LA SALLE Jean Baptiste de

 

LA SALLE Jean Baptiste de

1.​​ Reims 1651 – Rouen 1719. Sacerdote nel 1678. Nel 1680 fonda la Congregazione dei Fratelli delle Scuole Cristiane, religiosi laici dediti all’educazione cristiana attraverso la scuola. Realizza vari tipi di scuole con radicali innovazioni pedagogiche. Nel 1950 dichiarato “Patrono di tutti gli educatori cristiani”.

2.​​ Il suo pensiero cat. si intreccia strettamente con gli orientamenti pedagogici per le “Scuole Cristiane” ove la C. ha un ruolo essenziale. Suoi principali scritti connessi con la C.:​​ Conduite des Ècoles​​ (CL 24), geniale manuale teorico-pratico;​​ Méditations pour le temps de la retratte​​ (CL 13) sull’educatore cristiano, testo basilare;​​ Méditations pour les dimanches​​ (CL 12);​​ Les devoirs d’un chrétìen​​ (CL 20-21), catechismo in forma espositiva e per domande e risposte, con relative riduzioni (Grand Abrégé​​ e​​ Petit Abrégé,​​ CL 23) per l’uso scolastico;​​ Règles des FEC​​ (CL 25).

Suoi​​ orientamenti teorici​​ fondamentali: a) Il primato del “ministero della parola” nella Chiesa e nell’azione apostolica a servizio dell’universale volontà salvifica di Dio. b) Un forte “cristocentrismo”:​​ il catechista come “ministro di Cristo”, chiamato e inviato per guidare il catechizzando nell’incontro con Gesù e nell’assimilazione delle “massime del Vangelo” e dello “spirito di Cristo”, con accentuata centralità dell’eucaristia in tempo di giansenismo, c) Un’espressione tipica lasalliana è “acquistare lo spirito di fede”:​​ la C., con l’uso continuo della Scrittura (spec. Vangelo), una robusta formazione morale, la vita liturgica e sacramentale (in CL 17 un manuale per la Messa, confessione e comunione ad uso degli alunni) porta l’alunno a “vedere tutte le cose con gli occhi della fede”, cioè a strutturare la personalità attorno al punto focale del “vivere alla presenza” e in dialogo con Dio. d) La​​ centralità della vita del catechizzando​​ che va conosciuto con amorevole attenzione (cf in CL 24 i “moderni” modelli di “schede personali”).

Principali​​ intuizioni metodologiche:​​ a) Indissociabilità di C. e promozione umana; perciò​​ molta C. ma nella scuola,​​ dove viene servita la “vita” e la crescita “integrale”. b) Il​​ dialogo​​ è la struttura fondamentale della lezione, che resta legata alla vita cui è orientata, c) Ripresa ciclica di​​ C. ricapitolatine​​ sui “principali misteri” per l’assimilazione dei nuclei centrali​​ e​​ il servizio della “memoria”. d) A complemento del momento cat. alcune pratiche “lasalliane”: la “riflessione del mattino”, breve intrattenimento pratico-esistenziale all’inizio della scuola; l’esercizio della “presenza di Dio” durante la giornata; due “esami” nelle preghiere del mattino e sera per formare alla riflessione e alla “redditio”.

3.​​ L’intuizione base del La​​ Salle​​ resta comunque il primato assoluto dato alla formazione di un corpo stabile di​​ insegnanti-catechisti​​ (i​​ FSC) che attuassero e sviluppassero i suoi orientamenti e la relativa metodologia. Attraverso la loro opera​​ tricentenaria​​ tale ricchezza è entrata nella tradizione vivente della Chiesa. Della lezione cat. del La​​ Salle​​ restano, tra l’altro, di sorprendente attualità: a) Il primato della formazione del catechista e sua identità, b) Centralità del processo di educazione della fede rispetto alla socializzazione religiosa, c) Stretta connessione tra C. e promozione della persona nel suo insieme, d) Chiara anticipazione del principio metodologico della “doppia fedeltà”. e) Centralità dell’uso della fonte evangelica e della connessione C.-liturgia.

Bibliografia

“Cahiers Lasalliens”​​ (CL, Casa Gen. FSC, Roma): 46 vol., con tutte le opere, le prime biografie, studi e documenti;​​ Rivista Lasalliana​​ (Torino, dal 1934, trim.) con completi aggiornamenti bibliografici (1935, 1; 1963, 4; 1974, 3; 1983, 1); C. Accade Gómez,​​ El maestro en la pedagogia de La Salle,​​ Salamanca, Sinite, 1961; 39° Cap. Generale FSC,​​ Le Frère des E.C. dans le monde d’aujourd’hui,​​ Roma, 1967; Nguyen-von-Lieu,​​ The influence oj J. B. de La Salle on Primary and Secondary education in Prence,​​ Manchester, 1974; J. Pungier – U. Marcato,​​ Pedagogia Lasalliana,​​ nel vol. P. Braido (ed.),​​ Esperienze di pedagogia cristiana nella storia,​​ vol. II, Roma, LAS, 1981; M. Sauvage,​​ Catéchèse et laicat,​​ Paris, Ligel, 1962; Io. – M.​​ Campos,​​ J. B. de La Salle,​​ Paris, Beauchesne, 1977; S. Scaglione,​​ Proposta educativa,​​ Casale M., Marietti, 1983.

Mario Presciuttini

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S. GIOVANNI BATTISTA DE LA SALLE

(1651-1719)

 

Umberto Marcato

 

1. La vita

2. Il contesto dell’opera Lasalliana

3. Pastorale giovanile Lasalliana

1. La vita

Giovanni Battista de La Salle nasce a Reims in Champagne il 30 Aprile 1651 da una famiglia agiata, legata all’aristocrazia della Champagne. Il padre è un magistrato del Presidiale di Reims. La madre, Nicoletta Moèt, proviene dalla nobile famiglia dei Moét, ancor oggi ben conosciuta per la larga diffusione di uno «champagne» prodotto nelle «caves» Moét-Chandon.

La famiglia mostra una notevole sensibilità religiosa e il piccolo Jean-Baptiste, primogenito di 11 figli (di cui 4 morti in tenerissima età) assorbe questo clima serio e impegnato, tanto che a 11 anni chiede di diventare sacerdote e riceve la tonsura. La famiglia cura anche molto la sua educazione intellettuale, mandandolo prima al collegio dei «bons enfants» dipendente dall’università di Reims, poi all’università della Sorbona di Parigi. Mentre segue gli studi all’università della Sorbona, Jean-Baptiste risiede nel seminario di San Sulpizio, che viveva allora uno dei suoi periodi migliori di impegno religioso ed educativo. La spiritualità sulpiziana lascia un’impronta indelebile nel de La Salle. Sembra che proprio in questo periodo (1670) Giovanni Battista abbia fatto le sue prime sistematiche esperienze catechistiche tra i ragazzi del borgo, ricevendo profonde impressioni della situazione sociale ed educativa, assolutamente disastrosa, dei «figli degli artigiani e dei poveri». Dopo appena un anno e mezzo di esperienza parigina, Jean-Baptiste deve rientrare a Reims a causa della morte dei genitori. Diventa il tutore dei suoi 6 fratellini e sorelline. È una nuova esperienza, certamente gravosa ma estremamente costruttiva: deve occuparsi dell’educazione dei piccoli, dell’amministrazione della casa, mentre continua gli studi approdando al sacerdozio e al dottorato in teologia, conseguito all’università di Reims.

A meno di 16 anni era stato nominato canonico della cattedrale di Reims, succedendo in questo onorato ufficio allo zio Pierre Dozet, già Cancelliere all’Università. Anche questa è un’esperienza notevole per il giovanissimo chierico: conosce proprio in questo ambito il canonico Roland, fondatore delle Suore del Bambino Gesù, che in punto di morte gli affida la sua opera a favore delle ragazze povere di Reims.

L’impegno del de La Salle a favore delle Suore e delle loro scuole dura un anno e mezzo, perché l’Arcivescovo ritiene troppo giovane il successore del Roland: ma in questo breve periodo il La Salle ottiene il riconoscimento legale dell’opera del Roland e fa una provvidenziale esperienza di gestione di una grande opera educativa.

È a questo punto che inizia la sua tipica opera di educatore e di fondatore. L’occasione gli viene data dall’arrivo a Reims di uno sperimentato maestro, Adriano Nyel, inviato da una parente del La Salle per fondare nel capoluogo della Champagne delle scuole di carità per ragazzi. Giovanni Battista si sente in dovere di appoggiare l’iniziativa, poi di sostenere l’opera. Quando il successo dilata i centri educativi, il numero di insegnanti, le responsabilità nei confronti dei maestri..., Adriano Nyel si rivela inadeguato e Giovanni Battista de La Salle si trova di fronte al drammatico dilemma di lasciar cadere l’opera o di dedicarvi tutte le sue energie.

Si consiglia con un altro grande sostenitore di opere educative, il padre Barré dei Minimi, e spronato da questo generoso e austero religioso, compie la scelta decisiva di abbandonare il canonicato e la famiglia, di distribuire i suoi beni ai poveri durante una carestia, e infine di consacrarsi alle «scuole cristiane».

Lo caratterizza immediatamente la preoccupazione della formazione dei maestri: egli concepisce l’educazione cristiana come una vocazione specifica e un autentico ministero, per cui guida i suoi maestri, nonostante le molte defezioni tra i primi collaboratori, alla consacrazione religiosa, giungendo a formare la prima Congregazione religiosa costituita unicamente da laici, dedicati interamente alla «scuola cristiana».

L’opera cresce e si diversifica, superando grandi difficoltà: incomprensioni di molte autorità ecclesiastiche, avversione dei maestri delle scuole a pagamento, opposizione giansenista, imprudenze e fasi di scoraggiamento dei discepoli. Vengono create progressivamente scuole elementari, in cui si adotta l’insegnamento simultaneo, la divisione per fasce di età, l’esclusione del latino per intensificare l’apprendimento della lingua nazionale, e si delinea una precisa metodologia codificata poi nell’opera «La Conduite des Écoies»; vengono poi organizzati degli istituti magistrali, anche per i maestri delle campagne; seguono scuole serali e festive per operai e apprendisti; corsi professionali e commerciali nel nord, soprattutto a Rouen, dove si costituisce un centro molto complesso, comprendente varie istituzioni scolastiche ed educative. Infatti nella casa di Saint-Yon, alla periferia di Rouen, alla primitiva comunità dei Fratelli e al noviziato che alimenta la Congregazione si aggiungono progressivamente: una scuola commerciale con convitto per i figli dei commercianti e artigiani della città; un centro di rieducazione per ragazzi arrestati per reati; attività professionali per altri reclusi, affidati dalle autorità cittadine; attività di tirocinio e di formazione pedagogica per i giovani Fratelli.

E in questa casa che Giovanni Battista scrive gran parte delle sue opere, rispondendo ai diversi bisogni che si vengono manifestando: anzitutto opere ascetiche e spirituali per i suoi Fratelli, ma poi scritti pedagogici e didattici, in cui è prevalente la dimensione catechistica e di educazione cristiana. Oltre alle diverse redazioni della​​ Conduite des Écoies,​​ già ricordata, segnaliamo le​​ Meditazioni per il tempo del Ritiro: 16 meditazioni sulla missione dell’educatore cristiano che formano una piccola somma del pensiero pedagogico del Santo. Molti altri aspetti del suo pensiero educativo possono essere colti nelle meditazioni e feste dell’anno, perché in tutti gli scritti ascetici redatti per i suoi Fratelli, il La Salle rivela la sua fondamentale preoccupazione apostolica ed educativa come pure la sua esperienza pedagogica.

Il Santo muore a Rouen il 7 aprile 1719. Le «scuole cristiane» sono ormai diffuse in molte città di Francia e persino a Roma: il numero dei Fratelli non è ancora alto... 102 in attività. L’opera si diffonderà notevolmente nel secolo XVIII, influenzando profondamente la scuola francese. Distrutta quasi totalmente dalla Rivoluzione di fine secolo, avrà una ripresa sbalorditiva nel XIX secolo, portando il pensiero e l’esperienza lasab liana in varie parti del mondo. La sua dimensione internazionale sarà ulteriormente stimolata dalle leggi del 1904 contro gli Istituti religiosi in Francia.

Attualmente le intuizioni e le iniziative di Giovanni Battista de La Salle sono portate avanti non solo dai suoi Fratelli (circa 8500 in 81 paesi dei cinque continenti) ma dalla realtà sempre più articolata della «Famiglia Lasalliana», in cui sono presenti e attivi vari movimenti di ispirazione lasalliana. Al centro dell’impegno lasalliano è sempre «la scuola cristiana», ma questa è concepita in forme più articolate e diversificate per coprire le nuove urgenze e prospettive dell’educazione di ispirazione cristiana.

 

2.​​ Il contesto dell’opera lasalliana

Il contesto in cui maturano le intuizioni e le esperienze di Giovanni Battista de La Salle è quello della Francia del tempo del Re Sole: è dunque la seconda metà del secolo XVII, periodo di splendore letterario e culturale, di notevole sviluppo industriale e mercantile, di contrasti religiosi e di continue guerre. Un periodo più drammatico che glorioso: con le sue lacerazioni ha creato molte sofferenze nel popolo, provocando vistosi fenomeni di abbandono dei giovani, proprio mentre la crescita industriale e lo sviluppo urbanistico ponevano urgenti problemi educativi e religiosi. Abbiamo accennato alle prime esperienze catechistiche del La Salle nel suo periodo di formazione a Parigi intorno al 1670. Queste erano rivolte ai ragazzi del rione, spesso analfabeti e semi-abbandonati: una prima scoperta di un mondo lontano dalle precedenti esperienze di Giovanni Battista, che aveva goduto di una famiglia esemplare, di una bella casa, di un’ottima educazione scolastica. Dopo l’esperienza di tutore dei fratelli minori, viene quella della direzione delle scuole fondate dall’abate Roland, scuole che accoglievano le ragazze povere e abbandonate di Reims, per dar loro un’educazione morale, religiosa e professionale che consentisse un degno inserimento nella società di Reims.

Reims era una delle città più ricche e avanzate della Francia: aveva grandi tradizioni culturali, religiose e nobiliari. Giovanni Battista vive acutamente il contrasto tra lo splendore, vero o apparente, dei nobili di Reims, e la realtà ben misera dei «figli degli artigiani e dei poveri» secondo l’espressione che ritorna spesso sotto la sua penna. Come già abbiamo accennato, Dio lo guida a lasciare la sua situazione fortunata per abbracciare la causa dei piccoli, trascurati dalla famiglia e dalla società.

Ecco alcuni tratti della prima meditazione sulla missione educativa​​ (Méditations penule temps de la Retraite)​​ in cui appaiono le sue preoccupazioni e il suo impegno per la «scuola cristiana».

« È uno dei principali doveri dei genitori quello di allevare i loro figli in modo cristiano, insegnando loro la religione. Ma la maggior parte dei genitori non è istruita su ciò che la riguarda; inoltre molti sono preoccupati per i loro affari temporali e per la cura della famiglia, altri si affannano continuamente per guadagnare per sé e per i loro figli ciò che è necessario alla vita; perciò non possono dedicarsi a insegnare loro ciò che riguarda i doveri del cristiano.

È un dono della Provvidenza di Dio e della sua attenzione alla condotta degli uomini il sostituire ai genitori delle persone che abbiano conoscenze e zelo per guidare i piccoli alla conoscenza di Dio e dei suoi misteri, impegnandosi con tutta l’applicazione possibile a deporre nel cuore di questi ragazzi (che in gran numero sarebbero abbandonati) il fondamento della religione e della pietà cristiana come buoni architetti, secondo la grazia di Gesù Cristo che Dio ha loro concessa. Voi dunque, che Dio ha chiamati a questo ministero, valorizzate secondo la grazia che vi è stata data il dono di istruire, insegnando, e il dono di animare, stimolando quelli che sono affidati alle vostre cure, guidandoli con attenzione e vigilanza, per compiere verso di loro il dovere principale dei genitori riguardo ai loro figli»​​ (MTR​​ 1,2).

« Questi ragazzi sono ignoranti e spesso allevati male: bisogna dunque che quelli che li aiutano a salvarsi, lo facciano in modo così semplice che tutte le parole che dicono siano chiare e facili a capirsi. Siate fedeli a questo impegno, per poter contribuire quanto Dio vi chiede alla salvezza di quelli che vi ha affidati»​​ (MTR​​ 1,3).

«Osservate che è un’abitudine ben comune degli artigiani e dei poveri quella di lasciar vivere i loro figli in piena libertà come dei vagabondi che vanno da ogni parte, finché non possono impegnarli in qualche professione, e non si preoccupano minimamente di mandarli a scuola, sia a causa della loro povertà che non consente loro di pagare dei maestri, sia perché devono cercar lavoro fuori, per cui sono quasi nella necessità di abbandonarli. Ma le conseguenze sono tristi: questi poveri ragazzi, abituati per anni a una vita oziosa, stentano molto ad abituarsi al lavoro. Inoltre, frequentano cattive compagnie e imparano a commettere molti peccati, che è poi ben difficile lasciare in seguito, a causa delle cattive abitudini acquistate in così lungo tempo. Dio ha avuto la bontà di offrire un rimedio a questo grave inconveniente con la fondazione delle Scuole cristiane, in cui si insegna gratuitamente e solo per la gloria di Dio. Qui i ragazzi si fermano tutto il giorno, imparano a leggere, a scrivere e la religione; essendo sempre occupati, potranno dedicarsi al lavoro, quando i loro genitori vorranno impegnarli.

Ringraziate Dio della bontà che ha avuto di servirsi di voi per procurare ai ragazzi dei vantaggi così grandi. Siate fedeli e precisi a farlo gratuitamente, per poter dire con san Paolo: “Il motivo della mia consolazione è che annuncio il vangelo gratuitamente, senza chiedere nulla a chi mi ascolta”»​​ (MTR​​ 2,1).

 

3.​​ Pastorale giovanile lasalliana

Ispirandosi alle intuizioni del Fondatore e prendendo a base le esperienze di trecento anni di impegno in campo educativo, i Fratelli delle Scuole Cristiane e tutta la Famiglia Lasalliana considerano prioritaria la loro dedizione alla scuola cristiana, aprendosi però a nuove prospettive di educazione e di evangelizzazione suggerite dall’evolversi della situazione sociale e della condizione giovanile nei diversi paesi del mondo in cui operano. «Colpito dallo stato di abbandono dei “figli degli artigiani e dei poveri”, Giovanni Battista de La Salle ha scoperto nella fede la missione del suo Istituto, come risposta concreta alla sua contemplazione del piano di salvezza di Dio. Per rispondere a questo piano di salvezza e ad analoghe necessità, l’Istituto vuol essere nel mondo d’oggi una presenza della Chiesa evangelizzatrice. Attento in primo luogo alle necessità educative dei poveri, che aspirano a prendere coscienza della loro dignità di uomini e di figli di Dio e cercano di farla riconoscere, l’Istituto crea, rinnova e diversifica le sue opere secondo le necessità del Regno di Dio.

“Ambasciatori e ministri di Gesù Cristo”, i Fratelli si inseriscono nella missione della Chiesa consacrando la vita a Dio per portare il Vangelo nel mondo dell’educazione. Nella loro azione educativa, cercano di unire l’impegno di progresso culturale e l’annuncio della Parola di Dio. Sono persuasi che un’educazione rispettosa dell’uomo è apertura alla grazia che dispone ad accogliere la fede.

In virtù della loro missione, i Fratelli istituiscono scuole e collaborano all’animazione di comunità educative ispirate al progetto di san Giovanni Battista de La Salle. Le istituzioni lasalliane e la loro pedagogia sono incentrate sui giovani, rispondono alle esigenze dell’epoca in cui vivono e si preoccupano di prepararli a prendere il proprio posto nella società. Si caratterizzano per la volontà di offrire ai giovani i mezzi della salvezza, con una formazione umana qualificata e con l’annuncio esplicito di Gesù Cristo. Alla stessa attenzione per le persone i Fratelli si ispirano quando si rivolgono agli adulti, adeguando opportunamente i loro metodi. I Fratelli considerano la loro professione come un ministero. Sono attenti a ognuno e in particolare a quelli che hanno maggiori necessità. Si rendono disponibili a tutti con un atteggiamento di accompagnamento fraterno e li aiutano a scoprire, ad apprezzare e ad assimilare i valori umani ed evangelici. Favoriscono la loro crescita come persone chiamate a riconoscersi sempre più figli di Dio»​​ (Regola​​ 1987, II, 11-13).

L’opera lasalliana è sorta per «i figli degli artigiani e dei poveri». Ha una fondamentale impronta popolare. L’evoluzione delle politiche scolastiche statali ha portato a un sistema di rette, per cui vari istituti hanno piuttosto una clientela agiata. Questo è un problema molto sentito, su cui la nuova Regola si pronuncia così: «Inviati dall’Istituto principalmente ai poveri, i Fratelli prendono coscienza comunitariamente delle radici stesse della povertà che li circonda e si impegnano attivamente, con il servizio educativo, nella promozione della giustizia e della dignità umana. La medesima preoccupazione anima l’attività dei Fratelli anche quando si rivolge a un ceto sociale più agiato, che essi sensibilizzano alle situazioni di ingiustizia di cui i poveri sono spesso vittime. Inserendosi effettivamente nell’ambiente in cui lavorano, i Fratelli si sforzano di comprenderne meglio le aspirazioni profonde.

Colgono così il momento opportuno e il linguaggio appropriato per annunciare Gesù Cristo a coloro ai quali si rivolgono. In rapporto di reciprocità, si lasciano evangelizzare da loro.

I Fratelli considerano il lavoro di evangelizzazione e di catechesi, mediante il quale collaborano alla crescita della fede dei battezzati e all’edificazione della comunità ecclesiale, come “la loro principale funzione”. Tale convinzione guida la loro formazione e la scelta dei compiti a cui sono destinati» (Regola​​ 1987, II, 14-15).

Una dimensione caratteristica dell’impegno pastorale lasalliano è sempre stata la formazione di educatori cristiani laici, insegnanti, catechisti, animatori. La nuova Regola ribadisce questo impegno: «Fin dalla fondazione i Fratelli hanno contribuito a promuovere il laicato cristiano, specialmente tra gli educatori che desiderano fare della loro professione un ministero evangelico. Associano volentieri i laici alla loro missione educativa.

Offrono a coloro che lo desiderano i mezzi per conoscere il Fondatore e vivere secondo il suo spirito. I Fratelli cooperano alla formazione di insegnanti cristiani. Contribuiscono così alla crescita della loro professionalità e all’incremento del loro impegno nella Chiesa e nel mondo dell’educazione»​​ (Regola​​ 1987, II, 17).

 

Bibliografia

La fonte più ricca e sicura per gli studi su Giovanni Battista de La Salle e la sua opera è la grande collezione dei Cahiers Lasalliens, che comprende oltre 50 volumi e continua a crescere. Vi si trovano tutte le opere del Fondatore in riproduzione anastatica e numerosi studi. È reperibile in tutti gli istituti lasalliani e in numerosi centri universitari.

