​ Roma, Ed. Paoline, 1984, 923-943; S. Maggiolini,​​ La Parola di Dio nella Cost. conciliare “De Sacra Liturgia”, in “La Scuola Cattolica” 93 (1964) 154-177; M. Magrassi,​​ L'omelia prolungamento della Parola, introduzione al Mistero,​​ nel vol.​​ Parola e Sacramento nella comunità di salvezza,​​ Padova, CAL, 1974, 81-104; L. Maldonado,​​ La predicazione,​​ Brescia, Queriniana, 1973;​​ L’omelia. Il ministero della Parola nella celebrazione liturgica,​​ Milano, OR, 1967;​​ Parola e sacramento nella comunità di salvezza,​​ Padova, Messaggero, 1974.

Numeri monografici​​ (postconciliari) di riviste:​​ “Communautés” (Paroisse et Liturgie”) 64 (1982) n. 2-3; “Liturgie et Vie chrétienne” 15 (1970) n. 72; “Lumen Vitae” 35 (1980) n. 2; “La Maison-Dieu»​​ 21 (1965) n. 82;​​ «Mélanges​​ de Science​​ Religieuse”​​ 29 (1972)​​ n.​​ 2; “Notes de Pastorale​​ Liturgique”​​ 22 (1977) n. 127;​​ «Pastoral​​ Misionera»​​ 2 (1966)​​ n.​​ 2;​​ «Phase» 11 (1971) n. 66; 16 (1976) n. 91; «Paroisse et Liturgie» 54 (1972) n. 3; «Questions liturgiques» 55 (1974) n. 4;​​ «Rivista di​​ Pastorale​​ Liturgica»​​ 19 (1981) n. 6; “Seminarium” 31 (1979) n. 1.

Achille Maria Triacca

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OMELIA

OMERO

 

OMERO

Vissuto tra il IX e l’VIII sec. a.C., è chiamato per antonomasia «l’educatore della Grecia», in quanto è all’origine della cultura greca, non solo cronologicamente, ma perché coglie e comunica con la forza della poesia epica alcune linee di formazione umana, che restano comune retaggio di tutta la cultura greca.

1. Ne indichiamo in sintesi gli elementi essenziali, senza fermarci sul cosiddetto​​ problema omerico​​ (identità e unicità del poeta designato con questo nome). O. è, in primo luogo, testimone e trasmettitore di una tradizione culturale precedente (il cosiddetto​​ Medioevo greco)​​ che sopravvive e diventa patrimonio culturale attraverso i suoi poemi: l’Iliade​​ e l’Odissea.​​ È pure testimone di un tipo di educazione che si attuò nel ceto aristocratico delle corti (il re e i suoi nobili guerrieri), sia come ideale di​​ areté,​​ sia come processo di formazione dei giovani nella vita della corte e all’arte militare. L’ideale aristocratico,​​ come realizzazione superiore di umanità, risulta così punto di partenza per la visione greca dell’uomo e della sua formazione. Tale ideale O. canta, con incomparabile ispirazione poetica, nelle figure degli​​ Eroi;​​ perciò esso è chiamato​​ ideale eroico:​​ l’eroe​​ impersona un tipo di​​ areté​​ (nel senso di pieno valore umano) che si afferma come paradigma e punto di riferimento per tutte le successive fasi della cultura​​ / paideia​​ greca. Con ciò O. realizza anche, in modo eminente, la caratteristica del popolo greco di avere nei poeti (insieme ai filosofi e ai politici) una fonte della sua​​ ​​ paideia​​ e dimostra la forza pedagogica in particolare della poesia epica in quanto trasmettitrice di paradigmi di umanità.

