INIBIZIONE

 

INIBIZIONE

Il termine i. deriva dal lat.​​ inhibitio​​ che vuol dire divieto, proibizione. In​​ neurofisiologia​​ esso sta ad indicare la soppressione di determinate scariche nervose o i processi relativi a tale soppressione. In​​ psicologia​​ è usato in diversi ambiti teorici: comportamentistico, dell’apprendimento, del profondo.

1. Al di là delle differenze, il termine riguarda comunque sempre un comportamento bloccato o danneggiato da un’attività di altro tipo. Dal punto di vista psicoanalitico l’i. consiste in un dinamismo inconscio che comporta la restrizione di una funzione dell’Io per far fronte all’angoscia relativa a pulsioni, sia libidiche che aggressive, inaccettabili a livello conscio. Tale processo può essere normale o patologico. In questo secondo caso esso è un sintomo di un conflitto interno, fonte di angoscia (ad es.: desideri incestuosi o pulsioni distruttive nei confronti di un genitore). Il meccanismo dell’i. comporta un impoverimento dell’energia psichica a disposizione dell’Io. In altri termini, la vita psichica dell’individuo viene più o meno gravemente sterilizzata. S.​​ ​​ Freud ha introdotto il concetto di​​ i. della meta​​ per indicare il meccanismo psichico per cui una pulsione, a causa di ostacoli interni o esterni, non raggiunge in modo diretto il suo soddisfacimento, ma attraverso attività o relazioni più o meno lontane dallo scopo primario. A sua volta​​ ​​ Klein ha posto l’accento sull’i.​​ dell’attività simbolica,​​ determinata dalla presenza di un forte sadismo nel primo anno di vita. Essa è indicata come uno dei sintomi principali presenti nei bambini psicotici.

2. L’i. può riguardare qualsiasi funzione dell’Io. Si possono distinguere tre tipi d’i.: a) l’i. intellettiva,​​ che investe prevalentemente l’attività cognitiva e che può portare all’​​ ​​ insuccesso scolastico; b) l’i.​​ a fantasticare,​​ per cui l’individuo appare scarsamente creativo e profondamente conformista; c) l’i. relazionale,​​ che blocca o rende estremamente angoscioso ogni rapporto con gli altri. Questi tre tipi d’i. dell’Io nella pratica clinica sono presenti più o meno contemporaneamente.

Bibliografia

Freud S., «I., sintomo e angoscia», in Id.,​​ Opere,​​ vol. 10, Torino, Bollati Boringhieri, 1978, 237-317; Klein M., «Contributo alla teoria dell’i. intellettiva», in Id.,​​ Scritti 1921-1958,​​ Ibid., 1978, 269-281; Castellazzi V. L.,​​ L’i. intellettiva nella teoria psicoanalitica,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 42 (1995) 63-83.

V. L. Castellazzi

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INIBIZIONE

INIZIAZIONE

 

INIZIAZIONE

L’i. (dal lat.​​ in-ire) è una condizione universale dell’esistenza umana, anche se assume differenti modalità e tipologie secondo i popoli e le epoche. In generale, fa riferimento al processo di adattamento, di apprendimento e di socializzazione che ogni persona deve realizzare in rapporto all’ambiente fisico, sociale, culturale e religioso in cui viene a trovarsi. L’i. mette in relazione l’individuo che accede e il gruppo che l’accoglie: comporta un passaggio e una trasformazione globale della persona nel suo essere profondo, nella sua identità personale e sociale; diventa pure occasione di identificazione per il gruppo stesso il quale, attraverso tutto il processo, «si dice» ciò che è e ciò che vuol essere.

1. L’i. presenta tre forme storiche principali: i.​​ tribali​​ (passaggio dall’​​ ​​ adolescenza alla condizione adulta); i.​​ religiose​​ (entrata nelle religioni misteriche, o in sette o società segrete); e i.​​ magiche​​ (per l’acquisto di certi poteri sovrumani). Tappe tipiche di ogni i. sono: una situazione iniziale di​​ separazione o rottura​​ riguardo al passato; un momento intermedio di​​ prove,​​ unite a racconti che ne danno il significato; una situazione finale di​​ novità,​​ col passaggio simbolico dalla morte alla vita e l’acquisto di una nuova identità e appartenenza. Nel processo ci sono momenti di​​ istruzione,​​ esperienze di​​ interiorizzazione​​ e​​ momenti rituali.​​ Caratteristiche proprie dell’i. sono anche la​​ temporalità, la durata programmata, e la​​ regolazione sociale, cioè l’istituzionalizzazione del percorso. L’i. così intesa trova nel contesto africano, dove rappresenta il percorso educativo normale di trasmissione culturale e religiosa da una generazione all’altra, l’applicazione più autentica.