In italiano è particolarmente utile la Rivista Lasalliana, trimestrale di cultura lasalliana e pedagogica. È iniziata nel 1934 ed è attenta alle dimensioni pedagogiche, catechistiche, pastorali, oltre che di storia lasalliana. Vi si trovano spesso indicazioni bibliografiche. È reperibile in tutti gli istituti lasalliani italiani e in alcuni centri universitari.

Per studi specializzati è bene prendere contatto con la Biblioteca e l’Archivio della Casa Generalizia dei Fratelli delle Scuole Cristiane (Via Aurelia 476, 00165 ROMA) che sono molto ricchi e bene organizzati.

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LA SALLE Jean-Baptiste de​​ 

n. a Reims 1651 - m. a Rouen nel 1719, sacerdote, educatore francese, fondatore di una congregazione religiosa composta unicamente di insegnanti laici, dediti prevalentemente all’insegnamento scolastico e all’educazione giovanile (​​ Fratelli delle scuole cristiane). Canonizzato nel 1900, è il patrono universale dei maestri e degli educatori cristiani (Pio XII, 15 maggio 1950).

1. La fondazione educativa di L.S. prende corpo verso la fine del sec. XVII in un contesto sociale europeo segnato dagli squilibri della prima industrializzazione (i figli di operai, di artigiani e di poveri non ricevono in famiglia alcuna istruzione, né esistono scuole se non a pagamento). Essa si inserisce inoltre nell’alveo storico della riforma postridentina, sia cattolica (​​ Calasanzio, gli Oratoriani, Démia...) che protestante (​​ Comenio), tesa a valorizzare l’istruzione popolare come tramite basilare per l’educazione civile, cristiana e professionale dei giovani.

2. L.S., fondando soprattutto scuole popolari e gratuite, fa saltare il privilegio delle «petites écoles» e dei maestri scrivani del tempo, che reclutavano solo gli scolari di famiglie benestanti in grado di pagarsi l’istruzione. Nelle scuole lasalliane l’insegnamento primario è concepito come base per la​​ ​​ formazione professionale. Di qui le innovazioni di metodi e programmi rispetto all’educazione classica data nei collegi (​​ Gesuiti): sostituzione del latino con la lingua materna; studio non solo di testi letterari ma anche di manoscritti in uso nella vita corrente (atti pubblici, lettere d’affari, conti commerciali...); introduzione di attività didattiche connesse con le professioni artigianali e commerciali (attivando materie nuove come geometria, disegno, agrimensura, contabilità, meccanica e tecniche di lavorazione e di costruzione…); adozione del metodo di insegnamento simultaneo e graduato mediante una distribuzione monitorata degli alunni in classi omogenee (in sostituzione dell’insegnamento individualizzato allora in vigore).

3. Fondamentale nel sistema educativo di L.S. è la formazione umana e pedagogica dei maestri-educatori. A questo scopo fonda una congregazione laicale di insegnanti-religiosi, crea seminari per maestri di scuole rurali, scrive diverse opere di pedagogia pratica, di spiritualità, di ascetica. Tra queste, oltre alle​​ Regole​​ e alle​​ Meditazioni​​ per i suoi religiosi, ci sono testi destinati all’educazione civica e all’insegnamento etico-religioso come le​​ Règles de la bienséance et de la civilité chrétienne​​ (che hanno conosciuto ben 125 edizioni dopo la morte di L.S.), o come​​ Les devoirs d’un chrétien​​ (270 edizioni). Ma la descrizione dettagliata dell’organizzazione scolastica e dei metodi didattici è contenuta nella celebre​​ Conduite des écoles,​​ frutto congiunto delle migliori esperienze educative di La S. e di quelle dei primi Fratelli, e più volte aggiornata «sul campo» alla luce della prassi educativa dell’intera congregazione (24 diverse edizioni tra il 1720 e il 1920). Un vero trattato di «pedagogia contestuale» per la gestione della scuola.

4. La fortuna pedagogica di L.S. non si è esaurita con la sua esperienza di educatore e di scrittore; è continuata nella vitalità secolare e internazionale della sua congregazione (e, indirettamente, in particolare dal sec. XIX, nella fioritura di altre​​ ​​ congregazioni insegnanti, sia maschili che femminili). Così l’opera lasalliana, oltre ad aver posto le basi in Francia dell’insegnamento primario e tecnico-professionale adottato poi dalla generalità degli Stati moderni, ha interessato la storia mondiale della pedagogia scolastica, con una risonanza che ancor oggi non cessa di espandersi.

Bibliografia

a)​​ Fonti: J.-B. de L.S.,​​ Opere complete, ediz. it. a cura di S. Barbaglia, 6 voll., Roma, Città Nuova, 1993-2005; Collana​​ Cahiers Lasalliens. Textes,​​ études,​​ documents, 64 voll., Roma, Maison gén. FSC, 1959-2007. b)​​ Studi: Calcutt A.,​​ De L. S. A city saint and the liberation of the poor​​ through education, Oxford, 1993; Gallego S.,​​ Vida y pensamiento de s. J.-B.​​ de La S., vol. 1:​​ Biografía; vol. 2:​​ Escritos,​​ Madrid, BAC, 1986; Scaglione S.,​​ Bibliographia internationalis Lasalliana, in «Rivista Lasalliana» 68 (2001) 1-2; Valladolid J. M.,​​ La S. catequista, Madrid, PPC, 2007.

F. Pajer

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LA SALLE Jean Baptiste de

LABERTHONNIÈRE Lucien

 

LABERTHONNIÈRE Lucien

n. a Chazelet nel 1860 - m. a Parigi nel 1932, filosofo francese.

1. Nato da una famiglia di umili artigiani, compì i suoi studi in seminario e, dopo l’ordinazione sacerdotale, entrò nella Congregazione dell’Oratorio, ricoprendo dapprima l’incarico di professore di filosofia e poi le funzioni di direttore del celebre collegio di Juilly. L’esperienza educativa che venne compiendo lo stimolò a scrivere la​​ Théorie de l’éducation,​​ pubblicata per la prima volta nel 1901. In polemica con i teorici della cosiddetta educazione indipendente secondo cui ogni oggetto andava lasciato al suo libero e spontaneo sviluppo, egli affermava che una tale prospettiva, oltre che concretamente impraticabile, sarebbe stata deleteria e, pertanto, rivendicava la necessità della presenza attiva del maestro. Non si deve però credere che egli fosse portato a giustificare qualsiasi intervento dell’educatore. Sosteneva che, al pari di ogni altra autorità, anche quella del maestro cambiava volto a seconda delle intenzioni da cui era animata. A suo modo di vedere, c’erano due tipi di autorità: l’autorità «asservitrice» (asservissant),​​ che usava del potere e del sapere di cui disponeva per assoggettare gli allievi ai propri fini particolari, e l’autorità «liberatrice», che cercava al contrario di porre se stessa a servizio di coloro che le erano affidati per aiutarli a prendere in mano le sorti del loro destino. Egli riteneva che solo chi si sforzava di attuare il secondo tipo di autorità meritava il titolo di educatore.

2. Nel 1903, essendo stato sciolto l’Oratorio a seguito della legge sulle congregazioni religiose in Francia, L. prese dimora a Parigi e da quel momento dedicò le sue energie all’approfondimento delle tematiche filosofiche e religiose, partecipando a quel profondo sforzo di rinnovamento della cultura cattolica, che si diffuse un po’ in tutta Europa e a cui gli storici avrebbero poi dato il nome di modernismo. Tra il 1903 e il 1904 uscirono due suoi scritti che concorsero a farne conoscere il pensiero:​​ Essais de philosophie religieuse​​ e​​ Le réalisme chrétien et l’idéalisme grec.​​ In aperto contrasto con certa teologia cattolica, a suo giudizio troppo inficiata d’intellettualismo, egli sosteneva che la conquista filosofica del vero era frutto non solo della​​ ​​ ragione, ma anche delle disposizioni interiori del soggetto. Tale concezione nasceva in lui dal convincimento che ogni presa di posizione sull’essere rinviava, in modo più o meno esplicito, a una interpretazione dell’assoluto e che questa interpretazione comportava sempre un’opzione fondamentale sul senso dell’esistenza. Egli pensava cioè che, per avere la certezza e il possesso della​​ ​​ verità, occorreva affermare Dio e che per riuscire a cogliere Dio come principio, era necessario cominciare con l’assumerlo come fine. Queste tesi furono duramente biasimate dagli esponenti della cultura teologica neoscolastica, i quali accusarono il loro autore di fideismo.​​ 

3. Chiamato a far parte della Société Française de Philosophie nel 1905 L. ricevette l’incarico di dirigere le «Annales de Philosophie Chrétienne». Sotto la sua guida, il periodico sarebbe diventato una delle pubblicazioni di punta della cultura cattolica francese. Nella primavera del 1906 L. incorse negli strali della censura ecclesiastica: gli​​ Essais​​ e​​ Le réalisme​​ furono infatti messi all’indice. La vicenda avrebbe dovuto consigliargli una maggiore prudenza, tanto più che, dopo la promulgazione, nel 1907, dell’enciclica​​ Pascendi​​ volta a condannare le dottrine moderniste, nel mondo cattolico prese a diffondersi un pesante clima di sospetti. Ma L., incurante dei rischi, proseguì lungo la sua strada, non perdendo per altro occasione d’attaccare i teologi che guardavano con favore a un’alleanza della Chiesa con l’Action française,​​ il movimento di destra guidato da Charles Maurras. Questa sua coraggiosa linea di condotta non restò senza conseguenze. Tra la primavera e l’estate del 1913 egli fu raggiunto da alcuni gravi provvedimenti: l’8 maggio veniva posta all’indice la serie delle «Annales de Philosophie Chrétienne» uscita sotto la sua direzione; il 16 giugno analoga sorte toccava a due suoi brevi saggi; il 30 giugno gli fu consegnata un lettera del prefetto della Congregazione dell’Indice con cui gli si interdiceva di pubblicare i risultati dei suoi studi. La proibizione di pubblicare, cui L. si sottopose e dalla quale non sarebbe stato più affrancato, ne fece una specie di «murato vivo», anche se egli poté continuare a svolgere l’attività di ricercato conferenziere, oltre che di animatore di piccoli gruppi. Merita ricordare che, nonostante la condanna da cui era stato colpito, a lui non di rado ricorsero sacerdoti e persino vescovi per farsi aiutare nella redazione di testi e documenti.

4. Nel ’29, presa visione di un dibattito apertosi in tema di scuola sulle pagine della rivista di un sindacato di insegnanti, scrisse una lettera nella quale delineava il profilo di quella che avrebbe dovuto essere una scuola pubblica rispetto alle diverse opzioni culturali e religiose presenti nella società. Le precisazioni da lui fornite al riguardo si collocavano in ideale continuità con quanto aveva sostenuto nella​​ Théorie​​ de l’éducation.​​ L. prendeva le distanze sia da chi non esitava a concepire la scuola pubblica a servizio di una determinata concezione sia da chi pensava che, per restare al di sopra delle parti, essa fosse chiamata a stendere il silenzio sui problemi e sulle varie posizioni in campo. A suo modo di vedere, se si voleva che la scuola pubblica attendesse alla propria vocazione educativa, bisognava che i suoi insegnanti, evitando la neutralità non meno della partigianeria, potessero rendere ragione delle idee in cui credevano. In altri termini, egli stimava che la scuola pubblica doveva vedere nella pluralità delle posizioni da cui era caratterizzata non un male da subire o da occultare, ma un’opportunità da mettere a frutto al fine di una più efficace opera di collaborazione nella leale ricerca della verità.

Bibliografia

tra gli studi più recenti: Beillevert P. (Ed.),​​ L.​​ L’homme et l’oeuvre,​​ Paris, Beauchesne,​​ 1972; Pazzaglia L.,​​ Educazione religiosa e libertà umana in L.,​​ Bologna, Il Mulino, 1973; Perrin M. Th.,​​ La jeunesse de L. Printemps d’une mission prophétique,​​ Paris, Beauchesne, 1980;​​ La pensée de P.L.L.​​ Colloque philosophique organisé à l’occasion du 50ème​​ anniversaire de sa mort par la Faculté de Philosophie de l’Institut Catholique de Paris et l’Oratoire de France, in «Revue de l’Institut Catholique de Paris» (1983) fasc. VIII.

L. Pazzaglia

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LABERTHONNIÈRE Lucien

LABORATORIO

 

LABORATORIO

È stato scritto che la pedagogia ha perso progressivamente fiducia nel potere magico della parola – «basta parlare perché gli alunni comprendano e apprendano» (De Landsheere G., 1978, 14) – e ha cercato di produrre nuove situazioni educative in cui si potessero conciliare l’insegnamento individualizzato, il lavoro socializzato, la partecipazione diretta dell’alunno, assicurando da parte dell’insegnante il ruolo di guida e di consulenza.

1. Il l. rientra nel quadro di queste «nuove» situazioni educative. Il termine l. evoca un ambiente provvisto di strumenti e materiali idonei, e una situazione (anche temporale) che richiede alle persone una partecipazione diretta per sperimentare e produrre risultati. Il l. è di fatto un metodo attivo di apprendimento che chiama in causa l’alunno perché personalmente o in gruppo sperimenti e lavori sul proprio apprendimento in un ambiente idoneo avendo a disposizione un supporto preparato dall’insegnante.

2. Il l., così come è inteso oggi, ha conosciuto vari cambiamenti nel tempo. Dapprima circoscritto all’ambito delle scienze sperimentali (l. di fisica e di chimica) gradualmente si è esteso ad altri contenuti dell’insegnamento. Negli anni ’60 un posto privilegiato fu riconosciuto al l. linguistico partendo dal presupposto che una lingua non è materia astratta ma viva, e che uno dei modi migliori per acquisirla è esercitarla. La proposta venne dagli Stati Uniti e all’inizio fu accolta con una certa diffidenza in Europa. Nel 1963 fu scritto che​​ «rien ne nuit au Laboratoire de langues que de s’appeler​​ Laboratoire​​ et de venir d’Amérique»​​ (Guénot, 1963, 27). Era l’epoca in cui le​​ teaching machines​​ invadevano il mercato europeo e il l. linguistico fu annoverato in un primo tempo tra queste. Ben presto fu impiegato come l. d’istruzione per le altre materie, l’uso della «macchina» non apparve prioritario e lo si scoprì come metodologia di apprendimento che coinvolgeva in modo più significativo l’allievo. L’esperienza di «l. didattico» nel​​ microteaching​​ risultò positiva ai fini della formazione dei futuri insegnanti attraverso simulazioni di situazioni scolastiche (strutturate in modo da garantire il raggiungimento di obiettivi specifici) dove alcuni sono protagonisti e altri osservatori.

3. Oggi il metodo di l. è comunemente usato non solo nell’ambito dell’apprendimento scolastico ma anche in corsi e convegni per facilitare ai partecipanti la possibilità di «lavorare» su ipotesi e proposte concrete mettendo a loro disposizione spazio materiale e di tempo e una varietà di supporti di documentazione adeguati.

Bibliografia

De Landsheere G.,​​ La formazione degli insegnanti domani,​​ Roma, Armando, 1978; Novak J. D. - D. B. Gowin,​​ Imparando a imparare,​​ Torino, SEI, 1989; Gagné R. M. - L. J. Briggs,​​ Fondamenti di progettazione didattica,​​ Ibid., 1990; Frabboni F.,​​ Il l., Roma / Bari, Laterza, 2007.

M. G. Caputo​​ 

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LABORATORIO

LAENG Mauro

​​ 

LAENG Mauro

n. a Roma nel 1926 - m. a Roseto (PE) nel 2004, pedagogista italiano.​​ 

1.​​ Cenni biografici. Figlio di Walter (Gualtiero) di origine svizzera, laureatosi in filosofia a Milano, all’Università Cattolica, insegnò per 15 anni nelle scuole secondarie e per 35 anni pedagogia nell’Università di Roma, prima nella Fac. di Magistero e poi nella Fac. di Scienze della Formazione dell’Università di Roma Tre, dove è stato anche direttore dell’Istituto di pedagogia, preside della Facoltà di Magistero, direttore del​​ Museo storico della didattica, ora dedicato al suo nome, e infine professore emerito. Si tratta di una delle figure eminenti della cultura filosofica, scientifica, psicologica, pedagogica del Novecento italiano ed europeo. Ha collaborato con molte istituzioni, dando contributi originali: dal CEDE di Frascati, di cui fu vicepresidente, all’OCSE, al Consiglio d’Europa, all’UNESCO, ad associazioni professionali italiane ed europee. Ha fondato nel 1965 e diretto fino alla fine il periodico​​ Didattica delle Scienze​​ ed ha coordinato la Commissione ministeriale che ha elaborato i​​ Programmi della scuola elementare​​ del 1985. Il suo amore per la chiarezza concettuale e la sua passione didattica sono all’origine di una serie fortunata di volumi, in particolare del suo​​ Lessico Pedagogico, tradotto in più lingue; e soprattutto della sua monumentale​​ Enciclopedia Pedagogica​​ (Brescia, La Scuola, 1990-93) in 6 voll., di oltre 6.000 pagine, dovute a 500 collaboratori di vari Paesi, arricchita nel 2003 di un 7° vol. (Appendice A-Z).​​ 

2.​​ Produzione pedagogica. a) Sul piano storico, i suoi studi hanno fornito alimento al noto manuale Reale Antiseri Laeng, in 3 voll.,​​ Filosofia e Pedagogia dalle origini a oggi​​ (Brescia, La Scuola, 1985) più volte ristampato, e ad una​​ Antologia Pedagogica, pure in 3 volumi. b) Nel settore comparativo ha collaborato come​​ Technical Officer​​ alla ricerca internazionale IEA sulla valutazione del profitto scolastico. È stato vicepresidente internazionale della​​ CESE​​ (Comparative Education Society in Europe), collaborando alla costruzione del sistema informativo​​ EUDISED.​​ Frutto delle sue frequentazioni internazionali è l’Atlante della Pedagogia, in 3 voll. e 4 tomi (Napoli, Tecnodid, 1989-1993). c) Sul piano teoretico la sua ricerca ha preso le mosse da​​ Problemi di struttura della Pedagogia​​ (1960), si è sviluppata in​​ Educazione nella civiltà tecnologica​​ (1969 e 1984), in​​ Educazione alla libertà civile morale e religiosa​​ (1980 e 1992), e nella sintesi​​ Nuovi Lineamenti di Pedagogia​​ e nella guida​​ Pedagogia​​ della collana Professione docente (La Scuola, 1999). d) Sul piano sperimentale la sua multiforme attività è confluita in​​ Pedagogia sperimentale​​ (1992 e 1998). e) Sul piano didattico, oltre ai manuali citati, si ricordano i​​ Lineamenti di didattica​​ (1978 e 1996) e i volumi​​ Insegnare scienze​​ (1998),​​ Pedagogia e Informatica​​ (1985),​​ Movimento,​​ gioco,​​ fantasia​​ (1990).

Bibliografia

a)​​ Fonti: M.L.,​​ Sentieri della memoria: note retrospettive. Esperienze e riflessioni. Aneddoti e curiosità, Roseto, 2000 (presso l’A.); Id.,​​ Il mio itinerario alla pedagogia, in «Pedagogia e Vita» (2001) 3, 48-56; b)​​ Studi: Corradini L. (Ed.),​​ Pedagogia,​​ ricerca e formazione.​​ Saggi in onore di M.L., Roma, Seam, 2000; Id., «L., M.», in M.L. (Ed.),​​ Enciclopedia pedagogica. Appendice A-Z, Brescia, La Scuola, 2003, 825-829; Id.,​​ Profilo della vita e dell’opera di M.L., in «Pedagogia e Vita» (2006) 3-4 , 179-210.

L. Corradini

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LAENG Mauro

LAICITÀ

LAICITÀ

Piersandro Vanzan

 

1. «Status quaestionis»

1.1. Dai nodi storici al problema della «struttura» ecclesiale

1.2. Ipoteche e abbreviazioni

2. Alcune grandi linee prospettiche

2.1. Indicazioni sinodali

2.2. Ruolo dei fedeli laici all’interno della Chiesa

2.2.1. Funzione sacerdotale

2.2.2. Funzione profetica

2.2.3. Funzione regale

2.3. Ruolo dei fedeli laici nel e per il mondo

2.3.1. Funzione sacerdotale

2.3.2. Funzione profetica

2.3.3. Funzione regale

1. «Status quaestionis»

C’è un gran parlare e scrivere, oggi, sul dualismo ecclesiologico (preti-laici) o sulla tricotomia clero-laici-religiosi, tra l’altro con grande incertezza circa il nome da usare per la classificazione di questi soggetti collettivi o componenti ecclesiali, che alcuni vorrebbero considerare quasi tre corpi o stati nella chiesa — come le tre classi nella società —, le cui differenze sarebbero radicate per così dire «in natura», anche se il Vaticano II (LG 13) lascia intendere che la triade non emerge dallo stesso principio formale. La distinzione clero-laici, infatti, deriva dalla considerazione dell’ufficio, mentre quella religiosi-laici dalla considerazione del carisma o della scelta di vita. Né le cose si sono chiarite quando, ultimamente, alcuni teologi hanno tentato di risolvere il contenzioso... abolendone la complessità. Una scorciatoia praticata ampliando «l’indole​​ secolare propria e peculiare dei laici» (LG 31) a tutta la chiesa, in base all’espressione di Paolo VI: «La chiesa ha un’autentica​​ dimensione​​ secolare» (2 febbraio 1972). A parte l’indebita estrapolazione del lemma​​ indole​​ in​​ dimensione​​ — questa indica il fatto stesso d’essere nel mondo (= l’incarnazione), quella invece l’ambito proprio dell’identità e missione dei fedeli laici (= lo specifico) — ci sembra molto pericoloso sostenere che una dimensione possa definire la natura di alcunché. E pur comprendendo lo scopo dell’operazione — dato che il definire secolare-laicale tutta la chiesa colmerebbe d’un sol colpo il fossato (e dualismo) pretilaici apertosi lungo i secoli — riteniamo che alla bontà dell’intenzione non corrisponda la correttezza della soluzione.

 

1.1. Dai nodi storici al problema della «struttura» ecclesiale

I pochi cenni precedenti bastano a far capire che certe scorciatoie non portano da nessuna parte come, d’altronde, ben poco si ottiene con lo scavo filologico del sostantivo greco​​ laós​​ — indicante un popolo scelto (eletto) tra gli altri popoli (etné) —​​ né dell’aggettivo​​ laikós,​​ che nell’antichità significava la massa della popolazione, in quanto distinta dai suoi capi, e che nei primi secoli della chiesa indicava quella componente sociologica che non apparteneva al clero (senza peraltro avere il senso peggiorativo dell’alto medioevo:​​ idiotae​​ o illetterati). Né si va molto lontano contrapponendo le più libere e carismatiche comunità paoline — ad alto protagonismo «laicale» (e femminile) — a quelle petrine o gerosolomitane, quasi che la maggiore struttura («clericale»​​ ante litteram)​​ di queste, impedisse loro di autocomprendersi — non meno di quelle — come realtà misterica guidata dallo Spirito, e dove la profonda comunione tra le componenti non abolisce la diversità delle funzioni. E se le cose peggiorano, per quanto riguarda il nostro tema, con la svolta costantiniana — che, innegabilmente, determina un progressivo distacco del vescovo dalla comunità e una crescente «specializzazione», all’interno di questa, di ruoli e funzioni prima molto più in osmosi —, non si può certo disattendere le ragioni di questa evoluzione, ignorando per esempio quali contraccolpi abbiano determinato nella vita e struttura della chiesa sia le varie invasioni barbariche, sia le diverse eresie e poi lo scisma d’Oriente.

