MACCHINE PER INSEGNARE

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MACCHINE PER INSEGNARE

L’introduzione di un mezzo meccanico o elettromeccanico per imparare non è una novità del nostro tempo. Il termine m.p.i. però risale a questo secolo ed è legato agli studi sull’​​ ​​ istruzione programmata per potenziare l’istruzione automatizzata. Attualmente ha un significato più articolato di quello iniziale espresso da Pressey e​​ ​​ Skinner dove veniva accentuato maggiormente la «m.» e meno il «programma» che rende la m. interessante. L’insieme delle funzioni necessarie per insegnare può essere compiuto in vari modi attraverso un rapporto diretto con l’insegnante o mediato attraverso altri materiali e m. Anche se oggi con i sistemi computerizzati la m.p.i. ha perso la sua importanza primitiva ha ancora una certa significatività soprattutto dove si hanno situazioni particolari di insegnamento dovute a casi di soggetti in difficoltà per motivi diversi determinati da forme più o meno gravi di​​ ​​ handicap. Potremmo definire la m.p.i. come​​ un meccanismo d’istruzione usato per produrre cambiamenti sistematici nel comportamento di uno studente.​​ Essa è strutturata in modo che possa adempiere ad un insieme di funzioni utili ai fini dell’​​ ​​ apprendimento di una persona. Naturalmente le m.p.i. devono avere un programma di insegnamento ben strutturato nei più piccoli dettagli e devono prevedere un minimo di interazione con chi le sta utilizzando, diversamente risultano demotivanti e in fondo poco utili.

Bibliografia

Calvani A.,​​ Manuale di tecnologie dell’educazione, Pisa, ETS, 1999; Id.,​​ Che cos’è la tecnologia dell’educazione, Roma, Carocci, 2004.

N. Zanni​​ 

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MACCHINE PER INSEGNARE

MAESTRE PIE

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MAESTRE PIE

Dall’età postridentina fino alla seconda metà dell’Ottocento questa espressione è stata usata «genericamente» per indicare delle donne che, individualmente o unite in comunità, senza professare voti, si sono dedicate all’insegnamento del catechismo, all’educazione delle fanciulle e delle adulte, spesso ispirandosi alle Scuole della Dottrina cristiana.

1. In senso specifico la denominazione di M.P. è propria di alcuni istituti religiosi, anche se essa venne attribuita fin dal 1685 alle giovani che si erano unite a santa Rosa Venerini (1656-1728) costituendo una libera associazione di donne laiche che vivevano da secolari, e non dovevano né volevano essere religiose per essere libere «da altre devozioni», tenendo «in grandissima considerazione il fare scuola gratis alle fanciulle». Successivamente le scuole della Venerini (che all’inizio furono aperte per le bambine povere), in cui si impartiva un insegnamento (individuale e simultaneo) religioso (catechismo, preghiera, orazione mentale), istruttivo (lettura – raramente la scrittura – e far di conto) e operativo (lavori femminili), seguendo fedelmente il metodo stabilito dalla Fondatrice, accolsero tutte le fanciulle «a motivo del maggior bene che ne sarebbe derivato» e le adulte per momenti di conversazione e di preghiera. In seguito al Dec. Pont. 1-2-1933 le M.P. Venerini poterono emettere voti pubblici ed il loro istituto divenne una congregazione religiosa.

2. All’esperienza di S. Rosa Venerini si collega l’origine delle M.P. Filippini di Montefiascone (Dec. Dioc. 1690 e Dec. Pont. 1760), fondate da S. Lucia Filippini (1672-1732)mentre alcuni istituti, la cui azione è rivolta prevalentemente all’educazione femminile, sono sorti successivamente: M.P. Operaie (primo Settecento), M.P. di Sant’Agata (1820), M.P. dell’Addolorata (1893).

Bibliografia

Macchietti S. S.,​​ Rosa Venerini all’origine della scuola popolare femminile,​​ Brescia, La Scuola, 1986; Centro Studi dell’Unione Superiore Maggiori d’Italia,​​ Le religiose in Italia, suppl. n. 40 aprile 2001 di «Consacrazione e Servizio».

S. S. Macchietti

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MAESTRE PIE

MAESTRO

 

MAESTRO

Il termine m. può avere tre significati: di «caposcuola» o di guida eminente nel campo della cultura o della scienza; di «capo d’arte» nel campo artistico o industriale; di «educatore» e «insegnante» in senso generale, e specificamente di insegnante nella scuola elementare. Le università medievali assegnavano il titolo di​​ Magister​​ a chi avesse completato un corso avanzato nelle varie discipline, soprattutto nelle​​ artes liberales​​ (​​ Medioevo). Oggi, nelle università britanniche e statunitensi rimane il titolo di​​ Master​​ conseguibile al termine di un curricolo avanzato nelle materie liberali (Master of Arts) o nelle materie scientifiche (Master of Science), corrispondente al titolo italiano di Laurea.

1. Sulla personalità e sul ruolo del m. hanno dissertato filosofi medievali di grande risonanza: da Boezio a​​ ​​ Tommaso d’Aquino. La funzione essenzialmente «ministeriale» del m. è stata sottolineata soprattutto da Tommaso, che considerava la funzione magistrale come coadiuvante subordinato all’agente principale, che è la natura del discepolo: un concetto che sarà poi, dopo secoli, ripreso e sviluppato dall’Attivismo moderno con la formulazione del principio della centralità dell’allievo (​​ Scuole Nuove). I costitutivi della professionalità magistrale sono sostanzialmente: 1) funzione di «guida», «animatore», «trascinatore», arricchendosi di doti squisitamente «umane»; 2) doti spirituali, culturali, psicologiche, didattiche; 3) possesso e uso pertinente di tecniche didattiche, destinate a facilitare e a rendere efficace il comunicarsi e il comunicare (​​ insegnante​​ ,​​ ​​ insegnamento).

2. L’idoneità a insegnare educativamente nella scuola primaria (o «scuola di base») richiede un processo previo di selezione e di formazione del m. Selezionare i candidati alla professione magistrale in base a precisi requisiti attitudinali, riducibili ai seguenti: 1)​​ attitudini:​​ fisiche, intellettuali, sociali; 2)​​ disposizioni:​​ affettive, morali, religiose, temperamentali, caratterologiche. L’esame di tali complessi di attitudini e disposizioni deve essere sostanzialmente di ordine diagnostico e prognostico. In molti Paesi, gli Istituti o le Facoltà di preparazione magistrale svolgono sia una funzione selettiva che formativa. La formazione, in particolare, esige un processo di direzione e orientamento di tipo istruttivo e addestrativo (mediante l’insegnamento di nozioni psicologiche, pedagogiche, didattiche; e mediante un tirocinio guidato e controllato). Importante è la valutazione periodica e ben mirata dell’acquisizione di capacità precise di ordine psico-pedagogico e didattico, generale e specifico per le diverse discipline d’insegnamento.

3. Il concetto di m. nella sua formulazione classica ha due significati; uno «possessivo» di​​ ​​ maturità piena della personalità; uno «dativo», di capacità comunicativa dei valori personali. Nel primo senso, l’uomo è​​ magister sui​​ (padrone del suo essere e del suo agire); nel secondo, è​​ magister alterius​​ (guida degli altri per arricchirli). Prima di essere m. degli altri, l’uomo deve essere m. di se stesso. Questa è chiamata tradizionalmente «legge di maestria», illustrata ampiamente dal filosofo dell’educazione Raffaele Resta. Ovviamente, nel m. ben formato si richiede una chiara e operativa conoscenza del testo, dei principi e dello spirito dei programmi ufficiali della scuola primaria. In Italia, i​​ Programmi​​ del 1985 rappresentano una formulazione scientificamente giustificata e storicamente matura delle modalità di attuazione di un curricolo formativo del fanciullo moderno.

Bibliografia

Titone R.,​​ Psicodidattica,​​ Brescia, La Scuola, 1977 / 1986; Postic M.,​​ La relazione educativa. Oltre il rapporto m.-scolaro,​​ Roma, Armando, 1993; Grillo M. R.,​​ Il m.: umanità e saggezza, Ibid., 2003.

R. Titone

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MAESTRO

MAGISTERO

 

MAGISTERO

1.​​ Il termine.​​ È solo da tempi relativamente recenti (come ha dimostrato P. Congar in “Concilium” 7 [1976] 157-173) che il termine M. indica il corpo dei Pastori nella Chiesa. In passato, con esso si faceva riferimento a tutta l’ampia funzione di insegnamento, includendo i → catechisti; questo era ancora il senso che dava al termine M. il Rosmini nella sua opera Le​​ cinque piaghe della Chiesa.​​ Dopo il Vaticano I è invalso l’uso di chiamare M. il corpo dei Pastori (Papa e Vescovi); e normalmente per sottolineare la loro funzione di predicazione o di insegnamento, ma talvolta anche senza distinguerla dalle altre due funzioni, quella sacerdotale e quella pastorale; cosicché diventa quasi sinonimo di Pastori. Oggi però si constata, per l’opposto, la tendenza a tornare alla accezione più generale, che era in uso in passato; si parla perciò anche di M. dei teologi, di M. professionale, a volte anche del M. dei catechisti...

2.​​ Compito, ambiti e caratteri.​​ Anche se il termine provoca a sottolineare la funzione di insegnamento, il “munus docendi” di cui parla la​​ Lumen gentium​​ al n. 25, tuttavia bisogna rifarsi all’essenza generale del carisma dei Pastori nella Chiesa, prima di vederne ciò che caratterizza la funzione specifica richiamata dal termine M.

— Compito fondamentale e generale,​​ che qualifica il carisma proprio dei Pastori, è quello di “guidare” le comunità, la Chiesa. In linguaggio giuridico il Vaticano I ha parlato anzitutto del Papa in termini di “principio visibile dell’unità”; ma il Vaticano II ha applicato questa definizione anche ai Vescovi, poiché essi sono all’interno delle loro Chiese particolari “principio visibile di unità”. Il “visibile” bisogna sottolinearlo fortemente, oggi; e i testi ecumenici, soprattutto dal decreto​​ Unitatis redintegratio​​ in poi, lo fanno esplicitamente, per annotare che reale principio perenne di unità rimane sempre Cristo (con la sua Persona, anche se ormai risorto e in cielo; ma anche con i doni e i segni lasciatici in testamento): è Cristo la “pietra”, e il “Pastore”, anche se ricorre alla vicarierà di persone che ne rendano visibile tale funzione di pietra e di pastore. E ciò va assunto dalla catechesi e dalla predicazione quotidiana, perché è abbastanza diffuso nella mentalità di chi giudica la Chiesa cattolica da fuori (ma talora anche da chi ci vive dentro) il convincimento che la Chiesa quasi sostituisca Cristo, e che i Pastori “succedano” a lui e ne occupino il posto.

— In quale ambito​​ e quanto si esplica tale funzione? Direbbe ancora il Vaticano I (seguito, anche in questo, dal Vaticano II), con linguaggio giuridico: “Pienamente e sommamente”, cioè con potestà piena e suprema, vale a dire su​​ tutto l’oggetto​​ e su​​ tutti i soggetti.​​ Ma tale linguaggio non deve impressionare. Si tratta di misurarlo nel suo significato e nei suoi limiti; come insegna il Vaticano II.

I Pastori, ovviamente, devono servire da punto di riferimento, di armonizzazione e di guida per tutti i soggetti che costituiscono la comunità ecclesiale, e soprattutto per quelli che sono attivi nelle varie funzioni (nel caso specifico: nella ministerialità relativa alla Parola di Dio e alla fede dei credenti); e l’oggetto della loro competenza è quello stesso della Chiesa; la Parola di Dio, in quanto questa deve restare autentica e diventare fruttuosa. Con ciò si indicano già i limiti; e la LG 25, come pure la DV 10, proclamano a chiare lettere che i Pastori non dispongono di una nuova rivelazione, e che essi restano sotto la Parola di Dio. Per questo si dice spesso oggi (anche in qualche testo della Coni. Episc. Ital.) che il carisma dei Pastori non è “la sintesi dei carismi”, ma solo “il carisma della sintesi”.

Man mano, perciò, che si svilupperanno specifici carismi e ministeri nella Chiesa (catechisti, lettori, animatori di liturgia, oranti...), e che si realizzerà la partecipazione di tutti, in modo speciale del laicato adulto e formato, i Pastori saranno sempre meno impegnati ad esercitare in proprio le diverse funzioni concrete; potranno quindi sempre meglio evidenziare solo ciò che li specifica, ossia la funzione di armonizzazione e di guida; non favorendo dunque l’impressione che essi abbiano il monopolio dei compiti ecclesiali (come si rileva dalla LG 30, che ascrive al loro più alto impegno quello di “riconoscere” e “armonizzare” i carismi dei laici). Inoltre (e forse ciò vale ancora meglio a situare esattamente il ruolo del M.) si deve sottolineare sempre di più il carattere missionario della Chiesa, e cioè la finalità di evangelizzazione di tutti gli uomini e di tutte le culture; in questo modo l’impegno di inculturazione farà evidenziare maggiormente la complessità del ministero della Parola e obbligherà a fare spazio a competenze più articolate di altri M., e in particolare dei laici.

— Quali​​ i caratteri​​ del M.? Di solito, anche in certa C. non aggiornata, si sottolinea precipitosamente l’infallibilità, quale nota peculiare del M. Invece il Concilio (cf LG 25 e DV 10) indica come normali altri due caratteri: il M. è​​ autentico e pastorale.​​ Il primo termine resta tuttora un po’ equivoco; ma il senso inteso dal Concilio è chiaro: autentico significa “con autorità”; infatti i Pastori sono guide e principio di unità; e quindi impegnano l’obbedienza, soprattutto quando parlano con autorità; e ciò non vuol dire che quando essi parlano, sempre e automaticamente parla Cristo (avremmo una costante infallibilità!); bensì essi ci richiamano il fatto-principio che siamo “molti, ma un solo corpo”, e che quindi dobbiamo procedere “insieme” anche nel cammino della Parola.

