ISIDORO DI SIVIGLIA

 

ISIDORO DI SIVIGLIA

n. a Cartagena nel 562? - m. nel 636 a Siviglia, erudito, arcivescovo di Siviglia.

1. Attraverso le sue opere ed i suoi discepoli svolge un grande lavoro nella restaurazione culturale e spirituale della sua epoca, che darà luogo al cosiddetto «rinascimento isidoriano». Dopo le invasioni nordiche I. continua a trascrivere nel suo​​ scriptorium​​ di Siviglia buona parte degli umanisti classici, quelli dell’antichità cristiana, e i testi propedeutici elaborati per l’insegnamento da dotti e compilatori dell’epoca ellenistica. Nell’insieme monumentale delle sue opere raccoglie, classifica e ricolloca nell’universo isidoriano gli autori dell’antichità, avvalendosi di un metodo di lavoro​​ etimologico.​​ Ricerca gli elementi più semplici del sapere nella composizione-scomposizione delle parole; lavora sull’origine, le differenze, le antinomie, le omonimie, il significato. Salva così per i posteri il linguaggio scritto e orale, elemento di base di ogni cultura. Nell’apporto pedagogico di I. si evidenziano, soprattutto, le​​ Sentenze​​ o​​ Etimologie,​​ che rappresentano il primo tentativo di sistematizzazione del dogma e della morale cattolici. Nei XX libri delle​​ Origini​​ o​​ Etimologie,​​ I. riorganizza​​ enciclopedicamente​​ il sapere del suo tempo. I primi quattro libri sono dedicati al​​ trivium​​ e al​​ quadrivium,​​ una sintesi delle​​ ​​ arti liberali che avrà fortuna nelle scuole dell’alto​​ ​​ Medioevo.

2. Il contributo pedagogico di I. oltrepassa però i limiti dell’enciclopedia. Partendo dalla concezione cristiana, indica il fine dell’educazione in una teologia della salvezza. La formazione umana deve dare senso a tutte le​​ conoscenze,​​ che il processo educativo orienterà verso la​​ ​​ virtù. Questa, a sua volta, tende alla​​ ​​ saggezza cristiana. I doveri del saggio sono quelli di apprendere ed insegnare. Il​​ ​​ maestro, come dirà il IV Concilio di Toledo (633) presieduto dallo stesso I., sarà dotto, virtuoso, capace di adattarsi ad ogni tipo di intelligenza. Con le sue opere, I. realizza «una​​ praelectio​​ monumentale, una isagoge, un portico che consentirà l’ingresso prima alla rinascita carolingia e poi ai tre secoli seguenti» (P. Riché).

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ San I. de Sevilla. Etimologías. Introducción de M ª C. Diez Diez, Madrid, BAC, 2000. b)​​ Studi:​​ Riché P.,​​ Éducation et culture dans l’Occident barbare, Paris, Seuil,​​ 31962; Fontaine J.,​​ San I. de Sevilla. Génesis y originalidad de la cultura hispánica en tiempos de los visigodos,​​ Madrid,​​ Encuentro, 2002; Arce Martínez J.,​​ San I.,​​ Doctor Hispaniae, Sevilla, Fundación El Monte, 2002.

Á. Galino - Á. del Valle

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ISIDORO DI SIVIGLIA

ISLAMISMO

 

ISLAMISMO

Il termine (dall’arabo​​ islàm, sottomissione e abbandono a Dio) designa comunemente la fede (imān) e la religione (dīn) monoteista basata sulla predicazione di Maometto, considerato dai musulmani l’ultimo e definitivo profeta inviato da Dio (in arabo​​ Allāh).

1.​​ L’importanza del sapere religioso.​​ Un numero impressionante di versi coranici sottolinea la suprema importanza del sapere (‘ilm)​​ e la grande considerazione di Dio, nel senso di «sapere rivelato» (cfr. C 96,1-5; 58,11). Le raccolte canoniche delle tradizioni (hadith)​​ assegnano una posizione di prestigio a coloro che esaltano l’‘ilm.​​ Secondo alcune tradizioni, è dovere di ogni musulmano, uomo o donna, vecchio o giovane, acquisire il sapere: «La ricerca del sapere è obbligatoria per ogni musulmano» (Muhammad Ali,​​ A manual of hadith,​​ London, 1983, 39). L’individuo che ha familiarità con il «sapere rivelato» (‘alim)​​ è rispettato nell’Islam, e trasmettere tale sapere è una nobile occupazione. È risaputo che sin dalle origini la civiltà islamica ha dato notevoli contributi ai vari filoni dell’erudizione.

2.​​ Luoghi ed istituzioni.​​ Gli studi religiosi​​ ​​ incentrati intorno al Corano​​ ​​ furono portati avanti sia all’interno che intorno alla moschea, sede delle cinque preghiere liturgiche giornaliere. Qui si insegnava a recitare, leggere e scrivere il Corano, e anche i comandi rivelati e la dottrina della fede. Comparvero degli specialisti religiosi, gli Ulema, per recitare il Corano e imparare a memoria le Tradizioni. In breve tempo, quando dall’essenza di queste due fonti fondamentali fu ricavata la​​ sharî ‘a​​ (legge), gli Ulema divennero uomini le cui attività si focalizzavano sull’applicazione della legge e l’insegnamento delle capacità necessarie per farlo. Con il trascorrere del tempo, le moschee della congregazione (Jami’ masjid)​​ nelle cittadine e città più grandi divennero centri con un programma di studi più diversificato e complesso. La scuola coranica (maktab)​​ è l’istituzione ed il luogo in cui i bambini di quattro o cinque anni di età imparano a leggere e scrivere. Scopo principale di tale conoscenza è permettere al credente di leggere e recitare perlomeno alcune parti del Corano in modo corretto, un elemento essenziale del culto islamico, e rendere edotti sugli elementi di base e direttamente pertinenti alla legge religiosa. L’insegnante, tradizionalmente, era pagato ad intervalli, quando gli studenti progredivano nell’apprendimento del Corano. Dato che i moderni sistemi scolastici hanno sostituito oggi quello tradizionale, la scuola coranica è diventata un’istituzione in larga misura pre-scolastica o parallela a livello educativo per i bambini più piccoli. Un​​ madrasa​​ («un luogo dove studiare») è una scuola tradizionale di studi superiori, che presuppone la preparazione del​​ maktab.​​ Il​​ madrasa​​ in origine era più una residenza che un luogo separato di studi, dato che l’istruzione veniva impartita nella moschea stessa, con gli studenti seduti intorno al maestro. I​​ madrasa-s,​​ nel senso di scuole o​​ college​​ separati istituzionalmente, presero avvio in molte parti del mondo musulmano nell’XI sec., quando le autorità secolari lottarono per ottenere il controllo sulle istituzioni religiose. Tra i più famosi vi erano i madrasa «Nizamiyya» fondati dal visir Nizam al-Mulk (morto nel 1092) in Iraq e Persia, e l’Università al-Azhar fondata come scuola della moschea al Cairo nel 972, che sarebbe ben presto diventata il centro più famoso ed influente a livello mondiale della cultura musulmana. Persino questi​​ madrasa-s,​​ separati a livello di istituzione, erano comunque ospitati per lo più nei locali di una moschea. Anche nei conventi sufi (khanqah; tekke)​​ vi era molto spesso un​​ madrasa.​​ In vaste parti del mondo musulmano tradizionale, infatti, lo studio del Corano, delle tradizioni e della legge andavano di pari passo con l’iniziazione al cammino sufi di avvicinamento a Dio nella pratica (tariqa)​​ e nel pensiero (ma’rifa).​​ C’erano inoltre molte persone istruite che impartivano lezioni in uno o due filoni del sapere nelle loro case o nelle case di nobili. In molti stati musulmani medievali, i​​ madrasa-s​​ erano interamente finanziati dallo stato tramite concessione di terre e sotto forma di salari regolarmente pagati al corpo insegnante. Comunque, nella maggior parte dei casi, tanto allora quanto oggi, essi erano mantenuti dal sostegno pubblico, spesso sotto forma di donazioni pie (awqaf),​​ che comprendevano possedimenti di vario tipo che producevano rendite, ma anche sotto forma di denaro contante, abiti, attrezzature, ecc. che venivano offerti regolarmente e periodicamente. I​​ matktab-s​​ e i​​ madrasa-s​​ sono sempre stati aperti a tutti. Il sapere religioso nelle società islamiche non è mai stato prerogativa solo delle classi più elevate o di alcune famiglie: gli Ulema persino oggi continuano ad appartenere ad uno spaccato della società, più in particolare la classe dei piccoli uomini d’affari, degli artigiani e di quelle professioni con redditi più bassi. Grazie alle borse di studio e ad uno stile di vita molto semplice, l’istruzione del​​ madrasa​​ è accessibile ai figli della gente comune.

3.​​ Metodi.​​ Per quanto riguarda i metodi di trasmissione del sapere, non si nota una differenza tra i livelli elementare ed avanzato. Le materie che erano insegnate nei​​ madrasa-s​​ consistevano nel commento al Corano, nella tradizione e nella legge islamica (per es.​​ manqul:​​ le scienze trasmesse), ma anche nella filosofia, medicina, scienze naturali, lingue e musica (per es.​​ ma’qul:​​ le scienze razionali). Fino a non molto tempo fa gli studenti sedevano in cerchio intorno al proprio insegnante, che leggeva loro ad alta voce e spiegava un testo scritto dagli insegnanti stessi, oppure commentava il testo di un autore precedente. Di norma gli studenti non dovevano prendere appunti durante la lezione. Una volta imparato a memoria il materiale spiegato, essi ottenevano dall’insegnante una licenza (ijaza)​​ che li autorizzava a trasmettere ciò che avevano appreso ad altri. Occorre sottolineare il carattere orale di questo metodo di trasmissione del sapere: ancora nel XX sec. il sapere acquisito unicamente sulla base di testi scritti, era considerato inaffidabile. L’insegnante e le opere studiate contavano più del nome dell’istituzione e del contenuto in quanto tale, tant’è vero che esisteva la consuetudine di viaggiare da un insegnante all’altro. Come indica un manuale pedagogico del XIII sec.: «Riconosci che (il tuo maestro) è padre della tua anima e causa della sua creazione e essenza della sua vita, così come il tuo genitore è padre del tuo corpo e della sua esistenza» (cit. in F. Robinson,​​ Atlas of the Islamic World since 1500,​​ 34). I​​ madrasa-s​​ si rivelarono un modello per le università europee. Dai​​ madrasa-s​​ di Fatimid in Egitto, ad es., si diffusero delle tradizioni come quella di indossare le toghe nere da​​ college​​ e la divisione in facoltà pre- e post-laurea. I testi del passato non menzionano praticamente alcun insegnante di sesso femminile; alcune donne, specialmente di nobile retaggio, acquisirono un’istruzione islamica di alto livello, ma solo in tempi più recenti vennero fondati dei​​ madrasa-s​​ per ragazze, soprattutto nel sud e sud-est asiatico.