Ancor più negativa è la confusione che si ingenera contrapponendo, infine, ai «tre generi di cristiani» (preti, religiosi, laici) — via via affermatisi nel medioevo, specialmente dopo la vittoria degli Ordini mendicanti sul clero diocesano — un ritorno abbastanza romantico all’ecclesiologia popolare delle origini — povera di strutture e ricca di protagonismo dei battezzati (sacerdozio comune dei «cristiani e basta») —, rieditando la​​ Volkskirche​​ luterana con un’operazione che, per quanto suggestiva, trascura la buona storicità e rischia d’insabbiarsi nel mito dell’archeologia ecclesiologica.

Come ha dimostrato L. Sartori, l’ipoteca ideologica, sottesa a tutti questi pur generosi tentativi di rinnovare la chiesa e le sue strutture, consiste sia​​ nell’impegno settoriale​​ della stessa riforma — come quando s’interviene su un aspetto, ma ignorando (o contrapponendolo a) un altro — sia​​ nell’attenzione al passato,​​ con un ritorno mitico alle origini, ma trascurando l’altrettanto essenziale orizzonte escatologico, verso cui la chiesa si muove. Si dimentica, infatti, che​​ il fine​​ influisce sul movimento sin dall’inizio, anche se l’esito sarà perfetto solo​​ alla fine.​​ Perciò, la soluzione corretta del nostro problema dev’essere insieme​​ complessiva —​​ assumendo dinamicamente tutte le dimensioni spazio-temporali e tutte le componenti personali della chiesa — e​​ storicizzata,​​ nel senso di cogliere il meglio delle complessificazioni succedutesi (vitalmente, per​​ intussusceptionem,​​ e non archeologicamente, a strati o per giustapposizione) lungo il corso dei secoli. Ciò suppone coniugare la complessità del passato (tradizione) con le trasformazioni del presente (innovazione), in funzione della migliore sintesi futura (proiezione); secondo il motto e programma di Giovanni XXIII: «La tradizione per la transizione».

In breve, poiché il nostro problema è fondamentalmente strutturale e teologico, e non solo contingente e sociologico, la soluzione non potrà consistere in questo o quel ritocco settoriale e miglioramento episodico, né in operazioni totalizzanti ma ideologiche — del tipo «fuga in avanti» dei progressisti, che sognano il Vaticano III, o «riflusso integrista» dei conservatori, che rimpiangono il Concilio di Trento — bensì in una rivisitazione dell’identità​​ del personale della chiesa (preti, laici, religiosi) e delle​​ mutue relazioni​​ che si danno tra queste componenti. Si tratta cioè di rivisitare con acribia la struttura intraecclesiale, ampliando il discorso a suo tempo iniziato da K. Rahner e da H. Kung.

Per «struttura» intendiamo quella totalità organica di elementi che determina un sistema di rapporti tali che lo spostamento o la modifica di uno comporta inevitabilmente lo spostamento o la modifica degli altri. Conseguentemente, la coerenza e l’intelligibilità della struttura vanno cercate nel quadro della sua unità globale, mentre se un elemento è preso per il tutto o se, al contrario, cessa d’interagire con gli altri, la struttura complessiva ne risente (R. Parent). Ciò è certamente accaduto lungo il corso dei secoli, sia per le avverse congiunture e interferenze esterne, sia per la prevaricazione dell’uno sull’altro degli elementi infrastrutturali (= clericalizzazione della chiesa e progressiva emarginazione dei laici). E tuttavia la riforma ecclesiale non equivale a un sublime restauro artistico, ma a una ripresa vitale di un organismo vivo, momentaneamente bloccato nella sua crescita da fattori patologici.

Urge quindi modificare certe situazioni e forme intraecclesiali, ma non per raddrizzare il capovolto — con buona pace degli allarmati tradizionalisti, che guardano (e reagiscono) al Vaticano II in maniera speculare capovolta —, bensì per rispettare il progetto ecclesiologico di fondo, che il discernimento biblico-teologico dovrà realizzare come fedeltà dinamica allo Spirito. Nel nostro caso, non si tratta di preferire una chiesa «tutta laicale» — che desacralizza oltre il lecito e favorisce il secolarizzarsi della cristianità — o, all’opposto, una Chiesa «tutta clericale» — che risacralizza l’attuale fase di riflusso della secolarizzazione —, quanto di scavalcare entrambe quelle forzature in nome dell’originale progetto di Dio per ciascuna componente ecclesiale — che meglio si direbbe rifrazione prismale dell’unica vocazione cristiana (filii in Filio)​​ — e di ristabilire il corretto rapporto tra di loro. E ciò coniugando armonicamente la legge dell’unità o della soggettività cristiana — fondata sull’ontologia di grazia, che nei sacramenti dell’iniziazione (battesimo, cresima, eucaristia) pone la pari dignità di tutte le membra del corpo mistico di Cristo — con la legge della diversità o delle differenze intraecclesiali — che si esprime e si articola sia mediante gli altri sacramenti sociali (matrimonio e ordine), sia attraverso i diversi ministeri e stati di vita (religiosi, istituti secolari e varie diaconie​​ de facto)​​ —, cosi da rendere non solo ben compaginato​​ ad intra,​​ ma anche meglio attrezzato​​ ad extra​​ questo segno e sacramento della comunione con Dio e tra gli uomini che è la chiesa.

Perciò, senza disperderci all’inseguimento dell’evoluzione (involuzione) dei vari modelli strutturali nelle diverse epoche — le cui variazioni, certamente non sempre felici, sono state tuttavia riscattate dalla creatività dello Spirito, anche se a tempi lunghi (cf come il Vaticano II ha «completato» il I) — concentreremo la nostra attenzione sull’oggi di quel non facile processo di complessificazione sia del personale (preti, religiosi, laici) sia delle mutue relazioni, cercando d’integrare (e non di contrapporre) il meglio di ieri col meglio d’oggi, in vista d’un miglior domani anche ecclesiologico. Del resto, questa concentrazione attualizzante è ricca e difficile quanto basta: sia perché nelle aporie contemporanee s’intravedono, come in filigrana, le ipoteche del passato; e sia perché non mancano certo neppur oggi gli equivoci, tanto a livello terminologico e contenutistico, quanto negli ambiti intra ed extra ecclesiali, con grave​​ deficit​​ di comunicazione per tutti. Si pensi, per esempio, all’uso equivoco della parola «laico» che, a seconda dei contesti, indica il non sacerdote, il non credente, il non democristiano ecc., fino al magistrato che non entra di diritto nel Consiglio superiore della magistratura (= i togati), ma vi è mandato-eletto dai partiti (= i laici).

Né meno equivoco è l’uso abbreviato, invalso nello stesso ambito ecclesiale, della dizione conciliare di​​ christifideles laici​​ (cf LG 30 ecc., CIC 207, ecc.). La separazione tra i due termini non è immune da rischi. Infatti, la semplice denominazione di «cristiani» o «fedeli» (christifideles) sottolinea l’elemento fondante la dignità-base dei battezzati nella Chiesa (filii in Filio),​​ ma non specifica il​​ proprium​​ del «battezzato laico» quando, per esempio, col sacramento del matrimonio entra nella particolare «vocazione alla santità» per la via coniugale-familiare o, con la consacrazione in un Istituto secolare, entra nell’altra particolare​​ sequela Christi​​ nel mondo — tipica della chiesa occidentale — caratterizzabile come vocazione alla testimonianza-ponte tra i​​ christifideles laici​​ e quelli​​ religiosi​​ (donde l’appellativo di «laici consacrati»). In breve, nella temperie socioculturale odierna, dire solamente «laici» è inadeguato a esprimere in pienezza quello che pure si vorrebbe dire, evocando fatali ipoteche laiciste. D’altra parte, dire solamente «cristiani» o «fedeli» non specifica sufficientemente le diverse vocazioni intraecclesiali che, come emerso anche dal dibattito sinodale (ottobre 1987), spaziano caleidoscopicamente dal sacerdozio universale a quello ministeriale, dai ministeri ordinati a quelli istituiti e​​ de facto,​​ dal carisma dei religiosi laici a quello degli Istituti secolari (anche sacerdotali), per arrivare infine alle diverse funzioni, nella chiesa e per il mondo, dei fedeli laici (su cui torneremo).

 

1.2. Ipoteche e abbreviazioni

Possiamo certo comprendere il disagio che tutto questo «distinguere per unire» ingenera in chi vorrebbe che, almeno pastoralmente, si procedesse più spediti, ma non ci sembra corretta l’abbreviazione di quelli che considerano il «fedele laico» come il «cristiano e basta» (quasi che​​ laikós​​ fosse il «generico», mentre il prete e il religioso avrebbero vocazioni «specifiche» nella chiesa). Col risultato di superare sì la malintesa tricotomia — laici, chierici, religiosi (che noi, invece, consideriamo la triplice rifrazione prismale dell’unica vocazione) — ma d’impoverire più del lecito la galassia laicale che, come vedremo, è ricca di carismi e ministeri nella chiesa e per il mondo (cf esortazione apostolica postsinodale​​ Christifideles laici,​​ capp. II e III).

Ciò basti per intravedere come la matassa sia ingarbugliata, tanto a livello terminologico e contenutistico, quanto negli ambiti intra ed extra ecclesiali. Né c’è da meravigliarsi più di tanto, se consideriamo da quale travagliata storia d’opposizioni clerico-laiciste proveniamo, mentre, per quanto riguarda la decantazione iniziata nel secondo dopoguerra, a opera della Costituzione repubblicana e del Concilio ecumenico, i primi frutti raccolti nel nuovo Codice di diritto canonico e nella revisione del Concordato sono troppo recenti per essere in grado di correggere adeguatamente scepsi o abbagli plurisecolari (e per non generarne degli altri, magari in chiave antitetica).

Tanto più che, per venire più direttamente al nostro tema, la stessa ricchezza conciliare — 14 su 16 documenti trattano più o meno diffusamente dei «fedeli laici» — non ci ha dato una trattazione organica​​ de laicis,​​ ma solo una descrizione tipologica, tanto ricca quanto composita, del loro essere e agire nella chiesa e nel mondo. Di qui la possibilità, in agguato nello stesso dettato conciliare, d’interpretazioni anche divaricanti, a seconda che si privilegia la prospettiva dell’uno o dell’altro testo e, con gli ulteriori sviluppi postconciliari, si sposta il baricentro dall’ecclesiologia per così dire tridimensionale (clero, laici, religiosi) a quella cosiddetta totale, che considera la laicità come dimensione totalizzante della Chiesa​​ (laós).

Illuminante ci sembra, in proposito, questo passaggio del citato discorso di Paolo VI (2 febbraio 1972, notando che le parole tra parentesi quadre sono le variazioni che «a braccio» il Papa fece leggendo il testo scritto): «Di per sé, il sacerdote in quanto tale ha anch’egli, come il laico cristiano, un’essenziale relazione al mondo, che egli deve esemplarmente realizzare nella propria vita, per rispondere alla propria vocazione, per cui è mandato nel mondo come Cristo è stato inviato dal Padre (cf​​ Gv​​ 20,21). Ma come sacerdote, egli assume una responsabilità specificamente sacerdotale per la retta conformazione dell’ordine temporale. A differenza del laico — salvo in casi eccezionali, come ha previsto un voto del recente Sinodo Episcopale — egli non esercita questa responsabilità con un’azione diretta e immediata nell’ordine temporale; [che so io, farsi banchiere, o se no farsi capo delle ferrovie, o se no, farsi deputato, ecc. Un sacerdote che vive nel mondo, anche se vuol servire direttamente il mondo, si astiene da queste professioni di loro natura profana e non coincidenti con la sua specifica missione, che è sacra e religiosa;] ma sta nel mondo con la sua azione ministeriale e mediante il suo ruolo di educatore alla fede, [con un’attitudine particolare nell’esercizio della fatica e del lavoro pastorale] ed è il mezzo più alto per contribuire a far sì che il mondo si perfezioni costantemente, secondo l’ordine e il significato della creazione»​​ (Gli Istituti Secolari una presenza viva nella Chiesa,​​ a cura di A. Oberti, OR, Milano 1986, 48s).

In breve, nessuna bipolarità — ai laici il mondo, ai preti la chiesa — né alcuna tricotomia — al clero l’alto (la Chiesa e la sua unità), ai laici il basso (il mondo e la sua frammentazione), ai religiosi il tutt’altro (la testimonianza a dimensione escatologica) —, bensì la reciproca integrazione col fine comune, da perseguire​​ in solidum,​​ del​​ bonum Ecclesiae ac prò mundi vita.​​ Certamente, le componenti clericali e religiose della chiesa dovranno concorrere — ciascuna per la sua parte e con le rispettive reciprocità — a promuovere un laicato che sia pienamente cosciente del suo battesimo (= sacerdozio universale) e della conseguente sua missione (= doppia cittadinanza: vivendo cioè da laici nella chiesa e da cristiani nel mondo). Ma ciò significa valorizzare sia la laicità-secolarità nella (ma non della) chiesa, sia l’ecclesialità o presenza della chiesa nel mondo (ma senza comprometterne l’autonomia col clericalismo). Se il fedele laico perde di vista questa bipolarità — certamente più delicata di quella che pur si dà anche per i religiosi e i preti (tuttavia meglio tutelati dai vari «codici di separatezza») — dietro l’angolo è in agguato il rischio, uguale e contrario, sia del riflusso clericale o laicista, sia della divaricazione tra il sacerdozio universale e quello ministeriale, o della confusione tra i due (magari attraverso l’inflazione dei ministeri e della conseguente forzatura di una «Chiesa tutta ministeriale»). Non è questa la sede per affrontare tutte le controversie esplose nell’ultimo periodo, ma è sufficiente averle richiamate perché — come variante della suaccennata complessificazione infrastrutturale — c’è qui sottesa la vicenda storico-evolutiva della teologia e prassi ecclesiale dell’ultimo secolo e mezzo, specialmente in Europa. Infatti, dalla nascita dell’Azione Cattolica — che ha potuto rilanciare il protagonismo laicale solo facendone un «clero di riserva» — alla teologia del laicato — che ha preparato il balzo successivo ma insistendo un po’ troppo sullo «specifico», col rischio di consolidare la tricotomia già lamentata — si è via via passati, attraverso la crisi della secolarizzazione e la teologia corrispondente, alla teologia politica e a quella della liberazione​​ (ad extra)​​ e alla teologia dei ministeri​​ (ad intra),​​ fino ad approdare — alla vigilia del Sinodo ’87 — sulle rive dell’accennata ecclesiologia totale di cui, il minimo che si può dire, è l’indistinzione sia del concetto di laicità e di ministeri sia, di riflesso e più a monte, del concetto di mondo e di chiesa (e dei corretti rapporti tra queste due realtà). Per dirla con G. Angelini: «Indice significativo dell’imprecisione del pensiero è l’utilizzazione simultanea delle categorie proprie della teologia degli anni Cinquanta (“realtà terrestri”, “ordine temporale”, “missione dell’incarnazione”, ecc.) e di quelle della teologia politica (“riserva escatologica”, “ruolo critico-profetico” del cristiano)».

 

2. Alcune grandi linee prospettiche

La «retrospettiva» fin qui percorsa ci ha consentito non solo d’individuare certi snodi critici, nell’evoluzione (involuzione) storica del nostro tema, ma anche di mettere a fuoco i punti cruciali ancora controversi. Ci ha consentito, soprattutto, d’intravedere una qualche via d’uscita mediante la rivisitazione della «struttura» tipicamente comunionale della chiesa. E ciò, chiarendo meglio l’identità (pari dignità) del suo «personale», e impostando correttamente le «mutue relazioni» tra le varie sue componenti, memori che lo statuto ecclesiologico postula che l’essere​​ (seiri)​​ sia un essere-con​​ (mit-sein),​​ a corpo mistico, e che l’agire sia un inter-agire delle diverse membra e funzioni, senza confusione né separazione, bensì con la sussidiarietà integrativa: nella chiesa e per il mondo. Su questo sfondo possiamo ora abbozzare le grandi linee della «prospettiva», attraverso una descrizione ravvicinata dell’identità del fedele laico e del suo triplice ruolo, nella chiesa e per il mondo, quali emergono dall’esortazione apostolica​​ Christifideles laici,​​ rispettivamente al cap. I e capp. II e III.

 

2.1. Indicazioni sinodali

Non a caso il primo impegno del Sinodo ’87 fu di superare la definizione «al negativo» dei laici che, fino al 1983 — data del nuovo Codice di diritto canonico — erano identificati come «non preti e non religiosi» e quindi, implicitamente, come «un meno» rispetto a questi altri soggetti ecclesiali. Con quali danni per il discorso strutturale che qui c’interessa è facile immaginare, dato che un’identità diminuita ingenera mutue relazioni alterate. Così, la clericalizzazione della chiesa è un esempio di squilibrio strutturale, derivante dalla sopravvalutazione del prete-vescovo, la cui ordinazione lo farebbe ontologicamente più cristiano dei «semplici cristiani» e, ponendolo al di sopra dei laici, inevitabilmente gli attribuisce il monopolio della vita ecclesiale. Una manomissione fatale perché, mentre riduce i battezzati al ruolo deteriore di laici nel senso già ricordato di​​ laikós​​ (= massa, senza competenze specifiche), considera il prete-vescovo come unico soggetto ecclesiale, prima e sopra — e non insieme e dentro — il popolo di Dio (che, nell’ipotesi, è mero oggetto delle cure pastorali altrui e mai soggetto della pastoralità d’insieme,​​ in solidum​​ con le altre componenti ecclesiali). Col risultato che la chiesa finisce per essere identificata con una persona particolare (il papa) o con uno dei soggetti collettivi (clero-religiosi) o, peggio, con questa o quella struttura anonima — ex Sant’Uffizio o Segreteria di Stato — che invece dovrebbe essere (ed è) puramente «in funzione» della struttura ecclesiale complessiva e della comune missione di cui, pur se​​ in varietate,​​ è investito tutto il popolo di Dio.

In altre parole, nella misura in cui tutti e meglio comprenderemo che solo l’insieme delle persone e forze, componenti e funzioni della comunità credente​​ è il soggetto chiesa,​​ al movimento dall’alto al basso, tipico dell’ecclesiologia piramidale-gerarcologica (Y. Congar), subentrerà quello circolare-integrativo dell’ecclesiologia comunionale-partecipativa. In caso contrario, tanto per limitarci a qualche esempio, sia gli organismi di partecipazione (consigli pastorali parr.-dioces.) si ridurranno a pure strutture d’appoggio o entità in aiuto al parroco-vescovo, sia i movimenti dilagheranno sempre più caoticamente — e disattendendo le indicazioni sia dell’esortazione apostolica postsinodale (nn. 2031), sia del recente documento CEI sulla «disciplina ecclesiastica» —, anche per la giusta esigenza di protagonismo ecclesiale e l’inconscio timore che in parrocchia — cioè nella struttura tradizionale — sarebbero fagocitati (nel senso di «clericalizzati»). Perciò è importante ribadire che, all’interno dell’unico soggetto chiesa (e del movimento circolare che si dà tra le varie sue componenti), i​​ christifideles​​ preti e religiosi non hanno un «di più» ontologico, ma una «differente» funzione che, per quanto riguarda il nostro tema, consiste nell’aiutare più che mai i​​ christifideles​​ laici a essere sé stessi: provvedendo a formarli adeguatamente e facendoli partecipare​​ in solidum​​ (convergere e collaborare, si disse al Convegno di Loreto) nella Chiesa locale e nella sua pastorale organica o d’insieme. Non quindi per farne — come si pensava fino a ieri — «truppe ausiliarie» del clero per quanto riguarda l’impegno apostolico (cf l’epopea dell’Azione Cattolica fino a Pio XII) e-o «religiosi adattati» rispetto alle grandi scuole di spiritualità (cf i terz’ordini e molte confraternite), ma neppure — come rischia d’accadere oggi, con l’accennata ecclesiologia totale — per essere «cristiani e basta».

A ben guardare, l’apparente freschezza della locuzione sottovaluta il fatto che anche i «semplici cristiani» non restano a lungo tali perché Dio stesso li chiama, di volta in volta, sia a formare una «chiesa domestica» e a svolgervi tutta una serie di ruoli e uffici cui li abilita il sacramento del matrimonio, sia ad assolvere — in alternativa (come celibi e-o consacrati in Istituti secolari) o contemporaneamente — tutta una serie di altri compiti e servizi, tanto nella chiesa quanto nella società, cui li abilitano carismi e ministeri, istituiti o​​ de facto​​ (si pensi a Moro e Bachelet, a La Pira e Lazzati), su cui peraltro c’è ancora molto da chiarire — a livello semantico e contenutistico — cosicché il Papa ha nominato una commissione apposita (cf​​ Christifideles laici,​​ n. 23).

Da parte sua, il Sinodo ’87 ha individuato due opposte minacce:​​ quella secolarista,​​ espressa dalla tendenza di chi, enfatizzando la bontà del​​ saeculum​​ e del processo di secolarizzazione, sembra dimenticare che a​​ Gn​​ 12 segue​​ Gn​​ 3 e che, a svigorire il lievito evangelico, non c’è più un’animazione cristiana dell’ordine temporale;​​ e quella della «fuga mundi»​​ che, all’opposto, esaspera apocalitticamente la corruzione del mondo e applica ai laici cristiani l’orientamento buono per i religiosi in genere e per i monaci in particolare: confondendo ancora una volta — anche se per un’altra via — le rispettive vocazioni e missioni. Se infatti è proprio dei religiosi il codice della separatezza, in funzione dell’anticipo escatologico che la loro testimonianza deve rendere visibile nella chiesa, è tipico invece dei fedeli laici essere il lievito nella pasta della storia, esprimendo in modo forte la dimensione incarnazionista della medesima.