2. Nel cristianesimo l’i. gode di rinnovato interesse. L’i.​​ cristiana, pur rimanendo a pieno titolo i., costituisce una entità costitutivamente diversa rispetto alle altre i. per la sua fondazione e motivazione storico-salvifica, cioè il riferimento all’evento storico di Gesù Cristo, e la sua originale accezione teandrico-ecclesiale: l’intervento di Dio, l’impegno di rinnovamento interiore del credente, la mediazione ecclesiale. In ambito cristiano l’i. significa propriamente l’azione trasformante operata dai sacramenti d’i.; e in senso ampio, il processo di interiorizzazione della fede e del comportamento cristiano che porta alla piena incorporazione nella Chiesa e nella vita cristiana.

3.​​ In ordine all’educazione, l’i. ha non poche valenze educative, per la sua condizione globale, esistenziale, e di​​ esperienza​​ forte che ne garantisce l’efficacia. Come forma di apprendimento, l’i. non è dell’ordine della trasmissione di un sapere, ma di introduzione in un «mistero», di​​ ​​ maturazione della persona attraverso una trasformazione e l’incorporazione in una​​ ​​ comunità. L’attuale crisi educativa della generazione adulta, il rifiuto di ogni riferimento a ciò che «trascende» l’individuo, una diffusa mentalità che privilegia il facile e la tendenza alla reversibilità delle decisioni, il venir meno di momenti e riti simbolici di discontinuità, minano progressivamente il valore dell’i. e impongono una attenta riflessione su questo significativo itinerario educativo.

Bibliografia

Eliade M.,​​ Initiation,​​ rites,​​ sociétés secrètes,​​ Paris, Gallimard, 1959; Ries J. - H. Limet (Ed.),​​ Les rites d’initiation, Louvain-la-Neuve, Centre d’Histoire des Religions,​​ 1986; Shorter A.,​​ Songs and symbols of initiation.​​ A study from Africa in the social control of perception, Nairobi, The Catholic Higher Institute of Eastern Africa, 1987;​​ Fayol-Fricout A. - A. Pasquier - O. Sarda,​​ L’initiation chrétienne,​​ démarche catéchuménale,​​ Paris, Desclée, 1991;​​ L’initiation chrétienne,​​ in «Croissance de l’Eglise» (1993) 108, 5-90;​​ Meddi L. (Ed.),​​ Diventare cristiani, Napoli, Luciano, 2002.

M. Gahungu - U. Montisci

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INIZIAZIONE

INIZIAZIONE CRISTIANA

 

INIZIAZIONE CRISTIANA

Dei 18 milioni circa di battezzati cattolici annuali, quasi un milione sono adulti, e il resto bambini sotto i sette anni (cf​​ Annuarìum Statisticum Ecclesiae,​​ Città del Vaticano, 1971ss; volumi annuali). Non si intende qui parlare del milione di battezzati adulti, per i quali si possono vedere le voci → Iniziazione cristiana degli adulti (Rito della) e → Catecumenato moderno. Si intende invece affrontare il problema di quel particolare tipo di IC che riguarda i 17 milioni di battezzati in età infantile, che vengono in seguito educati cristianamente attraverso la preparazione ai sacramenti della confermazione, dell’Eucaristia e della penitenza, connessa con una solida istruzione e formazione cristiana.

1.​​ Per lungo tempo, e cioè fino ai giorni nostri, non vi è stata praticamente una istituzione che preparasse le nuove generazioni a “diventare cristiani”. Era un compito lasciato a quella specie nuova di catecumenato, la “società cristiana”, che era succeduto al catecumenato personale dei secoli II-VIII. Il nuovo cristiano era formato soprattutto dall’opera di socializzazione spontanea operata dalla società e, in essa, dalla tradizione familiare. Dal secolo XVI in poi, a completamento di essa, sorse l’istituzione cat. parrocchiale. Ma questa, più che di iniziare alla vita cristiana, aveva il compito di spiegare e precisare una vita che già era vissuta. Ne può essere una prova il fatto che l’espressione stessa “Iniziazione cristiana”, usata qualche volta nel sec. IV, è ripresa solo nel XX (la si fa risalire al Duchesne, 1908) e anche allora serve a designare una parte della iniziazione, il suo elemento liturgico sacramentale. Ancora nella​​ Enciclopedia Cattolica​​ (Città del Vaticano, 1951, vol. 6°) la voce «iniziazione” è riferita ad altre religioni, e non a quella cristiana. Sarà il Concilio Vaticano II a diffondere l’uso del termine (cf AG 14). Tuttavia, in molta letteratura cat.-liturgica anche postconciliare, IC significherà ancora, di volta in volta, o la prima educazione religiosa, o la preparazione alla prima comunione, o, al massimo, i sacramenti detti della “iniziazione”.