4.​​ Situazione contemporanea.​​ L’istruzione istituzionalizzata dei​​ madrasa-s,​​ come si ritrova nella maggior parte del mondo musulmano di oggi, sembrerebbe aver perso molto di quel tipo di qualità personale dell’insegnamento che nel passato incoraggiava la ricerca individuale. Ciò che praticamente non è cambiato è la tendenza conservatrice insita nel sistema dei​​ madrasa-s.​​ Compito dell’educazione dei​​ madrasa-s​​ dovrebbe essere quello di indicare la via in una formula definitiva, che lo studente deve tentare di mantenere «pura» fino all’Ultimo Giorno, di trasmetterla ed interpretarla. Si imparano così molte enunciazioni fisse a memoria, senza la necessità di comprenderle e l’enfasi è posta più sull’imparare come le cose dovrebbero essere alla luce della rivelazione che sul riflettere criticamente sugli eventi passati e futuri ed imparare da essi. La premura di conservare ciò che potrebbe andare perduto ha molta più importanza del tentativo di scoprire quali aspetti della verità sono ancora nascosti. Agli studenti «sono insegnate materie che non hanno praticamente alcun peso sulla loro vita quotidiana, perché sono apparentemente preparati ed addestrati per diffondere il «messaggio divino» in una società moderna e cosmopolita senza i moderni strumenti del sapere» (Mushirul Haq,​​ Islam in Secular India,​​ Simla, 1972, 40). L’esistenza di​​ madrasa-s​​ privati ha creato una dicotomia nel sistema scolastico: da una parte ci sono le istituzioni secolari moderne,​​ college​​ ed università, dove i figli e le figlie dell’élite possono permettersi un’istruzione moderna, dall’altra ci sono i​​ madrasa-s​​ gestiti privatamente che attraggono i figli delle classi inferiori oppresse. Molti comitati e conferenze sono stati organizzati da vari governi per aiutare a migliorare questi​​ madrasa-s​​ ed integrarli nel più ampio sistema scolastico nazionale. Ma il divario tra l’istruzione secolare e l’insegnamento teologico si è continuamente allargato. Il sistema dei​​ madrasa-s​​ è intimamente collegato al problema dell’identità della comunità musulmana. Come sistema integrato e globale, l’Islam ha una propria concezione della storia, della società, dell’economia e della cultura, una visione che è stata forzatamente propugnata dagli Ulema e dai loro​​ madrasa-s.​​ Ciò spiega la lotta tra i modernisti progressisti che vogliono reinterpretare, ricostruire e ridefinire i principi dell’Islam ed i conservatori Ulema, il prodotto di questi​​ madrasa-s,​​ che tenacemente si aggrappano ai modelli tradizionalisti di vario tipo a spese di una rielaborazione creativa della società musulmana e del pensiero religioso islamico nel mondo contemporaneo.

Bibliografia

Moreno M. M.,​​ L’I. e l’educazione,​​ Milano, Istituto Editoriale Galileo, 1951; Ritton A. S.,​​ Materials on Muslim education in the Middle Ages,​​ London, Luzac, 1957; Eickelmann D.,​​ The art of memory: Islamic knowledge and its social reproduction,​​ in «Comparative Studies in Society and History» 20 (1978) 485-516; Al-Attas M. Al-Naquib,​​ Aims and objectives of Islamic education,​​ Jeddah, King Abdulaziz University, 1979; Makdisi G.,​​ The rise of colleges,​​ Edinburgh, University Press, 1981; Rahman F.,​​ Islam and modernity. Transformation of an intellectual tradition,​​ Chicago / London, University of Chicago Press, 1982; Robinson F.,​​ Atlas of the Islamic world since 1500,​​ Oxford, Phaidon, 1982; Schreiner P. et al.,​​ Le cinque grandi religioni del mondo.​​ Induismo,​​ Buddismo,​​ I.,​​ Cristianesimo, Brescia, La Scuola, 2002.

C. W. Troll

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ISLAMISMO

ISOCRATE

 

ISOCRATE

Vissuto ad Atene tra il 436 e il 338 a.C., retore greco.

1.​​ Contesto.​​ I. riveste una particolare importanza in una fase significativa per la definitiva strutturazione della cultura e della pedagogia dell’antica​​ ​​ Grecia. Inizialmente​​ logografo​​ (scrittore di discorsi), nel 393 apre ad Atene la sua scuola di retorica, che gli attira grande fama e con la quale influisce in modo determinante sulla scuola del periodo ellenistico e su tutta la successiva corrente umanistica. Fu alunno dei sofisti Prodico e Gorgia, ma non fu, probabilmente, estraneo all’influsso di​​ ​​ Socrate.

2.​​ L’ideale del retore.​​ Pur continuando la tradizione sofistica, porta a perfezione​​ «l’arte della parola»,​​ la retorica, non solo per la forma letteraria, ma anche per l’importanza e la dignità da lui riconosciuta alla parola nella vita dell’umanità e nella cultura: essa ci distingue dagli animali; nulla d’importante avviene senza la parola. In ciò I. si differenzia sia dalla scuola platonica, che riduceva la retorica a strumento della dialettica, sia dalla scuola dei​​ ​​ Sofisti in cui la parola era svilita a strumento, quasi neutro, di convincimento per qualsiasi opinione. Il retore, per I., non poteva prescindere dal mettere la parola al servizio dei più grandi valori umani e farne mezzo di comunicazione di questi stessi valori sia nell’ambito personale che in quello politico. Senza giungere alla pretesa della conoscenza assoluta della​​ verità​​ (e in ciò si distingue dalla scuola di​​ ​​ Platone), I. non può accontentarsi del gioco utilitaristico delle​​ opinioni​​ al modo dei Sofisti. La​​ doxa​​ (opinione) cui guarda riveste per lui la dignità del bene raggiungibile nell’onestà della ricerca umana, attraverso l’uso della parola. La retorica è, così, inseparabilmente connessa con l’etica.

3.​​ La formazione del retore.​​ In questa linea I. si propone come educatore, formatore di altri maestri di retorica, di politici, più ampiamente di uomini saggi. Questo, in sintesi, per lui il paradigma dell’uomo formato,​​ come lo descrive nel suo​​ Panathenaikòs​​ (30-33): dignità, accortezza, equità, giusta valutazione delle situazioni, cortesia, costanza e autodominio, ponderatezza, giusta considerazione di sé, disinteresse. In questo compito educativo I. si distingue sia dalla superficialità imputata ai Sofisti, sia dall’astrattezza dell’utopia di Platone, per un vivo senso di serietà / eticità e di concretezza, rispondente alla realtà della vita. Si fondono quindi per un risultato unitario due ambiti di educazione: quella tecnica dell’arte della parola e quella più intima e comprensiva della formazione umana. La scuola di retorica di I. presuppone la scuola primaria e secondaria (fino ai 14 anni), ormai comunemente accolte nelle città greche, con i contenuti indicati per la pedagogia greca nel binomio​​ ginnastica​​ e​​ musica​​ (nel senso «letterario» del termine), cui aggiunge la​​ matematica​​ e l’eristica,​​ quale parziale contatto con la dialettica filosofica. Per l’apprendimento dell’arte del discorso la scuola di I. esige alcune​​ doti di natura,​​ indispensabili per il retore. Il suo insegnamento contempla una parte​​ teorica,​​ non molto sviluppata; dà invece grande spazio all’esercizio.​​ Esso comprende in particolare lo studio e l’imitazione di modelli, attuando il binomio modello-imitazione (paràdeigma​​ e​​ mìmesis).​​ In concreto I. presentava i suoi stessi discorsi come modelli. Importante era la partecipazione (discussione, dialogo) dei discepoli alla formazione stessa del discorso. Il contatto personale determinava un clima di familiarità e di amicizia, che costituiva un elemento qualificante della scuola di I. e rendeva possibile attuare uno dei requisiti da lui ribaditi: la funzione di modello del maestro (e, a raggio più ampio, del retore). Questo clima permise pure che le relazioni con i suoi illustri discepoli si protraessero, in molti casi, anche dopo gli anni (3 o 4) della scuola, quando essi si trovavano nel disimpegno di importanti responsabilità nella vita pubblica. Oltre all’aspetto tecnico e metodologico, e con importanza formativa anche maggiore, I. si preoccupava della scelta dei temi, mai banali o leggeri, ma, contro ogni formalismo, in accordo con il valore e la dignità della parola e con la dimensione etica. In tal modo lo stesso impegno di ricerca e di elaborazione della parola diventava approfondimento di valori e orientamento di vita, preparando anche alla missione sociale legata alla professione del retore e facendone un testimone dei valori che doveva difendere.

4.​​ Le due scuole.​​ Abbiamo accentuato la diversificazione della retorica di I. e della sua pedagogia sia nei riguardi dei Sofisti, che nei riguardi di Platone. Sarebbe però unilaterale fermarsi a una pura contrapposizione. L’apporto specifico di I. si apprezza in un più completo quadro della cultura e della​​ ​​ paideia​​ greca; in esso prende valore la continuità con l’azione culturale svolta dai Sofisti, che in lui assume una più incisiva valenza pedagogica, e l’integrazione con la dimensione filosofica di Platone. Va infatti richiamata l’importanza delle due scuole che si affrontano in questo quarto sec. e delle due dimensioni,​​ filosofica​​ e​​ retorica / letteraria,​​ che caratterizzeranno sempre lo sviluppo successivo della cultura greca.

5.​​ Incidenza e risonanza.​​ L’importanza dell’azione di I. si misura anche dall’influsso che ha esercitato sulla​​ paideia​​ greca del successivo periodo ellenistico e su tutta la tradizione della scuola umanistica. Il suo impegno, non riuscito, per un’unione panellenica di tutte le città greche e per la salvaguardia dell’eredità culturale della Grecia, lo portò a promuovere il superamento della contrapposizione tra greci e barbari proprio in nome della cultura: greci si è più per la cultura che per il sangue. Per questo, sia pur con qualche enfasi, I. fu detto padre dell’umanesimo. È indubitabile il successo avuto dal suo ideale di​​ paideia,​​ che resterà punto di riferimento anche nella formazione dell’orator​​ dell’humanitas​​ romana.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ I.,​​ Orazioni,​​ a cura di A. Argentari e C. Gatti, Torino, UTET, 1965. b)​​ Studi:​​ Cecchi S.,​​ La pedagogia di I.,​​ in «Rivista di Studi Classici» (1959) 3; Cloché P.,​​ I. et son temps, Paris, Les Belles Lettres, 1963; Proussis C. M., «L’oratore: I.», in​​ Gli ideali educativi. Saggi di storia del pensiero pedagogico,​​ Brescia, La Scuola, 1972; Marrou H. I.,​​ Storia dell’educazione nell’antichità,​​ Roma, Studium, 1994; Masaracchia A.,​​ I. Retorica e politica, Roma, GEI, 1995;​​ Saïd S. - M. Trédé - A. Le Boulluec,​​ Histoire de la littérature grecque,​​ Paris, P.U.F., 1997.

M. Simoncelli

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ISOCRATE

ISPETTORE

 

ISPETTORE

Persona che su incarico ufficiale svolge funzioni sia di controllo e monitoraggio delle attività, del funzionamento e delle attrezzature / strutture delle scuole, sia di sostegno tecnico ai processi formativi.