Già nei​​ Lineamento​​ (n. 9), in preparazione al Sinodo, si denunciavano le tendenze errate della clericalizzazione dei laici e della secolarizzazione dei preti, mentre​​ nell’Instrumentum laboris​​ al n. 77, si raccomandava ai presbiteri di non clericalizzare né di escludere i laici, e al n. 33 si accennava esplicitamente alla via d’uscita delle mutue relazioni «ad andamento circolare», che dovrebbero darsi tra preti, religiosi e laici. Tutto ciò è ora sintetizzato nell’esortazione apostolica postsinodale che tratta: al n. 14, della specifica partecipazione dei fedeli laici al triplice ufficio (sacerdotale, profetico, regale) di Cristo; al n. 15 dell’indole secolare loro propria; ai nn. 16-17 dell’andare a Dio per la via «incarnazionista», cioè del «santificarsi proprio santificando il mondo» (famiglia, cultura, politica, ecc.); mentre ai nn. 7, 21-22, 32 si ribadiscono le «mutue relazioni» con le altre componenti ecclesiali. Evidentemente ciò è possibile solo se tutte le componenti si riferiscono all’elemento comune e fondante del popolo di Dio: i sacramenti dell’iniziazione cristiana, fonte dell’unità e pari dignità di tutti i​​ christifideles​​ nella chiesa ( =​​ filìi in Filio);​​ l’universale chiamata alla santità o cristificazione, da conseguire con gli stessi mezzi (= parola, preghiera, sacramenti, doni dello Spirito, ecc.); per realizzare la comune missione, in cui tutti siamo coinvolti​​ in solidum​​ (= ricapitolare tutto in Cristo:​​ Ef​​ 1, 10).

È chiaro infatti che mai come oggi, nella transizione al postmoderno in atto e con una chiesa tornata minoritaria, o tutti insieme ritroviamo il dinamismo missionario che si sprigiona dalla struttura comunionale-partecipativa, o la Chiesa è destinata a perdere la sua incidenza storica. Ma ciò suppone tutelare sia l’identità di ciascuno, in forza di quell’ontologia di grazia che garantisce la pari dignità di tutte le membra del corpo mistico, sia le differenti vocazioni e funzioni che, attivate dai carismi e ministeri diversi, ordinati e non ( = diversa quantità di talenti in partenza e di grazie attuali per via), suppongono la differente generosità personale nel corrispondervi (cf​​ Mt​​ 25,14-29), cosicché i singoli cristiani realizzano diaconie e percorsi di santità propri e irripetibili all’interno dell’unico popolo e in vista dell’esito comune: il Regno.

Perciò, ripetiamolo, nella chiesa nessuno è «cristiano e basta», perché ciascuno è chiamato a una particolare​​ sequela Christi,​​ cioè a una modalità propria nel rendere presente la vita e la missione di Cristo risorto e vivente nella comunità​​ prò mundi vita.​​ Tutta la chiesa, infatti, è sacerdotale, profetica e regale, anche se a questa triplice missione — che ha le sue radici nel mistero di Cristo sacerdote, profeta e re — preti, laici, religiosi e altre forme di consacrati partecipano secondo modi diversi. Tant’è vero che, mentre il sacerdote si santifica prevalentemente trattando le cose sante e il religioso soprattutto attraverso il cosiddetto «codice della separatezza» — abito, vita, comune, clausura ecc. (tutti elementi che, per altro verso, lo distinguono dal consacrato in un Istituto secolare) —, il laico si santifica assolvendo «da pari suo», cioè con la «specificità» del suo stato (e grazia) laicale, il ruolo suo proprio non solo nel mondo, ma anche all’interno della chiesa.

Perciò tratteremo del​​ munus​​ (ufficio e funzione) dei fedeli laici sia​​ ad intra​​ sia​​ ad extra,​​ perché sarebbe riduttivo e fuorviante confinare la loro attività e competenza alla sola traduzione dell’ideale evangelico nell’ordine mondano-temporale. Infatti, se niente di ciò che è comune a tutti i battezzati-cresimati dev’essere taciuto e niente di ciò che è specifico di ciascuna vocazione dev’essere sottovalutato, allora dev’essere valorizzato lo statuto della «doppia cittadinanza» — che troviamo nell’^4​​ Diogneto,​​ fin dal 160 d. C. — e non perpetuare l’infelice​​ slogan:​​ al clero la chiesa, ai laici il mondo (e ai religiosi l’escatologia?). In realtà, il segreto di ogni vita cristiana è racchiuso in un paradosso per così dire «trasversale». Chiunque lavora a rendere la Chiesa più visibile — nel senso non trionfalistico ma comunionale​​ (At​​ 2 e 4) — partecipa a qualcosa d’invisibile, l’avvento del Regno: che inizia proprio nella Chiesa — in quanto storia-realtà terrena che accoglie la salvezza — e attraverso di essa va lievitando (più o meno anonimamente) il mondo intero. Il Regno, infatti, è «il terzo trascendente» rispetto al sale-lievito e alla pasta, e quella salvezza è opera trascendente tutte (ma coinvolgente ciascuna delle) componenti ecclesiali. È chiaro infatti che solo congiuntamente al Capo esse possono compiere​​ (adimpleo)​​ la triplice funzione o, meglio, i tre aspetti prismatici dell’opera complessiva di Cristo: quella sacerdotale o della​​ leiturgia,​​ quella profetica o della​​ martyria,​​ e quella regale o della​​ diakonia.

Inutile dire che tali funzioni vengono svolte con sensi e valori «analogici» da ciascuna delle tre componenti ecclesiali, e che tale schema tripartito o a triplice rifrazione prismale, al di là delle oscillazioni semantiche cui è sottoposto, non esclude altre possibili presentazioni della materia che qui c’interessa. In ogni caso, non va dimenticato che esso fu ampiamente utilizzato dal Vaticano II e ben ripreso sia dall’Instrumentum laboris​​ del Sinodo ’87, sia dalla relazione iniziale del card. Thiandoum, e che ora è ribadito nella​​ Christifideles laici,​​ nn. 9, 14, 23, 33, 51 ecc.

2.2. Ruolo dei fedeli laici all’interno della Chiesa

2.2.1.​​ Funzione sacerdotale

Se Cristo è l’unico ed eterno sacerdote​​ (Eb),​​ allora è in lui che si deve cercare sia l’identità del sacerdozio universale e di quello ministeriale, sia le mutue relazioni tra questi due aspetti di quell’unico sacerdozio. Per esempio ricordando che il sacerdozio battesimale è pienezza di partecipazione storica al sacerdozio di Cristo, cosicché il ministro ordinato deve considerarsi come una differenza essenziale nella funzione, ma non un grado-gradino più alto nell’essere chiesa. Era precisamente questa roccaforte di un certo clericalismo che LG 10 tentò di snidare con la celebre espressione della «differenza essenziale e non di grado» perché, in caso contrario, i due sacerdozi sarebbero pensati in termini di subordinazione e non di mutue relazioni, e l’ordinazione sacerdotale farebbe del prete un super-cristiano (H. de Lubac,​​ Meditazioni sulla Chiesa, Jaca Book, Milano 1979, 89).

Perciò, su questo punto del nostro discorso, urge fare due considerazioni specularmente integrative. La prima, che il sacerdozio di tutti i fedeli trova in quello ministeriale la sua ricapitolazione e visibilità (J.-M. Levasseur,​​ Le prètre hier, aujourd’hui, demain,​​ Fides, Montréal 1970, 371); la seconda, che il sacerdozio universale sgorga dall’essere d’ogni battezzato cosicché, in quanto riguarda ed esprime l’ordine dei fini, ha un orizzonte più vasto del sacerdozio ministeriale che, invece, si muove nell’ordine dei mezzi. È in forza di questa sacerdotalità che ogni battezzato è abilitato sia a battezzare, sia a partecipare attivamente all’oblazione eucaristica. Notando, a quest’ultimo proposito, l’importanza (e «il distinguere per unire») sia dell’esortazione del sacerdote ministeriale all’assemblea eucaristica del popolo di Dio — «Pregate fratelli, perché​​ il mio e vostro sacrificio​​ sia gradito a Dio, Padre Onnipotente» — sia questi passaggi ben illuminanti del canone eucaristico I: «Per loro ti offriamo e anch’essi ti offrono. [...] Accetta l’offerta che ti presentiamo noi tuoi ministri e tutta la tua famiglia». Solo così abbiamo la «preghiera pubblica», cioè di tutta la Chiesa, e non la pur lodevole «preghiera privata», né la somma di tante singole preghiere, bensì​​ quell’oratio fidelium​​ che, dopo l’invito del sacerdote —​​ oremus​​ — e l’adeguato silenzio (durante il quale ogni battezzato esercita il proprio sacerdozio universale), esprime —​​ una cum presbitero​​ — l’ammirevole​​ cospiratio​​ di tutto il corpo mistico.

Ma la funzione sacerdotale propria dei fedeli laici​​ ad intra ecclesiae​​ si manifesta con particolare luce nel ruolo di santificazione tipico degli sposi cristiani che, ministri del matrimonio, sono chiamati ad esercitare il loro sacerdozio universale nello «spazio» — anche teologico e di spiritualità propria — della «Chiesa domestica» (LG 11; A A 11). La loro specifica vocazione — cui li abilita un preciso sacramento — consiste allora nel vivere secondo Dio la realtà matrimonio-famiglia, salvandola dalle insidie del serpente e realizzandovi tutta la simbolica-sacramentale dell’amore Cristo-Chiesa, affermata da​​ Ef​​ 5,31 e ampiamente attualizzata nella​​ Familiaris consortio​​ da Giovanni Paolo II, a conclusione del Sinodo 1981. Perciò il Sinodo ’87 ha parlato della «santità autentica della famiglia, fondata sul sacramento del matrimonio e inserita vitalmente nella comunità ecclesiale, che si esprime soprattutto con la promozione dei valori dell’amore, della fedeltà, del rispetto della vita e della solidarietà», sottolineando come «l’amore coniugale, anche sessuale, sia l’elemento costitutivo della spiritualità degli sposi cristiani» che, ripetiamolo, si santificano «vivendo la loro unione in e come Cristo e la Chiesa» e intrecciando tutte le relazioni intrafamiliari in maniera degna della «famiglia di Dio» (cf proposizioni finali nn. 48-50, ora rielaborate nella​​ Christifideles laici,​​ nn. 40 e 62).

2.2.2.​​ Funzione profetica

Memore che ogni manifestazione della vita cristiana non ha solo una dimensione cultuale (leiturgia) ma anche di testimonianza con la parola e le opere​​ (martyria),​​ il Concilio ha ribadito che Cristo «adempie la sua funzione profetica [...] anche per mezzo dei laici, che perciò costituisce suoi testimoni e li provvede del senso della fede e della grazia della Parola, perché la forza del Vangelo risplenda nella vita quotidiana» (LG 35). Questa testimonianza, poi, non ha solo una valenza nel mondo — dove, come vedremo, i fedeli laici diventano efficaci araldi del Vangelo con l’animazione cristiana delle varie professioni e attività in cui sono immersi — ma anche nella comunità credente, e in molteplici modi. Qui ci basterà ricordare — in collegamento col sacramento del matrimonio e con le esplicitazioni che vengono dal rito e dalla catechesi battesimali — che i genitori sono i primi testimoni e maestri della fede dei figli, cosicché è nella «Chiesa domestica» che avviene la prima evangelizzazione e la successiva catechesi di questi nuovi membri del popolo di Dio.

Ma il​​ munus propheticum​​ dei fedeli laici all’interno della chiesa spazia poi dalla più ampia funzione catechetica nell’ambito delle parrocchie e delle altre aggregazioni ecclesiali — cf il movimento catechistico e il suo rilancio nazionale al Convegno romano del 23-25 aprile ’88 — a quella complessivamente formativa delle scuole e università cattoliche, dove più vivaci e feconde sono le mutue relazioni tra le varie componenti intraecclesiali e meno stridente il divario tra fede e cultura, per esempio nei vari «laboratori» sia dei progetti educativi integrati, sia della rifondazione etico-culturale anche della politica (cf rilancio delle Settimane Sociali da parte della CEI e il macrofenomeno delle Scuole di formazione sociopolitica).

In quest’ottica il Sinodo ’87 ha raccomandato ai religiosi con carisma fondazionale a forte accentuazione culturale, di aprirsi sempre più ai laici impegnati, trasformando sé stessi e le loro opere in perni di coinvolgimento e in laboratori sperimentali d’avanguardia del Regno, mentre a quelli con carisma fondazionale ad accentuazione spirituale, d’essere di supporto e animazione per i tanti gruppi biblici e di ascolto della Parola, in grande espansione tra i fedeli laici.

A tutti infine — preti, religiosi e laici più preparati — il​​ munus propheticum​​ richiede uno sforzo supplementare nell’insegnamento teologico superiore, negli Istituti di scienze religiose e nelle stesse Facoltà ecclesiastiche, dove un cenno particolare merita la crescente presenza di laici e laiche che vi insegnano. Ciò determina un fecondo circuito di causa ed effetto non solo ai fini della promozione complessiva del laicato, ma anche dell’integrazione laico-femminile della precedente riflessione teologica clerico-maschile, al punto che H. U. von Balthasar vi scorgeva il realizzarsi della mutualità del principio petrino con quello mariano, in una bilanciata reciprocità uomo-donna, pure a questo livello, all’interno dell’unico popolo di Dio.

Com’è facile intravedere, gli spazi e orizzonti del​​ munus propheticum​​ laicale, maschile e femminile,​​ ad intra ecclesiae​​ sono davvero ampi, specie se ricordiamo che tale «profezia» può influire sullo stesso magistero e-o politica ecclesiastica.

Si pensi al ruolo di santa Caterina da Siena presso Gregorio XI e la cattività avignonese o all’influsso teologico-pastorale della beata Elena Guerra su Leone XIII, e si comprenderà che qualsiasi cristiano, col suo grado di santità e la spirituale forza del suo carisma, è chiamato a svolgere un ruolo attivo nella costruzione della chiesa (cf «l’autorità laicale» in​​ teologia:​​ voce omonima, di C. Vagaggini, in​​ Nuovo Dizionario di teologia,​​ EP 1979, 1694s).

2.2.3.​​ Funzione regale

Tocchiamo qui il punto forse più delicato del nostro discorso «in prospettiva» perché — al di là degli equivoci terminologici, se dimentichiamo l’identificazione del Cristo Re col Servo di Jahvè — il servizio che anche i fedeli laici dovrebbero svolgere a questo livello, storicamente il più «clericalizzato», non comprende solo l’ovvia (e più pacifica)​​ diakonia caritatis,​​ ma anche quel particolare aspetto del​​ munus regale​​ che​​ (ad intra)​​ è il ruolo pastorale, specie nel molteplice apporto che anche i laici dovrebbero dare al rinnovamento delle parrocchie e delle altre strutture intraecclesiali. Per esempio, inserendosi sempre più attivamente — e perciò stesso declericalizzandoli — nei consigli pastorali, nei consigli per la conduzione economica delle parrocchie, e in tutti gli altri luoghi e tempi di ricerca, studio e programmazione pastorale. Fino ad assumere il​​ munus pastorale​​ in comunità prive di preti o diaconi; in questo intrecciandosi col pari ruolo che qua e là già assolvono diaconi permanenti, religiose e-o catechisti.

Perciò il Sinodo ’87 ha ribadito che «i laici hanno il diritto e il dovere di partecipare alla vita ecclesiale e alla sua formazione», come avviene in varie comunità ecclesiali di base dell’America Latina, e altrove. Ciò suppone riscoprire il principio di sussidiarietà anche nel​​ munus regendi Ecclesiae​​ e far sì che le varie componenti ecclesiali, integrandosi a vicenda, realizzino — attraverso il dialogo e il discernimento spirituale anche a livello di Sinodi diocesani e di Concili provinciali, si legge nella​​ Christifideles laici, n. 25 — quel consenso e collaborazione da cui dipende il bene di tutti e di ciascuno. Una proposizione finale recita: «La caratteristica “consultiva”, che è presente nella Chiesa, deve avere tutta l’ampiezza della comunione ecclesiale, perché siano assicurati sia il servizio dell’unità nella fede e nell’amore da parte dei Pastori, sia la partecipazione attiva di tutti i battezzati» (cf ivi, nn. 26-27).

Di qui la particolare attenzione data dal Sinodo alle varie espressioni del​​ munus regale-pastorale​​ dei laici, sia nelle parrocchie (comunione di comunità), sia nelle comunità ecclesiali di base, sia nelle diverse aggregazioni che i laici hanno diritto di fondare e gestire in proprio. Notando peraltro che, da più parti, si registra la non sempre facile comunione di alcuni gruppi e movimenti non solo con altre realtà simili e magari più antiche, ma anche con i vescovi, il cui ministero specifico è quello dell’unità, favorendo il convergere di tutti nella pastorale d’insieme (pena la dispersione o le pastorali parallele). Su tutto ciò cf l’esortazione apostolica postsinodale, nn. 29-31, anche per i «criteri di ecclesialità» delle aggregazioni laicali, e il documento CEI sulla «disciplina ecclesiastica», specialmente nn. 74-79. In generale, oltre al moto centrifugo di vari gruppi e movimenti laicali, si lamentano ritardi nell’attivare i vari organi di partecipazione, come se fossero sorti più per imposizione conciliare che per sensibilità e convinzione della base (anche clericale) della Chiesa.

Per quanto riguarda infine l’Azione Cattolica, qui ci basterà ricordare come le migliaia di sue associazioni condividono il cammino, le fatiche e i problemi, le gioie e le speranze delle singole chiese locali nelle quali, per indole e strutture proprie, l’AC è profondamente inserita, come lievito nella pasta ecclesiale (proprio nel sommerso del popolo di Dio: donde l’indole «popolare» di questa associazione). Così pure, educando alla santità, perseguita con i mezzi ordinari della vita cristiana, e procedendo con umiltà e rispetto verso tutto e tutti, l’Azione Cattolica realizza una vera e feconda collaborazione di sacerdoti, religiosi e laici, offrendo un esperimento d’avanguardia di quelle mutue relazioni cui ripetutamente abbiamo fatto cenno.

2.3. Ruolo dei fedeli laici nel e per il mondo

2.3.1.​​ Funzione sacerdotale

Nell’accingerci a sondare, con la stessa triplice rifrazione usata​​ ad intra,​​ le valenze​​ ad extra​​ della ministerialità laicale, osserviamo anzitutto il cambio di prospettiva evidenziato dalla modifica del titolo della​​ Gaudium et spes.​​ Giunta in aula conciliare come​​ La Chiesa «e» il mondo contemporaneo,​​ i padri vollero che la costituzione pastorale per eccellenza s’intitolasse​​ La Chiesa «nel» mondo contemporaneo,​​ così da esprimere fin dall’inizio quale doveva essere, d’ora in poi, l’impostazione teorica e l’atteggiamento pratico dei cristiani:​​ nel​​ mondo, ma non​​ del​​ mondo, bensì​​ per​​ il mondo​​ (=pro mundi vita).​​ Sullo sfondo c’è sia la ricuperata cordialità evangelica verso il mondo (cf​​ Gv​​ 3,16 e 10,10), sia l’icona dei primi cristiani che escono dal Cenacolo e portano nel mondo l’evangelizzazione e la promozione umana integrale, dato che — come precisato anche dal Sinodo del 1971 — la giustizia è coessenziale al Vangelo. In termini di sacerdotalità laicale, e sempre analogicamente parlando, c’è una liturgia​​ ad intra,​​ che è il tempo-luogo in cui il fedele laico entra in contatto diretto e personale col Risorto, vivendo intensamente la sua vita di membro del corpo mistico di Cristo, secondo il ruolo e l’ordine suo proprio, incentrato sulla parola di Dio, i sacramenti e gli altri mezzi di grazia, affidati in modo specifico al clero; e c’è una specifica liturgia laicale​​ ad extra,​​ che consiste nella santificazione della pasta secolare, cioè nella cristificazione di tutte le. realtà (professioni e attività) mondane in cui, per la ricordata «indole secolare», questi cristiani sono inseriti proprio col​​ munus sanctificandi​​ tipico del sacerdozio neotestamentario (A. Vanhoye).

Illuminante è stata in proposito l’insistenza del Sinodo ’87 sulla novità assoluta del culto cristiano, che non consiste tanto in cerimonie o riti esterni, quanto nell’oblazione di tutta la vita, conforme all’insegnamento della grande patristica: «Noi cristiani siamo preti per l’offerta di noi stessi in sacrificio spirituale» (Gregorio Naz.); «Tutti i figli della Chiesa sono sacerdoti» (Ambrogio), abilitati cioè a offrire a Dio non solo sé stessi (come figli nel Figlio), ma anche il mondo (col sacerdozio cosmico del giusto Abele). Di qui il «sacerdozio comune» di ogni battezzato, che si esplica attraverso il lavoro e la professione. E se più sopra, trattando del​​ munus sacerdotale ad intra,​​ indicavamo la «chiesa domestica» come spazio santo per il sacerdozio tipico degli sposi cristiani, qui esso è dato dalle diverse realtà terrene in cui il battezzato «si santifica santificandole» cioè, analogamente a quanto si dice e avviene per il sacerdote ministeriale, i laici «operando santamente dappertutto, consacrano a Dio il mondo stesso» (LG 31 e 34). Questa sacerdotalità laicale nel mondo spazia dall’offerta quotidiana di sé in unione col sacrificio eucaristico — per es. secondo la spiritualità dell’Apostolato della Preghiera — alla «messa sul mondo» di Teilhard de Chardin (che, privo della materia per l’Eucaristia, esercitò appunto la «sacerdotalità cosmica»); senza con questo dimenticare tutto l’altro fitto intreccio, più modesto ma non meno efficace, sia della casalinga e dell’operaio, che nel nascondimento si santificano santificando tutto ciò che fanno, sia degli ammalati che, soffrendo e offrendo con e come il Cristo vittima e sacerdote, «completano» la sua passione per la salvezza del mondo (Col 1,24; cf​​ Christifideles laici,​​ nn. 52-54, mentre al n. 55 si ribadiscono le specificità delle tre grandi componenti ecclesiali e le loro mutue relazioni).

2.3.2.​​ Funzione profetica

La dimensione laicale della​​ martyria​​ (testimonianza e annuncio) nel mondo contemporaneo — e «perché abbia la vita, e l’abbia in abbondanza» (Gv 10, 10) — consiste soprattutto nel rispondere adeguatamente alle sfide del postmoderno: quelle del pensiero debole, dei valori bassi, delle appartenenze corte che, secondo alcuni osservatori, sono insieme causa ed effetto della deriva nichilista subentrata al crollo delle ideologie moderne. A differenza dell’evangelizzazione e catechesi​​ ad intra,​​ cioè nell’ambiente cristiano omogeneo detto più sopra, qui si tratta dell’annuncio del Regno in una società pluralista fino al relativistico «così è se vi pare» e le cui «scintille multiple» determinano un cortocircuito di idee e valori, con l’imporsi dell’avere sull’essere e del tecnico sull’etico. Ciò postula, da parte dei fedeli laici, anzitutto quella testimonianza di fede che si fa «vita controcorrente» — per es. riguardo al dilagante consumismo e degrado morale —, per passare poi a quell’antica e sempre nuova strategia della​​ mediazione culturale,​​ fatta di giudizio critico e di proposta alternativa rispetto agli​​ idolo tribus​​ contemporanei. Si tratta cioè di procedere senza compromessi, anche se con atteggiamento dialogico e acuto senso del discernimento, nelle rispettive situazioni in cui si vive e opera: realizzando, pur nella frammentazione di una società a «politeismo culturale», quell’integrazione dell’ora​​ et labora​​ (o di azione e contemplazione) che non solo è l’anima di ogni apostolato, ma influisce non poco sulla stessa «umanizzazione della tecnopoli postmoderna». Mediazione culturale che non significa «dimidiazione» della verità rivelata bensì, alla scuola della migliore patristica (e odierna missiologia), lo sviluppare i tre tempi accennati n. 44 della​​ Christifideles laici​​ (che cita​​ Gaudium et spes​​ 58). E cioè: valorizzare i «semi del Verbo» che lo Spirito dissemina dappertutto, anche oggi; contrastare le tossine dell’anticristo, o deriva del maligno; spingere all’ulteriorità sempre nuova dell’orizzonte messianico. Ciò comporterà spesso e inevitabilmente d’essere perseguitati: sia nella forma classica del martirio, — di cui sono risuonate in aula varie e drammatiche testimonianze —, sia nella forma più subdola ma non meno costosa qual è appunto la persecuzione-irrisione proveniente da una società-cultura spesso neopagana (edonistico-consumista), affascinata dall’effimero e, perciò stesso, allergica all’impegno e ai valori (che, per definizione, richiedono sacrifici).