Il termine “pastorale” è più evidente; indica che i Pastori parlano in vista del “bene comune”, anche quando si rivolgono a singoli; e in questo il loro M. si distanzia da quello dei Dottori, e tanto più da quello degli Accademici, che riguarda la dottrina oggettiva, e in quanto bene dell’intelligenza speculativa e quindi della scienza; il M. dei Pastori invece riguarda in prima istanza la Parola in quanto bene del popolo di Dio e in ordine alla vita. Lo Spirito Santo li assiste perché al popolo di Dio sia offerto cibo sufficiente, opportuno, sicuro e sano. L’infallibilità, invece, secondo ambedue i Concilio (Vat. I e II), si verifica raramente, solo a determinate condizioni, e si risolve nell’impedire che la Chiesa intera cada direttamente nell’errore. Perciò, mentre l’autenticità e la pastoralità sono caratteri che qualificano il M. in modo costante, l’infallibilità qualifica solo alcuni suoi atti, anzi meglio, alcune “proposizioni” da esso definite.

3.​​ Come e quanto​​ interviene il M.? Possiamo scandire tre momenti significativi.

— Anzitutto, il M. ha la responsabilità di individuare il​​ nucleo essenziale​​ della Parola di Dio. Infatti la Parola di Dio è costituita da tanti elementi; è un tutto vivo, ma molti dati sono solo strumentali, e appartengono alla cultura che riveste la Parola (pensiamo alla Bibbia in concreto, ai molti suoi libri, alle molte tradizioni umane che coinvolgono...). Il popolo di Dio deve poter attingere la sostanza, perciò il seme vitale e centrale. Tutto ciò comporta precisazioni, richiami, interpretazioni. Quindi la DV 10 riafferma giustamente il celebre principio: il M. “pie audit​​ (ascolta devotamente; come ogni altro credente sottostà alla Parola; si metta dunque più dalla parte dei fedeli che non dei dottori e teologi),​​ sánete​​ custodii​​ (ha la responsabilità di conservare gelosamente il Deposito),​​ et fdeliter exponit​​ (trasmette e spiega la Parola con fedeltà)”.

— Inoltre, il M. è chiamato in causa ai fini di rendere possibile e facile​​ la comunicazione nella Chiesa.​​ Qui entra in causa il problema del “linguaggio”, e soprattutto di quel fondo di “linguaggio comune” (“koinè”) senza il quale nella Chiesa non ci si potrebbe intendere né comunicare la fede. La comunità deve non solo accogliere la Parola di Dio, ma anche parlarla (con essa​​ parlare), e soprattutto evangelizzare, comunicarla a quelli “di fuori”. Ogni società e comunità hanno bisogno di una lingua, e specialmente di alcune parole chiave per intendersi. Ecco un campo di responsabilità del M. Pensiamo ai primi Concili, che sembrano esaurirsi nella consacrazione di alcuni pochi termini!

— Infine, il M. non solo non deve escludere​​ altri ministeri,​​ ma deve anzi promuoverli; perché solo così la ricchezza infinita della Parola viene autenticamente valorizzata. Il M. ha il compito di capitalizzare le esplorazioni e le verifiche già maturate e che sono frutto dello Spirito degno di nutrire tutta la Chiesa; deve perciò curare la circolazione e lo smistamento dei doni di sapienza e scienza spirituale.

La C. dovrebbe anch’essa fornire suoi propri doni, perché la Verità cristiana è seme che si riconosce dai frutti, cioè Parola (e Verità) che esige verifica nella vita, nella crescita concreta della fede. Per questo, però, anche la C. ha bisogno di essere “guidata” dal M.; sia per avere indicazioni sui nuclei centrali della fede, e sia per ricevere orientamenti pastorali di fondo. Ecco il senso, per l’Italia, del Documento Base e dei Nuovi Catechismi. Solo a queste condizioni il M. specifico che è proprio dei catechisti saprà integrarsi col M. dei Pastori, così che tutta la Chiesa sia condotta dallo Spirito nella pienezza della Verità.

Bibliografia

Commissione Teologica Internazionale,​​ I mutui rapporti tra magistero ecclesiastico e teologia​​ (6-61976),​​ in​​ Enchiridion​​ Vaticanum,​​ vol.​​ V, Bologna, EDB, 1979, 1310-1325;​​ 1 linguaggi della fede,​​ in “Credere oggi” 4 (1984) n. 19 (problema specifico del rapporto tra il M. [e il suo linguaggio] e le altre istanze linguistiche [teologia, C...] nella Chiesa; con relativa bibl.); G. Marinelli,​​ Il Magistero,​​ Rovigo, 1st. Pad. Arti Grafiche, 1972.

Luigi Sartori

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MAGISTERO

MAGISTERO – XX secolo

 

MAGISTERO (XX secolo)

Il M. cat. dei papi, delle Congregazioni romane, delle Conferenze Episcopali e dei singoli vescovi si intensifica nel XX secolo, sia a livello dottrinale che organizzativo, toccando “tutta la gamma della problematica cat., dalla riorganizzazione del catechismo parrocchiale al testo ufficiale, dalla preparazione dei catechisti alla istituzione degli organismi direttivi” (L. Csonka), dalla evangelizzazione alla C.

Il primo impulso venne da san Pio X, con l’affermazione del primato della C. fra le forme di apostolato (enc.​​ Acerbo nimis​​ del 1905), la pubblicazione di un catechismo (1905 e poi 1912) e la riorganizzazione della C. parrocchiale (riordinamento della struttura del Vicariato di Roma, con una Commissione cat. a capo della C. diocesana e la Congregazione della Dottrina Cristiana nelle parrocchie, ecc.). Anche il suo decreto​​ Quam singulari​​ (1910) sulla​​ prima comunione​​ ha un notevole influsso sul movimento cat., in quanto stimola al rinnovamento della C. dei piccoli.

A Benedetto XV è dovuta la promulgazione del CJC (1917), che riprende e riordina tutta la legislazione precedente. A Pio XI si devono le nuove strutture organizzative della C.: l’Ufficio Cat. Centrale presso la S. Congregazione del Concilio, istituito con il “motu​​ proprio”​​ Orbem catholicum​​ del​​ 29-61923,​​ e gli Uffici Cat. Diocesani, su cui si insiste nel decreto​​ Provido sane​​ del​​ 12-11935.​​ In esso si afferma che “l’istituzione cat. è il fondamento di tutta la vita cristiana”, e si ripetono tre disposizioni fondamentali: l’erezione della Confraternita della Dottrina Cristiana in ogni parrocchia, l’istituzione della Scuola di Catechismo domenicale con l’intervento di catechisti laici, la cura particolare dell’istruzione degli adulti. Durante il Pontificato di Pio XI hanno luogo diversi interventi indirizzati alla formazione dei catechisti, ai vari livelli. La S.C. dei Seminari prescrive nel 1926 l’introduzione di un corso di catechetica nei seminari, per preparare i futuri sacerdoti all’apostolato cat. (cf AAS 18 [1926] 451-455), e nel 1929 l’istituzione di una cattedra di catechetica nei corsi teologici (cf AAS 22 [1930] 146-148). Le Enc.​​ Divini illius Magistri​​ (31-12-1929) e​​ Casti connubii​​ (31-12-1930) confermano la vocazione educatrice dei genitori e insistono sulla necessità della loro preparazione a questo compito.

Le direttive e gli insegnamenti cat. di Pio XII sono contenuti soprattutto nei suoi discorsi. Egli vede l’ignoranza religiosa come “una piaga aperta nel fianco della Chiesa” e fa appello ai genitori, ai maestri e insegnanti, ai sacerdoti e ai laici militanti perché intensifichino l’attività cat. Il papa Giovanni XXIII riafferma il primato della C., e nei suoi discorsi usa spesso il termine “catechesi”. Nell’enc.​​ Pacem in terris​​ insiste affinché l’istruzione religiosa si adegui a quella scientifica, sempre in progresso. Paolo VI inserisce il rinnovamento della C. in quello conciliare di tutta la Chiesa. Durante il suo pontificato venne promulgato il → DCG e si tennero i Sinodi dei Vescovi sulla Evangelizzazione (da cui l’esortazione apostolica → EN) e sulla C. Giovanni Paolo I tenne efficaci discorsi cat. nel suo breve pontificato, e toccò

a Giovanni Paolo II la stesura finale della esortazione → CT, che riaffermò il valore del DCG e mise in rilievo alcuni punti fondamentali per lo sviluppo della C.

Dal 1975 è anche operante un Consiglio Internazionale per la C., accanto all’ufficio secondo (Pastorale) della Congregazione per il Clero. Al magistero dei papi si è aggiunto, dopo il Vaticano II, quello delle Conferenze Episcopali. Molte di esse hanno pubblicato → Direttori per la C. (Italia, Francia, USA, Argentina, Filippine, ecc.) e svolto una intensa attività di promozione della C. Al Sinodo tedesco del 1974 si deve un importante documento sulla natura e sulle finalità dell’IR nella scuola.

Bibliografia

A. Balocco,​​ Un memorabile trentennio nella storia della catechesi​​ (1905-1935),​​ in “Rivista Lasalliana” 29 (1962) 3-27; L. Csonka,​​ Direttive e suggerimenti di Pio XII riguardo all’insegnamento religioso,​​ in “Orientamenti Pedagogici” 2 (1955) 515-537; In.,​​ Storia della catechesi,​​ in P. Braido (ed.),​​ Educare.​​ Sommario di Scienze dell’Educazione,​​ Zürich,​​ PAS-Verlag, 1964, III, 163-173; G. F. Frumento,​​ Contenuto dottrinale ed organizzativo dei Documenti Pontifici sulla Catechesi dal 1905 ad oggi,​​ in “Rivista del Catechismo” 11 (1962) 243-260; G. Luzi,​​ La legislazione catechistica di Pio XI: studio canonicocatechistico,​​ Torino, Ufficio Cat. Centrale Salesiano, 1941; S. Riva,​​ Insegnamenti catechistici del B. Pio X,​​ Rovigo, IPAG, 1953.

Ubaldo Gianetto

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MAGISTERO – XX secolo

MAGISTERO DELLA CHIESA

 

MAGISTERO DELLA CHIESA

In orizzonte cristiano-cattolico, M. sta ad indicare il potere e la pratica che la​​ ​​ Chiesa ha di insegnare e interpretare autorevolmente il messaggio evangelico e la tradizione ecclesiale. Solitamente si distingue un M. ordinario, affidato alla comunità cristiana che adempie tale compito con la​​ ​​ catechesi, la predicazione, le lettere pastorali, ecc.; e un M. straordinario o solenne di cui fanno parte gli insegnamenti del Papa e dei concili ecumenici, tesi a conservare indefettibilmente il patrimonio di fede e a definire aspetti della dottrina cristiana.

1. Sempre presente negli interessi del M.d.C. il tema dell’educazione negli ultimi tempi è stato oggetto di particolare attenzione. Basti ricordare nel sec. scorso quanto si afferma in alcuni tra i documenti più significativi, come l’enc. di Pio XI​​ Divini illius Magistri,​​ il decreto​​ Gravissimum Educationis​​ (GE) del Vaticano II, o il Codice di Diritto Canonico del 1983, che dedica all’argomento un ampio e rinnovato sviluppo rispetto al precedente (can. 793-821). Il motivo di questa dilatata attenzione magisteriale per l’educazione sta sia nell’accresciuta importanza che l’argomento ha avuto nel contesto sociale e culturale odierno sia nella pluralità di visioni pedagogiche oggi presenti, non sempre immediatamente coniugabili con una visione cristiana della​​ ​​ vita e della​​ ​​ persona. La situazione è il risultato di un’evoluzione storica. All’inizio dell’epoca moderna, in continuità con la propria tradizione, la Chiesa cattolica ribadiva in modo inequivocabile la sua competenza in ambito educativo, nella convinzione che non esisteva altra educazione che non fosse stata quella cristiana. Lo possiamo verificare, ad es., nelle autorevoli affermazioni del Concilio Lateranense (1512-1517) e del Tridentino (1545-1563). Nei secoli successivi, tuttavia, si assiste al progressivo affermarsi del pluralismo culturale ed al sorgere della pedagogia come sapere autonomo, a volte non cristiano. Comincia così, per la Chiesa cattolica, un confronto che la porta in più occasioni a reagire per affermare i principi della sua tradizione, in alcuni casi polemicamente, in altri ricercando il dialogo.

2. La posizione più autorevole del M. odierno sull’argomento è espressa nel documento GE del Vaticano II. Tra i punti fermi del documento va registrata la convinzione che «tutti gli uomini di qualunque razza, condizione ed età, in forza della loro dignità di persona, hanno il diritto inalienabile ad una educazione che risponda al proprio fine, convenga alla propria indole, alla differenza di sesso, alla cultura e alle tradizioni del loro Paese, e insieme aperta a una fraterna convivenza con gli altri popoli al fine di garantire la vera unità e la vera pace sulla terra» (GE 1). I primi responsabili dell’educazione sono i genitori, ai quali competono il diritto e il dovere di promuovere lo sviluppo dei figli sotto ogni aspetto: fisico, intellettuale, morale e religioso. Per svolgere il loro compito hanno il diritto di godere delle condizioni necessarie, e di avere a disposizione i mezzi idonei. Compete alla società civile, in particolare allo Stato, non violare questo diritto fondamentale. Anzi, lo Stato, con la ricchezza delle sue strutture educative, è chiamato ad aiutare il compito della famiglia, in virtù della sua funzione sussidiaria ed in forza della giustizia distributiva (cfr. GE 3,2; 6,1; 6,2). A sostegno della responsabilità educativa si pone in modo del tutto particolare la Chiesa. Essa ritiene di dover essere riconosciuta idonea al compito di educare già come società umana; ma ancor più in virtù della sua missione pastorale. La responsabilità educativa della Chiesa, infatti, scaturisce dalla sua missione salvifica e non investe esclusivamente i minori, ma riguarda le loro famiglie, le istituzioni e l’intera società, nella quale è chiamata ad essere segno profetico di valori cristiani ed umani.