1. Da un punto di vista comparativo, più cresce la centralizzazione del sistema formativo (​​ amministrazione scolastica) e maggiore diviene la probabilità che la funzione ispettiva sia concepita come controllo. Se invece prevale la tendenza al decentramento e all’autonomia, essa si sposta verso il sostegno e la consulenza. In alcuni Paesi la valutazione delle prestazioni dei docenti durante un’ispezione può pesare sulla promozione. La categoria è di solito articolata in un ruolo di livello nazionale, federale o statale e in un secondo, più ampio, di carattere regionale, dipartimentale o locale. Altri due tipi di distribuzione si fondano sulle materie o sui livelli scolastici. Inoltre, i sistemi centralizzati intendono l’i. come parte integrante del ministero e come un funzionario dello Stato; altri gli riconoscono un certo grado di indipendenza. Una tendenza in atto mira ad attribuire all’i. un ruolo centrale nello sviluppo della qualità della scuola.

2. In​​ ​​ Italia già con la L. Casati n. 3725 / 1859 l’i. occupava una posizione importante ed è stato concepito secondo il modello centralistico. Un notevole cambiamento si è prodotto con i decreti delegati del 1974 che hanno seguito due principi: da una parte hanno riorganizzato la funzione ispettiva in un quadro unitario; dall’altra l’hanno pensata come l’attività di esperti professionali ai fini dell’accertamento tecnico-didattico, l’aggiornamento e la sperimentazione: questa impostazione è stata consacrata nel Testo Unico in materia di istruzione (D.L.vo n. 297 / 94). Il DPR n. 347 / 00 e la normativa seguente sulla riorganizzazione del Ministero non hanno abolito la figura dell’i. tecnico, ma sono accusati di aver iniziato un processo che potrebbe portare alla sua sparizione di fatto, perché avrebbero introdotto il concetto di «dirigente con funzioni tecniche» che non sarebbe la stessa cosa dell’i. tecnico. Pertanto la funzione ispettiva tecnica andrebbe ridefinita da un punto di vista organizzativo e funzionale in un rapporto unitario con la dirigenza amministrativa e scolastica e cercando di valorizzare la sua terzietà autonoma.

Bibliografia

Vincenzi V., «I.», in M. Laeng (Ed.),​​ Enciclopedia pedagogica,​​ vol. IV, Brescia, La Scuola, 1990, 6239-6240; Watson J. K. P., «School inspectors and supervision», in T. Husen - T. N. Postletwaite (Edd.),​​ The International encyclopedia of education,​​ Oxford, Pergamon Press,​​ 21994, 5247-5252;​​ Gli i. tecnici: una risorsa per l’autonomia delle scuole, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1998; Capaldo N. - L. Rondanini,​​ Gestire e organizzare la scuola dell’autonomia, Trento, Erickson, 2002.

G. Malizia

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ISPETTORE

ISTITUTI DI CATECHETICA

 

ISTITUTI DI CATECHETICA

Il termine I. di catechetica indica istituzioni con finalità e compiti notevolmente diversi tra loro.

1.​​ Istituti di specializzazione cat. a livello non universitario, indirizzati a sacerdoti, religiosi e religiose, laici e laiche, con finalità di formazione cat. di base, di aggiornamento, di animazione. Per es. → “Lumen Vitae” (Bruxelles), “East Asian Pastoral Institute” (Manila). Il modello formativo di “Lumen Vitae” ha ispirato altri istituti, per es. quello di Butare (Ruanda).

Dopo il 1968, con la riforma degli studi ecclesiastici, alcuni di questi istituti hanno cercato convenzioni con facoltà di teologia per poter conferire titoli ecclesiastici.

2.​​ Istituti di specializzazione cat. a livello universitario, generalmente destinati a persone che hanno già espletato un ciclo di studi teologici. Per es. → “Institut Supérieur de Pastorale Catéchétique” (Paris 1950), “Istituto di catechetica” (Roma, UPS, 1954).

3.​​ Strettamente imparentati con la categoria precedente sono tutti gli istituti (o seminari) di catechetica che a livello universitario promuovono la formazione degli insegnanti di religione. Spesse volte vengono chiamati “Istituti di scienze religiose”. Si rivolgono principalmente a laici e laiche che percorrono un ciclo universitario (2 anni; 4 anni) che permette di insegnare la religione nelle scuole secondarie.

4.​​ Una particolare categoria sono gli istituti di studio, di promozione, di animazione e di aggiornamento. Per es. “Hoger Katechetisch Instituut” (Nijmegen), “Katechetisches​​ Institut” (Wien).

Per ulteriori informazioni consultare le voci che si riferiscono ai diversi paesi.

Joseph Gevaert

ISTITUTO DI CATECHETICA (Roma-UPS)

1.​​ Storia.​​ La nascita dell’IdC dell’Università Pontificia Salesiana di Roma (= UPS) risale al tempo del riconoscimento ufficiale (3-5-1940) dell’allora “Pontificio Ateneo Salesiano” con sede in Torino. Fu lo stesso fondatore dell’Ateneo Salesiano, don Pietro Ricaldone, 4° successore di san Giovanni Bosco, come Superiore generale della Società Salesiana, a volere una “speciale scuola di catechetica” nell’ambito dell’Istituto Superiore di Pedagogia. La scelta di inserire la catechetica nel quadro della pedagogia cristiana non è stata casuale, ma esprimeva la specifica presenza salesiana in questo settore. È significativo un intervento personale di san Giovanni Bosco nel​​ Io​​ Capitolo generale della Società Salesiana a proposito della redazione di un trattato di eloquenza sacra per gli studenti salesiani di teologia: “Bisogna che questo trattatello non riguardi esclusivamente la predicazione, sì bene anche l’educazione da darsi ai giovani. Bisogna incarnarvi il nostro sistema di educazione preventivo” (Memorie biografiche di San Giovanni Bosco,​​ vol. 13, Torino 1932, 292).

Per don P. Ricaldone tutto l’Ateneo Salesiano doveva avere una connotazione pastorale-catechetico-educativa (cf F. Rastello,​​ Don P. Ricaldone,​​ vol. II, Roma, Ed. SDB, 1976, 468s), mentre a livello di diffusione delle idee e dell’animazione pastorale delle diocesi doveva provvedervi il → Centro catechistico salesiano con annessa l’editrice LDC.

Gli anni della seconda guerra mondiale ritardano lo sviluppo dell’ambizioso progetto, e occorre attendere l’anno accademico 1954-1955 perché l’IdC metta in opera per la prima volta un programma organico di specializzazione in catechetica, peraltro ancora modesto: sono previsti corsi di teologia dell’educazione, catechetica I e II, storia della catechesi, psicologia della religione.

Il 2-7-1956 la S. Congregazione dei Seminari e delle Università erige canonicamente l’Istituto Superiore di Pedagogia (= ISP) con capacità di conferire i gradi accademici. Negli Statuti viene approvata la specializzazione in catechetica che contempla, dopo un biennio di “discipline comuni” di tipo pedagogico, le seguenti materie: metodologia catechetica, questioni monografiche di metodologia cat., sintesi della dottrina cattolica per l’istruzione cat., psicologia e sociologia della religione, pastorale giovanile, C. biblica e liturgica, storia della C.

Nel 1958 l’IdC, con gli altri Istituti dell’ISP, si trasferisce a Roma (via Marsala 42), e inizia un processo di vigoroso potenziamento sia con l’istituzione di nuove cattedre e l’arrivo di nuovi docenti, sia con l’avvio di attività di ricerca e di sperimentazione, soprattutto nel settore dell’IR. Da queste ricerche e sperimentazioni avrà origine un’ampia gamma di testi di religione come​​ La scoperta del Regno di Dio​​ e​​ Progetto uomo​​ (ed. LDC).

Nel 1965 l’Ateneo Salesiano si trasferisce, al completo delle sue 5 Facoltà, nella nuova sede di Piazza dell’Ateneo Salesiano, e il 24-5-1973 il papa Paolo VI con il motu proprio “Magisterium vitae” lo eleva al grado di Università ecclesiastica romana.

Gli Statuti dell’UPS del 1971 danno origine a un ulteriore ampliamento dei programmi di catechetica, mentre aumenta notevolmente il numero degli studenti iscritti per il curricolo triennale per la licenza (dopo la preparazione filosofico-teologica di base) e per il biennio del diploma, raggiungendo ogni anno il centinaio.

Con i nuovi Statuti dell’8-12-1982 viene istituita nell’UPS la “Struttura dipartimentale di pastorale giovanile e catechetica”, in cui collaborano pariteticamente la Facoltà di Teologia e di Scienze dell’Educazione. L’IdC ha, nella nuova struttura didattica, un particolare ruolo di competenza e di animazione, congiuntamente all’Istituto di Pastorale della Facoltà teologica.

2.​​ Ricerche, pubblicazioni, iniziative.​​ Le attività e le ricerche dell’Istituto di catechetica si trovano riflesse in numerose pubblicazioni:

— Per la​​ formazione dei catecheti​​ sono stati approntati successivamente studi di alta divulgazione, come il volume di P. Braido (ed.),​​ Educare. Sommario di scienze pedagogiche,​​ Torino, PAS, 1956. Nella seconda edizione (1960) il 2° volume è interamente dedicato alla catechetica. Così pure il 3° volume nella terza edizione (1964). Nel 1971, dopo le prime esperienze dei bienni estivi di “pedagogia catechistica”, prende il via l’ambiziosa collana “Quaderni di pedagogia catechistica” (usciranno in pochi anni ben 16 volumi presso l’ed. LDC), sostituita, a partire dal 1983, dalla nuova serie “Studi e ricerche di catechetica” (sono apparsi finora una decina di volumi).

— La teoria e la pratica​​ deWinsegnamento della religione​​ è stato uno dei settori particolarmente curati dallTdC. Oltre ai testi di religione già menzionati, sono da ricordare i sussidi per la scuola elementare (Viva la vita, 5​​ vol., 1977-1984, LDC),​​ Religione e Vangelo oggi in Italia​​ per la scuola media (3 vol., 1981-1983, LDC),​​ «Dossier giovani” (28 volumetti apparsi negli anni ’70). Sul piano della ricerca empirica e teoretica, l’Istituto ha promosso numerose indagini nelle scuole italiane (cf G. C. Milanesi,​​ Religione e liberazione,​​ Torino, SEI, 1971), documentazioni e confronti a livello internazionale (Scuola e religione.​​ Vol. I:​​ Una ricerca internazionale,​​ Leumann-Torino, LDC, 1971) e italiano (Scuola e religione.​​ Vol. II:​​ Situazione e prospettive in Italia,​​ ivi, 1973;​​ Insegnare la religione oggi,​​ 2 vol., ivi, 1977).

— I corsi non universitari di formazione catechetica​​ si susseguono ininterrottamente dal 1965 durante il periodo estivo (fino al 1973 al Passo della Mendola, successivamente in Val Badia-Bolzano). Dopo la formazione generale cat. sviluppata negli anni del dopo-Concilio, i corsi hanno ora un carattere piuttosto monografico a seconda delle richieste delle diocesi italiane: i’IR, la formazione dei catechisti, l’iniziazione cristiana con i preadolescenti e i giovani, ecc.