Andrebbero sviluppate a questo punto e nell’ottica della «nuova missionarietà» affidata in modo speciale ai fedeli laici, sia la rievangelizzazione della cosiddetta «svolta a Oriente» di molti cristiani — anche nella forma sincretistica di varie sètte — sia quella particolare mediazione culturale che consiste nel ricupero della dimensione estetica (e ludico-poetica) della vita, di cui l’Occidente postmoderno ha particolarmente bisogno. Già

C. Spicq​​ (Les épitres pastorales,​​ Gabalda, Paris 1969, 681) ne aveva dato la fondazione esegetica, scavando nel​​ kala​​ del testo greco e dimostrando che il «glorificare» di​​ Mt​​ 5,16 significa: «attraverso le opere belle vedano la gloria di Dio». Proprio perché si tratta di splendore — riflesso della luce evangelica — le opere belle dei cristiani attirano gli uomini che, affascinati, glorificheranno la presenza di Dio nei credenti (cf​​ Mt​​ 9,8; Gv 9,24).

In altre parole, l’agire dei cristiani nel mondo è molto più della manifestazione di una perfezione morale. La condotta dei fedeli laici diventa «l’epifania del tutt’altro» in cui essi sono coinvolti, essendo immersi nel​​ novum esse​​ cristico (P. Tillich). In questo senso la vita-testimonianza dei cristiani nel mondo diventa dossologia di Dio in mezzo agli uomini, al punto da poter dire che la condotta esemplare dei cristiani «ricorda», cioè rende presente e attuale (analogamente al memoriale liturgico) l’amore di Dio, che vuole ogni uomo partecipe della sua vita tutt’altra.

2.3.3.​​ Funzione regale

Su quest’ultimo aspetto della ministerialità diffusa o​​ de facto​​ dei laici cristiani nel mondo possiamo dire, in estrema sintesi, che si tratta di​​ realizzare​​ quanto, teoricamente, è stato detto o intravisto nel​​ munus propheticum,​​ memori che i battezzati sono «cittadini di due città» e che, come nella chiesa, anche nel mondo essi non sono semplici ospiti ma artefici. Poiché la chiesa è il prolungamento dell’incarnazione del Verbo, non può estraniarsi dal mondo e dalla sua storia, barricata nel Cenacolo, ma deve uscire per le vie del mondo a portare — soprattutto attraverso la sua componente laicale — il contributo specificamente cristiano nella costruzione della «città dell’uomo». A questo proposito, la vita e l’opera dei vari Lazzati, Bachelet, La Pira ecc. restano esemplari.

In altre parole, la​​ diaconia caritatis​​ a questo livello postula prendere sul serio sia le indicazioni della​​ Gaudiurn etspes​​ sull’economia, giustizia sociale, politica, ecc., sia gli ulteriori sviluppi del magistero pontificio e sinodale che, concretamente, si riassume oggi nel rilancio della cosiddetta dottrina sociale della chiesa, delle Settimane Sociali e delle correlative Scuole di formazione. Non a caso il Sinodo ’87, ampliando il già ricco materiale offerto in proposito dall​​ 'Instrumentum laboris,​​ ha insistito sull’impegno sociopolitico dei fedeli laici, proprio considerandolo un’espressione forte della carità e una dimensione privilegiata di quella che i teologi orientali chiamano «riprodurre l’icona della società trinitaria in una società di spiriti incarnati», fino a dire che «la santa Trinità è il nostro programma sociale» (N. Fedorov). Notevoli le sottolineature della​​ Christifideles laici,​​ nn. 41-43, sia per quanto riguarda il primato dell’uomo sull’economia, lavoro, ecc. — cf anche le encicliche​​ Laborem exercens​​ e​​ Sollicitudo rei socialis​​ — sia per l’enfasi sul principio base secondo cui «la verità e la giustizia sono preferibili all’efficienza e alla potenza, sullo sfondo del mistero della croce». A evitare il rischio che, mentre si tenta di dare alla carità la forma della politica, ci si dimentichi di dare alla politica la forma della carità: che non è una qualunque filantropia, ma amare tutti gli uomini come Dio li ama in Cristo.

Perciò non si realizza un’azione politica cristiana quando, preoccupati di essere forza sociale, si ignora il valore della​​ debolezza​​ — quella assunta dal Verbo e quella nostra — mediante la quale la​​ potenza​​ di Dio entra nel mondo per operare la salvezza tutt’altra. Non possiamo infatti sottovalutare le tentazioni cui sembrano esposti alcuni laici e movimenti contemporanei, magari nell’ottica di una pur generosa riconquista della «nuova cristianità perduta». Secondo Lazzati, Monticone, Bachelet, La Pira, ecc., onorara la politica «da» cristiani significa non tanto promuovere crociate o, peggio, intrallazzi e compromessi di potere, bensì cercare il dialogo con tutte le persone e le forze di buona volontà, per costruire tutti insieme una migliore «città dell’uomo» (che i credenti sanno essere, per ciò stesso, avanguardia della «città di Dio»).

Siamo infatti convinti che la verità cristiana, suffragata dalla testimonianza di vita, può ripetere anche nella società e cultura del postmoderno le grandi cose realizzate dai laici cattolici, insieme agli uomini di buona volontà delle opposte provenienze, nella stagione della Costituente di questa Repubblica. Certo, la deriva della secolarizzazione ha preso ormai in contropiede tutte le Chiese (anche quella comunista!); ma non per questo la strategia conciliare e dell​​ ’Ecclesiam suam​​ di Paolo VI è superata! Perciò molti fedeli laici — e fedeli preti, fedeli religiosi e religiose — si sono consolati leggendo il documento che M. E. Martini e altri 170 deputati democristiani hanno inviato ai padri sinodali, chiarendo quello che dovrebbe essere un corretto «onorare la politica​​ da​​ cristiani», come via media tra una politica​​ di​​ cristiani — cioè di battezzati, che però non hanno (né vogliono avere) una progettualità propria: donde l’idiosincrasia per la dottrina sociale della chiesa — e una​​ politica cristiana​​ o confessionale, in cui la fede diventa praticamente ideologia e finisce catturata da una progettualità eccessiva, quella della cosiddetta «terza via», alternativa al capitalismo e al marxismo.

In ogni caso, e per concludere, l’identità del fedele laico e le corrette mutue relazioni che dovrebbero stabilirsi con le altre componenti ecclesiali, nell’ottica della rivisitazione «strutturale» della chiesa da cui siamo partiti, non possono trascurare la coniugazione di questi due aspetti integrativi, richiamati da Giovanni Paolo II, all’omelia del 30 ottobre 1987, durante la messa di chiusura del Sinodo: «Il fedele laico non solo condivide la responsabilità del mandato missionario [di tutta la chiesa], ma si distingue per una sua caratteristica condizione d’impegno nella diffusione del Regno di Dio:​​ l’indole secolare».

Senza mai perdere di vista, però, che «il fedele laico, in questo suo protagonismo cristiano nel mondo, è associato e sorretto dai fedeli pastori e dai fedeli religiosi e religiose, con compiti differenti pur nella comune missione» (n. 7).

Di qui tre nostre sottolineature finali.​​ La prima,​​ il protagonismo cristiano (come lievito evangelico) nel mondo spetta principalmente ai fedeli laici, non ai preti né ai religiosi (anche se a volte, e come per supplenza, dovranno fare pure questo che, tuttavia, non è il loro​​ proprium\).

D’altronde,​​ altra sottolineatura,​​ il laicato cattolico non è solo, né dev’essere lasciato a sé stesso, bensì è sorretto «dai fedeli pastori e dai fedeli religiosi e religiose», che sono come «la spalla» per la stessa missione laicale nel mondo!

Papa e Sinodo, infine —​​ terza sottolineatura​​ — hanno ammesso sfumature diverse in questa stessa opera di supporto, accennando ai «compiti diversi» che, salvaguardandoci dall’ecclesiologia di confusione, ribadiscono quella di comunione e partecipazione ( = differenti ruoli, ma interconnessione: dato che nell’unico corpo mistico «tutto si lega»; di nuovo il punto cruciale delle «mutue relazioni).

Perciò la recezione del Sinodo ’87, che ora sta davanti a noi, dovrà tentare di coinvolgere​​ in solidum​​ le varie componenti ecclesiali

— persone, aggregazioni, centri di preghiera e di elaborazione socioculturale, ecc. — e di attivare i tempi e luoghi più adatti per promuovere un’adeguata formazione (coscientizzazione per la «nuova missionarietà») di quel​​ sommerso​​ della chiesa rappresentato dal 90% di cristiani domenicali e marginali. È quanto raccomanda il V e ultimo cap. della esortazione apostolica postsinodale, proprio lamentando la marginalità di troppi fedeli laici che, non per questo, sono esclusi dall’universale chiamata alla santità — che scorre nelle loro vene fin dal battesimo — né dalla specifica loro «doppia cittadinanza» da onorare «nella chiesa​​ et prò mundi vita».

 

Bibliografia

Angelini G. - Ambrosio G.,​​ Laico e cristiano, Marietti, Genova 1987; Cargnel A. (ed.),​​ Laicità e vocazione dei laici nella Chiesa e nel mondo, Ed. Paoline, Cinisello B. 1987; Id.,​​ Comunità ecclesiali di base e rinnovamento conciliare, Ed. Dehoniane, Bologna 1986; Id.,​​ Dialoghi sulla laicità, Città Nuova, Roma 1986, (II edizione); Dianich S. (ed.),​​ Dossier sui laici, Queriniana, Brescia 1987; Faivre A.,​​ I laici alle origini della Chiesa, Ed. Paoline, Cinisello B. 1986; Id.,​​ I laici nella Chiesa, LDC, Leumann 1986; Id.,​​ Il laicato. Rassegna bibliografica, Libreria editrice vaticana, Roma 1987; Id.,​​ La donna nella Chiesa e nella società, AVE, 1986; Goldie R.,​​ Laici, laicato, laicitità. Bilancio di trent’anni di bibliografia, AVE, Roma 1986;​​ Laici, laicità, popolo di Dio. L’ecumenismo in questione, Ed. Dehoniane, Napoli 1988;​​ Laicità nella Chiesa e Laicità: problemi e prospettive, entrambi presso Vita e Pensiero, Milano 1977; Lazzati G.,​​ Pensare politicamente, 2 voll., AVE, Roma 1988; Leonzio V. (ed.),​​ La missione del laico, Logos, Roma 1987; Longhitano A. (ed.),​​ Il fedele cristiano. La condizione giuridica dei battezzati, Ed. Dehoniane, Bologna 1989 (specialmente pp. 185-232); Parent R.,​​ Una Chiesa di Battezzati, Queriniana, Brescia 1987; Pintor S. (ed.),​​ Laici nella Chiesa e nella società, Città Nuova, Roma 1987; Régnier G.,​​ L’apostolato dei laici, Ed. Dehoniane, Bologna 1987; Savoia D.,​​ L'urgenza dei laici nella Chiesa, LDC, Leumann 1987; Secondin B.,​​ Segni di profezia nella Chiesa, OR, Milano 1987 ; Siniscalco P.,​​ Laici e laicità: un profilo storico, AVE, Roma 1986; Vanzan P. (ed.),​​ Il laicato nella Bibbia e nella storia, AVE, Roma 1987; Vanzan P. - Tantarella S.,​​ Nuovi orizzonti per la formazione dei laici, AVE, Roma 1989.

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LAICITÀ

LAMBRUSCHINI Raffaello

 

LAMBRUSCHINI Raffaello

n. a Genova nel 1788 - m. a San Cerbone (Figline Valdarno) nel 1873, educatore e pedagogista italiano.

1. Studia nel seminario di Orvieto, e dopo l’ordinazione presbiterale ricopre vari incarichi ecclesiastici prima in Umbria (subendo un periodo di esilio in Corsica) e poi presso la curia romana. Nel 1816 si ritira nella sua azienda agricola a S. Cerbone, svolgendo un’azione di sperimentazione agraria in contatto con quella del Ridolfi, e compie studi di botanica e di fisica. Fonda nel 1827, insieme a C. Ridolfi e L. de Ricci, il «Giornale Agrario Toscano», sostenendovi la necessità di una pedagogia agraria basata sul​​ ​​ mutuo insegnamento e sulla valorizzazione delle conoscenze già spontaneamente diffuse. Fonda e dirige dal 1830 l’istituto di S. Cerbone, piccolo collegio privato, facendone il laboratorio pratico della sua riflessione pedagogica e nel 1831 la scuola delle feste per gli artigiani della zona. Collabora con l’«Antologia» di Vieusseux, pubblicandovi i suoi primi scritti di carattere strettamente pedagogico, tra cui l’importante memoria​​ Sulla istruzione del popolo.​​ Intreccia un intenso scambio epistolare privato con​​ ​​ Capponi e Tommaseo, da cui emergono le sue propensioni verso una radicale riforma della Chiesa. Dirige e in larga parte scrive in prima persona la celebre «Guida dell’Educatore» (1836-1845), edita dal Vieusseux, prima rivista pedagogica italiana nel senso moderno del termine, che ha come supplemento le «Letture per i Fanciulli» (1836-1842) poi «Letture per la Gioventù» (1844-1845). I contributi del L. spaziano dalla filosofia dell’educazione alla didattica applicata. Le finalità dell’educazione sono connesse alla definizione delle qualità dell’educatore, che offre anzitutto un esempio. Seguono trattazioni sui premi e i castighi, l’educazione familiare e un trattatello​​ Delle virtù e dei vizi.​​ La «Guida» di L. ospita anche una serie di strumenti didattici che riguardano il metodo di lettura, di cui viene proposta una versione di quello sillabico, l’aritmetica, la scrittura, compreso un piccolo corso di calligrafia, e infine la grammatica, l’analisi logica e alcune elementari lezioni di lingua latina. Importanti anche i contributi sull’istruzione religiosa, con narrazioni bibliche e trattazioni sulla morale e la preghiera.

2. Pur nella forma non sistematica emerge dalla molteplicità degli scritti di L. l’affermazione della necessità che l’educazione tenga presenti tutte le dimensioni dell’uomo e la concezione della pedagogia come scienza fondamentalmente pratica e sperimentale. Sempre a L. sono dovuti il saggio​​ Sopra la necessità di scuole magistrali,​​ e il dialogo​​ Sulla libertà d’insegnamento,​​ in cui sostiene la completa libertà dell’insegnamento privato, nel contesto di una presenza pubblica all’altezza dei bisogni della generalità della popolazione. Nel 1849 ripubblica in modo organico, col titolo​​ Della educazione e della istruzione​​ (Firenze, Vieusseux, 1849), i suoi scritti apparsi sulla «Guida». Nel 1852 pubblica la prima giornata dei dialoghi​​ Della istruzione​​ (cfr. l’ediz. definitiva, Firenze, Le Monnier, 1871) che cerca di offrire una sintesi tra «buon senso» e moderne dottrine pedagogiche, tenendo insieme presenti Capponi e​​ ​​ Tommaso d’Aquino, esortando l’educatore a seguire le fasi dello sviluppo fisico e psichico dell’educando. Dopo aver chiuso il suo Istituto, svolge nel 1847-49 un significativo ruolo politico, nel gruppo di Ricasoli.

3. Nel 1859 è nominato dal Ridolfi, ministro della P. I. del governo provvisorio toscano, ispettore generale delle scuole, compiendo, in collaborazione con Buonazia, Conti e Gotti, una vera e propria rifondazione della scuola toscana, soprattutto elementare, servendosi anche della rivista pedagogica «La Famiglia e la Scuola» (1860-1861) in cui L. pubblica la seconda giornata dei dialoghi​​ Della istruzione,​​ le sue lezioni di grammatica e le sue conferenze sulle caratteristiche ideali del maestro. Nominato senatore nel 1860, rimane nell’amministrazione centrale del Ministero della P. I., come ispettore centrale per l’insegnamento elementare, svolgendo un rilevante ruolo nell’amministrazione delle scuole toscane almeno fino al 1865. Collabora al periodico «La Gioventù» (1862-1871) ed è tra i protagonisti di vivaci polemiche sull’evoluzionismo e sulla questione della lingua. È professore di pedagogia e antropologia, all’Istituto di Studi Superiori di Firenze dal 1867 e sovrintendente dello stesso Istituto. La fortuna del L. si esplica attraverso la tradizione educativa moderata toscana, l’influsso di questa su quella piemontese e, per questo tramite, sulla tradizione della scuola e della pedagogia italiana. Nel Novecento, quando L. è ormai un classico della pedagogia italiana, viene riattualizzato ad opera di Gambaro e​​ ​​ Casotti.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ L.R.,​​ Riforma religiosa nel carteggio inedito di R.L., Torino, Paravia, 1923-1926;​​ Scritti politici e di istruzione pubblica, Firenze, La Nuova Italia, 1937;​​ Scritti di varia filosofia e religione, Ibid., 1939; R.L. - G. P. Vieusseux,​​ Carteggio, Firenze, Le Monnier / Fondazione Spadolini, 1997-2000. b)​​ Studi:​​ Casotti M.,​​ R.L. e la pedagogia italiana dell’Ottocento, Brescia, La Scuola, 1964; Gentili R.,​​ L.: un liberale cattolico dell’800, Firenze, La Nuova Italia, 1974; Gaudio A.,​​ Educazione e scuola nella Toscana dell’Ottocento. Dalla Restaurazione alla caduta della Destra, Brescia, La Scuola, 2001; Cambi F. (Ed.),​​ R.L. pedagogista della libertà, Reggello, FirenzeLibri, 2006.

A. Gaudio

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LAMBRUSCHINI Raffaello

LAPORTA Raffaele

 

LAPORTA Raffaele

n. a Pescara nel 1916 - m. a Firenze nel 2000, pedagogista italiano.​​ 

1. Laureatosi in giurisprudenza, divenne insegnante liceale di filosofia e storia. Arrivò alla pedagogia «per il gusto di fare scuola» e di cercare di migliorarla, lavorando con gli insegnanti nell’ambito dei CEMEA e del Movimento di cooperazione educativa. Fondamentale fu per lui la direzione della Scuola Città Pestalozzi di Firenze, una «istituzione sperimentale di differenziazione didattica» istituita nel 1945 su iniziativa di​​ ​​ Codignola per la realizzazione degli ideali democratici. Egli precisò in questo modo i caratteri della scuola: «spirito di servizio, rigore culturale, forte senso autocritico, sviluppato anche collettivamente, a partire dal 1959 in poi, apertura costante all’innovazione, “laicità”, intesa come apertura a tutte le manifestazioni dello spirito, comprese quelle di ogni credo religioso».​​ 

2. Vinto il concorso di pedagogia, insegnò nelle università di Siena, Firenze, Cagliari, Bologna, Roma, Chieti. Diresse la rivista «Scuola e Città», espressione di un «laicismo» spesso illuminato e dialogico. La sua ricerca teorica si è sviluppata con coerenza e con continui approfondimenti, per mezzo secolo. Elegante, garbato, generoso, realista e idealista, positivista e romantico, ha scavato nei terreni fondamentali della pedagogia in​​ Educazione e libertà in una società in progresso​​ (1960), in​​ La comunità scolastica​​ (1963) e in​​ La difficile scommessa​​ (1971), per approdare al monumentale​​ L’assoluto pedagogico. Saggio sulla libertà in educazione​​ (1996), tutti con La Nuova Italia di Firenze: contro l’ideologia e per la libertà della scuola dalle ragioni della politica, in dialogo con tutti, intorno al nucleo che gli sembrava più promettente, quello di un’educazione sottratta a logiche altre, in particolare le ideologie. Dell’educazione infatti sospettava, perché ne temeva la prevaricazione. «L’idea di verità non ha senso nel processo di sopravvivenza dell’uomo, come nella sua educazione. Non è una Verità, ma è la libertà dell’educando la sua condizione e al tempo stesso il suo fine». Animò un vivace dibattito epistemologico, a partire dal suo saggio​​ La via filosofica alla pedagogia, in «Bollettino della società filosofica italiana», 1975, nn. 90-91. In un carteggio con chi scrive, parlò di «una difficile fede nell’uomo, sempre mortificata e sempre rinascente nel rapporto con gli uomini: con i giovani soprattutto». È ritenuto uno dei maestri della pedagogia e della cultura politica del ’900.

Bibliografia

a)​​ Fonti: R.L.,​​ La mia pedagogia nell’attuale contesto culturale, in «Pedagogia e Vita» (2000) 2, 12-25. b)​​ Studi: Corradini L.,​​ La «scommessa pedagogica» di R.L., in Id.,​​ Dialogo pedagogico e partecipazione scolastica, Milano / Roma, Massimo / UCIIM, 1980;​​ Scritti in onore di R.L., Chieti, Il Vecchio Faggio, 1990; Frabboni F. et al.,​​ Le frontiere dell’educazione. Scritti in onore di R.L., Firenze, La Nuova Italia, 1992 (contiene un profilo e una vasta bibl.).

L. Corradini

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LAPORTA Raffaele

LAVORO

LAVORO

Giorgio Campanini

 

1. Il disagio giovanile nei confronti del lavoro

1.1. Svolta della «cultura del ’68»

1.2. Crisi deU’ethos borghese e marxista del lavoro

1.3. Fenomeni attuali: tempo Ubero, part time

1.4. Modificazioni tecnologiche

1.5. Nuove generazioni femminili

1.6. Condizioni disumane e domanda di lavoro

2. I fondamenti della teologia del lavoro

2.1. Spiritualità, etica e pastorale del lavoro

2.2. Valori generali del lavoro

2.3. Attuale etica del lavoro

2.4. Etica professionale

2.5. Lavoro e tempo libero

3. Una pastorale del lavoro per le nuove generazioni

3.1. Storia recente della teologia del lavoro

3.2. Divaricazione tra «umanesimo cristiano»​​ e sviluppo economico

3.3. Crisi dell’ottimismo tecnologico

3.4. Emergere della «solidarietà»

3.5. Direzioni attuali

 

Esperienza centrale e fondamentale nella vita dell’uomo — e dunque nella stessa vita del credente — il lavoro appare assoggettato, soprattutto da un ventennio a questa parte e con specifico riferimento alle società industriali avanzate, a radicali trasformazioni. L’immagine complessiva di lavoro che si va affermando fra le nuove generazioni ha ormai ben pochi punti di contatto con quella delle precedenti generazioni. Comprendere il significato dei mutamenti culturali in atto è condizione essenziale perché la comunità cristiana possa continuare ad annunziare il «Vangelo del lavoro» e rispondere dunque alla​​ nuova domanda di senso​​ che emerge, per lo più a livello inconsapevole, dalla coscienza delle nuove generazioni.