Bibliografia

Sinistrero V.,​​ Il​​ Vaticano II e l’educazione,​​ con la dichiarazione su l’educazione cristiana. Genesi,​​ testo,​​ commento,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1970;​​ Codice di diritto canonico,​​ 1983, can. 793-821; Giovanni Paolo II,​​ Christifideles laici,​​ 1988, nn. 57-63; Groppo G.,​​ Teologia dell’educazione. Origine identità compiti,​​ Roma, LAS, 1991; Galli N. (Ed.),​​ L’educazione cristiana negli insegnamenti degli ultimi pontefici. Da Pio XI a Giovanni Paolo II, Milano, Vita e Pensiero, 1992; Pont. Cons. Iustitia et Pax,​​ Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Città del Vaticano, LEV, 2004.

R. Rezzaghi

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MAGISTERO DELLA CHIESA

MAGISTRALE istituto / scuola

 

MAGISTRALE: istituto / scuola

L’istituto m. (scuola secondaria di durata quadriennale finalizzata alla preparazione degli insegnanti elementari) e la scuola m. (fino al 1933 definita scuola di metodo per l’educazione materna, di durata triennale, per la formazione degli insegnanti della scuola materna) furono entrambi istituiti nell’ambito della riforma scolastica del 1923, rispettivamente previsti dal R.D. 6.05.1923, n. 1054 e dal R.D. 31.12.1923, n. 3106.

1. L’istituto m., inizialmente di durata settennale (quadriennio inferiore e triennio superiore) e organizzato secondo un impianto umanistico e didattico ispirato a quello del ginnasio-liceo, sostituì le preesistenti​​ ​​ scuole normali, con il proposito di privilegiare più la formazione culturale che le competenze tecnico-professionali come dimostrava l’arricchimento dei programmi (che prevedevano anche l’insegnamento della filosofia e del lat.) e la contestuale soppressione del tirocinio che ampio spazio aveva avuto nella tradizione normalista. L’abilitazione m. consentiva l’accesso, previo esame di ammissione, agli Istituti superiori di Magistero per il conseguimento della laurea universitaria (pedagogia, materie letterarie, lingue e letterature straniere) e del diploma di vigilanza ai fini della carriera direttiva nella scuola elementare. La scuola m., a sua volta, regolamentò finalmente in modo organico dopo un dibattito e tentativi durati per molti decenni, la preparazione del personale docente nelle scuole infantili. Mentre gli istituti m. furono presenti in prevalenza nell’ambito dell’istruzione statale, le scuole m. (caso piuttosto infrequente nel sistema scolastico italiano) furono per lo più affidate all’iniziativa di enti e privati con un intervento dello Stato piuttosto modesto.

2. Col trascorrere degli anni tanto l’istituto m. quanto la scuola m. sono stati interessati da notevoli cambiamenti, pur nella permanenza del quadro normativo definito nel 1923. In seguito alla unificazione, prevista dalla riforma Bottai del 1939, dei corsi inferiori nella scuola media triennale, l’istituto m. assunse la fisionomia quadriennale che conserva tuttora. Con i programmi del 1945 furono introdotti l’insegnamento della psicologia e la pratica del tirocinio allo scopo di potenziare gli aspetti professionali del corso di studi. La liberalizzazione degli accessi universitari del 1969 rese infine necessaria la creazione negli istituti m. del cosiddetto quinto «anno integrativo» per equiparare la durata quadriennale ai corsi quinquennali degli altri istituti secondari. Nel frattempo il riordino degli esami di Stato del febbraio 1969 trasformò l’abilitazione m. in «maturità m.». A partire dalla fine degli anni Settanta, in mancanza di interventi riformatori nel settore dell’istruzione secondaria (più volte progettati, ma mai andati in porto) tanto l’istituto m. quanto la scuola m. sono stati soggetti a numerosi processi di sperimentazione quinquennale. Sono state in tal senso avviate numerose esperienze di liceo pedagogico e di liceo psico-socio-pedagogico. Le vicende sopra descritte si sono, a loro volta, intrecciate con i dibattiti sulla qualità, la durata e l’impianto culturale della formazione degli insegnanti primari e della scuola materna. Con il tempo è prevalsa la convinzione dell’opportunità del suo spostamento a livello universitario. Questo traguardo, già indicato nella L. delega del 1973, è stato sancito dalla L. di riforma universitaria n. 341 del 1990 che ha infatti previsto l’istituzione di un apposito corso di laurea per la formazione degli insegnanti primari e della scuola materna (corso di laurea in Scienze della formazione primaria) avviato in una ventina di sedi universitarie a decorrere dall’anno accademico 1997-98. Di conseguenza con D.L. 10 marzo 1997 il Ministero della Pubblica Istruzione ha progressivamente soppresso i corsi dell’Istituto M. che ha definitivamente cessato di esistere alla fine dell’anno scolastico 2001-02.​​ 

Resta aperto il dibattito nell’ambito del riordino della scuola secondaria se sia opportuna la persistenza di un indirizzo psico-socio-pedagogico (tesi sostenuta da quanti ritengono necessario coltivare la cultura socio-educativa fin dagli anni adolescenziali, pur in un quadro di ampia flessibilità, già fatta propria dalla Commissione Brocca e confermata dalla L. n. 53 / 2003 che prevede il liceo delle Scienze Umane) anche per l’accesso ai corsi universitari di tipo pedagogico oppure sia sufficiente una buona formazione culturale generale.

Bibliografia

Ministero dell’Educazione Nazionale,​​ Dalla riforma Gentile alla Carta della scuola,​​ Firenze, Vallecchi, 1941; Agazzi A.,​​ La formazione dell’insegnante,​​ Bari, Laterza, 1964; De Vivo F.,​​ La formazione del maestro dalla legge Casati ad oggi,​​ Brescia, La Scuola, 1986; Zuccon G. C.,​​ Il progetto della Commissione Brocca. Piani di studio della scuola secondaria superiore e programmi del biennio,​​ Ibid., 1991; Di Pol R. S.,​​ Cultura pedagogia e professionalità nella formazione del maestro italiano, Torino, Sintagma, 1998; Luzzatto G.,​​ Insegnare a insegnare. I nuovi corsi universitari per la formazione dei docenti, Roma, Carocci, 1999; Chiosso G.,​​ Le débat sur la formation des enseignants en Italie, in «Politique d’Éducation et de Formation»​​ (2002) 5, 81-94; Galliani L. - E. Felisatti,​​ Maestri all’Università. Modello empirico e qualità della formazione iniziale degli insegnanti, Lecce, Pensa, 2002; Damiano E.,​​ L’insegnante. Identificazione di una professione,​​ Brescia, La Scuola, 2004.​​ 

G. Chiosso

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MAGISTRALE istituto / scuola

MAKARENKO Anton Semënovič

 

MAKARENKO Anton Semënovič

n. a Belopol’e nel 1888 - m. a Golicyno nel 1939, scrittore, pedagogista e educatore ucraino.

1.​​ Vita e opere.​​ Di famiglia operaia e credente. Di salute cagionevole, dopo l’anno per poter insegnare (1904), si dedica sempre più alle letture, specie con l’inizio dell’insegnamento a Krjukov nel 1905 e poi a Dolinskaja (1911). Nel 1914 è ammesso all’istituto magistrale triennale di Poltava e frequenta un gruppo di studenti orientato alla socialdemocrazia. Fatto il militare a Kiev, per pochi mesi, a causa della salute, termina il corso a Poltava, con un saggio su​​ La crisi della pedagogia moderna,​​ premiato con la medaglia d’oro, e nello stesso anno (1917) è direttore di una scuola per ferrovieri a Krjukov. Nel 1919 si trasferisce, come direttore, a Poltava, dove è membro di organismi sindacali. Nel 1920 è incaricato della direzione della colonia di lavoro per ragazzi di strada a Triby, dove arriverà la Grigorovič. Alla fine dell’anno ottiene di passare nella fattoria Trepke a Kovalevka e, falliti i tentativi psico-pedagogici, si impegna nella costruzione del​​ collettivo.​​ Nel 1922 nascono i «reparti», con propri comandanti, e cominciano le ispezioni ufficiali, con valutazioni alterne. M. va a Mosca per un breve periodo di studio, cui fanno seguito nel 1923-24 due suoi articoli sulla colonia «Gor’kij» (come la chiamò). Nasce il «Consiglio dei comandanti» e la banda musicale, migliorano pure le condizioni economiche generali (1924), ma cominciano gli scontri con il Commissariato per l’educazione popolare (Narkompros). Nel 1925, si costituisce il Komsomol (associazione della gioventù comunista) e inizia una corrispondenza regolare con Gor’kij. Nel suo 5° anniversario, si decide il trasferimento della colonia, che passerà, nel 1926, al convento di Kurjaž, dove c’erano già centinaia di altri ragazzi. Nell’ottobre 1927 è contattato dalla GPU per organizzare e dirigere una loro «comune», in onore di F. E. Dzeržinskij, mentre è aspramente criticato per il militarismo e i castighi. Nel dicembre 4 educatori e 60 ragazzi si trasferiscono nella comune, solennemente inaugurata. Nel ’28 viene discussa con lui l’impostazione della medesima; poco dopo, viene proibito il sistema dei «comandanti» e si propone l’affidamento della colonia al comitato esecutivo di zona: M. pensa di dimettersi. Nel luglio, Gor’kij visita la colonia e la comune. Poco più tardi, si impone a M. o di rinunciare ai comandanti o di lasciare la colonia. M. si ritira e accelera la stesura del​​ Poema pedagogico,​​ pressato da Gor’kij. Nell’agosto del ’29 arriva nella comune un «direttore politico» e M., sentendosi emarginato, pensa ad altre possibilità. Nel 1930 scrive​​ Na veletens’komu fronti​​ (Sul fronte gigantesco), che consegna per la stampa con la prima parte del​​ Poema:​​ questa è respinta. La comune prospera e si costituisce una «facoltà operaia». M. mette a punto la​​ Mars 30 goda​​ (Marcia dell’anno 30), mentre, contro il suo parere, si annullano i posti di educatore e prendono il sopravvento interessi economici (1931). Al ritorno dalle vacanze, si vede sostituito da un nuovo direttore. In novembre stampa la​​ Marcia dell’anno 30​​ e prepara, per il 5° anniversario della comune,​​ Pedagogi poržimajut plečami​​ (I pedagoghi alzano le spalle). È incoraggiato e aiutato da Gor’kij, che insiste sul​​ Poema,​​ cui M. si sta dedicando e di cui si pubblica la prima parte (1933). Nel 1934, diventa membro dell’associazione degli scrittori dell’URSS. Nelle vacanze fa l’ultimo viaggio con i comunardi e finisce la 2a​​ parte del​​ Poema,​​ che esce nel 1935. Malato di cuore, in luglio è nominato funzionario al Commissariato per le colonie di lavoro e si trasferisce a Kiev, da dove spedisce la 3a​​ parte del​​ Poema,​​ che uscirà nel 1936. Dopo un soggiorno a Mosca, prepara, con la moglie,​​ Kniga dlja roditelej​​ (Il libro per i genitori). A giugno muore Gor’kij e, a luglio, ha luogo il ripudio ufficiale della​​ ​​ «pedologia»​​ con piacere di M., che chiede l’esonero dalle sue funzioni per dedicarsi a scrivere. Si svolgono i grandi processi epurativi e si rilanciano le tesi di M., allineato sulle posizioni ufficiali; accetta la direzione temporanea della colonia di Brovary, nei pressi di Kiev, mentre pubblica vari articoli d’occasione. Nel febbraio del ’37 si trasferisce a Mosca, dove si moltiplicano i suoi interventi orali e scritti. La sua salute peggiora e deve ricoverarsi più volte. È ancora oggetto di polemiche in patria, mentre all’estero, dove sono già in commercio tre traduzioni del​​ Poema,​​ si diffonde la sua fama. Nel gennaio del 1939 gli è conferito l’«Ordine della bandiera rossa» per i suoi meriti letterari e, da allora, si moltiplicano i consensi. Ripresenta domanda di iscrizione al partito (accolta dopo la sua morte), si propone alla direzione di una scuola di Mosca (ottenendone risposta affermativa) e, dopo un viaggio a Char’kov, si ritira nella casa degli scrittori di Golicyno, dove, volendo rientrare nella capitale, muore nella stazione, il 1° aprile.

2.​​ Il pensiero pedagogico.​​ Formatosi sui classici, se ne distacca, come dalla pedologia, nell’impatto con i colonisti, pur avendo impiantato, prima, un laboratorio psicologico. Elaborò, nella scia del marxismo-leninismo e della tradizione russa, una​​ concezione collettivistica,​​ di cui venne formulando gradualmente le tesi teoriche. Il​​ Poema pedagogico​​ ne è testimonianza.

2.1. L’«uomo nuovo»:​​ è il punto di partenza teorico; coincide, di fatto, con l’uomo sovietico,​​ anima ed espressione della nuova società: è «un cittadino utile, qualificato, formato e politicamente istruito ed educato», lottatore, creativo, votato alla causa. Gli compete una​​ «nuova etica»,​​ non individualistica, come la vecchia, ma tesa a unire gli uomini, alla creazione del​​ collettivo.​​ La sua​​ educazione​​ sarà dunque​​ politica,​​ frutto di un processo induttivo dall’esperienza, anziché da deduzioni da una supposta natura o da altre scienze, come voleva la pedologia. Si tratta di una nuova logica, dal basso, per la​​ costruzione​​ e non per uno sviluppo precostituito dell’«uomo nuovo».​​ Al più si potrà dedurre il «metodo della pedagogia dai nostri fini» (Soč.,​​ V, 362). Di fatto,​​ fine ultimo​​ è la​​ felicità,​​ «nostro dovere morale» (Ibid.,​​ 453-454), e questa felicità dev’essere​​ collettiva.