— A livello di​​ consulenza e di scambi internazionali,​​ i docenti dell’Istituto sono impegnati nella collaborazione con i Dicasteri competenti della Curia romana, con l’Ufficio cat. nazionale della​​ CEI,​​ con l’Équipe​​ européenne​​ de​​ catéchèse,​​ in seminari di studio bilaterali con gruppi di docenti tedeschi e spagnoli. A livello di studenti, hanno avuto un grande significato i viaggi di studio internazionali a Bruxelles, Nimega, Madrid, Parigi, Monaco, Lyon, Israele.

Bibliografia

J. Gevaert, 25​​ anni dell’Istituto di Catechetica...,​​ in “Orientamenti Pedagogici” 26 (1979) 724-731; G. Malizia – E. Alberich (ed.),​​ A servizio dell’educazione.​​ La Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Pontificia Salesiana, Roma, LAS, 1984.

Roberto Giannatelli

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ISTITUTI DI CATECHETICA

ISTITUTO

 

ISTITUTO

I latini usarono la parola​​ institutio​​ nel senso di educazione e istruzione. Con questo significato la usarono​​ ​​ Quintiliano (Institutiones oratoriae),​​ s.​​ ​​ Girolamo, Lattanzio e​​ ​​ Vives (Institutio foeminae christianae).​​ Il termine indicò anche il luogo nel quale veniva impartita l’educazione, regola e modo di vivere nei diversi ordini religiosi. Importante fu l’Institut de France,​​ che raggruppava le cinque accademie create con la legge del 23 agosto 1795, ed aveva il compito di raccogliere le scoperte e di perfezionare le scienze e le lettere. Di grande interesse per lo sviluppo della pedagogia europea contemporanea fu l’Institut Jean-Jacques Rousseau des Sciences de l’Éducation,​​ fondato il 21 ottobre 1912 a Ginevra in occasione del secondo centenario della nascita di Rousseau. I suoi fondatori furono​​ ​​ Claparède e P. Bovet e intorno ad esso lavorarono medici, psicologi e pedagogisti di chiara fama, come​​ ​​ Ferriè­re,​​ ​​ Dottrens, P. Rosselló,​​ ​​ Piaget e molti altri. In esso si formarono varie generazioni di professionisti dell’educazione di tutti i paesi europei. Altri importanti i. a carattere pedagogico sono stati il​​ Zentral Institut für Erziehung und Unterricht​​ creato a Berlino nel 1915 e l’I. pedagogico di Vienna (1868), l’I. pedagogico J. A. Comenio di Praga (1919), l’I. di Psicologia e Pedagogia di Tilburg in Olanda (1915), l’Institute of International Education​​ di New York e l’I. Superiore di Pedagogia di Torino (1941).

Bibliografia

L’I. educativo assistenziale,​​ Roma, Amministrazione per le Attività Assistenziali, 1969;​​ The world of learning,​​ London, Europa Publications, 1986;​​ Annuario DEA delle università e i. di studio e ricerca in Italia,​​ Roma, DEA, 1988.

B. Delgado

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ISTITUTO

ISTITUTO DI CATECHETICA – Roma – UPS

ISTITUTO DI CATECHETICA (Roma-UPS)

1.​​ Storia.​​ La nascita dell’IdC dell’Università Pontificia Salesiana di Roma (= UPS) risale al tempo del riconoscimento ufficiale (3-5-1940) dell’allora “Pontificio Ateneo Salesiano” con sede in Torino. Fu lo stesso fondatore dell’Ateneo Salesiano, don Pietro Ricaldone, 4° successore di san Giovanni Bosco, come Superiore generale della Società Salesiana, a volere una “speciale scuola di catechetica” nell’ambito dell’Istituto Superiore di Pedagogia. La scelta di inserire la catechetica nel quadro della pedagogia cristiana non è stata casuale, ma esprimeva la specifica presenza salesiana in questo settore. È significativo un intervento personale di san Giovanni Bosco nel 1° Capitolo generale della Società Salesiana a proposito della redazione di un trattato di eloquenza sacra pergli studenti salesiani di teologia: “Bisogna che questo trattatello non riguardi esclusivamente la predicazione, sì bene anche l’educazione da darsi ai giovani. Bisogna incarnarvi il nostro sistema di educazione preventivo”​​ (Memorie biografiche di San Giovanni Bosco,​​ vol. 13, Torino 1932, 292).

Per don P. Ricaldone tutto l’Ateneo Salesiano doveva avere una connotazione pastorale-catechetico-educativa (cf F. Rastello,​​ Don P. Ricaldone,​​ vol. II, Roma, Ed. SDB, 1976, 468s), mentre a livello di diffusione delle idee e dell’animazione pastorale delle diocesi doveva provvedervi il → Centro catechistico salesiano con annessa l’editrice LDC.

Gli anni della seconda guerra mondiale ritardano lo sviluppo dell’ambizioso progetto, e occorre attendere l’anno accademico 1954-1955 perché l’IdC metta in opera per la prima volta un programma organico di specializzazione in catechetica, peraltro ancora modesto: sono previsti corsi di teologia dell’educazione, catechetica I e II, storia della catechesi, psicologia della religione.

Il 2-7-1956 la S. Congregazione dei Seminari e delle Università erige canonicamente l’Istituto Superiore di Pedagogia (= ISP) con capacità di conferire i gradi accademici. Negli Statuti viene approvata la specializzazione in catechetica che contempla, dopo un biennio di “discipline comuni” di tipo pedagogico, le seguenti materie: metodologia catechetica, questioni monografiche di metodologia cat., sintesi della dottrina cattolica per l’istruzione cat., psicologia e sociologia della religione, pastorale giovanile, C. biblica e liturgica, storia della C.

Nel 1958 l’IdC, con gli altri Istituti dellTSP, si trasferisce a Roma (via Marsala 42), e inizia un processo di vigoroso potenziamento sia con l’istituzione di nuove cattedre e l’arrivo di nuovi docenti, sia con l’avvio di attività di ricerca e di sperimentazione, soprattutto nel settore dell’IR. Da queste ricerche e sperimentazioni avrà origine un’ampia gamma di testi di religione come​​ La scoperta del Regno di Dio​​ e​​ Progetto uomo​​ (ed. LDC).

Nel 1965 l’Ateneo Salesiano si trasferisce, al completo delle sue 5 Facoltà, nella nuova sede di Piazza dell’Ateneo Salesiano, e il 24-5-1973 il papa Paolo VI con il motu proprio “Magisterium vitae” lo eleva al grado di Università ecclesiastica romana.

Gli Statuti dell’UPS del 1971 danno origine a un ulteriore ampliamento dei programmi di catechetica, mentre aumenta notevolmente il numero degli studenti iscritti per il curricolo triennale per la licenza (dopo la preparazione filosofico-teologica di base) e per il biennio del diploma, raggiungendo ogni anno il centinaio.

Con i nuovi Statuti dell’8-12-1982 viene istituita nell’UPS la “Struttura dipartimentale di pastorale giovanile e catechetica”, in cui collaborano pariteticamente la Facoltà di Teologia e di Scienze dell’Educazione. L’IdC ha, nella nuova struttura didattica, un particolare ruolo di competenza e di animazione, congiuntamente all’Istituto di Pastorale della Facoltà teologica.

2.​​ Ricerche, pubblicazioni, iniziative.​​ Le attività e le ricerche dell’Istituto di catechetica si trovano riflesse in numerose pubblicazioni:

— Per la​​ formazione dei catecheti​​ sono stati approntati successivamente studi di alta divulgazione, come il volume di P. Braido (ed.),​​ Educare. Sommario di scienze pedagogiche,​​ Torino, PAS, 1956. Nella seconda edizione (1960) il 2° volume è interamente dedicato alla catechetica. Così pure il 3° volume nella terza edizione (1964). Nel 1971, dopo le prime esperienze dei bienni estivi di “pedagogia catechistica”, prende il via l’ambiziosa collana “Quaderni di pedagogia catechistica” (usciranno in pochi anni ben 16 volumi presso l’ed. LDC), sostituita, a partire dal 1983, dalla nuova serie “Studi e ricerche di catechetica” (sono apparsi finora una decina di volumi).

— La teoria e la pratica dtlVinsegnamento della religione​​ è stato uno dei settori particolarmente curati dall’IdC. Oltre ai testi di religione già menzionati, sono da ricordare i sussidi per la scuola elementare​​ (Viva la vita,​​ 5 vol., 1977-1984, LDC),​​ Religione e Vangelo oggi in Italia​​ per la scuola media (3 vol., 1981-1983, LDC),​​ “Dossier giovani”​​ (28 volumetti apparsi negli anni ’70). Sul piano della ricerca empirica e teoretica, l’Istituto ha promosso numerose indagini nelle scuole italiane (cf G. C. Milanesi,​​ Religione e liberazione,​​ Torino, SEI, 1971), documentazioni e confronti a livello internazionale (Scuola e religione.​​ Vol. I:​​ Dna ricerca internazionale,​​ Leumann-Torino, LDC, 1971) e italiano (Scuola e religione.​​ Vol. II:​​ Situazione e prospettive in Italia,​​ ivi, 1973;​​ Insegnare la religione oggi,​​ 2 vol., ivi, 1977).

—​​ I corsi non universitari di formazione catechetica​​ si susseguono ininterrottamente dal 1965 durante il periodo estivo (fino al 1973 al Passo della Mendola, successivamente in Val Badia-Bolzano). Dopo la formazione generale cat. sviluppata negli anni del dopo-Concilio, i corsi hanno ora un carattere piuttosto monografico a seconda delle richieste delle diocesi italiane: l’IR, la formazione dei catechisti, l’iniziazione cristiana con i preadolescenti e i giovani, ecc.

— A livello di​​ consulenza e di scambi internazionali,​​ i docenti dell’Istituto sono impegnati nella collaborazione con i Dicasteri competenti della Curia romana, con l’Ufficio cat. nazionale della CEI, con l’Équipe européenne de catéchèse, in seminari di studio bilaterali con gruppi di docenti tedeschi e spagnoli. A livello di studenti, hanno avuto un grande significato i viaggi di studio internazionali a Bruxelles, Nimega, Madrid, Parigi, Monaco, Lyon, Israele.

 

Bibliografia

J. Gevaert,​​ 25 anni dell’Istituto di Catechetica...,​​ in “Orientamenti Pedagogici” 26 (1979) 724-731; G.​​ Malizia -​​ E.​​ Alberich​​ (ed.),​​ A servizio dell’educazione.​​ La Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Pontificia Salesiana, Roma, LAS, 1984.

Roberto Giannatelli

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ISTITUTO DI CATECHETICA – Roma – UPS

ISTITUZIONE e giovani

 

ISTITUZIONE: e giovani

Per i. si intende un insieme di modelli di comportamento che caratterizzano un determinato gruppo sociale e che gli permettono di rispondere ai​​ ​​ bisogni e alle aspirazioni orientati verso il raggiungimento degli scopi sociali.