1. Il disagio giovanile nei confronti del lavoro

1.1. Svolta della «cultura del ’68»

Il 1968 (non, evidentemente, in quanto accadimento cronologico, ma come «simbolo» di un mutamento culturale profondo) rimarrà probabilmente come uno dei punti discriminanti della storia ideale della concezione del lavoro in occidente. Quella stagione, infatti, segna in un certo senso la crisi, almeno nell’area europeo-nordamericana, di quello che è stato chiamato l’ethos borghese del lavoro; di una visione del mondo, cioè, al cui centro sta​​ l’homo faber,​​ espressione fondamentale del quale è appunto il lavoro (e, con esso, la tecnica e la produzione). A partire dalla svolta rappresentata dalla «cultura del ’68», per gran parte delle nuove generazioni il centro dell’esistenza si è trasferito​​ fuori​​ del lavoro, in quello che prima di allora veniva chiamato «tempo libero» e che sarebbe più proprio definire come «tempo del non lavoro». Momento centrale dell’esistenza è diventato quello del «consumare», nella accezione più vasta e comprensiva, e non più del produrre; e del resto si produce quasi esclusivamente per procurarsi i mezzi necessari per consumare.

La società occidentale aveva a lungo teorizzato, e spesso praticato, un ideale di vita al centro del quale stava il lavoro, con l’importante conseguenza — evidenziata in particolare da Marx, il quale può essere considerato il più coerente assertore della teoria del primato del lavoro — che espropriare l’uomo del suo lavoro e dei frutti di esso significava in qualche modo​​ espropriare l’uomo.​​ La grande protesta morale del movimento operaio dell’Ottocento nasceva dalla rivolta di uomini, i «proletari», che si consideravano «estraniati» rispetto alla società borghese proprio perché non riconosciuti in una loro fondamentale dimensione, il lavoro. Le stesse libertà civili apparivano prive di senso se non collegate a una nuova visione del rapporto fra uomo, lavoro e società.

1.2. Crisi dell’ethos borghese e marxista del lavoro

In una società sempre più largamente dotata di beni di consumo, nella quale è sufficiente lavorare poco (o, al limite, si può non lavorare affatto) per vivere e per raggiungere, nonostante tutto, un tenore di vita forse modesto ma comunque immensamente superiore, in termini di disponibilità di beni pubblici e privati, rispetto a quello dell’uomo del mondo antico, l’appello che suscita maggiore risonanza fra le nuove generazioni è quello a una vita tutta libera, tutta ludica, tutta erotica, in cui elemento fondamentale non è la fatica del produrre ma la gioia del consumare.

Questo cambiamento di prospettiva mette in crisi congiuntamente tanto l’ethos borghese quanto l’ethos marxista del lavoro, e in parte lo stesso ethos cristiano, che tuttavia non si è mai del tutto identificato né con l’uno né con l’altro, poiché ha sempre affermato il​​ primato della contemplazione​​ in quanto espressione del primato di Dio rispetto alle cose. L’ethos borghese del lavoro, come del resto quello marxista, si era fondato sul primato della prassi. Lavorare non era semplicemente un modo di procurarsi i beni necessari all’esistenza, ma era la via maestra per realizzare l’uomo in una sua fondamentale dimensione e per dare avvio alla trasformazione del mondo attraverso un nuovo rapporto fra l’uomo e la natura. Il marxismo contestava il sistema di potere della società borghese ma non ne metteva in discussione il centro, appunto il lavoro: la rivoluzione, eliminando per sempre lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, avrebbe dovuto creare le premesse per la realizzazione non solo di un nuovo modo di produzione ma di un​​ uomo nuovo; ma il centro di questo «uomo nuovo» era pur sempre costituito, in virtù del primato della prassi, dal suo rapporto con la natura, mentre le dimensioni della trascendenza, della contemplazione, dello stesso gioco, venivano presentate come astratte e alla fine alienanti. Ne derivava in generale una concezione della vita che aveva il suo fulcro nel lavoro e nei rapporti di potere ad esso collegati.

1.3. Fenomeni attuali: tempo libero, part time

Nella coscienza delle nuove generazioni il lavoro si colloca ormai alla periferia, non più al centro, dell’esistenza. Il luogo fondamentale di realizzazione di sé stessi è visto sempre più frequentemente nel «non lavoro»; e anche quando il lavoro viene ricercato e comunque accettato, lo si persegue per quegli aspetti di inventività, di imprevedibilità, in qualche modo di «gratuità» che lo assimilano quanto più possibile al «tempo libero». Il rifiuto che in occidente sta colpendo tutta una serie di attività considerate troppo poco creative ed eccessivamente ripetitive (oltre che troppo gravose e stressanti), o anche solo troppo assorbenti e tali dunque da lasciare troppo ristretti spazi di libertà, è illuminante al fine della comprensione di questo mutamento di prospettiva.

Alla contestazione radicale del lavoro portata avanti negli anni attorno al 1968, e che si esprimeva nell’idealizzazione di una vita disancorata dal lavoro (di cui la figura dello​​ hippy​​ era in qualche modo il simbolo) è subentrata una contestazione di altro segno più duttile e più pragmatica. Si tende a ritardare da un lato l’ingresso formale nel mondo del lavoro e ad anticiparne dall’altro lato l’uscita (dando luogo ai paralleli fenomeni degli «eterni studenti» e dei «pensionati baby»), in modo da fare della fase lavorativa — all’interno di una vita media che tende costantemente a prolungarsi — una sorta di parentesi, pur sempre necessaria in attesa di nuove invenzioni tecnologiche, nell’arco complessivo dell’esistenza. Agli occhi di molti, l’ideale è quello di lavorare per un tempo quanto più breve possibile, per potere disporre di un tempo di non lavoro quanto più lungo possibile.

Nella stessa direzione opera la tendenza, da parte delle nuove generazioni, ad accettare preferibilmente forme di lavoro​​ part time​​ o comunque tali da non assorbire un segmento troppo ampio della giornata. I tipi di lavoro che, per la loro stessa struttura, impongono in qualche modo un’identificazione tra esistenza e lavoro vengono spesso rifiutati e lasciati alle macchine o subordinatamente alle correnti migratorie che stanno determinando, in Italia come in quasi tutti i paesi occidentali, una sorta di nuova «divisione del lavoro», per effetto della quale alle nuove generazioni dei residenti restano affidate soltanto le mansioni meno pesanti, meno onerose in termini di tempo, meno ripetitive (e spesso anche meglio remunerate).

1.4. Modificazioni tecnologiche

Questo mutamento di prospettiva nel modo di percepire il lavoro da parte della nuove generazioni non sarebbe ovviamente intervenuto se nel frattempo non si fossero verificate profonde modificazioni tecnologiche, quelle stesse che hanno indotto a coniare il termine di «società post-industriale», caratterizzata dalla fine della centralità del lavoro industriale e dall’emergenza di una serie di attività e di professioni che hanno, almeno in parte, quelle caratteristiche di autogestionalità e di duttilità che le rendono più appetibili alle nuove generazioni. Relegare il tempo di lavoro in una posizione relativamente marginale nel corso dell’arco dell’intera esistenza è ora possibile in quanto lo sviluppo tecnologico, trasferendo alla macchina una serie di mansioni, ha reso sempre più marginale, in termini di tempo, l’impegno diretto dell’uomo, riservando a questi funzioni essenzialmente di programmazione o di direzione. La società informatica (o cibernetica) alla quale in occidente ci si sta ormai avviando a rapidi passi si caratterizza appunto per questo radicale ridimensionamento del lavoro, in termini di tempo globale se non propriamente di impegno intellettuale.

La società post-industriale, dunque, da un lato spinge essa stessa in direzione di una marginalizzazione del lavoro; dall’altro favorisce una riflessione culturale che propone in termini nuovi il rapporto tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro. Del resto, se si continuasse a teorizzare il lavoro come centro dell’esistenza in una società in cui se sta ormai diventando​​ la periferia​​ (anche, come si è visto, sotto il profilo della parte dell’esistenza complessivamente dedicata al lavoro), si determinerebbe una sorta di intollerabile schizofrenia: atteggiamento, questo, per altro riscontrabile di fatto, soprattutto nel confronto-conflitto fra le vecchie e le nuove generazioni, dal momento che vi è chi continua a identificare la persona prevalentemente in base al suo​​ status​​ professionale, come se esso fosse l’unico o almeno il principale fattore di individualizzazione. Alla posizione periferica che di fatto il lavoro ha occupato corrisponde ancora (ma fino a quando?) una posizione di tutto rilievo che esso continua ad avere nel costume e nella mentalità prevalenti; ma si tratta in realtà di una sorta di ritardo culturale a forte caratterizzazione ideologica, nel senso che la realtà appare in qualche modo «camuffata» e si continua a presentare come reale, e a teorizzare, quel «primato del lavoro» che, riscontrabile nell’originaria società borghese, non sussiste più nelle società tecnologicamente avanzate, nelle quali il centro dell’esistenza tende a spostarsi altrove.

 

1.5. Nuove generazioni femminili

Una particolare attenzione merita, all’interno del mondo giovanile, quel particolare «universo» che è rappresentato dalle nuove generazioni femminili. Da circa un trentennio a questa parte, e per la prima volta nella storia dell’umanità, si è spezzata la connessione — rimasta a lungo nella cultura tradizionale, sino ad apparire quasi «naturale» — fra donna e lavoro prestato all’interno della casa (non necessariamente, dunque, «lavoro domestico», ma pur sempre lavoro svolto nel fondo agricolo vicino alla casa, o nella casa stessa trasformata in laboratorio artigianale o in piccola fabbrica). Ciò che a partire dal Settecento veniva presentato come una «necessità», e dunque implicitamente come una eccezione (e cioè il lavoro «extradomestico» della donna, soprattutto della donna sposata) è diventato a mano a mano​​ un diritto,​​ e spesso anche un diritto socialmente riconosciuto e codificato dalla legislazione, se non sempre e non dovunque sanzionato dalla prassi: si ritiene infatti che la personalità della donna debba — al pari di quella dell’uomo — essere posta in condizione di realizzarsi nel vasto ambito del lavoro e delle professioni, nessuna esclusa. Nuova concezione del lavoro della donna, questa, resa possibile per un verso dall’introduzione delle macchine (e dunque dal superamento dei condizionamenti negativi rappresentati dalla minore forza muscolare femminile) e per un altro verso dalla rivoluzione demografica, che ha portato al ridimensionamento della famiglia e alla parallela riduzione dei compiti domestici.

La massiccia immissione delle donne nel «mercato del lavoro» ha tuttavia coinciso con una fase storica in cui, per effetto degli sviluppi stessi dell’innovazione tecnologica, il «monte lavoro» complessivo tende a ridursi continuamente. Da un lato, dunque, il lavoro disponibile diminuisce; dall’altro entrano nel «mercato del lavoro» forze, come appunto le donne, che sino a ieri erano rimaste ai suoi margini. Si profila così quello che sarà il problema sociale del XXI secolo, e cioè l’equa ripartizione del lavoro disponibile fra le varie società mondiali e, nell’ambito di ogni singola società, fra le generazioni e fra i sessi.

1.6. Condizioni disumane e domanda di lavoro

Le considerazioni sin qui svolte non intendono in alcun modo offrire un quadro astratto e idilliaco della realtà del lavoro oggi in Italia e nel mondo. Rimangono ampie fasce di sfruttamento del lavoro (soprattutto degli emigrati, delle donne, dei minori); persistono condizioni di lavoro ancora subumane o ad alto rischio, e dunque con frequenti infortuni sul lavoro, anche mortali; rimane elevata, e presumibilmente non destinata a rientrare in tempi brevi, la disoccupazione totale o parziale.

Nonostante tutte queste considerazioni, si deve tuttavia confermare la lettura culturale del lavoro fatta all’inizio. Si leva ancora dalla società una forte domanda di lavoro, e di lavoro svolto in condizioni umane, sufficientemente garantito e decorosamente remunerato; ma il lavoro non è generalmente ricercato in sé e per sé, come ancora avveniva per molti, se non per tutti, nella stagione dell’egemonia dell’ethos del lavoro borghese e marxista, bensì voluto​​ in funzione di altro,​​ soprattutto di consumi che si vorrebbero sempre più elevati, qualitativamente raffinati e insieme diffusi e anzi generalizzati. Quella della fase lavorativa dell’esistenza appare dunque, agli occhi delle nuove generazioni, una fase di passaggio — ora da subire passivamente, ora da vivere responsabilmente — in vista di una realizzazione di sé i cui «luoghi» vengono generalmente cercati e trovati altrove: nella sfera del «privato», nell’uso del tempo libero, nella realizzazione di spazi di libertà e di creatività posti fuori dell’ambito del lavoro produttivo. La «separatezza» che la cultura borghese aveva realizzato fra pubblico e privato viene dunque riproposta, ma in termini capovolti rispetto al passato: questa volta l’«autentico» non è più il «pubblico», ma il «privato», e il primato non spetta più al pubblico (soprattutto nelle forme della politica e dell’economia) ma al privato: dall’amore, allo svago, al rapporto con la natura, all’esercizio di attività realizzate liberamente come​​ hobby​​ e non subite fatalisticamente come «dovere».

2. I fondamenti della teologia del lavoro

2.1. Spiritualità, etica e pastorale del lavoro

Anche in un contesto profondamente mutato, resta il problema di dare un senso anche religioso al lavoro, che costituisce pur sempre una componente importante — e in talune fasi della vita decisiva — dell’operare e dell’essere stesso dell’uomo. D’altra parte, in un’autentica prospettiva di fede non esistono, nella vita del cristiano, aree neutrali o zone d’ombra che la parola di Dio non possa illuminare. Anche l’esperienza del lavoro non si sottrae a questa regola e pertanto anche nei suoi confronti si esercita quella complessiva​​ attribuzione di senso​​ che è caratteristica peculiare dell’etica e della spiritualità cristiana. Sotto questo aspetto, uno stretto nesso intercorre fra spiritualità del lavoro, etica del lavoro, pastorale del lavoro: si tratta sostanzialmente di tre modi diversi — ma non antitetici, anzi fra loro complementari — di guardare allo stesso problema. Nessun serio cammino formativo proposto ai giovani può prescindere dall’esigenza di sollecitare una stretta e feconda integrazione tra fede e vita quotidiana, ivi compresa l’esperienza del lavoro, senza separatismi e senza dicotomie, ma anzi in una prospettiva che sappia nella fede dare senso compiuto anche a gesti e a operazioni apparentemente ripetitive e banali.

Calare la visione cristiana del lavoro nella peculiarità della condizione giovanile implica la percezione più approfondita possibile dei mutamenti in atto e delle esigenze di cui le nuove generazioni si fanno portatrici, in modo da evitare un’assolutizzazione del dato culturale foriera di pericolose commistioni fra messaggio biblico e realtà contingente, e dunque fra parola di Dio e parola dell’uomo. Una puntualizzazione della teologia del lavoro nei suoi vari aspetti appare di conseguenza necessaria in vista della fondazione di una pastorale del lavoro che tenga in particolare considerazione le nuove istanze della condizione giovanile.

 

2.2. Valori generali del lavoro

Il messaggio biblico sul lavoro si fonda, nella sua essenzialità, sulla proposizione di alcuni valori generalissimi.

Il primo valore è quello della​​ dignità del lavoro.​​ Dio stesso «lavora» (e «si riposa» dopo il suo lavoro), e dunque, se degno di Dio il lavoro è degno anche dell’uomo e anzi rappresenta non semplicemente una «attività» ma una «vocazione» (Gn 1-3); né si tratta soltanto di un’attività svolta in vista del soddisfacimento di mere necessità materiali, ma piuttosto di un orientamento generale della persona a realizzarsi sempre più compiutamente attraverso il pieno dominio della natura.

Il secondo valore è quello dell’instaurazione di un​​ giusto rapporto fra lavoro e riposo​​ e dunque anche fra azione e preghiera (o contemplazione). Il lavoro non è tutto l’uomo ma rappresenta soltanto un aspetto del suo essere nel mondo; occorre quindi fare spazio a Dio all’interno della propria vita: la domenica come giorno gelosamente riservato al Signore (Gn 2,2) è il simbolo di questa permanente tensione fra storia ed escatologia. 11 terzo tema è la​​ valorizzazione della dimensione sociale del lavoro,​​ aspetto sul quale insistentemente ritorna, soprattutto in alcune note parabole, il Nuovo Testamento: fare fruttificare la terra, nel senso di fare sprigionare da essa nuove ricchezze e potenzialità, è doveroso non tanto in vista dell’accumulazione di sempre nuovi beni, ma piuttosto come mezzo per poter venire incontro alle necessità degli altri, in una prospettiva di circolazione e di condivisione dei beni che trova la sua più alta, anche se un poco utopica, espressione nella «società fraterna» delineata dagli Atti degli apostoli (At 2,44-45).

Da questo complesso di insegnamenti — che soprattutto a partire dagli anni ’50 la teologia del lavoro ha ampiamente sviluppato — possono essere dedotte, sul piano della prassi, due fondamentali indicazioni.

La prima riguarda il diritto-dovere di lavorare: ogni uomo è chiamato a contribuire alla valorizzazione del mondo, al di là di ogni prospettiva grettamente economistica e utilitaristica, come modo per rendere gloria a Dio che ha posto l’uomo nel mondo perché lo «coltivasse», gli facesse cioè esprimere tutte intere le sue potenzialità.

La seconda indicazione concerne il diritto-dovere di operare per realizzare un’organizzazione del lavoro che consenta a tutti gli uomini e ad ogni uomo di realizzarsi in esso, attuando cosi la propria vocazione e insieme orientando a vantaggio delle persone le scelte fondamentali dell’apparato produttivo, contro ogni tendenza allo sfruttamento indiscriminato della natura e dell’uomo stesso.

2.3. Attuale etica del lavoro

Mentre la prima indicazione può essere considerata «tradizionale» — essendo già presente nella Bibbia e nella stessa tradizione ebraica, da dove è trapassata nel cristianesimo — la seconda è relativamente nuova, perché frutto di una cultura, come quella affermatasi in occidente dopo la rivoluzione industriale, che fa dell’organizzazione del lavoro non un dato immodificabile e necessitato (come inevitabilmente doveva apparire all’uomo pre-moderno, strettamente legato attraverso il lavoro agricolo a una realtà solo parzialmente plasmabile, la terra) ma il prodotto di un insieme di libere scelte dell’uomo.

L’etica cristiana del lavoro non può dunque ridursi, quasi privatisticamente, a un’etica individuale della persona del lavoratore, ma è tenuta ad affrontare il problema del significato del lavoro anche sotto il profilo dell’organizzazione del sistema produttivo nel suo complesso. Proprio perché fatto eminentemente sociale, il lavoro va considerato non come un insieme di gesti e di comportamenti isolati, ma come un complesso di scelte e di atteggiamenti che si legano gli uni agli altri e il cui senso ultimo non può essere dato dal frammento, ma dal tutto, cioè dall’intenzione profonda, esplicita o implicita, che sta alla base dell’insieme del sistema produttivo.

A un’etica del lavoro preoccupata quasi esclusivamente dei comportamenti individuali, secondo un orientamento prevalente sino al recente passato, subentra un’etica del lavoro attenta soprattutto ai condizionamenti sociali che sul lavoro si esercitano. È a questo aspetto del produrre e del lavorare, del resto, che appaiono particolarmente attente le nuove generazioni, nonostante le sollecitazioni che nei loro confronti esercitano le spinte individualistiche largamente presenti in una società che nelle sue stesse nuove forme organizzative (in particolare per il sostituirsi di piccole e agili unità produttive alla grande fabbrica) tende a operare nel senso dell’accentuazione della dimensione soggettiva del lavoro.

2.4. Etica professionale

In questa prospettiva può e deve essere riproposto il problema dell’etica professionale, intesa nel suo significato più ampio (con riferimento, cioè, a tutte le forme di lavoro, dipendente o indipendente). A livello di pastorale giovanile non è tanto importante fondare le singole e specifiche etiche professionali — impresa, d’altra parte, impossibile, essendo oltre tutto imprevedibile il quadro delle future professioni — quanto piuttosto fornire alcuni orientamenti di fondo, tendenzialmente validi per tutte le professioni.

Sotto questo profilo appare necessario, in primo luogo, ricuperare la dimensione sociale di ogni etica professionale. Non esistono infatti attività o mestieri che non abbiamo in sé una dimensione relazionale; anche il lavoro più astratto ha sempre un concreto referente, diretto o indiretto, in altri uomini e nell’umanità nel suo complesso (la stessa incidenza sull’ambiente ha, indirettamente, ripercussioni sull’uomo). Si tratta dunque di formare i giovani alla comprensione del carattere strutturalmente «multidimensionale» del lavoro e alla percezione della inter-relazioni intercorrenti fra i vari gesti dell’uomo. Si supererà, per questa via, il rischio di una lettura individualistica dell’etica professionale, quasi fosse possibile dare senso al lavoro soltanto «facendo il proprio dovere», senza domandarsi quali ripercussioni questo insieme di atteggiamenti abbia, in positivo e in negativo, sulla società e alla fine su altri uomini. In secondo luogo, l’etica professionale deve essere incoraggiata a superare una concezione ristretta e alla fine deformante del rapporto tra fini e mezzi, con il rischio di una valutazione puramente economica (o, ancor peggio, soltanto utilitaristica) del proprio lavoro. Ciò che può essere valido nell’ambito di un’economia considerata in sé e per sé, può non esserlo sul piano generale della vita sociale: si pensi, ad esempio, alle connessioni fra lavoro e vita familiare, fra lavoro e salvaguardia dell’ambiente, fra lavoro e religione. Al limite, scelte legittime nel solo ambito dell’etica di una specifica professione possono diventare illegittime se collocate in un ambito più vasto.

In una società complessa come la nostra, senza pretendere di fornire ai giovani che si affacciano al mondo del lavoro risposte definitive in ordine al rapporto fra etica e professione, è pur sempre possibile offrire alcuni grandi criteri orientativi capaci di creare le premesse per l’esercizio di un sano spirito critico, al di là dell’orizzonte, spesso ristretto, di ogni singola professione.