2.2 Il​​ collettivo:​​ di origine russa, per M. è il tutto dell’educazione; è metodo, mezzo e fine; «il collettivo educa». Include giovani e vecchi, educandi ed educatori, con ruoli e funzioni differenziate, in base al principio: «le più elevate richieste all’uomo, ma, al tempo stesso, il più grande rispetto di fronte a lui» (Ibid.,​​ 229), con una responsabilizzazione di tutti e il superamento del «principale vizio pedagogico», la «convinzione che i ragazzi sono soltanto oggetto di educazione» (Ibid.,​​ III, 137). Anche gli educatori sono organizzati in collettivo, sebbene questo sia «forse, il più difficile problema della nostra pedagogia» (Ibid.,​​ 177), sul quale «nella futura pedagogia si dovrà scrivere tutto un libro» (Ibid.,​​ 183): il che egli stesso cercò di fare. Il​​ collettivo dei ragazzi​​ invece è organizzato attorno a un​​ centro,​​ come persona (all’origine, il direttore, poi anche il dirigente pedagogico, del Komsomol e dei pionieri) e come stanza, con un insieme di​​ reparti​​ o collettivi di base, che condividono, ciascuno sotto un comandante, vita e impegni e che, uniti, costituiscono l’assemblea,​​ con potere decisionale e giudiziario. Un ruolo importante, come organo esecutivo, aveva il​​ consiglio dei comandanti​​ (nel quale si entrava per cooptazione) e, a livello di quotidianità, il​​ comandante di turno,​​ cui spettava la responsabilità disciplinare dell’intero collettivo per un tempo limitato (e variato). Originariamente, il​​ direttore​​ è stato il punto di riferimento principale nella vita del collettivo. M. confessa di essere stato, all’inizio, un dittatore, mancando altri supporti, ma poi progressivamente si trasforma in educatore, con compiti specifici, quale primo membro del collettivo stesso. Tali compiti riguardavano specialmente i rapporti con i singoli, verso i quali era sempre disponibile, e che poteva anche castigare, ma non perdonare, che doveva amare, senza sdolcinature però e senza pretendere un contraccambio. Il collettivo ha un suo​​ stile e tono.​​ Il primo è definito dalla​​ disciplina cosciente​​ (di derivazione leniniana), più fine che mezzo educativo, nonché dall’ordine, dalla pulizia, dalle tradizioni, simboli, divise e comportamenti comuni; il tono, che ne dipende, dev’essere sempre «maggiore»: espressione di un clima di allegria, entusiasmo e disponibilità generalizzati e contagiosi. In tale prospettiva, al suo interno, si distingue tra un​​ «attivo»,​​ con funzione di animazione e di esempio, un​​ «sano passivo»,​​ costituito dai nuovi e dai piccoli, un​​ «attivo pigro»,​​ fatto dai furbi, dalla condotta variabile secondo le convenienze, e, infine, la​​ «palude»,​​ che raccoglieva gli inerti.

2.3. Il​​ lavoro e la metodologia del collettivo:​​ il​​ lavoro​​ è stato lo strumento più efficace per la costruzione del collettivo, sebbene poi affiancato dalla scuola, con ugual numero di ore (4 e 4 ogni giorno), ma con un differente apporto educativo. Il lavoro è, in senso stretto,​​ produttivo,​​ benché con modalità diverse (prima agricolo, poi di laboratorio e, infine, di fabbrica). Esso era solennizzato da un proprio cerimoniale, con feste, momenti celebrativi e particolari incentivazioni, con modalità diverse specie in rapporto al «salario». Le situazioni di emergenza od occasionali, con esigenze transitorie, hanno portato alla costituzione dei​​ «reparti misti»,​​ «la scoperta più importante» nello sviluppo del collettivo. Erano transitori, composti, prevalentemente, da comandanti, sottoposti, nel caso, agli ordini di un colonista, evitando così l’affermarsi di caste privilegiate. La​​ metodologia​​ operativa si articola, con l’esperienza e il superamento della contrapposizione tra educazione e rieducazione, in due momenti: 1’«esplosione»,​​ iniziale, di impatto con il collettivo, con una sovversione di abitudini e comportamenti, in funzione di una svolta radicale; e l’«infiltrazione»,​​ successivo, più duraturo, con una penetrazione e assimilazione graduale e cosciente degli indirizzi del collettivo, anche mediante la​​ competizione. Essa si realizza però​​ a livello di gruppo, anziché individuale, stimolata dal «sistema delle​​ prospettive»:​​ «nostra seconda importantissima istituzione». La prospettiva, a breve, medio o lungo termine, propone una meta raggiungibile, che consente ai ragazzi «la gioia del domani», «vero stimolo della vita umana»; inoltre, applicata alla produzione impegna al superamento di sé, alla lotta, alla vittoria: tutti concetti paradigmatici in M. e con risvolti catartici. Le prospettive furono utilizzate anche con riferimento all’alcolismo, alla religione e soprattutto al furto.

3.​​ Valutazione:​​ consentendo con quanto M. dice: «io non posso affermare di essere giunto a conclusioni definitive. Io resto ancora, come probabilmente voi, nello stadio della ricerca e del divenire» (Ibid.,​​ 251: asserto del 20.10.1938), va rilevato che egli ha conosciuto momenti di esaltazione e di rigetto acritici, momenti di ricerca diffusa e di stanca, al pari dei classici dell’educazione, nel cui novero merita comunque di entrare per il suo impegno, la sua originalità e per le difficoltà che ha incontrato e che non sempre è riuscito a superare con chiarezza. Le possibilità aperte dopo la caduta del comunismo contribuiranno indubbiamente a una sua più equa valutazione, con l’apertura degli archivi, sebbene permanga qualche interpretazione più ideologica che storica.

Bibliografia

a)​​ Fonti: Sočinenija v semi tomach​​ (Opere in 7 voll.), Mosca, Izdatel’stvo Akademii pedag. nauk, 1956-1958 (cit.:​​ Soč.); Sočinenija v os’mi tomach​​ (8 voll.),​​ Ibid., 1983-1986;​​ Gesammelte Werke,​​ Marburger Ausgabe​​ (ediz. critica in corso: voll. 1, 2, 7, 9, 13), Ravensburg, Maier, 1976-1978. b)​​ Studi:​​ contributi più recenti e innovativi: Makarenko V. S.,​​ «Erinnerungen an meinem​​ Bruder», in G. Hillig (Ed.),​​ M.-Materialien III,​​ Marburg, VWG, 1973, 157-222 (trad. it.​​ A.S.M. nelle memorie del fratello,​​ a cura di B. Bellerate, Roma, Armando, 1977); Hillig G. - S. Weitz (Edd.),​​ M.-Diskussionen international,​​ München, Minerva Publikation,​​ 1989; Bellerate B. A.,​​ A.S.M. oggi,​​ in «Pedagogia e Vita» (1995) 1, 11-30;​​ Hillig G.,​​ M. im Jahr des «grossen Terrors», Marburg, Makarenko-Referat,​​ 1998; Floris F.Ch.,​​ La pedagogia familiare nell’opera di A.S.M., Roma, Aracne, 2005.

B. A. Bellerate

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MAKARENKO Anton Semënovič

MALE

MALE

Armido Rizzi

 

1. Premesse metodologiche

1.1. «Mali» e «male»

1.2. Diverse interpretazioni del mate

1.3. Mali «patiti» e «compiuti»

2. Le interpretazioni del male. Rassegna tipologica

2.1. Il male come caos

2.2. Il male come esistenza nel corpo

2.3. La realtà è male

2.4. Né male né bene: l’ambivalenza dell’essere

2.5. L'ottimismo metafisico

3. La sofferenza nella Bibbia

3.1. Adamo: la sofferenza dalla colpa

3.1.1. Il male viene dall’uomo

3.1.2. 11 male è una triste realtà

3.2. Giobbe: il giusto sofferente

3.3. Gesù

4. Rilettura critica

4.1. La coscienza complessa dell’uomo biblico

4.2. Perché il male?

4.3. Verso una interpretazione teologica

5. Giobbe e Prometeo

5.1. Il male «naturale»

5.2. Il male «naturale» contro la bontà di Dio?

5.3. Oltre l’evasione e la sublimazione

5.4. Amore come lotta contro il male nel nome di Dio

1. Premesse metodologiche

1.1. «Mali» e «male»

Il linguaggio quotidiano non parla​​ del male​​ ma​​ di mali​​ particolari, sia quando vengono esplicitamente dichiarati («ho mal di testa») che quando la loro natura rimane sottintesa («va male», «sto male», ecc.). In questi e altri casi analoghi il punto di vista è quello dell’esperienza individuale: nell’immediatezza di una sensazione fisica di dolore o nel calcolo di un progetto fallito o nel diffuso sentimento di un disagio di cui non si conosce la causa.

Quando invece si parla​​ del male,​​ ci si pone su di un piano qualitativamente diverso. Il male non è né un collettivo (la somma dei mali) né un universale in senso scolastico (il concetto dei singoli mali);​​ il male è il significato dei mali dal punto di vista di una determinata interpretazione del mondo.​​ Il mondo, e la vita dell’uomo nel mondo, è come un testo dove le singole esperienze — positive e negative — sono parole e frasi prese nella loro individualità, mentre bene e male costituiscono il significato complessivo, che può essere colto soltanto dentro un’ottica globale, qual è appunto una visione del mondo.

Il significato complessivo si distingue dalle esperienze individuali non solo e non tanto per la sua maggiore ampiezza quanto per il diverso livello di lettura: soggettivo nel primo caso, «oggettivo» (nel senso di transsoggettivo) nel secondo. Così, un insuccesso che brucia può essere accettato come una lezione di vita che riporta sulla strada della verità esistenziale; o ancora, la stessa morte, che per l’individuo come tale è indubbiamente un fenomeno negativo, può essere riscattata dal punto di vista del tutto o da quello della vita oltre la morte.

Dunque, i mali non sono ancora il male; se quelli sono un dato di fatto indiscutibile, questo rappresenta un problema, un interrogativo, a cui sono state date molte risposte. Certo, si tratta di un problema non solo importante ma fondamentale, che fa tutt’uno con il problema del senso del mondo e della vita. L’affermazione del male è inversamente proporzionale all’affermazione del senso. Ma non c’è un solo modo di affermare il male, né c’è soltanto la sua affermazione; ci sono diverse prospettive, che a male e bene danno rilevanza differente componendoli e intrecciandoli secondo varie modalità, oppure eliminando uno dei due per identificare semplicemente la realtà con l’altro.

1.2. Diverse interpretazioni del male

Tra le interpretazioni del male bisogna distinguere, sempre sul piano del metodo (e dunque anteriormente alle singole tipologie di contenuto) quelle che corrispondono a una visione mitico-religiosa del mondo e quelle di carattere metafisico. Le prime, pur rappresentando un trascendimento dell’ottica individuale, si mantengono ancorate alla vita del gruppo (piccolo o grande che sia), ai suoi interessi esistenziali, cioè a un orizzonte antropologico e salvifico. Nelle visioni metafisiche si parla invece del male in assoluto, in riferimento non all’uomo ma all’essere; la distinzione tra mali e male viene qui accentuata, fino a diventare, in qualche caso, irrilevanza dei primi nel pensare la realtà del male come tale. Tipologicamente a metà strada tra visione mitico-religiosa e visione metafisica, e storicamente punto di transizione dall’una all’altra, sono le religioni universali, dove la prospettiva antropologica non viene eliminata ma dilatata da concezioni di un gruppo particolare a interpretazione generale della condizione umana, del destino dell’uomo. È il caso delle grandi religioni orientali e, in occidente, delle tre religioni monoteistiche (ebraismo, cristianesimo, islamismo).

1.3. Mali «patiti» e «compiuti»

Fondamentale è la distinzione tra quel tipo di mali e di male che l’uomo patisce (dolore, sofferenza) e il male che l’uomo compie (colpa, peccato). Distinzione che a volte è separazione pura e semplice di campi, altre volte è articolazione reciproca, nella modalità di causa-effetto: la sofferenza è frutto della colpa, è pena inflitta all’uomo per i suoi peccati. Ma c’è più d’una interpretazione che, pur riconoscendo la distinzione di principio tra colpa e sofferenza, riconduce anche la prima sotto il segno della necessità che caratterizza la seconda, sottraendola alla responsabilità umana nell’accezione propria del termine. Cosi, per Socrate la colpa scaturisce dall’ignoranza del bene, come la virtù scaturisce dalla sua conoscenza; così, per la tragedia greca la colpa è un evento fatale, cui l’uomo inutilmente cerca di sfuggire, e di cui tuttavia porta le funeste conseguenze. Più coerentemente, ampie fette del pensiero contemporaneo, riducendo l’agire umano all’effetto della somma dei condizionamenti (biologici, psichici, sociali), negano la realtà della colpa e la riducono a indebito senso di colpevolezza, dunque in ultima analisi a sofferenza da cui liberarsi.

Come vedremo, nella visione biblica colpa e sofferenza sono legate da un nesso indissolubile e vicendevole: dove c’è colpa si afferma la sofferenza, e dove si ritrova la sofferenza vuol dire che c’è stata colpa. Tuttavia noi tratteremo direttamente del male come sofferenza; la colpa sarà oggetto della nostra riflessione soltanto come causa di quella (per una considerazione più diretta, si veda la voce «peccato»).

 

2. Le interpretazioni del male. Rassegna tipologica

Non intendiamo fare, neppure a tratti rapidissimi, una storia delle concezioni del male, ma disegnare alcuni modelli, alcuni tipi ricorrenti anche a distanza di spazio e di tempo. I riferimenti a particolari figure storiche hanno dunque valore puramente esemplificativo.