1.​​ Presupposti.​​ L’i. assume accezioni diverse (organizzazione, associazione, complesso di valori, modelli di comportamento) ma non si confonde con esse. Anzi, le presuppone, poiché richiede: un determinato livello di​​ organizzazione​​ per il perseguimento sistematico dei fini predefiniti;​​ l’associazione​​ di persone che svolgono funzioni socialmente rilevanti, per esempio nella scuola, negli ospedali, nei partiti, nelle cooperative, ecc.; un complesso di​​ ​​ valori, usi, costumi e norme che regolano una sfera dell’esistenza sociale; un​​ modello​​ o schema di​​ ​​ comportamento socialmente riconosciuto.

2. Prospettive di base.​​ Due prospettive di base sono all’origine del concetto: una che proviene da una forte associazione tra natura umana e cultura e un’altra dall’associazione tra valori / fini e cultura. La prima, di orientamento funzionalista, intende l’i. nel quadro dell’analogia tra società e organismi viventi. Le i. sono forme complesse di mediazione simbolica orientate alla regolamentazione di funzioni generali della vita sociale (riproduzione,​​ ​​ socializzazione, produzione, governo, controllo, ecc.). Esse costituiscono il modo con cui la vita sociale trova continuazione nel tempo in quanto la società organizza le strutture orientate alla soddisfazione dei bisogni sociali. Il concetto è collegato a quello di ruolo e di status: mentre il ruolo è connesso al comportamento che si attende da una persona che occupa una determinata posizione nella società, lo status sociale costituisce la condizione dell’insieme dei soggetti che assumono ruoli specializzati. L’i. è quindi composta da una struttura complessa di ruoli specializzati o modelli di comportamento che si associano attorno ad un’attività fondamentale o ad un bisogno sociale. La seconda prospettiva associa il concetto di i. a quello di cultura, nel senso che gli atti che si compiono sono caratterizzati da motivazioni profonde o disposizioni del bisogno indotte dall’interiorizzazione di valori e di norme. La cultura tende a orientare il soggetto verso determinati valori la cui significatività trova consenso nella società. Essi rappresentano mete da raggiungere, provocano le motivazioni, suscitano i bisogni che attivano il soggetto all’azione: la regolarità delle azioni dà origine a modelli di comportamento che vengono spesso istituzionalizzati per dare una risposta organizzata ed efficiente ai suoi bisogni.

3.​​ I.​​ e attori sociali.​​ L’i. richiede un minimo di consenso attorno ai valori costituiti a partire dai processi di socializzazione e di interiorizzazione dei valori e dalle pratiche comuni come le norme sociali, i costumi e la moralità. Attraverso tali processi gli attori sociali tendono ad assimilare le forme consolidate delle rappresentazioni, dei modelli di comportamento, dei ruoli e delle regole che costituiscono l’i. Se, da una parte, i soggetti della socializzazione vengono condizionati dai modelli istituzionali esistenti, come quelli familiari, educativi, economici e politici, dall’altra, essi tendono ad innovarli, a dare significato a particolari aspetti della cultura da cui derivano nuovi riferimenti valoriali e modelli di comportamento che orientano sia il cambiamento delle i. che l’insorgere di altre più adatte a rispondere ai bisogni emergenti.

4. L’i. educativa.​​ Soprattutto durante il periodo evolutivo giovanile, essa svolge una particolare funzione nei processi di socializzazione e interiorizzazione delle norme, delle rappresentazioni e dei valori sociali, il che rinforza il consenso attorno alle i. Essa fornisce ai soggetti un bagaglio culturale che li rende integrati nella società a cui appartengono, ma coglie anche le loro nuove domande e l’emergere di nuovi valori e bisogni che tendono ad innovarla e a renderla sempre attuale. Mentre le generazioni adulte tendono a esprimere la loro adesione alle i. in forma più accentuata, i​​ ​​ giovani avvertono più spesso l’eventuale rigidità e resistenza delle i. al cambiamento. Risultato di un consenso, le i. si formano e si trasformano con gli uomini e con le situazioni; esse si rinnovano o decadono a seconda della loro capacità di rispondere ai bisogni emergenti.

5.​​ La nascita o il cambiamento delle i.​​ Si attua attraverso il​​ processo di istituzionalizzazione​​ che può evolversi sia in forma naturale che positiva. Nel primo caso esso è il frutto della lenta elaborazione di un quadro di riferimenti valoriali dove vengono codificate le regole, sedimentate le nuove rappresentazioni (usi, costumi e tradizioni) e giuridicamente riconosciuti gli atteggiamenti collettivi. Nel senso positivo la normativa giuridica precede la formazione di una nuova i. che si sviluppa in base ad un costume esistente. Si deve infine considerare che il processo di istituzionalizzazione si presta al controllo sociale sia da parte del sistema politico che educativo, attraverso meccanismi che tendono a rinforzare le i. stabilite e a controllare i processi di socializzazione promossi dalla scuola, dalla famiglia e dai mezzi di comunicazione.

Bibliografia

Freund J.,​​ Théorie du besoin,​​ in «L’Année Sociologique»​​ (1971) 13-64; Gallino L.,​​ La società. Perché cambia,​​ come funziona,​​ Torino, Paravia, 1980; Garelli F., «I.», in M. Midali - R. Tonelli (Edd.),​​ Dizionario di pastorale giovanile,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1989, 468-474; Moscato M. T., «Istituzionalizzazione», in M. Laeng (Ed.),​​ Enciclopedia pedagogica,​​ vol. IV. Brescia, La Scuola, 1990, 6253-6257; Toscano M. A. (Ed.),​​ Introduzione alla sociologia,​​ Milano, Angeli,​​ 71993.

G. Caliman

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ISTITUZIONE e giovani

ISTITUZIONI

ISTITUZIONI

Franco Garelli

 

1. La definizione

2. Il concetto nella tradizione sociologica

3. L’atteggiamento dei giovani nei confronti delle istituzioni in una società altamente differenziata

3.1. La rivalutazione delle istituzioni

3.2. Flessibilità, selettività, tolleranza

3.3. La considerazione affettiva della famiglia

3.4. Un lavoro per la realizzazione personale

3.5. Una scuola per migliorare le possibilità di inserimento sociale

3.6. Selettività e tolleranza nei confronti delle istituzioni religiose

3.7. L’atteggiamento ambivalente dei giovani appartenenti all’associazionismo religioso-ecclesiale

 

1. La definizione

Nelle scienze sociali si fa in genere riferimento a una accezione ristretta e a una accezione allargata del termine istituzione. Con la prima si intende indicare quell’insieme di valori, norme, consuetudini che «definiscono e regolano, durevolemente e in modo relativamente indipendente da finalità particolari e caratteristiche personali dei singoli componenti, a) i rapporti sociali e i comportamenti di un gruppo di soggetti la cui attività è considerata socialmente rilevante per la struttura della società o di importanti settori di essa, e b) i rapporti che altri soggetti possono avere a vario titolo con tale gruppo, nonché i relativi comportamenti». Nell’accezione più estesa invece il termine istituzione viene utilizzato anche per indicare sia il personale stesso che attraverso il suo impegno rende possibile l’attuazione e la riproduzione del complesso di norme e di rapporti di cui si è detto; sia le risorse materiali (l’insieme cioè di apparati, strutture, strumenti, procedure, ecc.) che risultano necessarie per l’attuazione e lo svolgimento dell’attività in questione. Nel primo caso il termine istituzione si applica a realtà quali, ad esempio, il matrimonio, il divorzio, l’istruzione, la proprietà privata, la successione ereditaria, ecc.; nel secondo caso si utilizza il termine istituzione per indicare realtà come la famiglia, la scuola, lo stato, la chiesa, ecc.

In sintesi, il concetto di istituzione tende a indicare quei rapporti sociali e quei comportamenti di gruppo che sono socialmente rilevanti, caratterizzati nel tempo da elevata regolarità e prevedibilità (insieme, ovviamente, al complesso di valori, di norme e di apparati che rendono possibile detti rapporti e comportamenti). Proprio il carattere di stabilità e di prevedibilità dei rapporti sociali in questione è l’aspetto più evidenziato da quanti — nella tradizione sociologica — hanno analizzato il ruolo delle istituzioni nella società.

 

2. Il concetto nella tradizione sociologica

Nei «Principi di Sociologia» H.​​ Spencer riconduce una vasta gamma di fenomeni sociali (lo stato, la legislazione, la moda, la proprietà, la religione, il sacerdozio, il sindacalismo, il lavoro, le professioni, ecc.) a cinque classi di istituzioni, ritenute gli «organi» della società e intese — alla stregua di modelli culturali — come «forme di azione, di condotte di vita, di credenze, che caratterizzano in modo stabile una collettività»; le istituzioni del cerimoniale, le istituzioni politiche, le istituzioni ecclesiastiche, quelle professionali e le istituzioni industriali.

Secondo W. G. Summer il fondamento della vita sociale in generale, e delle istituzioni in particolare, è da individuare nei costumi collettivi e nei «mores»; col primo termine l’autore intende riferirsi alle usanze collettive assimilate dagli individui attraverso meccanismi di imitazione o di ripetizione (e poi trasformate in modelli di comportamento), mentre il secondo termine viene applicato agli aspetti normativi che regolano ufficialmente i costumi collettivi. Sempre a detta di Summer, le istituzioni si distinguono poi in naturali e positive, in spontanee e internazionali, ritenendo le prime quelle che si sviluppano per forza interna, in modo autonomo, e le seconde quelle che si costituiscono «artificialmente in base a un disegno».

Si deve a E. Durkheim l’iniziale convinzione che la sociologia sia la scienza delle istituzioni sociali. Preoccupato, come è noto, di non esaurire le dinamiche sociali nella sfera «delle rappresentazioni, delle motivazioni, della coscienza dell’individuo», di affermare l’oggettività dei fatti sociali e la loro irriducibilità rispetto alla coscienza soggettiva, Durkheim individua l’oggetto specifico della sociologia nelle istituzioni, in quelle realtà non immediatamente trasparenti e perlopiù sconosciute nelle loro cause o nelle funzioni che esercitano nella società e nelle leggi della loro evoluzione, ma che di fatto preesistono agli individui stessi. Nella prefazione di «Les règles de la Méthode sociologique» Durkheim definisce istituzione «ogni credenza e forma di condotta istituita dalla collettività». L’interesse di Durkheim non si è orientato soltanto all’analisi delle uniformità (rilevabili sulla base dell’esistenza delle istituzioni) «individuabili nei fatti sociali, ma anche alle modalità attraverso cui gli individui — inseriti in un processo di consolidamento istituzionale​​ —​​ interiorizzano le norme, le credenze, le condotte socialmente riconosciute». Quest’ultimo aspetto — l’interiorizzazione delle norme sociali — è stato oggetto di particolare approfondimento da parte di M. Weber, interessato a rilevare le modalità attraverso le quali un ordinamento sociale (norme e istituzioni) viene legittimato dagli individui e dai gruppi sociali. A detta di Weber, la validità delle varie norme e istituzioni non si fonda soltanto sull’influenza esercitata dal costume sociale sugli individui o sul fatto che dette norme e istituzioni rispondono a specifici interessi dei soggetti. Oltre a ciò un criterio di legittimazione di norme e istituzioni è da individuare nel processo di interiorizzazione di determinati valori, la cui funzione è di orientare l’azione sociale dei soggetti e di vincolare la loro presenza sociale. Inoltre la legittimità di norme e di istituzioni emerge — paradossalmente — nel momento stesso in cui queste vengono violate o sconfessate da alcuni gruppi sociali. La validità che viene socialmente riconosciuta alle sanzioni o alle azioni repressive messe in atto a seguito della violazione delle norme e delle istituzioni da parte di alcuni gruppi sociali, indica infatti indirettamente il grado di legittimazione sociale che caratterizza le norme e le istituzioni in oggetto.