2.​​ Uno dei primi ad avere una percezione netta della nuova situazione fu il catecheta francese J. → Colomb, che già nel 1948 scriveva: “Il grande fatto, nuovo nella storia della Chiesa, e assolutamente opposto a tutta la sua tradizione, è che i nostri fanciulli arrivano all’età adolescenziale e adulta senza essere passati per un​​ autentico catecumenato.​​ Il catecumenato è un periodo di preparazione che deve rendere il discepolo di Cristo​​ capace​​ di essere​​ fedele​​ ai suoi impegni battesimali. Esso è​​ illuminazione​​ e​​ prova​​ per la lotta spirituale che il battezzato deve portare avanti... Quando i popoli barbari furono convertiti, il battesimo dei bambini si generalizzò. L’antica organizzazione del catecumenato scomparve a poco a poco.​​ La Chiesa affidò ai genitori l’istruzione e la prova che costituivano l’essenza del catecumenato.​​ Questa cessava di essere una disciplina strettamente ecclesiastica, per diventare un fatto familiare, compiuto dai genitori o dai padrini; un fatto sociale anche, compiuto dalla società civile, sociologicamente unita alla società religiosa... Ma che cosa accadrà se i padrini e i genitori e la società non saranno più in grado di compiere le promesse che fanno ancora, e di cui la Chiesa sembra accontentarsi?... Ora il dramma della nostra epoca è che il mondo sociale si è a poco a poco scristianizzato; l’ambiente familiare, che dipende da quello sociale come una cellula dal corpo, costituisce abbastanza raramente un ambiente cristiano, formatore di “fedeli”... Eppure si continuano a battezzare quasi tutti i bambini. E così​​ si battezzano dei bambini senza che sia loro offerto un catecumenato efficace.​​ I nostri bambini cristiani, in maggioranza forse, non sono degli​​ illuminati;​​ non sono veramente degli​​ esorcizzati.​​ Come potranno, senza un miracolo continuo della grazia, restare​​ fedeli?...​​ Di fatto il catechismo dovrebbe, in parte almeno, assicurare il catecumenato necessario. Veramente non lo fa, e la ragione principale è che​​ non ha operato i cambiamenti di struttura richiesti dalla scomparsa della cristianità;​​ non è adattato al clima di laicismo, nel quale, in Francia almeno, l’adulto è chiamato a vivere.​​ Il nostro catechismo è quasi interamente legato a una situazione scomparsa;​​ concepito per questa situazione, eccellente per essa, appare quasi inefficace nella situazione di oggi” (Pour un catéchisme efficace,​​ Lyon, Vitte, 1948).

3.​​ La riflessione degli ultimi tempi si è concentrata proprio su questo aspetto. Non si fanno più dei cristiani oggi attraverso la socializzazione spontanea se non in misura minima. Occorre un’opera formativa e una decisione personale simile a quelle del catecumenato antico: una specie di “catecumenato post-battesimale” o di “formazione a itinerario catecumenale” per le nuove generazioni. Partendo dai dati del Concilio relativi al catecumenato si potrebbe proporre un concetto di IC più ampio, che comprende tutto il tirocinio di apprendimento cristiano, definibile come​​ “processo di formazione o di crescita, sufficientemente ampio nel tempo e debitamente articolato, costituito da elementi cat., liturgico-sacramentali, comunitari e comportamentali, che è indispensabile perché una persona possa partecipare con libera scelta e adeguata maturità alla fede e alla vita cristiana” (Gevaert 1982).

Questa​​ iniziazione,​​ o​​ apprendistato cristiano,​​ o​​ scuola di cristianesimo,​​ dovrebbe comprendere: 1) la catechesi (una sufficiente evangelizzazione con scelta personalizzata di Cristo: conversione); 2) l’apprendistato di preghiera e di vita liturgica e l’inserimento sacramentale (o il richiamo dei sacramenti già ricevuti, in modo anche celebrativo-rituale); 3) l’esperienza di comunità cristiana e il progressivo inserimento nella comunità esistente; 4) la crescita nell’impegno​​ sociale, caritativo, apostolico​​ rivolto non solo alla comunità, ma anche al mondo. Questa iniziazione non può durare tutta la vita, né può essere confusa con la crescita e la maturazione che accompagnano l’esistenza cristiana come tale. Se tutta la vita cristiana è una iniziazione, allora l’IC, intesa come caratterizzazione del​​ processo di inserimento nella vita cristiana,​​ perde il proprio significato.

Alcuni interventi recenti dimostrano una rapida evoluzione in questo senso. Il documento dell’UCN per l’Italia, del 1977, sulla​​ Iniziazione cristiana dei fanciulli,​​ afferma al n. 35 che, dopo la cresima, “va impostata una pastorale “che segua i nuovi cresimati e li aiuti ad inserirsi con responsabilità nella Chiesa, assumendo l’impegno cristiano nel loro ambiente di vita” (CEI,​​ Evangelizzazione e sacramenti,​​ 1973, n. 90)”. Questa indicazione viene ripresa da documenti di diverse diocesi (Torino, Udine, ecc.), anche se spesso l’attenzione prevalente è ancora rivolta alla fanciullezza. Il documento del Consiglio permanente della CEI del 23-10-1981,​​ La Chiesa italiana e le prospettive del Paese,​​ parla al n. 22 di “un più severo tirocinio di vita ecclesiale”.