2. I contenuti di​​ paideia​​ sono notevolmente diversi nelle due epopee, l’Iliade​​ e l’Odissea,​​ come diverso è l’ambiente in cui gli eroi sono collocati: quello guerriero nella prima; quello civile nella seconda. Il​​ valore paradigmatico​​ delle figure degli eroi omerici sta soprattutto nell’eccellenza​​ dell’ideale umano ricercato e celebrato e nell’equilibrio​​ degli elementi che lo compongono e che, unitamente, formano​​ areté.​​ Ciò interpreta il senso di completezza, costante nell’ideale formativo greco. La ricerca dell’eccellenza​​ (il dover essere migliore di tutti, la celebrazione dell’aristéia​​ dell’eroe) traduce il bisogno dell’attuazione più perfetta del valore umano (areté​​ appunto). L’equilibrio​​ (o integralità) è dato, nel paradigma dell’eroe, dalla ricerca e realizzazione non solo del valore militare, ma, insieme, della​​ saggezza.​​ Integrazione, quindi, di interiorità ed esteriorità, indicata da O. nell’espressione:​​ «essere dicitore di discorsi e operatore di azioni»,​​ che intende caratterizzare l’eroe. Una sintesi in cui rientrano le molteplici doti dell’ideale cavalleresco. La ricerca e celebrazione della propria eccellenza comportano anche una particolare visione etica, propria dell’areté​​ eroica: l’etica dell’onore,​​ da non svilirsi in vuota ambizione, ma da considerare come il bisogno dell’eroe di una verifica e una comprova dell’eccellenza raggiunta.

3. O. previene pure la polemica sull’insegnabilità dell’areté​​ (​​ Grecia: educazione), non solo perché egli stesso compie un’opera di educazione del popolo greco, ma perché la stessa formazione degli eroi è frutto di un intervento (o addirittura di un mandato) educativo (per es. il centauro Chirone e Fenice per Achille nell’Iliade; Mentore-Atena per Telemaco, figlio di Ulisse, nell’Odissea). L’areté virile​​ ha certo il primo posto nei poemi omerici. È tuttavia celebrato anche l’ideale femminile,​​ in modo suggestivo (si ricordino, per es., le figure di Clitemnestra, di Criseide, di Penelope, di Nausicaa) e con la stessa esigenza di integralità: al binomio «operatore di azioni e dicitore di discorsi» dell’eroe corrispondono​​ bellezza e saggezza e abilità domestiche​​ nell’ideale della donna.

Bibliografia

a)​​ Fonti: Iliade,​​ trad. it. di G. Tonna, introd. di F. Codino, Milano, Garzanti, 1983;​​ Odissea,​​ trad. it. di G. Tonna, introd. di F. Codino, Ibid., 1985. b)​​ Studi:​​ Jaeger W.,​​ Paideia. La formazione dell’uomo greco,​​ Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1991; Marrou H. I.,​​ Storia dell’educazione nell’Antichità,​​ Roma, Studium, 1994; Montanari F. (Ed.),​​ O. Gli aedi,​​ i poemi,​​ gli interpreti, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1998.

M. Simoncelli

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OMERO

OMOSESSUALITÀ

 

OMOSESSUALITÀ

L’o. vera e propria costituisce una condizione abbastanza ben definita, non assimilabile con alcune forme di comportamento sessualmente invertito temporanee od occasionali. L’attrazione erotica verso il proprio sesso e la ripulsione, spesso invincibile per quello complementare hanno nell’o. vera e propria un carattere di esclusività e stabilità, che ne fanno una vera struttura psichica.

1. Tale situazione non è il prodotto di una scelta; in se stessa non ha quindi una vera e propria rilevanza etica in senso proprio. Si dice a volte che essa è una condizione naturale. Dicendo questo, oggi si fa spesso non tanto una constatazione ovvia sulla non volontarietà di questa condizione, ma una valutazione discutibile di natura ultimamente etica sul comportamento omosessuale che viene così giudicato non moralmente diverso da quello eterosessuale. Naturalmente si tratta di un equivoco: quando si parla di natura in questo campo, il criterio di riferimento non può prescindere dall’​​ ​​ etica. E dal punto di vista etico, l’omosessuale può essere un peccatore o un santo, ma il suo modello di sessualità non è un modello vero: è in sé una forma mancante della sua regola, quali ne possano essere la volontarietà e l’eventuale colpevolezza soggettiva. L’individuazione, finora purtroppo solo incerta, delle sue cause, se può avere un grande interesse dal punto di vista clinico, non può dirci nulla sulla colpevolezza soggettiva dell’omosessuale: avere delle tendenze non è in sé peccato, come non lo è il soffrire di qualsiasi altra forma di perversione sessuale. Diversa, e comunque non facile sarà la valutazione del comportamento omosessuale soggettivo.