Anche T. Parsons ha prestato particolare attenzione al processo di interiorizzazione delle norme e delle istituzioni nella società. Secondo questo autore la conformità ai valori che si riscontra in una società «tende a formare particolari disposizioni di bisogno che caratterizzano la struttura della personalità dei soggetti. Si ha qui una prospettiva teorica nella quale appaiono integrate le strutture della personalità con gli elementi culturali e con l’organizzazione del sistema sociale. Alla conformità del comportamento di ruolo alle norme e ai valori emessi dalla cultura, i soggetti sono spinti, oltre che dall’interiorizzazione, anche dalla gratificazione soggettiva che tale adesione comporta. La convergenza tra il comportamento del soggetto e le aspettative che in rapporto ad esso si producono nell’interazione tra un soggetto e l’altro è uno dei fattori che più contribuiscono all’equilibrio del sistema sociale».

 

3. L’atteggiamento dei giovani nei confronti delle istituzioni in una società altamente differenziata

Il quadro concettuale e problematico qui presentato offre le coordinate culturali e di dibattito sociologico entro le quali affrontare in generale il tema delle istituzioni sociali. All’interno però di questo scenario di apporti e di problemi la stesura della voce «istituzione» (nell’ambito di un dizionario di pastorale giovanile) deve essere orientata a rilevare i processi sociali che più caratterizzano o condizionano la presenza delle giovani generazioni negli spazi istituzionali, con particolare riferimento alle dinamiche che attraversano la socializzazione religiosa e più in generale il rapporto dei soggetti con le istituzioni religiose. E ciò privilegiando ovviamente — nella necessità di operare delle scelte di campo — le dinamiche più recenti, quelle relative alle condizioni di vita delle giovani generazioni nella società contemporanea, in un contesto fortemente segnato dai caratteri della differenziazione sociale e del pluralismo culturale.

 

3.1. La rivalutazione delle istituzioni

Proprio la marcata esposizione dei giovani d’oggi a un clima sociale assai differenziato e pluralistico rappresenta il punto di ingresso nell’analisi del modo con cui le giovani generazioni si rapportano alle istituzioni sociali. Recenti indagini sulla condizione giovanile nei paesi occidentali (e in particolare nel nostro) attestano che la grande maggioranza dei giovani si caratterizza per una socializzazione «differenziata», componendo nella propria esistenza quella molteplicità di appartenenze, di condizioni di vita e di riferimenti culturali che in genere è considerata come un tratto costitutivo di una personalità informata in senso forte dall’esperienza della modernità. I giovani d’oggi esprimono nelle loro esperienze, istanze, sensibilità, la caratteristica di estrema differenziazione del nostro sistema sociale. Essi non confinano la loro esistenza prevalentemente all’interno di istituzioni alle quali era ufficialmente demandata nel passato la funzione formativa (come potevano essere la famiglia e la scuola), né attribuiscono a tutte le loro esperienze e appartenenze un significato prevalentemente unitario.

Oltre che stare in famiglia o nella scuola o nel mondo del lavoro, essi fanno parte del gruppo dei pari (gruppo amicale), hanno molteplici interessi, moltiplicano i luoghi e le occasioni di incontro, fanno esperienze diverse (alle quali attribuiscono grande importanza per il loro personale arricchimento), appartengono — in molti casi — a gruppi e movimenti organizzati. Abbiamo pertanto a che fare con un giovane che risponde alla complessità sociale (all’estrema differenziazione del sistema sociale) con il moltiplicare le appartenenze, le esperienze, le iniziative, gli interessi; con un giovane che in luogo di confinare la sua esistenza in ambiti ristretti e ufficialmente riconosciuti tende a sperimentare e a conoscere in modo autonomo, nel tentativo di essere attivo nel determinare la propria vita quotidiana, quanto è nella sfera delle proprie possibilità.

Questa pratica di differenziazione sociale, questa esposizione a molteplici ambienti e modelli di vita, ha indubbiamente varie ripercussioni nell’orientamento culturale delle giovani generazioni. Tra queste, due risultano di particolare rilievo per l’analisi che qui si sta conducendo. Una prima generale conseguenza riguarda la refrattarietà dei giovani a identificarsi con una sola appartenenza o con appartenenze impegnative. Prevale un modello culturale da socializzazione «aperta», grazie al quale il soggetto individua nella pendolarità tra molti ambienti, appartenenze e condizioni di vita, un criterio di arricchimento della personalità. La vita dei soggetti non sembra più ancorata a una sola condizione, a un riferimento culturale prevalente, ad appartenenze messe in atto nel segno della continuità e della congruenza interna.

Questa varietà di ambienti e di appartenenze abitua il giovane a non avere (né ricercare) un punto di riferimento preciso, affidandosi quindi a un modello di realizzazione assai articolato e vario. Una seconda conseguenza (direttamente collegata alla precedente) è individuabile nel fatto che sovente i giovani hanno difficoltà a ridefinire la loro identità in rapporto alle diverse appartenenze e ambienti in cui sono inseriti, ai diversi riferimenti culturali con cui vengono in contatto. Nell’affacciarsi a contesti sociali e culturali molteplici e diversi, il giovane si espone al rischio della dissociazione, alla difficoltà di comporre istanze e valori eterogenei, se non opposti. Sovente più che la logica della composizione prevale l’atteggiamento eclettico, proprio di chi in luogo di avvertire l’esigenza di ordinare le varie esperienze e i vari modelli culturali, tende a modellarsi diversamente a seconda degli ambienti e delle circostanze.

 

3.2. Flessibilità, selettività, tolleranza

Il modo con cui le giovani generazioni si rapportano alle istituzioni rispecchia indubbiamente i caratteri di flessibilità di atteggiamento e di refrattarietà a maturare forti identificazioni or ora descritti come tipici d’una condizione di modernità. Al riguardo, molte indagini hanno rilevato una certa qual riconsiderazione delle istituzioni tradizionali da parte delle giovani generazioni, atteggiamento questo che sembrerebbe da un lato antitetico alla cultura della differenziazione sociale e che dall’altro lato segnalerebbe una marcata diversità di posizione degli attuali giovani rispetto alla generazione che li ha immediatamente preceduti. In altri termini: relativamente al primo aspetto non si verifica la plausibile previsione che un soggetto inserito in un clima socio-culturale molto differenziato abbia a caratterizzarsi per la caduta dei riferimenti tradizionali, per la progressiva perdita di influenza delle prospettive istituzionali di realizzazione; e relativamente al secondo aspetto, si osserva che nei confronti delle istituzioni l’atteggiamento delle giovani generazioni non riproduce quel clima di conflittualità e di opposizione che informava lo stile di vita della generazione precedente di coetanei.

Affermare che i giovani d’oggi rivalutano le istituzioni o che non maturano più nei confronti di esse atteggiamenti conflittuali o oppositivi, non significa però ritenere che dette istituzioni rappresentino per questi soggetti un riferimento positivo o luoghi di precisa identificazione. L’atteggiamento di flessibilità e di allentamento dei rapporti sociali — tratto costitutivo di un’esperienza di differenziazione sociale — sembra essere ad un tempo alla base della rivalutazione delle istituzioni da parte dei giovani e del fatto stesso che esse non abbiano a rappresentare poli significativi di riferimento. «I giovani, in altri termini, attribuiscono alla loro esposizione istituzionale un significato particolare, che risulta comprensibile soltanto se lo si ricollega all’allargata pratica di differenziazione che caratterizza la loro esistenza. L’ipotesi è che l’atteggiamento di maggior considerazione o tolleranza che caratterizza i giovani nell’inserimento istituzionale derivi loro dal fatto di essere esposti a molteplici appartenenze ed esperienze nella società, dall’essere inseriti in un contesto pluralistico di riferimento, dall’esprimere un modello di socializzazione assai aperto e articolato. In tal modo quella istituzionale viene considerata come una tra le tante appartenenze, si presenta come svuotata d’un carattere totalizzante, non viene interpretata in termini univoci. Nel quadro dei molteplici ambiti di realizzazione il giovane può rivalutare appartenenze e riferimenti istituzionali, in quanto questi assolvono a necessità che non vengono avviate a soluzione in altri ambiti di vita, da altre appartenenze».

In sintesi, stato, famiglia, scuola, chiesa, partiti, ecc., sono istituzioni nelle quali il giovane non si identifica anche se sta all’interno di alcune di esse, anche se nei riguardi di esse non è più caratterizzato — come avveniva per i giovani di 15-20 anni fa — da atteggiamenti contestativi. Il rapporto che i giovani sembrano avere con queste realtà non è di piena identificazione, ma nemmeno di marcato rifiuto. Emerge una posizione intermedia, più flessibile e duttile a seconda delle varie circostanze, più attenta a considerare gli aspetti che possono recare un apporto positivo alla soluzione dei propri problemi e a tralasciare gli altri nel segno della tolleranza. Si delinea quindi un giovane realista nel suo stare all’interno delle istituzioni, che sa distinguere gli aspetti interessanti da quelli problematici, che sa far leva sugli elementi positivi per avviare a soluzione le proprie contraddizioni, senza mai rompere o identificarsi del tutto con le varie realtà in cui è chiamato a vivere. In altri termini, prevale un atteggiamento strumentale nei confronti della realtà istituzionale, proprio di chi rivaluta aspetti e istituzioni nelle quali deve per forza di cose stare e che possono essere funzionali alla formazione dell’identità personale (le cosiddette istituzioni da «vita quotidiana»), e avvolge nell’oblio o nell’insignificanza altre istituzioni avvertite come maggiormente estranee rispetto alle proprie esigenze e sensibilità.