2.5. Lavoro e tempo libero

In sintesi, una teologia del lavoro è chiamata, anche nei confronti delle nuove generazioni, a far crescere nella coscienza dei credenti la capacità di assumere il lavoro in tutte le sue dimensioni, personali e sociali, per farne un momento di liberazione e di crescita della persona: senza affidare al solo lavoro il compito di far crescere tutto l’uomo, anche soltanto nella sua dimensione fabbricatrice.

Il lavoro è certo un fondamentale momento di affermazione, di liberazione, di promozione dell’uomo; ma non lo esaurisce tutto, e anzi trova il suo senso profondo nel costante rapporto dialettico con il non-lavoro: i momenti del riposo, della distensione, della contemplazione, del gioco, del culto, del raccoglimento sono non meno essenziali all’umanizzazione dell’uomo di quanto non sia il tempo del lavoro.

Conferire senso al lavoro, attribuendo insieme un significato costruttivo e personalizzante anche al «tempo libero», rappresenta il fondamentale obiettivo dell’etica cristiana del lavoro e della stessa pastorale giovanile del lavoro. Soprattutto nel momento in cui viene meno l’immagine tradizionale del lavoro — fondata, come già si è rilevato, sull’individuazione della prassi come campo privilegiato della realizzazione di sé — appare necessario ricuperare le radici autenticamente religiose del lavoro, oltre l’ethos borghese (influenzato alle origini, secondo le note tesi di M. Weber, da componenti religiose, che tuttavia sono state a poco a poco perdute per via) e insieme oltre l’ethos marxista, in una prospettiva atta a ritrovare l’equilibrio già indicato nella felice formula della regola benedettina​​ Ora et labora;​​ formula che, in termini moderni, potrebbe essere ripresa e ritradotta sotto forma di contemperamento delle dimensioni «libera» e «necessitata» dell’esistenza, entrambe necessarie ma cariche di senso solo in una prospettiva in cui l’una non esclude l’altra, fuori di un orizzonte che rinchiuda l’uomo nel cerchio invalicabile della pura prassi.

3. Una pastorale del lavoro per le nuove generazioni

3.1. Storia recente della teologia del lavoro

La teologia del lavoro si è sviluppata lentamente ma progressivamente a partire dagli anni ’30, grazie alla «teologia delle realtà terrestri» e alla «nuova teologia» (in particolare a M. D. Chenu), passando attraverso la fondamentale esperienza dei «preti operai» (e dei «cappellani del lavoro» o di figure simili), sino a trovare una sistemazione in qualche modo definitiva con la costituzione conciliare​​ Gaudium et spes​​ (si vedano di essa sia tutto il contesto della prima parte sia i nn. 63ss in particolare). Parallelamente allo sviluppo della teologia del lavoro, e in parte per le sollecitazioni da essa provenienti, ha cominciato a costituirsi anche una pastorale del lavoro, le cui prime organiche anticipazioni possono essere individuate, dopo alcune pionieristiche esperienze del «cattolicesimo sociale» dell’Ottocento, nelle esperienze più sistematiche condotte già negli anni ’30 soprattutto a opera di gruppi specializzati dell’Azione cattolica. In verità l’integrazione fra teologia del lavoro e pastorale del lavoro non è stata così armonica come sarebbe stato necessario: mentre infatti la prima si è sviluppata sul piano prevalentemente teoretico e in direzione dell’approfondimento delle tematiche bibliche ad essa connesse, la seconda è stata fortemente condizionata dall’esigenza, del resto ineludibile, di prendere posizione su problemi fortemente avvertiti dalle masse lavoratrici, e soprattutto dai lavoratori dell’industria, quali il conseguimento di più equi livelli salariali, la salvaguardia del posto di lavoro, l’umanizzazione del lavoro di fabbrica, l’instaurazione di forme di cogestione e di compartecipazione. È mancata in parte la stretta collaborazione, che pure sarebbe stata necessaria, fra quanti riflettevano teologicamente sul lavoro e coloro (soprattutto laici impegnati nei vari settori produttivi) che vivevano direttamente, da credenti, quello stesso impegno.

Di questo stacco ha risentito anche il cammino formativo delle nuove generazioni, all’interno del quale solo in modo parziale e disorganico è stato affrontato il problema del lavoro, con particolare riferimento all’etica e alla spiritualità dell’impegno professionale. A lungo la catechesi ha pressoché totalmente ignorato il problema del lavoro (salvo qualche generico spunto di etica professionale) e non sempre le sollecitazioni provenienti dai nuovi catechismi della CEI sono state raccolte e sviluppate.

3.2. Divaricazione tra «umanesimo cristiano» e sviluppo economico

Tale complessivo ritardo della riflessione sul lavoro è apparso ancor più grave a seguito del parziale venir meno dell’«umanesimo del lavoro» che si era affermato, anche in Italia, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale ed era stato in qualche modo recepito, anche per iniziativa dei Costituenti cattolici, dalla Costituzione italiana (art. 1.). Quell’umanesimo si era implicitamente fondato sul presupposto, rivelatosi poi non verificato, che l’espansione della produttività e i miglioramenti nelle condizioni di lavoro determinati dagli sviluppi della tecnologia potessero di per sé porre su nuove basi il rapporto fra uomo e lavoro, creando così le premesse per una reale liberazione del lavoro. In realtà la struttura dei tradizionali rapporti di produzione (e di potere) si rivelava pressoché impermeabile a queste nuove sollecitazioni, e gli stessi obiettivi strategici della classe operaia, e dello stesso sindacalismo di ispirazione cristiana, tendevano a spostarsi in direzione dell’acquisizione di un più elevato tenore di vita piuttosto che di una diversa distribuzione del potere decisionale nell’ambito dei processi produttivi. D’altra parte manifestava la sua astrattezza, e rivelava dunque una limitata incidenza pratica, all’interno della cultura di ispirazione cattolica, una certa enfasi personalistica lontana dai problemi reali: la «centralità della persona» nei luoghi di lavoro e il «primato del lavoro» sul capitale venivano a più riprese proclamati e in qualche misura teorizzati, ma raramente tradotti nella pratica.

Di qui una crescente divaricazione fra l’«umanesimo del lavoro» espresso dalla cultura cattolica (e per certi aspetti anche da quella di ispirazione marxista) e il reale procedere dell’economia nazionale. Grazie al «miracolo economico» e all’adozione di tecnologie sempre più raffinate, cresceva immensamente — nel relativamente breve arco di un trentennio — la disponibilità di beni e di servizi e si riduceva parallelamente il tempo di lavoro, sia in termini di durata della giornata lavorativa sia in generale sotto il profilo del rapporto fra «vita attiva» e fase della formazione professionale a monte e del pensionamento a valle; ma il lavoro tendeva a perdere in larga misura il posto di rilievo che negli anni delle grandi lotte sociali e sindacali dell’immediato dopoguerra aveva occupato: al centro si collocava, come già si è rilevato, il momento del consumare assai più che quello del produrre, e il primo assai più del secondo veniva indicato come il vero luogo di un «umanesimo del lavoro» (in realtà di un «umanesimo del non lavoro») calato nella realtà dei processi produttivi della società post-industriale.

3.3. Crisi dell’ottimisino tecnologico

A mano a mano che questi processi giungevano a maturazione, tuttavia, si verificava un mutamento di prospettiva che potrebbe essere espresso in termini di​​ crisi dell’ottimismo tecnologico.​​ Si è in parte verificata la previsione di un movimento tendenzialmente ascensionale dei profitti e dei salari, e dunque dell’accumulazione e dei consumi; ma ciò è avvenuto a prezzo di pesanti costi umani e ambientali e senza che si verificasse l’auspicato salto di qualità nel processo di umanizzazione del lavoro. La teologia del lavoro giungeva a riconoscere pienamente, dopo quasi due secoli di diffidenze e di incomprensioni, il significato e il valore della tecnica proprio nella fase storica in cui, dopo gli entusiasmi tecnologici degli anni ’50 e ’60, la stessa tecnica era assoggettata a un severo processo all’interno delle stesse scienze umane. Sempre più frequentemente ci si domandava, e ancora ci si domanda, se compito delle innovazioni tecnologiche non dovesse essere non soltanto liberare dal lavoro ma anche​​ liberare il lavoro;​​ in realtà l’impresa riusciva sul primo piano ma falliva in gran parte sul secondo, e quella sorta di «redenzione laica» che l’umanesimo tecnologico si attendeva dal lavoro veniva trasferita altrove e trovava il suo epicentro nell’attività ludica disinteressata, e dunque fuori del lavoro.

Agli occhi delle nuove generazioni il lavoro appare sempre più come una realtà sostanzialmente​​ secondaria,​​ come condizione per l’ottenimento dei mezzi necessari per realizzarsi​​ fuori del lavoro: in virtù di una sorta di eterogenesi dei fini per effetto della quale un meccanismo che avrebbe dovuto avere in sé stesso la sua giustificazione finisce per cercarla e trovarla​​ altrove.

In una stagione che, per il lavoro, è quella del disincanto e della disillusione — e dunque, parallelamente, anche della perdita di combattività sul piano di un rivendicazionismo sindacale che si proponga finalità generali — resta tuttavia affidato alla comunità cristiana il compito di ricuperare e di rifondare il senso e la dignità del lavoro in sé e per sé, indipendentemente dalla sua redditività economica; momento certo non unico dell’agire dell’uomo, ma espressione pur sempre importante e qualificante di un impegno grazie al quale il credente si associa al compito creativo di Dio e alla missione redentrice di Cristo.

3.4. Emergere della «solidarietà»

Al centro di questa riproposizione del senso del lavoro da parte della comunità cristiana sta la categoria della​​ solidarietà.​​ Componente tradizionale della «fraternità operaia», la solidarietà è stata posta in crisi dall’avvento di una cultura fortemente soggettivistica, individualistica, frammentaria, decisamente orientata al successo e dunque strutturalmente competitiva.

Questa nuova «cultura del lavoro» incentrata sulla competitività esprime essa pure taluni valori e rappresenta per certi aspetti un fattore di innovazione e dunque di progresso economico (ma non sempre necessariamente anche sociale); e tuttavia comporta costi assai pesanti, soprattutto nei confronti degli individui e dei gruppi più deboli e marginali. Si tratta di costi che, dal punto di vista meramente economico, la società industriale avanzata riesce in qualche modo a coprire (ad esempio garantendo un decoroso livello di vita anche ai gruppi esclusi dal lavoro o precocemente espulsi dal mondo del lavoro) ma che, dal punto di vista umano, sono in realtà insopportabili e inammissibili.

La «logica delle cose» sembra spingere i rapporti fra gli individui e i gruppi sociali (e gli stessi rapporti fra i popoli) in una direzione che accresce il divario fra i «ricchi» e i «poveri», fra le avanguardie e le retroguardie di questo nuovo processo di sviluppo tecnologico; ma vi è da domandarsi se la comunità cristiana possa subire passivamente questo andamento dell’economia o non debba invece cercare di correggerlo — e, prima ancora, di guidarlo, piuttosto che subirlo — soprattutto nel senso dell’attivazione di nuove spinte in direzione della solidarietà.

Su questa linea, del resto, si è posto da tempo il più recente magistero sociale della Chiesa, dalla​​ Populorum progressio​​ (1967) alla​​ Sollicitudo rei socialis​​ (1988).

Il forte richiamo che la coscienza cristiana ha a più riprese elevato in direzione degli «ultimi» e dei loro diritti opera appunto nel senso dell’attivazione di nuove energie di solidarietà che prendano il posto di quelle, in parte ormai disperse, dell’antico movimento operaio. Senza solidarietà e condivisione, del resto, il lavoro è destinato a perdere in gran parte il suo significato umanizzante.

 

3.5. Direzioni attuali

Una pastorale del lavoro orientata a cogliere i bisogni e le attese, almeno impliciti, delle nuove generazioni, deve dunque sapersi orientare in alcune ben precise direzioni.

La​​ prima​​ è quella della fondazione complessiva del senso del lavoro, in una prospettiva che sia insieme teologica e spirituale, capace cioè di attribuire significato ai gesti della fatica quotidiana, ovunque e comunque svolta, muovendo dalla consapevolezza che il lavoro non è mai soltanto «professione» ma anche «vocazione»​​ (Beruf),​​ e dunque pone l’uomo in relazione non soltanto con le cose ma, da ultimo, con Dio.

La​​ seconda​​ direzione è quella della non assolutizzazione del lavoro come unico tempo vitale dell’uomo, in una prospettiva formativa che ricuperi il senso del lavoro​​ accanto​​ ad altre esperienze non meno importanti e ricche di significato (la vita sociale e di relazione, il godimento della natura e dell’arte, l’amore e la vita familiare, la contemplazione e la preghiera...).

Il fatto che non si attenda più tutto, o quasi, dal lavoro, non implica che da esso non ci debba attendere più nulla, anche in termini di concorso alla crescita complessiva della persona grazie a quelle qualità di impegno, di disinteresse, di accettazione della fatica, di collaborazione con gli altri, che strutturalmente il lavoro richiede.

La​​ terza​​ ed ultima direzione è quella della rivalutazione di una categoria che la cultura moderna tende, pericolosamente, a porre fra parentesi, e cioè quella di​​ gratuità,​​ strettamente legata all’altra di solidarietà, anzi in un certo senso fondativa di essa. Vi può essere, nel mondo delle cose, una pura logica del dare e dell’avere, della redditività e dell’efficienza; ma questa logica non può essere trasferita nel mondo della vita personale senza che essa non ne riceva, come contraccolpo, una pericolosa degradazione. Operare nel mondo del lavoro significa anche attrezzarsi per queste fondamentali esperienze di gratuità e di solidarietà senza le quali anche un lavoro professionalmente serio e qualificato è privo di quell’anima profonda che è la sostanza stessa del processo di umanizzazione del lavoro.

 

Bibliografia

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LAVORO

L’accostamento dei termini l. ed educazione richiama una duplice connessione dinamica: l’educazione​​ al​​ l. o formazione in vista dell’attività lavorativa ed educazione​​ nel​​ l. quale occasione specifica di crescita umana.

1.​​ L.,​​ educazione e contesto storico-culturale.​​ Nel corso della storia questo duplice nesso assume una consistenza molto diversificata, perché variando il concetto di l. nei diversi contesti culturali, mutano di conseguenza significati e prassi educative riguardanti l’attività lavorativa. Nel mondo occidentale è soprattutto la riflessione filosofica a offrire, nel corso dei secoli, una serie di concezioni emblematiche di l., a cui sono inevitabilmente sottesi dei particolari orientamenti dell’educazione. Nell’antichità (Grecia e Roma), prevaleva una valutazione negativa del l., considerato come attività manuale riservata agli schiavi, mentre era proprio degli uomini liberi dedicarsi alla guerra, alla politica, alla speculazione. Più oltre, nell’epoca paleocristiana, il l. fu visto come mezzo di espiazione, come sofferenza solo attenuata dal senso di partecipazione all’attività creativa di Dio. Durante il​​ ​​ Medioevo esso assurge con le corporazioni a strumento di solidarietà economica, politica e religiosa. Ma è solo con il Rinascimento che viene esaltato come veicolo di progresso civile e di autonomia personale. Col​​ ​​ protestantesimo Lutero ne fa «un servizio» e Calvino una via di ascesi, come valore etico per la consacrazione della vita nel mondo. L’Illuminismo e l’Idealismo ne mantengono l’immagine positiva quale elemento di dignità sociale. Questo ottimismo viene successivamente incrinato con l’evoluzione del​​ ​​ capitalismo verso ampie forme di sfruttamento del l. umano. Marx, riconoscendo il l. come azione vicendevole di scambio tra uomo e natura, ne denuncia anche i risvolti spesso alienanti. Le critiche si approfondiscono poi con la Scuola di Francoforte. Intanto lo scenario del rapporto fra sviluppo del l. e società si fa più complesso. L’esplosione delle rivoluzioni industriali porta alla frantumazione dei mestieri tradizionali e al diffondersi dell’automazione, dell’informatica, della robotica, della terziarizzazione delle attività economiche, facendo assumere al l. un significato talmente polimorfo da suscitare problemi biologici, psichici, filosofici, politici e conseguentemente educativi. Ormai tutte le correnti della filosofia contemporanea riservano al l. una riflessione attenta e spesso centrale: sorto come strumento dell’uomo, esso può diventare un potenziale per la sua crescita, ma insieme una realtà che lo soverchia e ne minaccia il destino (Friedmann, 1971), fino ad esserne preconizzata la fine (Rifkin, 1995). La stessa Chiesa cattolica, anche attraverso una serie di encicliche papali emanate in particolare dal 1891 ad oggi, ha inteso elaborare un’etica del l. costantemente rispettosa delle esigenze della persona in contesti in divenire.

2.​​ Pedagogia e l.​​ Il pensiero pedagogico ha considerato il l. come componente specifica dell’educazione solo a partire dalla fine del 1700. In precedenza, non era mancata una certa valorizzazione dell’operatività fondata sull’esperienza pratica e manuale. Ma di una «scuola del l.», sia pure come mezzo di riscatto delle classi povere, parlò per primo​​ ​​ Pestalozzi nel 1790, tuttavia bisognò attendere il periodo a cavallo tra il XIX e il XX sec. perché la pedagogia riconoscesse al l. una funzione precisa di maturazione della persona. Da allora, a seconda delle varie aree geografiche e culturali, vi è stato un moltiplicarsi di proposte, dibattiti ed esperienze. Nell’ambiente tedesco, fu soprattutto​​ ​​ Kerschensteiner a formulare una vera sintesi pedagogica sul l., esaltato per la sua relazione con i valori, la sua utilità civile e i potenziali di sviluppo nelle capacità di ideazione, pianificazione e controllo. Negli Stati Uniti dell’industrialismo taylorista e fordista,​​ ​​ Dewey denunciò i pericoli dell’economicismo e dell’individualismo, indicando nell’attività professionale uno spazio privilegiato di collaborazione sociale.​​ ​​ Kilpatrick, suo discepolo, propose come obbligatoria nei​​ colleges​​ qualche esperienza di l. Sulla scia del pensiero marxista la pedagogia russa (​​ marxismo pedagogico), andò sviluppando l’idea di una «formazione politecnica», a base sia teorico-scientifica che pratico-polivalente, orientata a formare il giovane come padrone della macchina e vero protagonista nella vita collettiva. Lo svizzero Ferrière considerò la scuola come un insieme di attività svariate che, passando dal gioco al l., dall’imitazione alla costruzione autonoma, sollecitasse un impegno sia manuale che intellettuale e sociale. In Italia, nel solco di una ricca tradizione di​​ ​​ formazione professionale, offerta da istituzioni religiose (Somaschi,​​ ​​ Fratelli delle Scuole cristiane,​​ ​​ Salesiani),​​ ​​ Gentile e​​ ​​ Lombardo Radice proposero un curricolo scolastico capace di fondere gioco e l.​​ ​​ Gramsci propugnò una scuola unica, fatta di cultura generale e di esperienze successive di orientamento alla professione. Intorno alla seconda metà del secolo vari studiosi aggiungono ulteriori elementi di riflessione e proposta.​​ ​​ Hessen diffonde a livello europeo l’idea di una scuola longitudinale unica orientata a superare una mentalità produttivistica, per una cultura della solidarietà e dello sviluppo globale dell’uomo che, a suo avviso, va liberato​​ nel​​ l. e non​​ dal​​ l. Litt è per un’educazione che sottragga dalle dinamiche fagocitanti dell’evoluzione economica e tecnologica, attraverso un recupero della libertà con scelte di valore sugli indirizzi dell’attività produttiva.​​ ​​ Maslow, gerarchizzando i bisogni dell’uomo al l., pone a loro vertice dinamico l’autorealizzazione, come tensione a diventare pienamente se stessi.

3.​​ Evoluzione tecnologica e professionalità.​​ Fino a un passato recente i termini mestiere e​​ ​​ professione indicavano un insieme di competenze precise, costituite da capacità e abilità specifiche, necessarie per lo svolgimento di una particolare mansione. Oggi questa connessione è pressoché disciolta. Sparita la vecchia cultura agricola e artigiana, la stessa società industriale si va trasformando rapidamente nella società delle informazioni e dei servizi, con mutamenti che investono ormai tutta l’impalcatura della professionalità tradizionale. In questo quadro si riducono fortemente le prestazioni puramente esecutive, mentre si dilatano enormemente quelle di programmazione, controllo e informatizzazione. Oggi anche il lavoratore tradizionale deve possedere doti di intellettualizzazione circa i processi del l., iniziativa, mobilità geografica e professionale, flessibilità di fronte alle esigenze di aggiornamento continuo e di acquisizione di nuove tecnologie, di collegamento con settori diversi dal proprio: dalla finanza al marketing, dal diritto alle scienze sociali e della comunicazione. L’apparire di una nuova «classe creativa» (Florida, 2003) sta accelerando inoltre lo sviluppo di un diverso professionalismo, in cui diventa prioritaria la capacità di collaborare e di acquisire linguaggi scientifico-culturali, la consapevolezza e duttilità nei ruoli organizzativi, l’abilità di​​ problem solving,​​ l’attitudine alle scelte e decisioni e il possesso di impianti valoriali di fondo ispirati alla​​ ​​ tolleranza e all’interculturalità. Nel contempo questa evoluzione aumenta i rischi di obsolescenza professionale che rende sempre più spesso necessari interventi di ricollocazione e di riorientamento.