La Conferenza Episcopale Piemontese ha pubblicato, per la Pasqua del 1984, il documento:​​ Linee orientative per una pastorale comune nelle Chiese del Piemonte-, l’iniziazione cristiana dall’infanzia alla fanciullezza, fino alla maturità della vita cristiana nell’età giovanile.​​ Anche l’Episcopato del Lazio (che aveva già dato direttive per l’IC nel 1974), a partire dal Convegno Cat. Regionale del seti. ’84 (cf bibl.) si sta avviando verso una nuova disciplina dell’IC, insistendo su un periodo prolungato fino alla adolescenza e su criteri adeguati di valutazione del percorso fatto. Le comunità neocatecumenali, a loro volta, tengono conto di un problema diverso, ma anch’esso molto attuale. Quello di un cammino di re-iniziazione di molti battezzati a cui è mancata una adeguata IC nella giovinezza. Qualcosa di analogo sta avvenendo in diverse cristianità in vari continenti.

Bibliografia

G. Angelini et al.,​​ Iniziazione cristiana e immagine di Chiesa,​​ Leumann-Torino, LDC, 1982; D. Borobio,​​ El​​ catecumenado​​ y​​ la​​ catcquesis en los procesos iniciáticos actuales,​​ in​​ “Teología y Catcquesis” 2 (1982) 2, 193-211; L.​​ Bouyer,​​ L’Initiation chrétienne,​​ Paris, Plon, 1958;​​ Chiesa​​ locale,​​ catechismo e iniziazione cristiana dei fanciulli,​​ in “Via Verità e Vita” 24 (1975) 51, num. monogr.;​​ G. Delcuve,​​ Devenir chrétiens dans​​ le​​ Christ.​​ Le​​ dynamisme​​ sacramentaire:​​ baptême, confirmation, eucharistie,​​ in “Lumen Vitae” 27 (1972) 607-624; J. Gevaert,​​ Diventare cristiani oggi. Quadro dei problemi e chiarificazione terminologica,​​ in “Catechesi” 51 (1982) 15, 3-17, e anche nel vol.​​ Diventare cristiani oggi,​​ Leumann-Torino, LDC, 1983, 7-21; U. Gianetto,​​ Iniziazione cristiana a itinerario “catecumenale”,​​ in “Catechesi” 43 (1974) 9, 13-20; In.,​​ L’iniziazione cristiana nel progetto cat. italiano. Una proposta unitaria di fondo: un quadro globale di formazione cristiana dalla iniziazione alla catechesi permanente,​​ in “Rivista diocesana di Roma” 25 (1984) 5, 1074-1094;​​ Initiation chrétienne dans​​ un​​ secteur missionnaire de la​​ banlieu​​ parisienne,​​ in «Lumen Vitae» 5 (1950) 2-3, 408-417;​​ L'initiation des enfants de l’antiquité à nos jours,​​ nel​​ vol.​​ Communion Solennelle et Profession de Foi,​​ Paris, Cerf, 1952, 13-110.

Ubaldo Gianetto

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INIZIAZIONE CRISTIANA

Riccardo Tonelli

 

1. Il termine

1.1. Iniziazione cristiana come tirocinio al «diventare cristiani»

1.2. La comunicazione come schema interpretativo

2. La crisi dell’iniziazione cristiana dei giovani

2.1. La difficile socializzazione religiosa

2.2. Scarsa significatività in un tempo di cambi culturali

2.3. Le strane attese di molti educatori

2.4. Tra soggettivizzazione e disattenzione all’educativo

3. Verso un modello di iniziazione cristiana dei giovani

3.1. Il processo

3.1.1. L’iniziazione cristiana tra «traditio» e «redditio»

3.1.2. La comunità ecclesiale come vero soggetto collettivo

3.1.3. Fare proposte facendo fare esperienze

3.1.4. Un ambiente dove fare esperienza

3.2. Gli atteggiamenti al centro del processo

3.2.1. I comportamenti

3.2.2. Atteggiamenti e conoscenze

3.3. Riformulare i «sistemi simbolici» dell'esperienza cristiana

 

1. Il termine

Il tema della iniziazione cristiana dei giovani è centrale in ogni ricerca di pastorale giovanile.

La ragione è evidente: la formula esprime l’insieme degli interventi attraverso cui la comunità ecclesiale prepara le giovani generazioni a «diventare cristiani».