 

3.3. La considerazione affettiva della famiglia

Esemplificando, si può osservare che oggi il giovane tende a rimanere all’interno del nucleo familiare d’origine sia perché esso appare il luogo più economico per vivere (il costo della vita aldifuori del nucleo familiare risulta infatti assai elevato), sia perché l’età dell’effettiva autonomia di vita per il giovane tende sempre più a procrastinarsi. Ma oltre a ciò, molte indagini attestano una certa qual rivalutazione «affettiva» della famiglia da parte del giovane. Interrogati sul rapporto in famiglia, la maggior parte dei giovani risponde che tra genitori e figli vi sono opinioni diverse, ma che queste non costituiscono un impedimento al «volersi bene», all’affetto. Non si tratta di divergenze di poco conto, dal momento che interessano perlopiù aspetti essenziali della vita, quali il modo di concepire il rapporto di coppia, la concezione del denaro, l’educazione dei figli, la concezione e l’organizzazione della famiglia, ecc. La dimensione affettiva sembra però superare le reali divergenze di opinione, il distacco generazionale tra padri e figli imputabile a un processo di socializzazione profondamente differente. In un contesto sociale come l’attuale, caratterizzato da profonda incertezza e insicurezza, il giovane può rivalutare l’ambito familiare per la risposta che a questo livello tale ambiente può assicurare. La famiglia permette comunque al giovane di maturare un’identificazione, accetta perlopiù il giovane, risulta con lui tollerante, gli offre quella sicurezza che in molti casi egli non ha rispetto al futuro, al suo sbocco occupazionale, alle possibilità di scelta; la famiglia inoltre può rappresentare — per la biografia del soggetto — uno spazio e una possibilità di continuità che controbilancia in qualche modo la forte discontinuità di esperienze e di appartenenze a cui il giovane si espone in una società pluralistica e differenziata. La considerazione affettiva della famiglia da parte dei giovani sembra determinarsi anche in rapporto al fatto che la famiglia d’oggi non è più in grado di coinvolgere in senso forte la vita del giovane (non si caratterizza più per questa pretesa o accetta il dato di fatto di rapporti familiari più allentati), dal momento che essa rappresenta (di fatto, ma anche nell’intenzionalità dei diretti protagonisti) soltanto uno dei molteplici ambienti e luoghi di appartenenza, tra i quali il giovane scandisce la sua vita quotidiana.

In sintesi, la considerazione affettiva non significa rivalutazione​​ tout court​​ della famiglia da parte dei giovani, dal momento che essa avviene senza che si abbia a registrare un processo di marcata identificazione dei soggetti con l’ambito familiare. In particolare, la famiglia non sembra in grado di affermare nel tempo presente la funzione di incontro dialettivo e dialogico tra generazioni diverse, tra persone caratterizzate da differenti processi di socializzazione. Non si innescherebbe cioè quella dinamica tra generazioni, tra i vari membri della famiglia, che può arricchire le reciproche esperienze o che aiuta il giovane — insieme alla dimensione affettiva — a maturare una propria identità e a inserirsi gradualmente e criticamente nel contesto sociale.

 

3.4. Un lavoro per la realizzazione personale

L’atteggiamento di attenzione e nello stesso tempo di non piena identificazione che caratterizza le giovani generazioni nel loro inserimento in famiglia si ritrova anche nella concezione ed esperienza lavorativa. La grande maggioranza dei giovani esprime indubbiamente una forte esigenza di lavoro, ma questa esigenza non si accompagna nei giovani a una identificazione nel modello del lavoro come valore, dal momento che emerge anche in questo campo un atteggiamento prevalentemente strumentale. L’obbiettivo non è tanto quello di recare un contributo alla società, di migliorare il proprio status sociale, di identificarsi col sistema, di modificare l’organizzazione del lavoro, quanto — prevalentemente — di ritrovare nel lavoro una possibilità di personale realizzazione. Si tratta di una possibilità che risulta diversa a seconda della differente occupazione dei giovani. Nel complesso questo orientamento non indica che i giovani d’oggi siano insensibili ai problemi sociali, così centrati sulla propria condizione da perdere di vista i fattori di alienazione presenti nella attuale divisione e organizzazione del lavoro, presentino una carenza di riflessività circa il contesto in cui sono inseriti o non abbiano più la coscienza dei condizionamenti sociali. Ma soltanto che essi avvertono che i problemi sociali sono più complessi della propria capacità di comprensione e di intervento, e che la modifica delle condizioni strutturali del lavoro appare remota rispetto alle loro possibilità e prospettive. Uno stato d’animo di impotenza sociale e politica sembra produrre nei giovani l’orientamento a ricercare negli ambienti in cui vivono obiettivi realistici, che possono avviare a soluzione i problemi che la vita quotidiana loro pone.

 

3.5. Una scuola per migliorare le possibilità di inserimento sociale

Molte indagini attestano che, rispetto a quanti hanno vissuto la loro giovinezza 15-20 anni or sono, gli attuali giovani appaiono meno conflittuali anche nei confronti della scuola, riscoprono il valore dello studio, dimostrano una maggior disponibilità all’apprendimento, presentano una minor contestazione del ruolo degli insegnanti e dei contenuti dello studio. Questa disponibilità nei confronti della scuola e dello studio non indica però che i giovani non siano disincantati verso l’istruzione o la formazione loro impartita. Anche gli attuali giovani sembrano aver coscienza dello scollamento tra titolo di studio e possibilità di trovare un’occupazione con esso congruente, della separatezza che si determina in molti casi tra scuola e vita quotidiana, tra scuola ed esperienza sociale. Di fatto però le minori alternative sociali e politiche sembrano spingere i giovani a ricercare anche in termini scolastici quegli aspetti che più possono favorire la formazione della loro personalità, che più li aiutano a ridefinire la loro identità, senza attendersi che la presenza in questa istituzione risolva i problemi di autonomia e di inserimento nella società.

In sintesi, anche nei confronti della scuola prevale da parte dei giovani quella considerazione «personalizzata» della presenza che caratterizza in generale il loro atteggiamento nei confronti delle istituzioni. L’istituzione scolastica viene valutata per gli apporti positivi o negativi che può offrire per la propria biografia, per le opportunità di inserimento sociale e professionale. In altri termini — rispetto alla generazione giovanile precedente — i giovani d’oggi non contestano la scuola in quanto apparato ideologico, in quanto luogo di trasmissione della cultura dominante, in quanto ambiente preposto alla riproduzione socio-culturale; né affidano alla scuola — in modo acritico e fideistico — la speranza di migliorare senz’altro la propria posizione sociale, considerandola per definizione un veicolo di modalità sociale. In luogo di ciò essi domandano un ambiente socialmente e culturalmente efficiente, in grado di dare un contributo alla loro generalizzata ricerca di migliori opportunità non soltanto di inserimento sociale ma anche di realizzazione personale.

 

3.6. Selettività e tolleranza nei confronti delle istituzioni religiose

L’atteggiamento ad un tempo di considerazione e di distacco caratterizza anche il rapporto degli attuali giovani con l’istituzione ecclesiale. Anche la chiesa non è più oggetto di contestazione da parte dei giovani, come invece avveniva 15-20 anni or sono. I giovani sembrano essersi svestiti dei «pregiudizi» nei confronti della chiesa e rivalutare l’azione che questa istituzione può svolgere per la salvaguardia della pace, per la promozione della giustizia nella società, per l’aiuto ai gruppi sociali marginali, per la funzione di integrazione della collettività. Di fatto però, mentre rivalutano soprattutto il dover essere della chiesa, mentre risultano disponibili ad accettare una funzione sociale delle strutture religiose in campi nei quali le forze laiche risultano insufficienti, i giovani sono assai critici nei confronti di alcune modalità di presenza sociale della chiesa e indifferenti o contrari ai dettami del magistero ecclesiale soprattutto nel campo della morale sessuale e familiare. In sintesi, i giovani sembrano rivalutare della Chiesa più l’azione sociale che quella religiosa, più il dover essere di questa istituzione che il modo con cui essa di fatto opera nella società, più l’impegno generale nella società a difesa di alcune categorie sociali che l’azione di magistero o la funzione specificamente educativa.

Questo atteggiamento di distinzione si riscontra in molte pieghe dell’esistenza giovanile. Così le giovani generazioni possono prestare attenzione all’istruzione ecclesiale e nello stesso tempo essere tiepidi verso specifiche azioni della chiesa nella società; possono essere attratti dal papa per ciò che egli rappresenta in termini di visibilità sociale e nello stesso tempo risultare refrattari al messaggio che egli annuncia; possono esprimere una domanda religiosa e nel contempo rifiutare la funzione di mediazione religiosa esercitata dall’istituzione ecclesiale; possono essere ben disposti nei confronti di alcune figure sacerdotali o religiose e verso alcune esperienze di chiesa e indifferenti verso la chiesa in generale. In altri termini, anche in rapporto alla chiesa i giovani possono sottolineare alcuni aspetti di interesse, che appaiono congruenti con le loro aspettative, e tralasciare altre realtà su cui la distanza culturale appare più pronunciata.

 

3.7. L’atteggiamento ambivalente dei giovani appartenenti all’associazionismo religioso-ecclesiale

Elementi di ambivalenza circa il modo in cui ci si rapporta all’istituzione ecclesiale — e più in generale ci si pone nei confronti della stessa proposta di fede — sono individuabili anche per i giovani «orientati religiosamente», per quei soggetti giovanili che individuano nella fede religiosa un criterio di riferimento per la vita quotidiana e che possono essere inseriti nei gruppi-movimenti religioso-ecclesiali. A questo proposito uno degli elementi di ambivalenza è stato individuato nel fatto che le aspettative nei confronti dell’appartenenza religiosa possono essere non tanto di tipo religioso, quanto legate alla possibilità di trovare nell’associazionismo o nella socializzazione ecclesiale «una risposta al problema dell’identità, all’esigenza di autoaffermazione, alla tensione alla realizzazione, alla ricerca di libera espressione, tutti aspetti assai marcati» nell’età immediatamente postadolescenziale.

Oltre a ciò, anche i giovani appartenenti all’associazionismo di matrice religioso-ecclesiale risultano «informati da atteggiamenti e orientamenti — tipici delle attuali condizioni di vita — che possono risultare non congruenti con una prospettiva di fede o col quadro di valori e riferimenti proposto esplicitamente in queste realtà associative». Anche tra i giovani di quest’area associativa possono emergere, per esempio, atteggiamenti di refrattarietà alle appartenenze impegnative, alle proposte «educative» e «religiose» costringenti. Ciò in quanto molti giovani non esauriscono la loro esperienza all’interno del gruppo religioso o tendono a non ordinare — sulla base di un determinato quadro di valori — le varie esperienze e appartenenze di cui essi si rendono protagonisti nelle dinamiche della vita quotidiana.

 

Bibliografia

Garelli F.,​​ La generazione della vita quotidiana. I giovani in una società differenziata, Il Mulino, Bologna 1984; Garelli F.,​​ Jeunesse et foi dans une société différenciée. Extranéité cui tu rei le et besoin d’i dentité,​​ in​​ «Sécularisation et religion. La persistance des tensions», Actes de la XIX conférence internationale de sociologie des religions, Tubingen 1987.

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ISTITUZIONI

ISTITUZIONI EDUCATIVE

 

ISTITUZIONI EDUCATIVE

L’insieme delle organizzazioni sociali con specifiche strutture, quadri di riferimento culturali, procedure e modelli di comportamento, a vario titolo riferibili all’aiuto sociale e personale di formazione. Per questo nel linguaggio pedagogico si parla anche di i. formative. Nel linguaggio sociologico e in quello della comunicazione sociale si usa frequentemente la terminologia «agenzie educative» o «agenzie formative».