4.​​ L’educazione e la formazione professionale.​​ Alla luce di queste trasformazioni, attuali e di prospettiva, l’educare​​ al​​ l. e​​ nel​​ l. comporta ormai nuove ottiche, sia nella riflessione pedagogica che negli interventi concreti. Infatti l’educazione è destinata non solo a valicare gli ambienti tradizionali della famiglia e della scuola, ma ad estendersi al corso dell’intera esistenza individuale, nella prospettiva del​​ lifelong learning. UNESCO, Consiglio d’Europa, OCSE e l’UE lo stanno affermando da qualche decennio. In Italia questa cultura pedagogica del l. si sta affermando. Sono tuttavia ancora ampiamente da integrare concetti e prassi inerenti l’educazione (intesa come maturazione globale della persona sotto il profilo etico, psicologico, religioso e sociale), l’istruzione (finalizzata all’accrescimento culturale) e la formazione professionale (come risposta alle esigenze di autorealizzazione nell’ambito lavorativo). Vanno meglio definiti in sé, e resi fra loro realmente integrati e flessibili, sistemi formativi come l’istruzione tecnica e professionale e la formazione professionale. Nella panoramica variegata dell’attuale «cantiere delle riforme», sembra si possano segnalare alcune aree privilegiate di educazione professionale e, in esse, alcune esigenze particolari di intervento: a)​​ L’orientamento come modalità educativa permanente.​​ L’azione orientativa corrisponde, all’interno del processo educativo, all’aiuto fornito alla persona affinché possa realizzare le sue potenzialità mediante scelte adeguate verso la professione, dalla giovinezza all’età adulta. In questo senso orientamento scolastico e professionale risultano complementari, in quanto il primo pone l’attenzione sullo sviluppo globale dell’individuo e sui problemi di apprendimento, mentre il secondo è focalizzato sulle scelte di studio o di l. che consentiranno la sua maturazione professionale. b)​​ Una scuola rinnovata,​​ aperta e per tutta la vita.​​ Una prima esigenza di una scuola orientata al l. è un suo collegamento più stretto con la prospettiva della professione. Secondo alcune proposte formulate più direttamente per la situazione italiana, il sistema scolastico dovrebbe essere possibilmente unitario dall’infanzia all’università e prevedere uscite e rientri più facili rispetto al mondo del l. Scuola e università dovrebbero confrontarsi costantemente con il mondo lavorativo e imprenditoriale, mentre la stessa cultura professionale dovrebbe trasformarsi in vera «cultura del cambiamento», nell’ottica di una qualificazione continua rispetto al «diverso e possibile» e di un apprendimento esteso a tutta la vita. c)​​ La formazione professionale: iniziale,​​ continua e plurima.​​ La formazione professionale, in quanto dimensionata sullo sviluppo economico e produttivo, è in continua evoluzione e si sta configurando verso un vero e proprio sistema, come raccomandato fortemente dalla UE. Nella situazione italiana è possibile delineare in essa una certa varietà di dimensioni tra la formazione iniziale di base (di livello secondario), una nuova formazione superiore non accademica (di livello terziario) e la formazione continua. d)​​ Linee educative trasversali.​​ Tutte le iniziative dovrebbero svolgere un’azione di educazione globale dei giovani e delle giovani, che nella scuola e nelle strutture formative, vanno preparati a ricercare nel l. un’occasione di autorealizzazione individuale e sociale. In questo senso è importante la «motivazione» al l.: sotto il profilo dei suoi aspetti sociali, retributivi e del suo significato esistenziale personale. Andrebbe insieme evidenziata la dimensione cognitiva dell’attività lavorativa, quale ambito di conoscenza per il superamento dei problemi. Inoltre sembra da favorire un reale processo di socializzazione al l. nel percorso di formazione dell’identità personale lungo i momenti diversi della carriera professionale.​​ 

5.​​ Problematiche connesse con l’educazione al l.​​ L’educazione professionale non può non includere anche riflessioni e prassi specifiche circa esperienze strettamente collegate con quella del l. La disoccupazione, ad es., che permane un fenomeno di vaste dimensioni, postula aiuti preventivi e puntuali, per contenerne i danni psicologici, stimolare tecniche efficaci di ricerca del l., destare le risorse psicologiche e sociali dell’individuo. Lo stesso tempo libero, che sembra avere significative correlazioni con l’attività lavorativa, va fatto rientrare in un’educazione professionale che sia formazione globale dell’uomo. Nelle situazioni di devianza si può trovare nel l. una via pedagogica efficace (ergoterapia) al recupero e allo sviluppo della personalità. In tempi più recenti sono emerse anche le nuove problematiche legate all’andamento demografico, all’invecchiamento della popolazione e alla crisi dei sistemi pensionistici (tipiche dell’ageing society). Le sfide poste all’educazione dalla realtà di un l. umano, estremamente polimorfo e destinato a evoluzioni imprevedibili, sono sfide pienamente aperte che restano di vitale importanza per l’intera qualità dell’esistenza, a livello tanto individuale che collettivo.

Bibliografia

Negri A.,​​ Filosofia del l. Storia antologica,​​ Milano, Marzorati, 7 voll., 1980-1981; Rifkin J.,​​ La fine del l., Milano, Baldini e Castoldi, 1995; Beck U.,​​ Il l. nell’epoca della fine del l., Torino, Einaudi, 2000; Donati P.,​​ Il l. che emerge, Torino, Bollati Boringhieri, 2001; Fraccaroli F. - G. Sarchielli,​​ È tempo di l. Per una psicologia dei tempi lavorativi, Bologna, CLUEB, 2002; ISFOL,​​ Prolungamento della vita attiva e politiche del l., Milano, Angeli, 2002; Florida R.,​​ L’ ascesa della nuova classe creativa. Stile di vita,​​ valori e professioni, Milano, Mondadori, 2003; Alessandrini G. (Ed.),​​ Pedagogia e formazione nella società della conoscenza, Milano, Angeli, 2005; Marcaletti F.,​​ L’orizzonte del l.​​ Il prolungamento dell’esperienza professionale nell’ageing society, Milano, Vita e Pensiero, 2007.

G. Tònolo

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LAVORO

LAZZATI Giuseppe

LAZZATI GIUSEPPE​​ (1909-1986)

Armando Oberti

 

1. L’utopia

2. Il progetto educativo

3. Due fondamenta del dialogo educativo

4. Realismo e concretezza operativa

4.1. L’università

4.2. L ’apostolato laicale associato

4.3. Collaborazioni

4.4. La pubblicistica

5. Creazione di nuovi strumenti

6. Nuove fondazioni

6.1. L’Istituto secolare Cristo Re

6.2. La «Scuola di fede»

6.3. L’Associazione «Città dell’uomo»

7. Testimonianza personale

 

L’elemento riconosciuto come quello capace di cogliere l’identità di Giuseppe Lazzati (Milano, 22 giugno 1909 — 18 maggio 1986) è la sua «opera ininterrotta di educatore di coscienze giovanili». Un’opera per cui ha mostrato di possedere e di vivere «un carisma straordinario» (C. M. Martini).

 

1. L’utopia

Ciò che ha orientato, sollecitato e sostenuto Lazzati in quest’«opera ininterrotta» è stata un’esigenza vissuta come assoluta. Esigenza che può essere definita «utopia», se si dà al termine il senso forte di realtà che ancora non esiste. L’«utopia» di Lazzati è stata la realizzazione, già ora nella storia e nelle congiunture culturali che siamo chiamati a vivere, del regno di Dio. Dunque, rendere storica, visibile, sia pure nell’ambiguità del tempo presente, la rivelazione di Cristo: «Il regno di Dio è in mezzo a voi» (Lc 17,21), contemperando interattivamente già e non ancora, incarnazione ed escatologia. Lazzati ha considerato l’«utopia» del regno e la sua anticipazione nella storia l’essenza stessa della vocazione di tutta la chiesa e della missione affidatale da Cristo. Dunque, in virtù del sacramento che segna l’appartenenza di ciascuno alla chiesa, essenza della vocazione e missione di ogni cristiano: «Un solo corpo, un solo Spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo» (Ef 4,5-6). Di conseguenza, Lazzati ha insistito sul fatto che l’«utopia» del regno resta sogno o, comunque, vede rallentata, rimandata, offuscata la sua anticipazione nella storia se il laicato, che è la componente più numerosa dei battezzati, resta inconsapevole dell’essenza di ciò che è chiamato da Dio a essere e a fare. Così, Lazzati ha colto nell’assenza di maturità del laicato il punto critico della realizzazione dell’«utopia» del regno e ha ritenuto indispensabile e urgente superare la criticità della situazione così che tutti i fedeli laici cristiani divenissero consapevoli di essere chiamati da Dio a divenire attivi e responsabili della costruzione del regno già ora nella storia svolgendo il proprio ruolo peculiare: essere vicari del Creatore e del Redentore e, in quanto fedeli laici cristiani, cercare il regno di Dio «trattando le realtà temporali e ordinandole secondo Dio» (LG 31; cf EN 70).

Dunque, operare, nel rispetto della relativa ma reale autonomia delle realtà terrene (cf LG 36; GS 36-37), perché divengano conformi al piano della creazione e della redenzione; conformi all’economia del regno di Dio.

Per Lazzati, essere vicari del Creatore e del Redentore nel mondo e per il mondo, significa sostanzialmente operare in conformità con il Creatore che fece ordine nel​​ caos​​ iniziale ordinandolo in​​ cosmo,​​ e operare in conformità con il Redentore che fece ordine nel​​ nuovo caos,​​ prodotto dal peccato dell’uomo, ordinandolo nel​​ nuovo cosmo,​​ nella nuova creazione operata per e con la morte e risurrezione del nuovo Adamo.

Per Lazzati, essere vicari del Creatore e del Redentore nel mondo e per il mondo significa, proprio in risposta positiva alla propria peculiare vocazione e missione di fedeli laici cristiani, essere impegnati a far ordine nel​​ caos​​ presente — determinato dal peccato che, benché già vinto, è ancora operante — ordinandolo nella​​ polis:​​ la città dell’uomo a misura d’uomo.

Dunque, concependo la politica come la più alta e difficile delle attovità umane e indiduando nella​​ polis​​ il luogo non solo sociologico, ma teologico attraverso il quale e per il quale i fedeli laici cristiani sono chiamati da Dio a santificarsi, santificando le realtà terrene.

 

2. Il progetto educativo

Lazzati, pur vivendo l’«utopia» del regno, non si è limitato né ad annunciarla e a proclamarla, né a denunciare situazioni e carenze che ne impedivano o allontanavano o offuscavano l’attuazione. Egli ha impegnato tutto sé stesso in un progetto educativo funzionale, nella specifica situazione storico-culturale ed ecclesiale in cui è vissuto, all’«utopia» del regno.

Il progetto educativo di Lazzati per la creazione di una nuova maturità del laicato si è articolato in alcuni punti essenziali: aiutare e orientare ogni fedele laico cristiano a prendere coscienza della propria peculiare vocazione divina alla santità; aiutarlo e orientarlo «a interrogarsi e a comprendersi, a ottenere le risposte, “penultime” e “ultime”, senza le quali la vita si ridurrebbe a progetto incompiuto o addirittura a incognita indecifrabile»; aiutare e orientare ciascuno a compiere l’itinerario sapienziale che vede «l’approdo definitivo e appagante del processo conoscitivo [che] è il mistero di grazia rivelato, che dà la cifra interpretativa globale delle diverse verità settoriali ricostruite a brano a brano dall’indagine del pensiero»; aiutare e orientare ciascuno a «entrare nel mistero dell’adesione esistenziale, che richiede continua conversione del cuore e distacco dalle concupiscenze» (L. Caimi); aiutare e orientare ciascuno a essere autentico e cosciente cittadino della​​ pòlis,​​ da cristiano, ma non in quanto cristiano così da poter essere all’opera in un progetto di città dell’uomo, insieme a tutti gli uomini di buona volontà, perché sia a misura d’uomo. Aiutare e orientare ciascuno, quindi, a «pensare politicamente». Una cosa difficile, diceva Lazzati, «perché il giudizio politico è un giudizio sintetico, deve tener conto di vari fattori e deve valutarli tutti insieme non uno alla volta: deve tener conto di quella che è la situazione storica in cui il giudizio viene pronunciato e deve sapere che le proposte politiche valide sono quelle che, al di là della validità tecnica della proposta, hanno validità storica».

 

3. Due fondamenta del dialogo educativo

La pedagogia di Lazzati è stata costruita su due fondamenta individuate nel corso dei suoi studi di letteratura cristiana antica e di patristica. Anzitutto, utilizzare il principio tomista di distinguere senza separare; ossia, secondo l’espressione di Lazzati: operare l’unità dei distinti, essenziale per chi è chiamato a vivere la paradossale avventura — descritta​​ dall’A. Diogneto​​ — di essere cittadino di due città. Chiamato, quindi, a coniugare fede e ragione, fede e storia, fede e politica, cristianesimo e cultura, Chiesa e mondo... Inoltre, seguire il principio dettato da sant’Ambrogio: tener conto, costantemente e contemporaneamente, delle novità che si presentano e di ciò che occorre conservare. Dunque, avere un senso forte della tradizione, della storia, e un senso, altrettanto forte, dell’esigenza del nuovo, del rinnovamento necessario.

Tali fondamenta pedagogiche erano messe in atto da Lazzati seguendo il metodo — inteso non solo come via o mezzo, ma come criterio ispiratore di comportamenti e di stile di vita — del dialogo. Com'è testimoniato, «nel colloquio individuale [Lazzati] riusciva a interpretare in modo efficace le delicate movenze del processo maieutico» (A. Nicora), rivelando il suo «zelo e rispetto per le anime» (G. Dossetti) e la disponibilità a ricercare insieme, ma senza la pretesa di esserne l’unico possessore.

 

4. Realismo e concretezza operativa

Lazzati non ha vissuto la sua «utopia» del regno come un sognatore, ma con realismo e concretezza tutte lombarde. Egli, infatti, non si è impegnato solo a tradurre l’«utopia» in progetto, a individuare una pedagogia e un metodo coerenti e funzionali al progetto stesso, ma ha utilizzato una serie di strumenti che ha considerato coerenti con l’obiettivo di creare una nuova maturità del laicato. E ciò nelle condizioni e negli ambiti in cui si è trovato a vivere, spesso suo malgrado, o perché condottovi dalla forza degli avvenimenti, o perché collocatovi per rendere un servizio ecclesiale richiesto autorevolmente con insistenza. In tal modo Lazzati ha lasciato una testimonianza credibile delle possibilità che si danno di realizzare processi educativi anche in ambienti e situazioni particolarmente ostili e con strumenti lontani dal poter essere considerati ideali.

L’esempio più evidente della sua capacità di cogliere ogni situazione come opportunità educativa, Lazzati l’ha offerto durante il suo internamento nei​​ Lager​​ tedeschi tra il 1943 e il 1945. Un elevato numero di testimoni concorda nel ricordare che egli, in situazioni e condizioni «impossibili», si è distinto sia nell’aiutare, sostenere e animare coloro che condividevano l’internamento perché non cedessero alla disperazione e allo scoraggiamento e alle ripetute lusinghe del collaborazionismo, sia esercitando — a rischio di punizioni durissime e della vita stessa — una sistematica opera educativa con la creazione di una vera e propria «scuola» con «corsi regolari» per aiutare a prendere coscienza dei valori religiosi ed etici necessari per gettare i «fondamenti di ogni ricostruzione» della​​ pòlis​​ a misura d’uomo.

 

4.1. L’università

Per Lazzati, lo strumento educativo più congeniale è stato l’università. Nell’Università cattolica di Milano è entrato diciottenne come matricola e ne è uscito a 75 anni nel 1983, dopo avervi svolto i ruoli di docente di letteratura cristiana antica, di Preside della Facoltà di lettere e filosofia e, dal 1968, quello di Rettore. Lungo l’intero corso della vita accademica, Lazzati si è impegnato a fare dell’università il luogo in cui la sintesi tra ricerca scientifica, attività didattica e formazione permanente divenisse, come ha dichiarato, «lo stimolo a quella conquista di libertà, cioè a quella capacità di comportarsi da uomini liberi nel senso pieno del termine, da quello psicologico a quello morale, caratteristica suprema della persona».

Al fine di dare la massima efficacia a tale funzione educativa, Lazzati, nel periodo del suo rettorato, ha operato intensamente sia perché l’Università cattolica realizzasse i Centri di cultura di Alessandria, Benevento, Bolzano, Taranto, Lucca, e Varese al fine di creare uno stretto rapporto tra istituzione universitaria e territorio, sia per rinnovare le tradizionali settimane di aggiornamento culturale della Cattolica, trasformandole in appuntamento annuale destinato a stimolare il «pensare politicamente» nel paese, ben oltre l’ambito accademico. Nello stesso periodo Lazzati ha operato, con l’identico obiettivo formativo, promuovendo convegni attorno alla rivista «Vita e Pensiero».

 

4.2. L’apostolato laicale associato

Altro strumento privilegiato da Lazzati è stato l’apostolato laicale associato. Ciò dalla fine degli anni ’20, quando si è impegnato nell’associazione studentesca Santo Stanislao di Milano. Lazzati ha utilizzato pienamente e responsabilmente tale strumento per realizzare un’educazione capace di dare maturità al laicato in particolare come presidente della Federazione della Gioventù cattolica ambrosiana (effettiva tra il 1934 e il settembre 1943, momento del suo internamento nei​​ Lager​​ tedeschi; nominale fino al 1945 quando, tornato dalla prigionia, ha accolto le insistenze di amici e della gerarchia e si è dimesso per entrare nella politica attiva) e, successivamente, come presidente del Movimento laureati cattolici milanesi (1958-1961) e come presidente della Giunta unitaria dell’ACI di Milano, fino al momento della sua nomina a Rettore della Cattolica (1968).

 

4.3. Collaborazioni

Accanto e insieme all’apostolato laicale associato, Lazzati ha sempre riconosciuto alle forme associative la loro capacità di configurarsi come strumenti positivi per realizzare processi educativi di maturazione del laicato capaci di rendere storica l’«utopia» del regno. Egli ha testimoniato questa convinzione con un numero imprecisabile di collaborazioni offerte a sostegno di forme associative diverse. Collaborazioni che si sono configurate in suggerimenti, partecipazioni attive a giornate di studio, incontri, convegni, seminari, ecc. In questo senso va ricordata la partecipazione alle missioni sociali nel Mezzogiorno dell’immediato dopoguerra, alle associazioni professionali degli insegnanti, alle scuole superiori di scienze sociali fiorite in diverse diocesi negli anni ’50 e ’60, alle associazioni dei lavoratori cristiani e ai sindacati liberi, a numerose associazioni ecclesiali per l’animazione del temporale e, in particolare, a quelle deputate all’orientamento vocazionale.

 

4.4. La pubblicistica

Tra gli strumenti privilegiati da Lazzati per realizzare processi educativi va segnalata anche la pubblicistica. Senza voler considerare né le numerosissime collaborazioni occasionali né l’attività pubblicistica accademica, tenendo conto solo delle collaborazioni fisse prolungate, vanno ricordate quelle al settimanale della Gioventù cattolica milanese «Azione Giovanile» (1934-1943), a supporto dell’azione educativa condotta come presidente federale; a «Cronache Sociali» (19471951), tesa a realizzare una formazione politica; al quotidiano «L’Italia», nel periodo della sua direzione (1961-1964), tesa ad accompagnare e orientare una duplice transizione: dalla Chiesa di Pio XII a quella giovannea e conciliare e dal centrismo al centrosinistra; alla rivista «Vita e Pensiero», di cui ha progettato, promosso e diretto la nuova serie nel periodo del suo rettorato alla Cattolica (1968-1983); al quotidiano «Il Giorno» (1984-1986) per cogliere negli accadimenti ciò che favorisce o impedisce la costruzione della città dell’uomo a misura d’uomo.

 

5. Creazione di nuovi strumenti

L’esigenza avvertita come assoluta di dare storicità all’«utopia» del regno, ha mosso Lazzati non solo a utilizzare strumenti esistenti e da lui considerati efficaci per cogliere l’obiettivo. Tale esigenza l’ha sollecitato a collaborare con altri per creare nuovi strumenti, non necessariamente in sostituzione di quelli esistenti, ma come elementi capaci di rendere più dinamico e incisivo il processo educativo in specifiche congiunture storiche. In tal senso va ricordato l’impegno di Lazzati, nel periodo della sua attività parlamentare, per collaborare con Dossetti, Fanfani e La Pira per la creazione dei Gruppi Servire (1946) e per la creazione di «Cronache Sociali» (1947), al fine di educare a «pensare politicamente» per agire conseguentemente e coerentemente. Successivamente, va ricordato l’impegno di Lazzati per la ricostruzione su nuove basi dell’Istituto Sociale Ambrosiano (1957) per preparare i cattolici all’assunzione delle loro responsabilità di cittadini dello Stato democratico.

 

6. Nuove fondazioni

E poi indispensabile ricordare gli strumenti che Lazzati ha ideato e a cui ha dato vita, in linea con la sua volontà di dare storicità all’«utopia» del regno.

 

6.1. L’Istituto secolare Cristo Re

In tal senso, lo strumento che più d’ogni altro Lazzati ha sentito congeniale alla sua «utopia» e alla sua vocazione, è l’Istituto secolare Cristo Re, costituito nel 1939. Con esso, Lazzati ha dato forma storica, strutturale, istituzionale a una forma peculiare di vita cristiana che è quella della secolarità consacrata. Obiettivo prioritario dell’Istituto è quello di formare in modo permanente i propri membri a una maturità che consenta loro di affrontare, con conoscenza e coscienza, i propri impegni di cittadini di due città.

 

6.2. La «Scuola di fede»

Lazzati ha poi creato un’autentica «scuola di fede» con gli Incontri nell’Eremo di San Salvatore (Erba, CO, 1976). Gli incontri si sono configurati come un vero e proprio piano educativo per cui il giovane credente è guidato a divenire cosciente di essere chiamato alla comune vocazione cristiana alla santità in modo personale e peculiare.

 

6.3. L’associazione «Città dell’uomo»

Infine, in ordine di tempo, Lazzati ha creato, con un gruppo di amici da lui sollecitati, l’Associazione «Città dell’uomo» (1985) per «elaborare, promuovere, diffondere una cultura politica che, animata dalla concezione cristiana dell’uomo e del mondo, sviluppi l’adesione ai valori della democrazia [...], rispondendo alle complesse esigenze della società in trasformazione».

 

7. Testimonianza personale

Peraltro, lo strumento a cui Lazzati ha dedicato tutto il suo impegno per renderlo progressivamente capace di operare un’educazione autentica ed efficace, è stato sé stesso. Egli, si è sforzato di percorrere la propria vita come un cammino di ascesi continua verso l’«utopia» del regno cercando d’incarnarla anzitutto in sé, così da darne testimonianza con resistenza. Tanto che i suoi amici più cari, salutandolo un’ultima volta, l’hanno ricordato come maestro ascoltato soprattutto perché divenuto testimone di un’«utopia» che si fa storia progressivamente anche per l’azione dell’uomo impegnato secondo il piano di creazione e di redenzione, a ordinare il​​ caos​​ in​​ pòlis.

 

Bibliografia

Per le opere scientifiche di letteratura cristiana antica e di patrologia, cf​​ Bibliografia patrista di Giuseppe Lazzati,​​ in​​ Paradoxos politela.​​ Studi patristici in onore di Giuseppe Lazzati, a cura di R. Cantalamessa e L. F. Pizzolato, Vita e Pensiero, Milano 1979, pp. XXVII-XXXIV.

Opere di G. Lazzati sulla laicità e la spiritualità cristiana:​​ Maturità del laicato,​​ La Scuola, Brescia 1962;​​ La città dell’uomo,​​ AVE, Roma 1984;​​ Laicità e impegno cristiano nelle realtà temporali,​​ AVE, Roma 1985;​​ Per una nuova maturità deI laicato,​​ AVE, Roma 1986;​​ La preghiera del cristiano,​​ pref. di C. M. Martini, AVE, Roma 1986;​​ Chiesa, laici ed impegno storico,​​ pref. di C. M. Martini, Vita e Pensiero, Milano 1987;​​ Pensare politicamente,​​ pref. di M. e G. Glisenti, AVE, Roma 1988, 2 voll.

I «Quaderni di S. Salvatore», pubblicati dall’editrice AVE di Roma (1986-1988) presentano le relazioni tenute da Lazzati nell’Eremo di Erba (CO) tra il 1976 e il 1986 come base delle riflessioni su:​​ Il laico; La corporeità; La carità; La verità; La prudenza; La cultura; L’amore; Fede, ragione, storia.

Gli scritti relativi alla secolarità consacrata sono raccolti nel volume:​​ Consacrazione e secolarità,​​ pref. di J. Hamer, AVE, Roma 1987.

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LAZZATI Giuseppe
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