1.1. Iniziazione cristiana come tirocinio al «diventare cristiani»

Proprio la complessità e la molteplicità degli interventi realizzabili colloca però il tema tra quelli non immediatamente univoci. Dicendo «iniziazione cristiana», operatori e ricercatori richiamano problemi e prospettive diverse. Si parla infatti di iniziazione cristiana per indicare la preparazione ai sacramenti dell’Eucaristia, della Penitenza e della Confermazione; si usa il termine per sottolineare lo sviluppo della catechesi; qualche volta diventa sinonimo di «catecumenato» (considerato, a sua volta, in senso tecnico o in senso analogico).

In questo contesto, dò al termine un significato ampio e globale.

Iniziazione cristiana riguarda perciò tutto il tirocinio di apprendimento cristiano: l’interiorizzazione dei contenuti della fede, comunicati attraverso le diverse modalità in cui si realizza l’evangelizzazione; l’apprendistato alla preghiera, alla vita liturgica e alla celebrazione dei sacramenti; il progressivo inserimento nella comunità ecclesiale; la crescita nell’impegno sociale, caritativo, apostolico.

1.2. La comunicazione come schema interpretativo

Per muovermi in modo organico in questa complessità di problemi e prospettive, utilizzo come schema interpretativo unificante quello della comunicazione. Non è certamente l’unico possibile. Ha però evidenti motivazioni per chi assume l’evento dell’Incarnazione come criterio orientativo globale. L’evento di Dio si rende comunicabile all’uomo attraverso le parole umane che lo esprimono (cf​​ DV​​ 13). La risposta dell’uomo s’invera nella sua esperienza quotidiana. Appello e risposta possiedono perciò una struttura visibile che veicola un evento più profondo e radicale. Perché comunicazione «ad» un uomo e «di» un uomo, sono nell’ordine simbolico: una struttura di significazione in cui un senso diretto, primario, letterale, designa un altro senso indiretto, secondario, figurato, che può essere appreso solo attraverso il primo.

Anche l’iniziazione cristiana si realizza in questo intreccio simbolico: la comunità ecclesiale che lancia l’appello dell’evangelizzazione e il credente che offre la risposta della sua decisione di vita, non propongono direttamente la parola di Dio o il misterioso gioco di una libertà piegata verso Dio. Quello che si vede, si può controllare e manipolare è solo un segno umano di un grande evento di salvezza e d’amore. Attraverso questo segno la comunità ecclesiale rende presente nella parola umana l’ineffabile parola di Dio e il credente esprime la sua decisione radicale nella fede, speranza e carità.

L’oggetto scambiato è il «contenuto» della comunicazione; il processo che porta due interlocutori a scambiarsi oggetti linguistici si definisce di solito come la «relazione comunicativa».

Purtroppo, una vecchia abitudine intellettualistica ci porta spesso a considerare i contenuti come più importanti o più decisivi della relazione. Gli studi attuali sulla comunicazione procedono spesso in una logica quasi opposta.

Una corretta verifica del processo di iniziazione cristiana chiede invece di studiare i due momenti in modo interattivo. Ed è quello che cerco di fare in questo contributo.

2. La crisi dell’iniziazione cristiana dei giovani

L’iniziazione cristiana dei giovani si realizza sempre in un contesto preciso e concreto. Esso la condiziona: la orienta, la sostiene, qualche volta la mette in crisi. Una ricerca sulla iniziazione cristiana dei giovani deve muovere quindi da una comprensione del contesto. A questo riguardo è facile costatare la presenza oggi di alcuni fatti che fanno problema.

2.1. La difficile socializzazione religiosa

Nell’attuale situazione culturale, l’iniziazione cristiana dei giovani è minacciata nella sua funzionalità dalla diffusa e più generale crisi della socializzazione primaria. L’approfondimento del processo di secolarizzazione in atto nella nostra società spinge il discorso religioso e l’istituzione che lo propone verso la marginalità. I giovani vengono così a trovarsi, in un momento cruciale della loro maturazione, di fronte ad alternative di peso molto diverso: da una parte le esigenze della fede e dell’etica cristiana e dall’altra il messaggio della modernità, nella sua etica e nei suoi valori.

È innegabile l’ipotesi di una crescente condizione di iposocializzazione religiosa delle nuove generazioni, dal punto di vista quantitativo (meno persone sono raggiunte dalle proposte formative) e qualitativo (più persone interiorizzano la proposta religiosa come un contenuto periferico rispetto alla cultura complessiva).

Esiste inoltre una tendenza a reagire alla crisi dei processi formativi mediante l’adozione di risposte rigide e polemiche, finalizzate alla definizione di una identità personale di difesa e di isolamento. Questo modo di fare produce uno stato di ipersocializzazione che, all’atto pratico, aumenta l’indice di marginalizzazione e di privatizzazione dell’esperienza religiosa.