 

2.1. Il male come caos

L’interpretazione del male più diffusa nelle religioni arcaiche è quella che distingue e contrappone nella realtà due dimensioni, che vengono spesso e con pertinenza chiamate​​ cosmo​​ e​​ caos.​​ Cosmo è la dimensione ordinata, regolare, e perciò fidata: è Torganizzazione dello spazio e del tempo in modo che l’uomo possa vivere in essi, sentirvisi sicuro, abitarli come casa propria. Una casa non costruita dalle mani dell’uomo ma donatagli dagli dèi; che dunque non rispecchia la sua capacità d’iniziativa ma il senso originario del mondo, l’armonia prestabilita tra mondo e uomo.

Non tutta la realtà, però, è cosmo; non tutto il mondo risponde armonicamente ai bisogni dell’esistenza umana. C’è una condizione di rischio che non viene mai integralmente superata: se la pioggia, per esempio, irrora e feconda la terra nella sua stagione, a volte essa tradisce quest’attesa abbandonando campi e bestiame e umani alla distretta della siccità; o, viceversa, può essere tanto abbondante da far traboccare i corsi d’acqua travolgendo tutto con mortali inondazioni. È questo l’irrompere del caos: l’elemento del disordine, dell’alea, che l’azione cosmogonica (= generatrice di cosmo) degli dèi ha potuto contenere ma non interamente debellare. A volte le forze che mettono a repentaglio resistenza dell’uomo vengono personificate in figure demoniache, altre volte è la stessa divinità a presentare una fondamentale ambiguità, apparendo insieme come portatrice di un potere buono e di una forza distruttiva: è il caso del Signore degli animali nelle civiltà dei cacciatori, o della terra madre feconda e terribile nella civiltà dei coltivatori; altre volte ancora viene stabilita una connessione tra la calamità che ha colpito il gruppo e l’infrazione, anche involontaria, di certe regole (tabù).

Ma gli aspetti che vanno più di tutti sottolineati nella comprensione del male in questa visione del mondo sono da una parte la sua concretezza, dall’altra il suo discernimento. Concretezza, perché il male si identifica con mali determinati, è il loro significato profondo, la loro valenza ontologica: il pericolo dell’uomo o il suo soccombere non sono una faccenda privata ma toccano l’ordine dell’essere. Discernimento, perché quest’identificazione non vale di tutti i mali ma soltanto di quelli che sconvolgono il cosmo; vi sono invece sofferenze, anche dure, che non vengono investite di negatività perché sono considerate momenti costitutivi dell’ordine cosmico: si pensi all’iniziazione con le sue prove, alla morte accettata e a volte santificata (sacrifici umani).

 

2.2. Il male come esistenza nel corpo

Nel​​ Canto notturno di un pastore errante dell’Asia​​ Leopardi chiede alla luna, attraverso le labbra del pastore: «Dimmi, o luna: a che vale / al pastor la sua vita / la vostra vita a voi? dimmi: ove tende / Questo vagar mio breve, / il tuo corso immortale?». La domanda è in realtà un’affermazione: la vita dell’uomo gira a vuoto, è priva di senso, e si rispecchia nel vacuo e vano movimento della luna. Non c’è forse testimonianza più suggestiva del carattere di interpretazione che il male necessariamente riveste, che lo scarto abissale tra gli occhi leopardiani e gli occhi di un uomo delle culture primitive: per questi la luna è una delle espressioni maggiori della regolarità del cosmo, la monotonia del suo girare disegna la geografia del tempo come ambiente familiare, su cui l’uomo misura i ritmi del proprio esistere elementare: la semina e la raccolta, la fecondità e la transumanza. In Leopardi prende voce un altro sentimento della realtà (si noti bene: della stessa realtà): la ripetizione diventa il «nihil sub sole novi», la regolarità legge ferrea cui nulla e nessuno può sottrarsi.

Non si tratta di un sentimento isolato o falsamente aristocratico: tutt’un’epoca della storia occidentale ne è stata toccata. Mi riferisco a quella lunga epoca di crisi che ha accompagnato, sull’arco di alcuni secoli, la fine dell'antichità: dal tardo giudaismo all’ellenismo fino alla caduta dell’impero romano. Crisi politica diversamente motivata, che si riflette anche sul rapporto generale con il mondo, in forma di perdita di fiducia nella sua bontà, e che dà origine all’ampio e invadente movimento gnostico. La gnosi esprime l’esperienza dell’estraneità dell’io umano al cosmo materiale, il sentimento angoscioso del tempo e della natura, vissuti non più come armonia ma come incombente fatalità. Vivere nel corpo e nel tempo è l’essenza stessa del male, perché l’uomo autentico — l’anima — non vi appartiene e non potrà mai trovarvi pace; al più, oblio e stordimento.

In oriente, un sentimento analogo si esprime nel brahmanesimo, dove l’esperienza sensibile e psichica è giudicata illusione perché si muove nell’ambito della​​ maya,​​ il mondo visibile e cangiante, e sottostà alla legge del​​ karman,​​ necessità che riproduce quest’esigenza fallace.

Dunque: il male è qui la stessa esistenza mondana, e la salvezza consiste nell’esserne liberati attraverso la conoscenza del proprio io vero, che permette l’accesso alla dimensione autentica (la patria celeste, nella gnosi; il centro del mondo e dell’io, nel brahmanesimo). Se nella prima figura l’esistenza​​ è​​ salvata in forza del suo stesso essere al mondo, e il male è il rischio di perderla, in questa seconda l’esistenza​​ va​​ salvata: non a caso le religioni come gnosi, misteri, induismo sono «religioni di salvezza».

 

2.3. La realtà è male

Una posizione ancor più radicale nella concezione del male viene rappresentata dal pessimismo cosmico. Esso ha in comune con la figura precedente la condanna dell’esistenza nel mondo; ma identifica con quest’esistenza tutta la realtà dell’uomo, precludendo quindi ogni via di salvezza. È il caso di Leopardi, il cui pastore, se ha lo stesso senso della ineluttabilità del tempo che pervade la gnosi, non ne condivide l’ansia di salvezza ma conclude il suo canto con l’affermazione perentoria: «È funesto a chi nasce il dì natale»; è il caso di Schopenhauer, per il quale il male è la stessa volontà umana nel suo desiderio di vita ineluttabilmente destinato a essere frustrato. Ma anche qui, dietro queste grandi e solitarie figure moderne, c’è un antico messaggio religioso: il buddhismo che, almeno nella sua forma hinayanica, afferma l’equivalenza tra male ed essere, e non può dunque proporre come paradossale salvazione che lo spegnimento del desiderio di essere, di ogni volontà di vita.

2.4. Né male né bene; l’ambivalenza dell’essere

La differenza tra questa concezione e la precedente può sembrare impalpabile: ambedue affermano che non esiste un senso della realtà, e che resistenza dell’uomo nel mondo non ha né un donde né un verso dove, non ha un perché. Il mondo è un dato, dietro il quale non c’è alcuna ragione che lo spieghi, alcun disegno che lo giustifichi: il mondo non ha significato. Ma nel pessimismo la mancanza di significato diventa significato negativo, diventa male, perché contraddice la volontà di vita che definisce 1’esistenza umana. Una diversa posizione viene tenuta, forse con maggiore coerenza, da chi considera la pura datità del mondo non come negatività metafisica ma come semplice coesistenza di elementi positivi e negativi, di beni e di mali, da non rivestire di alcuna valenza generale.

Invece che angoscia o autodissolvimento, questa posizione può generare una serie di reazioni positive, che equivalgono a ritagliare spazi di senso soggettivo e parziale in un mondo sprovvisto di un senso ultimo e generale. Così gli epicurei, di fronte all’indifferenza degli dèi nei confronti della vita umana, insegnano una saggezza che consiste nel non temere la morte e nel godere misuratamente dei piaceri e degli affetti; formula di moderata felicità che ricomparirà nelle varie versioni del «carpe diem». O ancora: nella Grecia classica l’uomo affronta il proprio destino con assoluta fedeltà alla terra, che gli fa godere vita e bellezza e sopportare dolore e morte con la stessa forza di adesione. O l’atteggiamento del moderno disincanto, che invece di interrogarsi sul senso della realtà opera attivamente per crearne, riducendo gli spazi di sofferenza e alleviando agli umani — soprattutto con le conquiste della scienza e della tecnologia — la pena di vivere.

 

2.5. L’ottimismo metafisico

Quando Leibniz afferma che questo è il migliore dei mondi possibili, non intende certo negare resistenza dei mali, ridurli a illusione; ciò che egli nega è il loro valore ontologico, il loro significato di male, tale da intaccare l’essere del mondo, depauperandolo o mettendolo a repentaglio. I mali non sono male, anzitutto perché sono non-essere, privazione e non positiva realtà; e poi, perché concorrono al bene e trovano in esso il loro senso ultimo.

Questa risoluzione del male nel bene trova la sua espressione più decisa nell’idealismo tedesco, particolarmente in Hegel. I mali sono male soltanto se visti nella prospettiva particolaristica del soggetto individuale, mentre acquistano il loro significato autentico se guardati alla luce del Tutto. Qui essi appaiono come momento necessario dell’armonia universale, riscattati dalla loro apparente negatività dentro la superiore positività dell’Assoluto, di cui la filosofia è specchio. L’ottimismo della fede, che si affida alla «divina provvidenza» e crede che Dio sa trarre il bene anche dal male, non è riconducibile a questa visione metafisica, a meno che, come avviene in più di una «teologia naturale» anche contemporanea, non presuma di tradursi in concezione razionale, in giustificazione filosofica di Dio.

 

3. La sofferenza nella Bibbia

Rivolgersi alla bibbia non è soltanto accedere, come credenti, alla parola del Dio vivente; è anche accostarsi, come uomini che vivono dentro la tradizione occidentale, alla sua fonte più cospicua, è cercare un dono di significato che si può accogliere o rifiutare ma che sarebbe insipienza ignorare.

La coscienza biblica presenta, sul tema della sofferenza come e più che su altri, una notevole evoluzione: segno di una fede che si interroga, unendo alla fedeltà alla parola di Dio l’ascolto delle problematiche dell’uomo. Possiamo ricondurre l’itinerario biblico di riflessione sul male a tre figure: Adamo, Giobbe, Gesù Cristo. Non si tratta di figure alternative, tra cui si debba scegliere; e neppure soltanto di tappe successive, ognuna delle quali superi la precedente e la invalidi; ma piuttosto di tre dimensioni costanti, che non si aboliscono reciprocamente ma si sostengono e si completano.

 

3.1. Adamo: la sofferenza dalla colpa

Nel testo biblico trova la sua espressione più salda e più tenace un’idea che anche altrove si affaccia: la connessione tra sofferenza e colpa, secondo un rapporto che va dalla colpa come causa alla sofferenza come effetto. Il racconto della caduta e della cacciata dell’uomo dall’eden (Gn 3), sullo sfondo della sua originaria felicità edenica (Gn 2) e della perfezione di tutto l’universo (Gn 1), intende affermare due cose: primo, che la creazione uscita dalle mani di Dio è buona e che perciò egli non è in alcun modo responsabile del male; secondo, che il male ha origine nella libertà umana, e quindi la responsabilità della sofferenza del mondo ricade interamente sull’uomo. Commentiamo brevemente questi due punti.

Dio è innocente nei confronti della sofferenza. Israele ha conosciuto il suo Dio nell’intervento liberatore dell’Esodo, e questa dimensione liberatrice è rimasta il tratto fondamentale di YHWH, anche quando Israele ha progressivamente scoperto che questo suo Dio era l’unico vero Dio, creatore e signore di tutto. Al punto che la stessa creazione è stata considerata il primo e radicale atto di liberazione: vittoria della parola di Dio sul caos primordiale, la creazione ha compietamente debellato ogni forza avversa alla vita, ha disegnato un mondo sette volte buono, dove il cosmo è senza residui, dove l’ordine vitale regna senza ombre. Dio non è compromesso nel male, non è ambivalente, non ha un’altra faccia, un’intenzione nascosta, come suggerisce il serpente a Èva. YHWH è il Dio della vita, in assoluto.

Il male viene dall’uomo. Questa è una proposizione molto complessa, perché comporta un’affermazione di principio e una di fatto, e la prima delle due presenta inoltre importanti articolazioni interne.

 

3.1.1. Il male viene dall’uomo

«Il male viene dall’uomo» significa anzitutto che l’uomo è libertà, cioè volontà altra da Dio, capace di opporsi a lui e di resistergli, di porre in essere qualcosa che è irriducibile alla creazione, che è una vera e propria anticreazione. Questo qualcosa è la colpa. Come possa l’uomo, creatura di Dio, produrre qualcosa che non può essere ultimamente addebitato a Dio, è il mistero della libertà umana.

Ma la nostra meditazione riguarda un secondo momento dell’affermazione «il male viene dall’uomo», e cioè che la sofferenza, il male che sconvolge Resistenza umana e cosmica, proviene dalla colpa, dal male che la libertà umana produce. Qui non è più in gioco l’essenza della libertà ma il nesso tra libertà e mondo, tra il soggetto umano e le cose.

Ma bisogna subito aggiungere che questo nesso non funziona soltanto in negativo, anzi, il rapporto colpa-sofferenza non è che il versante defettivo del rapporto giustizia-felicità a cui il Dio dell’alleanza chiama Israele e, rappresentata da Israele, l’umanità intera. «Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva... Ma se il tuo cuore si volge indietro e se tu non ascolti e ti lasci trascinare a prostrarti davanti ad altri dèi e a servirli, io vi dichiaro oggi che certo perirete...» (Dt 30,15-18).