2. Il motivo fondamentale della sua oggettiva negatività è naturalmente l’inautenticità di un gesto d’amore che non rispetta il significato oggettivo e le leggi interne del linguaggio della sessualità. Questo non dice nulla sulla qualità psicologica dell’amore omoerotico; ma tale qualità non può essere l’unica ragione della valutazione etica: la qualità etica del linguaggio di questo amore, non può essere ignorata in questa valutazione. A una valutazione così negativa del comportamento preso in sé stesso, non può naturalmente corrispondere sempre un giudizio altrettanto negativo sulla responsabilità, e quindi sulla effettiva qualità morale, dei singoli soggetti. In misura varia, ma spesso molto grande, questo comportamento sembra essere condizionato da meccanismi psicologici che diminuiscono, fino ad annullare, la volontarietà e la responsabilità morale della persona.

3. Il comportamento nei confronti dell’o. si ispirerà pertanto a criteri educativi, non naturalmente nel senso di considerare l’omosessuale come un «minore», ma nel senso di aprirgli il più largo orizzonte, a lui concretamente possibile di maturazione umana e di vera​​ ​​ autorealizzazione. L’atteggiamento di base dovrà essere la totale accettazione dell’omosessuale come persona, la comprensione del suo dramma, la solidarietà leale con le sue sofferenze e i suoi problemi. Si cercherà di rompere la barriera della solitudine e dell’incomunicabilità, che la società spesso erige nei suoi confronti, e che rappresenta il principale ostacolo al suo ricupero anche morale. Ci si dovrà chiedere quale sia l’ideale umano di vita più ordinata e più umanamente ricca a lui concretamente possibile. Quando egli fosse veramente disposto a percorrere fino in fondo il difficile itinerario di un riordinamento totale della sua vita, tale ideale, supposta l’impossibilità di una vera guarigione clinica, si aprirebbe, nel suo livello più alto, a una astinenza totale e alla sublimazione della sua libido nelle attività superiori dello spirito. Questo peraltro potrà essere raggiunto, anche nella migliore delle ipotesi, solo gradualmente, attraversando, non senza gravi lotte, le tappe intermedie di volta in volta concretamente possibili. Ma, anche se si deve riconoscere che l’amicizia omosessuale che si esprime anche sessualmente costituisce un male meno grave della promiscuità risultante da relazioni sessuali con compagni che mutano continuamente, essa va ritenuta moralmente difendibile solo alla condizione che sia solo una piattaforma per il decollo di una liberazione ulteriore e si accompagni quindi con un certo impegno di graduale ridimensionamento del peso della sessualità e dei suoi appetiti nel complesso della vita.

Bibliografia

Overing et al.,​​ L’o., Brescia, Queriniana, 1967; Bottani​​ A. (Ed.),​​ Educazione alla sessualità, Milano, Ancora, 1982; Gius E.,​​ Una messa a punto della o., Torino, Marietti, 1972; Kosnik A. et al.,​​ La sessualità umana, Brescia, Queriniana, 1978;​​ Thévenot X.,​​ Homosexualités masculines et morale chrétienne, Paris, Du Cerf,​​ 1985; Teisa S.,​​ O. e vita morale: tentativo di un approccio integrato, Roma, P. Studiorum Universitas a S. Thoma Aq., 2001; Lacroix X.,​​ In principio la differenza: o.,​​ matrimonio,​​ adozione, Milano, Vita e Pensiero, 2006.

G. Gatti

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