2.2. Scarsa significatività in un tempo di cambi culturali

Le difficoltà non riguardano solo la crisi dei processi di socializzazione, in un contesto che tende a marginalizzare l’esperienza religiosa. Spesso i contenuti della fede, proposti nell’evangelizzazione ecclesiale, risultano soggettivamente poco significativi: esiste una distanza notevole tra le espressioni culturali del progetto di esistenza cristiana e i suoi destinatari.

Molti osservatori riconoscono che la riaffermazione in termini rigidi del progetto cristiano e la difesa ad oltranza delle sue modalità culturali rappresentano qualche volta una reazione, implicita e poco motivata, al tentativo in atto di marginalizzare l’esperienza ecclesiale. In altri casi, invece, gruppi e singoli credenti cercano di recuperare rilevanza, in questo contesto sociale ridimensionando in modo scorretto le esigenze della fede. Per questa ragione, c’è una crisi di iniziazione cristiana che va oltre la crisi dei suoi processi. Investe il progetto stesso.

Sono certamente molto meno di un tempo i giovani socializzati all’interno della comunità ecclesiale. Anche coloro che usufruiscono di questo servizio formativo, fanno fatica a raggiungere una vera maturazione cristiana perché non avvertono soggettivamente come significativa la proposta. Oppure si creano una falsa coscienza élitaria, come autoriconoscimento in situazione di diffuso misconoscimento.

2.3. Le strane attese di molti educatori

Molti operatori di pastorale giovanile caricano l’iniziazione cristiana dei giovani delle stesse attese con cui veniva risolto il processo in un tempo ormai lontano. Per essi, la verifica sull’esito è assicurata su alcuni indicatori facili e sicuri: la capacità di riesprimere la fede attraverso formule linguistiche precise e corrette, la partecipazione assidua ai sacramenti, l’impegno etico coerente. Quando queste attese non sono saturate, viene spontaneo chiamare in causa i meccanismi di trasmissione. Si riconosce una consequenzialità abbastanza rigida tra interventi di socializzazione religiosa ed esiti positivi. In questa prospettiva, l’iniziazione cristiana è tutta sbilanciata dalla parte della ricerca di strumenti adeguati. Qualche volta sono rivisitati con nostalgia quelli che un tempo davano buoni frutti; altre volte sono frettolosamente attivati meccanismi alternativi.

2.4. Tra soggettivizzazione e disattenzione all’educativo

Fanno da cassa di risonanza negativa alcuni dati, caratteristici di questo nostro tempo. Alla complessità, culturale e sociale, molti giovani reagiscono assumendo una dimensione «debole» del loro vivere individuale e sociale. Essa si manifesta nella diffusa soggettivizzazione e nella ricostruzione di una identità fragile e di ricerca. Tutto questo condiziona notevolmente i processi di iniziazione cristiana. Li sbilancia dalla parte di uno spontaneismo e di una verifica solo a partire dal consenso soggettivo, che tende ad escludere dalla formazione le esigenze indiscutibili della «verità» (teologica ed etica) della esperienza cristiana.

Qualcuno reagisce a questa situazione problematica, proponendo modelli in cui la risonanza educativa risulta davvero povera. Ci si rifugia in un linguaggio inverificabile, dove prevale il gergo mistico e le formule ad effetto. Ci si immerge in un fondamentalismo biblico o liturgico, che dimentica frettolosamente il cammino lento della Parola e dell’Evento di salvezza nella storia dell’uomo. Gli imperativi etici risuonano con una radicalità che ha poco dell’amore accogliente e impegnativo dell’evangelo. Si afferma la distinzione rigida tra i rituali di appartenenza ad una comunità umana e l’introduzione dell’uomo al mistero della vita nuova in Dio. Qualche volta l’enfasi sul «cristiano adulto», come esito della iniziazione cristiana, spinge a considerare solo il dato cronologico. L’attenzione si sposta così lontano dal mondo giovanile, dalle sue esigenze e dalle sue sensibilità.

 

3. Verso un modello di iniziazione cristiana dei giovani

Da questa situazione di crisi non si esce certamente solo recuperando i sentieri tradizionali con un entusiasmo rinnovato. Soprattutto non basta affatto risolvere qualcuno degli elementi conflittuali. L’iniziazione cristiana dei giovani richiede progetti capaci di afferrare la situazione problematica in tutta la sua globalità.

Suggerisco un modello, fatto di tre preoccupazioni.

Con il primo paragrafo sottolineo la necessità di elaborare un nuovo modello formativo, capace di fornire un’alternativa seria a quello rigido e oggettivistico, entrato violentemente in crisi, e a quello della facile soggettivizzazione, inutile e inefficace. Propongo una «relazione» nuova per mettere in comunicazione giovani e comunità ecclesiale.

Nel secondo paragrafo affermo e preciso una scelta di fondo del progetto: la centralità degli atteggiamenti nella vita cristiana e la loro conseguente centralità nella attuazione e nella verifica dell’iniziazione cristiana.