Ciò che qui è detto a Israele viene riproposto nella figura di Adamo su scala universale. Anche se la finalità del racconto porta a sottolineare la possibilità negativa della libertà — la tentazione —, non vi è assente il positivo. Infatti Adamo è posto nel giardino di eden perché lo coltivi e lo «custodisca»: quest’ultimo termine intende allusivamente l’osservanza della legge («custodire i comandamenti»); come a dire che il modo autentico di abitare il mondo è di aderire alla volontà di Dio, di essere fedeli alla sua alleanza. Dunque, l’uomo è​​ responsabile​​ del mondo: della sua riuscita come del suo fallimento. Dal cuore giusto nasce il mondo buono, dal cuore ingiusto il mondo fallito.

Un’ultima osservazione: chi è quest’«uomo» da cui dipende il destino proprio e del mondo? La coscienza di Israele ha su questo punto una maturazione di grande interesse. Inizialmente, l’uomo è Israele stesso in quanto collettivo («personalità corporativa» dicono gli studiosi): la fedeltà o infedeltà all’alleanza sono qui responsabilità complessiva della comunità, e il risultato è la riuscita o il fallimento di Israele come nazione. Poi, con l’esilio, emerge il senso della responsabilità individuale: ognuno è personalmente meritevole o colpevole, e ognuno ne riceve personalmente felicità o rovina. Il racconto di Adamo rappresenta un’evoluzione ulteriore, che fa convergere dimensione individuale e dimensione collettiva. Chi è Adamo? Non un individuo all’inizio della storia umana, dalla cui colpa sarebbe dipesa la rovina di tutti (interpretazione letterale e tradizionale). Adamo è ogni uomo nella sua parte di inalienabile responsabilità, ed è al tempo stesso l’insieme dell’umanità nella sua responsabilità collettiva. Possiamo dire: Adamo è la​​ corresponsabilità​​ di ogni uomo e di tutti gli uomini nel determinare il destino proprio e degli altri sulla terra.

 

3.1.2. Il male è una triste realtà

Ma la figura di Adamo non esprime soltanto la struttura ambivalente dell’alleanza tra Dio e l’uomo e, dunque, la possibilità del male. Essa dice anche che il male è diventato realtà, che l’Adamo ha effettivamente peccato e, di conseguenza, la «morte» (cioè la sofferenza, la fatica, la violenza, l’alienazione) è entrata nel mondo. Infatti la domanda che sottende il racconto di Adamo è: perché il male nel mondo? E il racconto risponde che il male non viene dall’azione originaria di Dio, che ha dato vita a un mondo perfetto, ma dall’intervento deviarne della libertà umana.

Per comprendere correttamente il senso autentico del racconto, è opportuno differenziarlo da alcuni fraintendimenti. Anzitutto: la descrizione dell’eden non va intesa realisticamente, cioè riferita a un passato storico, a un mondo (o a una regione del mondo) in cui l’uomo sarebbe effettivamente vissuto all’inizio dei tempi. Essa dice il mondo a cui Dio ha chiamato l’uomo; non è un linguaggio di constatazione, ma un linguaggio di promessa. L’eden è per l’umanità ciò che la terra promessa è per l’Israele nel deserto: il mondo buono che Dio vuole donare.

Ma questo non significa che si possa parlare semplicemente di utopia, secondo cui l’eden andrebbe posto non all’inizio ma alla fine della storia, sarebbe cioè il termine dell’evoluzione progressiva dell’umanità o di una trasformazione rivoluzionaria; o ancora, in chiave più propriamente teologica, sarebbe il regno di Dio nel suo dispiegamento finale. Questa lettura, nelle diverse sue varianti, dimentica che l’oggetto centrale del racconto non è l’eden ma la «cacciata dall’eden»: l’eden vi è presente come il paradiso (= mondo buono)​​ perduto​​ prima che come un paradiso verso cui camminare, esso inabita la memoria teologale come un dover-essere che non è stato (dunque come colpa) prima di inabitare la speranza come possibilità di futuro.

Un’altra lettura fuorviante è quella che nell’eden vede il mondo materno, protetto e senza problemi, dove l’uomo vive come bambino; e nella cacciata legge allora lo scontro con la dura realtà, attraverso cui l’uomo si tempra e si fa adulto. Ma per la bibbia è proprio il contrario: l’eden è il mondo per adulti, cui l’Adamo può avere accesso soltanto attraverso la mediazione dell’imperativo, cioè del senso del proprio limite («non mangerai il frutto»), mentre colpa e sofferenza nascono proprio dall’illusione — prometeica e infantile a un tempo — di rifiutare ogni limite e di essere «come Dio». Illusione che, secondo l’autore di questa grandissima pagina, ha conquistato la storia umana nel suo complesso e l’ha travolta in un destino di rovina.

 

3.2. Giobbe: il giusto sofferente

La storia di Giobbe è nota: è l’uomo giusto, che Dio colma di beni, espressione della sua benedizione, ma che ne viene poi progressivamente privato e ridotto alla estrema miseria: economica, fisica, affettiva e sociale. Ma c’è, per Giobbe, una miseria ancor più profonda, che ne fa l’emblema di una nuova risposta al problema della sofferenza: è lo scandalo della sua coscienza di fronte alla smentita che la sua condizione dà all’alleanza, cioè a Dio stesso. Se la logica dell’alleanza è che l’uomo buono sia benedetto da Dio e abbia quindi fortuna e felicità, Giobbe, il giusto colpito dalla più desolante sventura, è la testimonianza viva che l’alleanza ha torto, che essa è, nella migliore delle ipotesi, un’ideologia di consolazione, non certo la legge che sottende e governa la realtà. Allora Dio, che nell’alleanza si è pronunciato, è menzognero: non mantiere la parola data; e poiché il Dio biblico si identifica con la sua parola (che comanda e che promette, che comanda in vista di una promessa), il dubbio su questa parola è l’eclissi stessa di Dio, è la caduta del senso dell’esistenza.

Anche qui va fatta un’opera di precisazione. La domanda di Giobbe non è la stessa della filosofia moderna: a scandalizzarlo non è il male come tale, ma il male del giusto. Il filosofo moderno fa risalire a Dio (al Dio della ragione) tutto ciò che nel mondo accade; allora la presenza del male — di ogni forma di negativo — costituisce un’accusa contro Dio: o egli non è buono, e vuole il male, o non è onnipotente, e non sa impedirlo. In ogni caso, Dio è messo sotto accusa dall’uomo in posizione di spettatore-giudice, cioè dalla​​ ragione umana,​​ ed è chiamato a «rendere ragione» di fronte ad essa. Può uscirne condannato oppure «giustificato» (teo-dicea​​ significa appunto giustificazione di Dio); ma la sua posizione è, comunque, quella dell’imputato, che viene sottoposto al giudizio superiore e insindacabile della ragione.

Anche Giobbe accusa Dio; e lo fa con una potenza contestatrice che non ha uguali nella storia delle letterature umane. Ma il suo criterio non è la ragione; il suo scandalo nasce al di dentro della fede: egli ha creduto al l’alleanza, alla parola di Dio che l’ha offerta; e ora si vede tradito. L’alleanza promette felicità al giusto, mentre Giobbe è il giusto senza felicità. Non dobbiamo proiettare nel testo la successiva sensibilità paolina, che proclama ogni uomo peccatore. Qui non si tratta di affermare l’innocenza assoluta di Giobbe, la sua immunità da ogni colpa; ciò che egli contesta è la presenza di una colpa così grave e qualificata da meritare quella punizione, da sottrargli con tale accanimento la benedizione divina.

La risposta di Dio è singolare. Con una certa ridondanza descrittiva, il Dio di Giobbe gli risponde come farà Gesù con i discepoli: «Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede?» (Mt 6,26-30). Il richiamo che Dio fa alla sua presenza attiva nel mondo non va letto in chiave di superiore intelligenza, che abbracciando la totalità rende insignificanti i particolari, tra cui la sofferenza di Giobbe. Dio non dice a Giobbe: innalza lo sguardo dalla tua piccola sofferenza alla perfezione del tutto, dove anche i mali si compongono in un bene più alto. Egli non chiede saggezza razionale ma fiducia assoluta: l’intelligenza d’amore​​ che ha creato l’universo e ogni piccola cosa in esso merita questa fiducia!

Notiamo: chiedere fiducia non è dare risposta alla domanda sul perché della sofferenza del giusto; non è sostituire una risposta più profonda a quella classica smentita dai fatti (e rappresentata dagli amici-teologi di Giobbe). E lasciar presentire che una risposta c’è, ma che è al di là non solo della pura ragione ma delle ragioni che la fede riesce a dare a sé stessa. È affermare che il male​​ non è​​ riducibile a​​ problema,​​ neppure a problema dell’intelligenza di fede, ma appartiene all’ordine più proprio del​​ mistero.

 

3.3. Gesù

Presentando Gesù come principio di salvezza, il Nuovo Testamento intende certamente affermare che egli è l’ultima risposta al male. Ma l’articolazione della risposta ripete, in positivo, ciò che nella figura di Adamo si è verificato al negativo: il nesso tra colpa e sofferenza. Gesù risolve il male-sofferenza in quanto vince il male-colpa. Egli non è dunque, né la risoluzione immediata dei mali del mondo, secondo l’attesa messianico-apocalittica di molti suoi contemporanei, né, all’estremo opposto, un «salvatore dell’anima» la cui azione liberatrice lasci immutate le sorti del mondo. Gesù è salvatore in quanto, con il dono dello Spirito, ricostituisce il soggetto umano nella sua responsabilità e coresponsabilità positiva nei confronti della creazione.

Tuttavia, la sua vicenda costituisce anche un messaggio decisivo in ordine al senso della sofferenza; messaggio che viene scandito sui tre momenti della prassi, della passione e della risurrezione. Ne diamo un breve resoconto, che riprenderemo avanti con una più esigente istanza critica.

Con la sua​​ prassi​​ messianica — che è in ampia misura pratica di guarigione — Gesù lotta contro la sofferenza umana, ribadendo così che essa non viene da Dio e non appartiene alla sua creazione buona.

Con la sua​​ risurrezione​​ Gesù è la risposta di Dio all’interrogativo di Giobbe: perché la sofferenza del giusto? Non è essa, da parte di Dio, un tradimento dell’alleanza? Già la coscienza di Israele aveva maturato, negli ultimi secoli, una risposta inedita (secondo libro dei Maccabei e libro della Sapienza): per tener fede all’alleanza Dio ha a disposizione uno spazio d’esistenza oltre la morte, un mondo che sarà interamente a misura della sua promessa e che egli riserverà perciò ai giusti. La risurrezione di Gesù suggella definitivamente questa risposta. Se il Crocifisso è l’espressione suprema del giusto sofferente, e dello scandalo che questa congiunzione rappresenta, il Risorto è la glorificazione del giusto e, dunque, il riscatto della realtà. Perché il giusto sofferente? La stessa​​ passione​​ di Gesù da luogo dello scandalo diventa luogo di una impensabile risposta. Interpretata alla luce del Servo di Dio, misteriosa figura profetica (Is 53), la passione acquista una dimensione di creatività decisiva: quell’ingiusto patire, consentito e assunto, si trasforma in germe di gloria. Tra risurrezione e passione non c’è più soltanto un rapporto di antitesi suprema; c’è un rapporto di derivazione, di filiazione: il Risorto fiorisce dal Crocifisso come la spiga dal seme sepolto; e, con questo suo fiorire, diventa il centro dell’umanità nuova (Gv 12, 23s, 32s).

Nella prassi di Gesù Dio dice​​ no​​ alla sofferenza; nella sua risurrezione quel​​ no​​ diventa irrevocabile, controcanto del​​ ​​ senza pentimenti alla vita; nella sua passione quello stesso​​ no​​ alla sofferenza diventa un​​ ​​ alla sofferenza per farla esplodere da dentro.

 

4. Rilettura critica

4.1. La coscienza complessa dell’uomo biblico

Interpretare la realtà, anche la realtà del male, è sempre coglierla da un certo «punto di vista», che permette di ridurla a unità di significato. Questo vale anche di quelle interpretazioni che presumono di superare la parzialità del punto di vista per cogliere il significato del male in un’ottica assoluta o della totalità (cf supra 2.5). Anche la totalità, quale il filosofo può abbracciarla, risponde a un interesse particolare, che è quello dell’assolutizzazione del sapere, del culto della ragione onniesplicativa.

A questa legge non sfugge la bibbia: essa è sì la lettura del mondo «dal punto di vista di Dio», ma a compiere questa lettura sono pur sempre occhi umani. In altri termini: la bibbia è insieme parola di Dio e parola dell’uomo, è la parola di Dio presa dentro la trama delTintelligenza e del linguaggio umani. Se fosse soltanto la prima, andrebbe ascoltata in adorante silenzio, e ogni interrogativo rivoltole, ogni dubbio postole equivarrebbe a bestemmia; se fosse soltanto la seconda, potrebbe entrare in un dibattito alla pari con altre parole umane, con altre interpretazioni del mondo. Fare teologia significa assumere la bibbia come parola di Dio in parole umane: significa muoversi dentro il suo spazio di significato ma insieme problematizzarne le risposte, confrontarle con la realtà quale appare alla nostra esperienza. Questo non è soltanto un discorso generale di metodologia teologica; è la premessa essenziale soprattutto per parlare onestamente del problema e mistero del male. Del resto, il fatto di trovarci di fronte a più risposte che la coscienza dell’uomo biblico ha elaborato in tempi e frangenti diversi (quelle risposte che abbiamo chiamato Adamo, Giobbe e Gesù Cristo) testimonia che la capacità di problematizzazione, prima di essere un’attitudine richiesta al teologo, è una qualità interna al testo biblico stesso. Inoltre, come abbiamo già osservato, le risposte bibliche non procedono per accumulazione di verità, così che la successiva inglobi totalmente la precedente, ma mantengono ognuna una sua insopprimibile valenza e funzione rivelativa.