1.​​ I.e. e responsabilità socio-educativa.​​ Le i.e. rappresentano l’organizzazione concreta, socialmente riconosciuta e per lo più giuridicamente regolata, della responsabilità educativa, sia personale che comunitaria. In questa linea esse vengono ad essere il modo sociale di corrispondere fattivamente al diritto / dovere che ogni persona / cittadino ha di crescere, di svilupparsi e di formarsi (e da cui derivano i diritti all’educazione, all’istruzione e allo studio). Le i.e. sono l’ambito in cui, di fatto e di diritto, si realizza l’educazione intenzionale, vale a dire la mole di interventi mirati e organizzati al conseguimento delle finalità educative (​​ fine dell’educazione). In tal senso rappresentano l’espressione più cospicua dell’educazione formale, rispetto a tutto il mondo dell’educazione non formale, occasionale, informale, ecc.

2. I.e. e sviluppo sociale.​​ La storia delle i.e. è parte rilevante della storia dell’educazione e della pedagogia. L’approccio socio-educativo ne fa l’oggetto diretto della sua indagine. A motivo della loro intrinseca inserzione nella vicenda storica sociale, si può affermare che c’è una storia e una geografia delle i.e. Come le altre i. sociali, anche le i.e. sono soggette ad un processo storico di complessificazione, di mutamento e di specializzazione, parallelo e concomitante al grado di sviluppo della vita sociale. Così, in società primitive, si ha la preponderanza educativa dell’i. familiare patriarcale o del clan, accanto all’educazione informale nel vissuto della realtà comunitaria; anche se non mancano forme speciali d’iniziazione, come ad es. «la scuola della foresta» in certe tribù africane o l’educazione cavalleresca nel medioevo europeo. In società intermedie – come nelle società a prevalenza agricola e rurale o dove comunque predominano mentalità e modelli comportamentali pre-industriali – accanto alla famiglia prendono rilievo educativo le chiese, in quanto i.e. oltre che etico-religiose, e a mano a mano si diffonde la scuola d’iniziativa privata e pubblica. In società di prima industrializzazione e ad incipiente prevalenza urbana, la scuola, divisa in ordini e gradi sempre più vasti e articolati, prende la dominanza sulle altre i.e., andando verso forme di istituzionalizzazione di massa, più o meno direttamente controllabili dal potere politico statale, locale o periferico.

3.​​ Il​​ carattere complesso delle i.e.​​ Oltre che per la complessificazione, per così dire contestuale e storica, le i.e. risultano complesse in se stesse: per l’incrociarsi di strutture, finalità, modi, compiti non tutti dello stesso segno; per le molteplici relazioni non sempre omogenee e coincidenti che intercorrono tra loro: ad es. tra scuola e famiglia; tra famiglia e gruppi, associazioni, movimenti, tra famiglie e chiese; per i diseguali rapporti con gli altri sotto-sistemi sociali e le loro i.: ad es. con il mondo economico, politico, culturale; con l’organizzazione politica, i partiti, i sindacati; con il mondo imprenditoriale, il mercato internazionale, l’occupazione e la capacità di spesa familiare; con gli organi della comunicazione sociale e le nuove strumentazioni informatizzate; con le diverse forze organizzate del territorio: anch’esse tutte coinvolte in profondi processi di mutamento e di innovazione. Le i.e. danno luogo a complessi giochi d’interazioni e di relazioni interne ed esterne. Vi s’intersecano una molteplicità d’interventi di tipo giuridico, economico, legislativo, politico, culturale, religioso, ecc. Vi sono persone che agiscono ed interagiscono: con problemi quindi di comunicazione e di rapporto. Vi è un’«anima», uno stile, dei metodi diversificati. Ogni i.e. ha poi la sua particolare «cultura». Accanto a quelli propriamente formativi, vi vengono di solito perseguiti fini di altro tipo; sono attraversate da bisogni, interessi, valori diversificati.

4.​​ Diffusività della funzione educativa nella società contemporanea.​​ I processi storico-sociali attuali – che fanno parlare non solo di società post-industriale, ma anche di info-società, di società della conoscenza e della comunicazione – mettono in questione l’idea stessa di i.e. Esse perdono i loro esatti confini e la funzione sociale di educazione e di formazione viene compartecipata, in maniera diffusa, da altre i. e forme di vita sociali. In tal senso non solo viene meno il cosiddetto «scuolacentrismo», vale a dire la centralità e la quasi esclusività formativa della scuola, ma si va oltre lo stesso «policentrismo formativo», vale a dire l’ammissione e la legittimità di molteplici luoghi e centri di formazione (famiglia, scuola, chiese, sistema della comunicazione sociale, gruppi, movimenti, ecc.). La prospettiva di un​​ ​​ sistema formativo integrato coinvolge sul terreno del diritto / compito sociale e soggettivo di istruzione, formazione e educazione l’intero corpo sociale istituzionalmente organizzato. Accanto alla​​ ​​ famiglia, alla​​ ​​ Chiesa, alla​​ ​​ scuola, nelle sue varie ed articolate forme storiche, vengono ad assumere vasta rilevanza educativa, nonostante abbiano propriamente altre finalità, le i. connesse con l’organizzazione dell’informazione, della comunicazione sociale, dello spettacolo, del gioco, dello sport, del tempo libero, della prevenzione e della salute pubblica; o anche all’organizzazione della propaganda economica e politica; o ancora ai movimenti ed alle associazioni ideologiche e religiose; per non parlare delle molteplici forme di educazione informale, che si determinano nell’insieme delle interazioni sociali, nelle dinamiche dei gruppi spontanei e dei gruppi di pari in particolare. Si va ben oltre la stessa idea degli anni settanta che parlava di «scuola parallela», riferendosi soprattutto ai mass-media. Scuola, famiglia e Chiesa non sono più le uniche e totali agenzie d’educazione e di socializzazione. Esse si praticano e si realizzano in vasta misura anche nel gioco interattivo dei nuovi media e nella multiforme «navigazione» telematica e «virtuale».

5.​​ Le i.e. nella crisi e nell’innovazione della vita e delle i. sociali.​​ Dopo il​​ Rapporto Faure sulle strategie dell’educazione​​ (1973), si è preso a parlare un po’ enfaticamente di «società educante», ma anche di società poco «educativa».​​ In effetti,​​ le i.e. tradizionali risentono delle crisi, delle mutazioni e delle innovazioni che attraversano le i. sociali e le società storiche nel loro insieme, a tutti i livelli della vita sociale a fronte di quella che è stata detta con parola alla moda «globalizzazione», «post-modernità», «iper-modernità», «modernità liquida». Allo stesso tempo portano ancora il peso d’incrostazioni storiche, di privilegi in disuso, di chiusure particolaristiche. La stessa contestazione dell’autoritarismo e del burocraticismo della scuola (contro cui negli anni sessanta e settanta si sono mossi i movimenti della descolarizzazione) o l’autoritarismo della famiglia e delle chiese (giudicate spesso arretrate, integralistiche, indottrinanti, se non addirittura oppressive, soffocanti, autoritarie), sembrano sopravanzati dal timore diffuso della loro insignificanza e incapacità educativa. Le i.e. tradizionali, appaiono infatti, variamente, ma pesantemente coinvolte nelle complesse problematiche del pubblico e del privato, del personale e del politico, dei ruoli e dell’identità personale, relazionale, culturale, vitale che affetta tutti e ciascuno, persone, gruppi, associazioni, i. sociali a livello locale, nazionale, internazionale, mondiale.

6.​​ I.e.,​​ educazione permanente e educazione integrale.​​ Se per un verso viene evidenziato il carattere di «tesoro» che l’educazione viene ad assumere per sapere, saper fare, saper essere, saper vivere insieme con gli altri in questi non semplici inizi del sec. XXI, come vuole il Rapporto Delors (1997), per altro verso viene ad essere ratificata da molte parti una vera e propria «emergenza educativa», a cui l’intera società dovrebbe corrispondere. A fronte di tale problematicità, la pedagogia contemporanea, oltre ad affermare la necessaria integrazione e coerenza tra le i.e., spinge anche a guadagnare una prospettiva formativa di educazione permanente, invitando a dislocare le opportunità dell’apprendimento lungo tutto l’arco dell’esistenza e nelle diverse età della vita, con alternanza e ricorrenza di periodi di studio e di lavoro (=​​ Lifelong education). Invita a saper approfittare di tutte le occasioni sociali di formazione, quelle dell’educazione formale, ma anche quelle dell’educazione non formale e informale (=​​ on going education). Stimola ad arrivare a forme d’individualizzazione e d’apprendimento padroneggiato e al contempo invita a praticare forme di apprendimento cooperativo. In una prospettiva di educazione alla convivenza democratica, sprona a superare una visione culturo-centrica e socio-centrica della formazione, puntando su un’educazione integrale, di tutte le dimensioni dell’esistenza (=​​ Lifewide education), liberatrice, interculturale, capace di sostenere forme di vita personalizzate e responsabilizzate, eque e solidali, critiche ed innovative, in un contesto vitale pluralistico, cangiante, multi-culturale, fortemente e costantemente innovativo.

7.​​ Riforma delle i.e. e riforma sociale.​​ Risulta subito evidente che tale compito eccede le possibilità della ricerca e della riflessione pedagogica, così come l’azione educativa isolata. Non è solo questione di cambio di didattica rispetto ai nuovi modi di apprendere legati alle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Occorre anche un serio e preciso impegno socio-politico di riforma culturale e sociale, in modo che sviluppo personale e sviluppo sociale progrediscano e si attuino congruentemente. Ad un livello più alto, forse si richiede anche che l’intera comunità sociale prenda coscienza dell’esigenza di mettersi «in stato di formazione». Infatti, all’accelerato processo di mutamento e di cambio sociale dovrebbe corrispondere il considerare la formazione come tratto caratterizzante della vita, della cultura e dello sviluppo sociale nella sua globalità, e non solo come obiettivo della generazione adulta nei confronti della generazione in crescita, a cui si deputano le i.e. Peraltro saranno pure da precisare ambiti e criteri di intervento e di esercizio concreto della responsabilità educativa, sia all’interno delle singole i.e., sia a livello di coordinazione tra esse, sia infine a livello di società nazionale, internazionale e mondiale: un lavoro culturale a cui possono dare il loro specifico contributo le scienze dell’educazione, impegnandosi per una cultura educativa adeguata al tempo presente e a quello futuro.

Bibl:​​ Faure E. (Ed.),​​ Rapporto sulle strategie dell’educazione,​​ Roma, Armando / UNESCO, 1973; Cresson E. - P. Flynn,​​ Insegnare e apprendere. Verso la società cognitiva, Bruxelles, Commissione Europea, 1996; Delors J. (Ed.),​​ Nell’educazione un tesoro, Roma, Armando, 1997; Scanzio F. (Ed.),​​ La società dell’apprendimento, Roma, Edizioni associate, 1998; Morin E.,​​ I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Milano, Cortina, 2001; Angelini G.,​​ Educare si deve ma si può?, Milano, Vita e Pensiero, 2002.

C.​​ Nanni

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