Nel terzo paragrafo considero i «contenuti» fatti scorrere in questa relazione. Per collocarmi meglio dalla parte della comunicazione, chiamo «sistemi simbolici» i contenuti attraverso cui la comunità ecclesiale fa la sua proposta e il soggetto esprime l’avvenuta iniziazione.

 

3.1. Il processo

L’iniziazione cristiana è un processo formativo. Come ogni processo formativo può essere compresa e risolta secondo modelli procedurali differenti. Essi non sono mai neutrali rispetto alla qualità e all’incidenza del processo stesso.

L’attenzione va posta perciò prima di tutto sulla verifica di questi modelli, alla ricerca di quello più adeguato per esprimere le sue logiche costitutive.

 

3.1.1. L ’iniziazione cristiana tra «traditio» e «redditio»

L’iniziazione cristiana è fatta di «traditio» e di «redditio». La comunità ecclesiale consegna ai giovani il patrimonio vitale della sua fede; i giovani restituiscono la fede ricevuta, piena della loro storia, personale e collettiva. Mostrano di riconoscere in essa il fondamento di una qualità nuova di vita non quando la sanno riesprimere in una ripetizione passiva, ma quando vivono la loro quotidiana esistenza in modo che il Signore Gesù risulti veramente il «determinante» di tutte le decisioni e gli orientamenti che contano.

La fede infatti è una risposta personale, libera e responsabile, pronunciata all’interno di un progetto dotato di una sua consistenza normativa e segnato da una precisa dimensione comunitaria.

Per formare a questa decisione si richiede, nello stesso tempo, l’educazione alla libertà e responsabilità e all’accoglienza di progetti già dati. La libertà riconquista alla verità personale il dono in cui siamo collocati, che giudica e misura questa stessa libertà.

Per dire questo processo in modo concreto, con una terminologia che proviene dalle scienze dell’educazione, affermo che l’iniziazione cristiana dei giovani è una sintesi dinamica di socializzazione, inculturazione e educazione.

La «traditio» assicurata attraverso interventi riconducibili alla socializzazione (il processo mediante il quale l’individuo viene progressivamente inserito nelle strutture, nei ruoli e nelle forme della vita sociale) e alla inculturazione (il processo mediante il quale l’individuo acquisisce il patrimonio sociale di idee e valori che caratterizzano la «cultura» dell’insieme sociale di cui è parte).

Il processo formativo richiede però anche un incontro di intenzionalità educativa (un incontro tra società, educatore, educando), una chiara definizione di finalità condivise, l’attivazione di precise e impegnative responsabilità, per assicurare, nel vivo della storia personale e comunitaria, un’esistenza cosciente.

 

3.1.2. La comunità ecclesiale come vero soggetto collettivo

Il soggetto di questo processo è veramente tutto il popolo di Dio: la comunità ecclesiale in una piena corresponsabilità. Oggi, spesso, il processo invece viene attuato da qualche addetto ai lavori, forte della sua competenza intellettuale, trincerato nelle sue sicurezze e accuratamente isolato per non essere disturbato dal rumore della storia.

Quando la comunità ecclesiale, come soggetto popolare e collettivo, non viene espropriata delle sue responsabilità (proprio perché condivide spontaneamente vita e cultura con gli uomini del suo tempo), opera senza paure, fuori da quegli schemi difensivi che considerano 1’esistente come un ingiusto aggressore.

Nel grembo della comunità ecclesiale il credente si appropria del modo di dire la sua fede. Elabora una sua organizzazione dei contenuti religiosi. Intreccia su essi la sua storia, assicurando una spontanea integrazione tra fede e cultura. E così non è abbandonato alla solitudine della propria libertà. Al contrario, vive e respira dentro la sua comunità umana. È sostenuto, protetto, guidato in forza della pressione di appartenenza.

 

3.1.3. Fare proposte facendo fare esperienze

Nelle logiche tradizionali, il diritto e la possibilità di collocare una proposta dove si cerca e si produce il senso della vita, era segnato prevalentemente dalla discriminante vero-falso. Quando una proposta era oggettivamente vera, possedeva il diritto di essere offerta con decisione. Al diritto del proponente corrispondeva il dovere di ogni persona saggia di accogliere.

Al massimo, difficoltà e resistenze erano tollerate sul piano della prassi spicciola, per rispetto della costitutiva debolezza dell’uomo. Questo era il modello, diffuso e pacifico, in una cultura della oggettività, quando la ricerca personale sul senso della propria vita era risolta nella fatica di riscrivere, nelle righe della propria storia, il senso che la realtà si porta dentro, quasi strutturalmente. Oggi, le logiche sono molto diverse.

La discriminante è tracciata sulla frontiera della significatività. Solo quello che è sentito come soggettivamente significativo, perché si colloca dentro gli schemi culturali che una persona ha fatto ormai propri, merita di essere preso in considerazione. Ci si interroga sulla «verità» solo dopo aver risposto affermativamente alla domanda della significatività.