 

4.2. Perché il male?

Le risposte bibliche all’interrogativo «perché il male?» sono tutte articolazioni interne alla risposta fondamentale che abbiamo presentata con Adamo: il male non può essere ricondotto a Dio, la cui creazione è buona senza riserve, ma va ascritto interamente all’uomo; il male-sofferenza è effetto del male-colpa, che proviene unicamente e interamente dalla volontà umana.

Questa affermazione, che può suonare massimalista, esige alcuni chiarimenti.

In primo luogo, ciò che l’uomo biblico considera male non si coestende a tutto ciò che altre culture, e in particolare la nostra, vive come tale. Ci sono esperienze del vivere umano e cosmico che altrove vengono avvertite come negatività, mentre per la coscienza biblica sono parte dell’ordine di creazione, e dunque buone. Possiamo ricondurle sull’esperienza del limite,​​ specificandola in due momenti: il limite oggettivo o dell’essere, e quello soggettivo o del dover-essere.

Limite dell’essere​​ sono le forme determinate della finitezza: l’ignoranza, la piccolezza dell’uomo di fronte al cosmo, la stessa morte. Limite del​​ dover essere​​ è la legge, che impone all’agire umano una misura, che sottrae al soggetto umano la disposizione totale di sé. Ci sono dunque limiti interni alla creazione, come sua figura determinata o come sua condizione di riuscita; per quanto essi possano generare una certa sofferenza, l’uomo biblico non li interpreta come male ma li riconduce alla saggezza del Dio creatore. Rifiutarli, ribellarsi ad essi, è espressione di dismisura, è colpa. Male autentico sono invece quelle carenze che ledono il rapporto dell’uomo con il mondo, che ne intaccano la misurata pienezza, compromettendo l’ordine della creazione. Esse sono riconducibili a due generi: il primo attiene al corpo fisico (fame, malattia, morte violenta, ecc.), il secondo al corpo sociale (solitudine, emarginazione, calunnia, ecc.). Il «povero» (l’orfano, la vedova, l’immigrato) riassume i due aspetti, perché la sua posizione di debolezza sociale ne mette in pericolo la stessa sussistenza fisica. Ora, sono questi mali che la fede biblica mette sotto il segno della colpa. E la ragione è semplice e rigorosa a un tempo: se essi sono un ammanco di essere, se feriscono la creazione, non possono essere ascritti al Dio creatore. D’altra parte, accanto a Dio la fede biblica non riconosce altre forze extraumane, antagoniste o concorrenti, né lascia spazio a rigurgiti di caos, perché la parola creatrice l’ha debellato definitivamente e senza residui. (Quanto al diavolo: è figura tardiva, di provenienza esterna; e, soprattutto, non viene mai integrato nella fede jahvista ma rimane a livello di credenza popolare).

Non resta dunque che l’uomo: quella dimensione dell’uomo che può sottrarsi alla stessa creazione e diventare come un principio di anti-creazione: la sua libera volontà. Israele si autocomprende come volontà nel segno dell’alleanza e della sua legge, e poi nell’esperienza della colpa e della penitenza. È sotto quel segno e dentro quell’esperienza che matura la sua visione del mondo e del male nel mondo.

 

4.3. Verso una interpretazione teologica

Ma l’apparente semplicità di questa soluzione nasconde nodi problematici che soltanto una severa riflessione può mettere in evidenza e cercare di sciogliere. È il compito che ora ci attende.

Il pensiero cristiano, elaborando la teologia della creazione (e della conservazione come creazione continuata) attraverso la categoria di causalità, ha fatto risalire a Dio tutto quanto avviene nel mondo («Non cade foglia che Dio non voglia»), anche i mali, a eccezione della colpa. Questa viene soltanto «permessa», ma quelli vengono voluti, anche se non in ragione di loro stessi ma in vista di un bene superiore.

Questo modo di intendere la creazione garantisce l’onnipotenza di Dio, ma le cambia segno rispetto alla teologia biblica. In questa, infatti, creare è fare il bene, e l’onnipotenza è al servizio di questa volontà di bene, è il suo potere esecutivo. Il che equivale a dire che la creazione del mondo è dentro l’orizzonte di senso dell’alleanza con l’uomo, e non può dunque essere menomazione dell’uomo. Se invece si mette al primo posto l’onnipotenza, si includono nella creazione anche i mali dell’uomo; e il «bene superiore» che li giustifica viene ad essere il bene del Tutto, secondo il modello della teodicea classica. Rimettere a fuoco il senso biblico del mondo significa allora ritrovare la «filantropia» di Dio, il suo amore per l’uomo, come intenzionalità che presiede a tutta l’attività divina (il che, sia detto di passaggio, si muove controcorrente anche rispetto al neonaturalismo che sta affermandosi nei paesi ricchi). Significa reimparare che fame, malattia, emarginazione, schiavitù non sono «volute» da Dio per un bene maggiore della sua creazione, ma frutto di quell’anticreazione che è la colpa umana.

Ma dire che la creazione è dentro l’orizzonte dell’alleanza non significa soltanto affermare che Dio vuole il mondo per il bene dell’uomo, ma che lo vuole attraverso la responsabilità dell’uomo. L’uomo non è solo beneficiario della creazione ed eventuale responsabile dell’anticreazione. Una creazione così intesa farebbe di Dio il gran benefattore e dell’uomo il parassita, che può soltanto o supinamente goderla o rovinarla. Ma questa non sarebbe più creazione nell’orizzonte dell’alleanza. L’alleanza è reciprocità, e l’uomo vi è​​ partner.​​ Allora la responsabilità della colpa, reciprocità mancata e creazione fallita, è soltanto l’altra faccia della responsabilità per l’obbedienza, reciprocità riuscita e consentimento concreatore. E l’atto creatore di Dio non è la produzione di un mondo già integralmente buono, ma la produzione di un mondo ricco di risorse​​ più​​ la vocazione dell’uomo a usarne secondo la stessa intenzionalità di bene (cioè la stessa «filantropia») che è alla base dell’iniziativa divina. L’idea biblica di creazione ingloba la legge perché abbraccia l’uomo come momento interno all’opera di Dio ma, insieme, altro da Dio: l’uomo come libertà.

Ed ecco allora una conseguenza sconcertante: creazione non è sinonimo di onnipotenza. C’è una​​ impotenza di Dio​​ nel mondo che è organica allo stesso ordine di creazione dentro l’alleanza. Essa non è un originario limite cosmologico di Dio, ma l’autolimitazione della sua potenza cosmologica in nome di un mondo dove l’uomo sia suo interlocutore e collaboratore. L’impotenza di Dio sulla croce di Gesù, rilevata da Bonhoeffer, e il suo silenzio ad Auschwitz, che incombe sulla teologia ebraica (e su parte della teologia cristiana) del dopoguerra, non sono che i momenti clamorosi di quella quotidiana impotenza cui egli si è vincolato con lo statuto della creazione come corresponsabilità.

In questa luce, la vicenda di Gesù acquista una sua tormentata unità e coerenza.

La sua​​ prassi​​ messianica è la manifestazione della volontà creatrice: nella sua destinazione di bene (soprattutto guarigioni) essa dice l’intenzionalità d’amore che sottende la creazione; nel suo carattere miracoloso, essa sospende l’impotenza divina e attesta che Dio non si è ritirato dal mondo, che l’amore non è destinato alla sterilità.

Anche la​​ risurrezione​​ di Gesù è risposta all’impotenza di Dio nel mondo; ma risposta definitiva, che sottrae il giusto allo spazio di intervento dell’ingiusto e gli dona irreversibilmente la vita promessa nell’alleanza. Essa dice che l’impotenza di Dio non può essere l’ultima parola, perché un Dio ultimamente impotente vanifica la stessa verità della giustizia e dell’amore, rendendoli invincibilmente estranei alla vicenda del mondo e dell’uomo nel mondo. La vittoria di Gesù sulla morte non è la vittoria dello spirito sulla materia, del desiderio di immortalità sulla caducità dell’esistere terreno, ma della giustizia divina su ogni opposizione umana. In questo senso preciso, la risurrezione di Gesù è la risposta di Dio a Giobbe: una risposta in atto, che riempie tutt’intera la misura di fiducia incondizionata che egli aveva chiesto. Ma Gesù non risorge soltanto​​ da morte; risorge​​ in forza della morte.​​ Più ancora: è in forza della morte che egli diventa il donatore dello Spirito, il ricostitutore dell’alleanza, cioè della libertà umana capace di rispondervi. Questo significa che la sofferenza del giusto è caricata di una paradossale positività, che è tanto facile fraintendere quanto negare. Il fraintendimento nasce ogni volta che​​ nel soffrire come tale​​ si vuol cogliere una misteriosa potenza di bene e​​ dunque​​ una positiva volontà di Dio che lo invia all’uomo: si tratti di un originario nesso sofferenza-amore o di una connessione, conseguente alla colpa, tra sofferenza ed espiazione. Ora, abbiamo visto che un nesso intrinseco tra il patire e la libertà buona è integrabile nella fede biblica soltanto quando quel patire è l’accettazione del limite creaturale, è un momento interno all’ordine buono del mondo (cf 4.2.1) . Ma la morte di Gesù non è morte buona, non è espressione della ordinata misura del mondo di Dio, ma della dismisura del potere umano che lo condanna e lo sopprime. Quanto alla relazione tra sofferenza ed espiazione, che pure è inscritta così profondamente tra le pieghe dell’umana coscienza, essa sembra la risultante di un’ambigua concezione della giustizia di Dio come volontà di vendetta (nobilitata in​​ iustitia vindicativa),​​ o della affine concezione etico-organicistica del mondo, secondo cui il patire del colpevole ricostruisce, in quanto tale, l’ordine ontologico che la sua colpa ha distrutto (in forza di una arcana legge del compenso). Si comprende così la tentazione, cui più di un teologo progressista cede, di eliminare come semplice residuo arcaico ogni idea di positività del patire, di quel patire che nasce dall’ingiustizia e che dunque è male nel senso autentico del termine. Ma al di là di un’affermazione carica di ambiguità e di una negazione sbrigativa, c’è la possibilità di pensare il valore positivo della morte di Gesù non come realizzazione particolare di una legge generale di relazione sofferenza-amore o sofferenza-espiazione, bensì come instaurazione di una nuova legge: la​​ legge della solidarietà redentrice.

La solidarietà ha due facce: Gesù assume resistenza perduta, lacerata dal male, per dare all’uomo l’esistenza liberata. Il primo aspetto è condizione del secondo: per liberare un prigioniero bisogna entrare nella prigione. La prigione in cui l’uomo s’è colpevolmente cacciato è l’esistenza solcata dalla sofferenza: una sofferenza che, al di là delle sue manifestazioni puntuali, è diventata come una struttura addizionale dell’esistenza dell’uomo, una dimensione storicamente immanente alla condizione umana. Il cammino di liberazione comportava allora per Gesù un sì a questa sofferenza, un caricarsene per debellarla. Attraverso Gesù, questa solidarietà redentrice è poi diventata la legge della nuova umanità, parte integrante della responsabilità per la creazione.

Se la prassi di Gesù conferma che Dio non vuole la sofferenza umana e che l’impotenza del suo amore è soltanto l’altra faccia della nostra corresponsabilità nell’alleanza, la sua passione e morte investe di nuovo senso la stessa sofferenza umana, pur senza cancellarvi il senso originario di anticreazione. La positività redentrice del patire non significa che Dio lo vuole ma che, quando l’uomo vi si trova perduto, Dio gli dona la possibilità di non viverlo in pura perdita ma di conferirgli un significato. La sofferenza redentrice è la nuova potenza dell’impotenza di Dio nel mondo. Essa non è alternativa alla lotta contro la sofferenza, non è sinonimo di rassegnazione; è alternativa alla ribellione sterile, che rifiutando la sofferenza non fa che scavarla più profondamente, in sé e attorno a sé. Assumere il male è la condizione per combatterlo; condividere il patire è la condizione per diffondere la vita.

 

5. Giobbe e prometeo

5.1. Il male «naturale»

Pur nella sua complessità e ricchezza, la risposta biblica al problema del male ha una formidabile coerenza, perché ogni suo sviluppo e variante rimane all’interno dello specchio di luce disegnato dalla posizione originaria: la creazione di Dio è buona, il male viene dall’uomo, dalla colpa umana. Ma tale coerenza non comporta anche una semplificazione? Non c’è forse anche una dimensione «naturale» del male, incontestabile nella sua evidenza e ben presente in altre visioni del mondo? Calamità come epidemie, terremoti, inondazioni, che da sempre solcano la faccia della terra e mietono vittime in quantità a volte apocalittiche, come possono essere ricondotte alla volontà cattiva dell’uomo? Non è forse più illuminante riconoscere che sul fondo della realtà c’è una potenza indomita — il caos — che minaccia un sempre fragile ordine del mondo? E quest’ordine, non è in sé stesso così poco generoso, non impone all’uomo una durezza di vita che fa della storia delle masse umane una continua estenuante lotta per la sussistenza? Bene e male non appaiono forse come gemelli, indivisibili e ugualmente ineliminabili? E se si pone all’origine del mondo un Dio personale, come non proiettare in lui l’ambivalenza del mondo e dell’esperienza che l’uomo ne fa?

Chi legge la tradizione biblica con occhi disincantati non può non restare stupito di fronte alla «rimozione» che essa compie del male naturale, cioè di ogni male di cui si possa e debba dire che viene da Dio. Non che manchi il dato di catastrofi naturali: basti pensare al diluvio o alle piaghe d’Egitto; ma esse vengono de-naturalizzate e poste sotto il segno della colpa umana. In questo atteggiamento si intrecciano, mi pare, un’esperienza, un’esigenza e una preoccupazione: l’esperienza del Dio liberatore storico e legislatore secondo giustizia; l’esigenza di totalizzare la sua protezione estendendola fino alle basi del mondo, la preoccupazione di difendere questo Dio dall’accusa di ingiustizia o di debolezza. Sono le componenti dell’alleanza come struttura del mondo.

Quando la tradizione biblica si contamina culturalmente — nel tardo giudaismo e poi nel cristianesimo — riesce difficile mantenere nella sua purezza la dottrina dell’alleanza e la spiegazione del male che ne deriva. È come se, attraverso rincontro con altre dottrine e spiegazioni, si imponesse anche alla coscienza biblica la presenza invadente di un male troppo grande, troppo esteso e troppo continuo per poterlo addebitare alle colpe umane. Ne nascono grandi conflitti ideali e nuove sintesi, tutte tese a salvare il Dio d’amore, ma con soluzioni anche antitetiche. Si delinea, anzitutto, l’idea dell’«eone presente» sotto il dominio di Satana, principio dei mali del mondo. Che questo mondo sia creazione di Dio viene mantenuto per fedeltà dottrinale allo jahvismo, ma non corrisponde più all’esperienza che se ne fa; quest’esperienza è così segnata dal negativo, che il «giorno di Iahvè» viene atteso come il suo intervento liberatore da questo mondo, che pure è creato da lui! È questa la posizione paradossale dell’apocalittica.

Più drastica è la soluzione della gnosi: essa porta la divisione all’interno di Dio stesso: c’è un Dio creatore di questo mondo avvolto nel male, ed è egli stesso cattivo; e c’è un Dio buono, la cui funzione è di liberare l’uomo dal mondo, l’anima dal corpo.

Nella tradizione cristiana confluisce qualcosa di tutto questo. Dall’Antico Testamento essa recepisce l’idea di fondo: il male viene dalla colpa; sia mantenendone, a livello popolare, la lettura ingenua, che di fronte a ogni disgrazia cerca la colpa che l’ha generata («Che male ha fatto per meritare questo?»), sia elaborando la concezione di un’umanità caduta, dove l’insieme dei mali che affliggono l’uomo è effetto della colpa originaria di Adamo e delle colpe derivate dei suoi figli. Dal tardo giudaismo la tradizione cristiana assorbe, attraverso credenze diffuse e presenti anche nel Nuovo Testamento, la convinzione di un’origine extramondana del male, personificata nel diavolo. La stessa concezione gnostica viene riconvertita: è Dio stesso che invia i mali; ma a spingerlo non è una volontà maligna nei confronti dell’uomo bensì la misteriosa disposizione di trarre dal male il bene. Il risultato di questa complessa convergenza è un sentimento dualistico della realtà, che pone uno stacco decisivo tra questa vita e la vita futura, ravvisando nella prima la prova e nella seconda il premio, e perdendo così quel senso della terrestrità che caratterizzava invece la tradizione biblica.

 

5.2. Il male «naturale» contro la bontà di Dio?

Ed ecco la domanda che ora si impone: è possibile riconoscere resistenza del male naturale e, al tempo stesso, restare fedeli alla bibbia e al punto qualificante del suo messaggio: l’amore di Dio sperimentato nella bontà del mondo?

Diciamo anzitutto che la coscienza biblica, pur elaborando una visione del mondo che rimuove il male naturale, è costretta a un certo punto a riconoscerne l’esistenza e a mettere in discussione l’assolutezza della propria visione, anche se non arriva a produrne una nuova. 11 libro di Giobbe formula l’esigenza di una fede così nuda che non riesce a darsi una​​ intelligentia​​ fidei; quest’intelligenza è sostituita dall’abbandono puro alla saggezza d’amore che Dio proclama. Perciò la risposta-Giobbe è giustapposta, nella tradizione biblica, alla risposta-Adamo, senza raggiungere una composizione delle due; e la risposta-Gesù (non dico l’evento-Gesù, ma la linea o le linee di interpretazione che gli autori del Nuovo Testamento ne offrono) si muove interamente, come abbiamo visto, nel solco del rapporto colpa-sofferenza, pur rovesciandone il risultato.

È possibile trarre dalla bibbia più di quanto gli uomini della bibbia hanno esplicitamente elaborato? Tra l’affermazione che Dio non vuole il male (perché questo proviene dalla colpa umana) e l’esistenza del male naturale è possibile trovare una conciliazione?

 

5.3. Oltre l’evasione e la sublimazione

La riflessione di un teologo della liberazione ci mette sulla buona strada: «I poveri non hanno problemi con Dio. La domanda classica della teodicea e l’ateismo di protesta — posizioni così ragionevoli di coloro che non sono poveri — non è problema dei poveri, che in buona logica sono quelli che dovrebbero porlo. La fede dei poveri è profondamente dialettica: credono in un Dio liberatore e in un Dio crocifisso. Tenere assieme le due cose dà alla loro speranza la caparbietà che la caratterizza» (Jon Sobrino). Riformulerei così: la fede dei poveri è una fede che, insieme, assume e lotta: assume la sofferenza e lotta contro di essa.

Che significa assumere? È una strada stretta, che corre sul difficile crinale tra evasione e sublimazione. Evasione è la fuga dalla sofferenza attraverso forme di stordimento, droghe dell’anima, oppure, quando si tratta di sofferenza collettiva, attraverso fuoruscite individuali che frantumano il fronte di resistenza comune. Sublimazione è la trasformazione della sofferenza (la propria, o a volte anche quella di persone care) in bene da coltivare, di cui gratificarsi, da preferire alla gioia. Assumere è leggere dentro la dura necessità, che come tale rimane male da combattere, un’affermazione di senso, ma di un senso che rimane nascosto e, soprattutto, non progettabile. Assumere non è abbracciare il negativo per una sua intrinseca valenza positiva; è dire sì alla Presenza d’amore che​​ inspiegabilmente​​ inabita il negativo, ma continuando ad attendere da essa la liberazione. È accettare tempi e modi della manifestazione dell’Amore, la cui connotazione costitutiva rimane quella della liberazione e del dono della vita.

È questa la​​ fede​​ come dimensione recettiva dell’obbedienza all’Amore. Perciò i poveri, che assumono il patire senza esaltarlo, e con incredibile perseveranza attendono la liberazione, sono incarnazione esemplare della fede.

 

5.4. Amore come lotta contro il male nel nome di Dio

Ma l’obbedienza ha pure una dimensione attiva:​​ l’amore, cioè la lotta contro la sofferenza in nome del Dio liberatore. Lottare è negare attivamente la sofferenza in quanto contraria all’ordine di Dio. E questo vale non solo dalla sofferenza provocata dalla colpa, ma anche di quella naturale; che essa venga fatta risalire a Dio non significa che sia buona, ma che c’è uno scarto incomprensibile tra l’amore di Dio e la sua creazione fattuale. Questo scarto va colmato. Se è vero che la dottrina biblica della creazione va letta alla luce dell’alleanza, questa lettura può essere o l’annuncio di un fatto (il mondo sette volte buono di Gn 1) o la consegna di un compito: rendere il mondo degno di essere il luogo dell’alleanza. I mali sono allora il ritardo del mondo sulla misura di bontà che l’amore di Dio gli ha destinato. E questo vale sia dei mali provocati dalla colpa che di quelli naturali: affermare che l’alleanza è la chiave della creazione significa affermare il primato del fine sull’origine, del senso sulla spiegazione. L’essenziale non è​​ da dove venga​​ il male, se dall’uomo o dalla natura, ma​​ che cosa fare​​ del male nell’ottica di Dio.

Ora, il comandamento dell’amore (o la dimensione attiva dell’obbedienza all’Amore) è l’imperativo di debellare il male, di correggere e risanare il mondo perché sia all’altezza dell’alleanza tra Dio e l’uomo. Che esista il male naturale non vuol dire che questo mondo è destinato da Dio a essere​​ lacrimarum vallis,​​ ma che esso è​​ lo spazio dell’amore militante: non più solo in quanto ricco di risorse da condividere (cf sopra: 4.3.2), ma perché bisognoso di essere corretto e perfezionato.

Alla domanda: Dio vuole il male naturale? si deve rispondere: il Dio dell’alleanza e della liberazione non Io vuole, e ci chiama a negarlo nella solidarietà con chi soffre: è questo il suo​​ volere assoluto e manifesto.​​ In che modo questo volere sia conciliabile con l’esistenza del male e, dunque, con la creazione fattuale, non è determinabile positivamente neppure attraverso una coerente​​ intelligentia fidei.​​ La conciliazione si fa nell’esistenza di fede e d’amore, nell’assumere-e-lottare​​ e quel tanto di​​ intelligentia​​ che la teologia può elaborare non è altro che l’enunciazione discorsiva dello statuto paradossale dell’esistenza di fede e di amore: essere con Dio contro Dio, con la sua volontà di liberazione contro l’imperfezione della sua creazione. Rimane vero che è teologicamente​​ più semplice​​ scegliere una delle altre strade: o attribuire tutta la sofferenza alla colpa, secondo la tradizione biblica centrale; o individuare come sua causa una terza fonte: né Dio né l’uomo ma un’entità — individuale o collettiva — di ordine diabolico; o, rovesciando la prospettiva biblica, accettare la visione — ampiamente ospitata nella tradizione cristiana — di questa vita esclusivamente come prova in ordine all’altra, e quindi della sofferenza come sua parte migliore. La via di riflessione proposta in queste pagine è certamente la più difficile; il suo significato sta nel tentativo di una duplice fedeltà: alla bibbia (e al suo messaggio: la bontà di questa vita) e all’esperienza (che ci attesta l’esistenza del male naturale).

È in questa luce che va letto teologicamente il fenomeno della tecnologia. In una realtà dove i mali naturali testimoniano lo scarto tra mondo fattuale e mondo buono, il ritardo del primo sul secondo, la tecnologia si è dimostrata capace di colmare progressivamente quello scarto, come dimostra uno sguardo sereno (cioè non ideologicamente sviato) sulla storia delle grandi masse umane. Infatti gli stessi guasti che lo sviluppo tecnologico ha prodotto nei paesi avanzati non hanno confronto con le calamità naturali che, abbattendosi lungo millenni di storia su popolazioni inermi, le hanno decimate e hanno rese inumane le condizioni di vita dei sopravvissuti. Bisogna aver visto anche solo una volta la miseria collettiva (per esempio in una megalopoli dell’America Latina) per capire la benedizione della tecnologia, del sapere che produce potere sulla natura.

Vogliamo tesserne l’elogio incondizionato? Smentiremmo tutto quanto abbiamo scritto nelle pagine precedenti. Il senso positivo del sapere-potere non gli è immanente, ma gli viene dalla volontà d’amore che lo comanda. Il sapere-potere è ambivalente: è possibile strumento di vita e possibile ordigno di morte. A farne effettivamente strumento di vita è l’obbedienza al Dio liberatore, è l’inserimento nell’orbo​​ caritatìs​​ che vuole custodire e completare l’universo come abitazione dell’uomo.

Ha ragione Heidegger: scienza e tecnica segnano in maniera essenziale la storia dell’essere. Ma egli ha torto a parlare di «destino»; non di destino si tratta, ma di dono tanto prezioso quanto rischioso: di dono che chiede una responsabilità alla sua altezza. Perché l’essere non è l’epifania della natura o-e del linguaggio, ma un Sì originario che vuol farsi storia soltanto attraverso un sì che gli risponda.

A Giobbe che chiede: perché il male? il Dio sapienziale risponde dispiegando la sinfonia del bene. A Prometeo che ruba il fuoco agli dèi per consegnarlo agli uomini, Zeus risponde incatenandolo alla roccia. Che la risposta di Dio dentro un orizzonte planetario non sia oggi quella di dare a Prometeo il cuore giusto di Giobbe e di togliergli le catene perché doni ancora il fuoco agli uomini?

 

Bibliografia

Bernhart J.,​​ Male,​​ in: «Dizionario Teologico», vol. II, Queriniana, Brescia 1967, pp. 244-260; Di Nola A.,​​ Male​​ in: «Enciclopedia delle religioni», vol. IV, Vallecchi, Firenze 1970ss., coll. 16-26; Martelet G.,​​ Libera risposta ad uno scandalo. La colpa originale, la sofferenza, la morte, Queriniana, Brescia 1987; Moeller Ch.,​​ Saggezza greca e paradosso cristiano, Morcelliana, Brescia 1961; Natoli S.,​​ L’esperienza del dolore. Le forme del partire nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano 1986; Ricoeur P.,​​ Finitudine e colpa, Il Mulino, Bologna 1970.

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MALE

MAMME CATECHISTE

 

MAMME CATECHISTE

L’utilizzazione delle mamme nella C. dei fanciulli fu diffusa su vasta scala dalla catechista francese →​​ Françoise​​ Derkenne che, nel suo testo​​ La vie et la​​ joie au catéchisme​​ (19562), prevedeva una C. dottrinale il giovedì, una C. liturgica sullo stesso tema la domenica, e una di applicazione alla vita quotidiana fatta in casa da una mamma a piccoli gruppi di fanciulli. In seguito, a un certo numero di mamme è stata affidata l’intera C. (o quasi), oppure la C. dei propri bambini, individualmente, per la preparazione ai sacramenti, in molte parrocchie d’Italia, di diversi paesi dell’America Latina e di altre parti del mondo. L’apporto specifico della mamma sta appunto nella sua conoscenza della vita quotidiana del fanciullo e quindi della sua speciale attitudine a collegare la fede con la realtà di ogni giorno.

Bibliografia

F. Derkenne,​​ Vita e gioia al catechismo,​​ Leumann-Torino, LDC, 1965-1966, 3 vol., con Guide per il catechista;​​ Des mamans catéchistes,​​ in “Vérité​​ et Vie» 8 (1954-1955) 247, 11-16; A. Raphoz,​​ Mamans catéchistes à l’école,​​ in​​ “Catéchistes” 15 (1964) 59, 283-287; S. Riva,​​ Mamme​​ catéchiste,​​ in “Evangelizzare”​​ 3 (1978) 169-170.

Ubaldo Gianetto

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MAMME CATECHISTE
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