Quando la proposta viene avvertita come poco significativa, è fuori gioco, perché è fuori dal gioco personale. Non basta alzare il tono della voce; non è sufficiente la convinzione di chi propone. Se non riesce a far esplodere l’indifferenza, viene considerata una delle tante voci, cui si riconosce il diritto di parlare perché dice cose che non contano. L’esodo verso l’attenzione e la decisione passa attraverso il fare esperienza. In un tempo di soggettivizzazione e dì pluralismo, le offerte di senso diventano proposte, capaci di saturare la forte e sofferta ricerca di senso, quando sono esperienze di vita, che diventano messaggio.

Fare proposte significa «far fare esperienze». La forza comunicativa, evocata dalle esperienze, sollecita verso decisioni impegnative e coinvolgenti, anche in un tempo di basso investimento progettuale.

Un momento fondamentale in cui la comunità ecclesiale concretizza l’esigenza del «fare esperienza», è quello della celebrazione liturgica e sacramentale.

Per approfondire questo tema, rimando ai molti e stimolanti contributi contenuti in questo «Dizionario». In questo contesto lo riaffermo esplicitamente per sottolineare due motivi.

L’iniziazione cristiana dei giovani è un processo formativo, che condivide preoccupazioni e stile di ogni processo educativo. Ha però una sua originalità costitutiva: introduce l’uomo nella vita nuova, trasformandolo intensamente dall’interno, lo impegna ad una decisione di fede, lo integra in una comunità che lo accoglie (nel battestimo), lo ispira nell’agire (nella cresima), lo nutre con il pane e la parola (nell’eucaristia), lo rigenera a vita nuova (nella riconciliazione). Per questo, l’iniziazione cristiana ha come suo ambito privilegiato il momento liturgico.

Questo momento non va considerato «strumentale» rispetto al processo. È invece profondamente «esperienziale». Il cristiano celebra la sua vita e la sua religiosità in una esperienza che lo immerge nel mistero di Dio. Facendone esperienza, nella comunità ecclesiale, lo scopre vicino e decisivo, anche quando lo adora «in spirito e verità» nel ritmo della sua vita quotidiana.

 

3.1.4. Un ambiente dove fare esperienza

Una esigenza ritorna con prepotenza, come condizione irrinunciabile per assicurare la significatività e la possibilità di fare davvero esperienza: un ambiente come luogo di identificazione e struttura di attendibilità. Soggetto dell’iniziazione cristiana è la comunità ecclesiale nella sua dimensione globale e istituzionale. Per molti giovani però essa resta una esperienza astratta e lontana. Difficilmente è in grado di assicurare quella identificazione che è richiesta per l’iniziazione. Diventa vicina, significativa quando assume il volto concreto di uno spazio fisico, a misura giovanile e d’intenso respiro ecclesiale.

Possono essere diversi questi ambienti.

Nel vasto panorama ecclesiale attuale ritroviamo gruppi e movimenti, oratori e centri giovanili, luoghi di intensa esperienza cristiana, riferimenti culturali a leaders o a proposte. L’esigenza resta, al di là della pluralità di espressioni. E il guadagno per l’iniziazione cristiana dei giovani è costatabile immediatamente.

Questi spazi vitali sono per chi li frequenta una urgente esperienza di rassicurazione, di nuova qualità di vita, di ricostruzione della personale identità, di proposta di senso. Questa stessa esperienza viene interpretata e ricompresa nella sua ragione più intima e sollecitante. Diventa così un messaggio religioso: una parola su Dio. Questa parola risuona di una particolare forza comunicativa perché è costituita dalla esperienza viva di testimoni che riempiono questi luoghi della loro intensa vita cristiana ed ecclesiale, dando le ragioni della loro presenza e del loro operare.

Nell’identificazione a questi testimoni e nella proposta globale che essi esprimono i giovani incontrano la Chiesa come evento di salvezza che si fa annuncio e progetto. La Chiesa è il gruppo stesso, gli educatori credenti, le celebrazioni della fede partecipate corresponsabilmente. Queste esperienze permettono e sostengono il cammino di progressivo riavvicinamento nei confronti dell’istituzione ecclesiale.

La forte risonanza comunitaria si pone inoltre come struttura di attendibilità a livello di contenuti dottrinali, di pratiche, di leadership. I modelli di vita incarnati nelle norme e nei leaders, il controllo sul dissenso fanno di questi luoghi l’ambito ideale per definire, proporre, sperimentare e consolidare una nuova qualità di vita, umana e cristiana.

 

3.2. Gli atteggiamenti al centro del processo

L’iniziazione cristiana ha come obiettivo la maturazione e il sostegno della vita cristiana. Su questo sono tutti d’accordo.

Non basta però certamente restare ad un livello così generale. Esso suscita più equivoci di quelli che aiuta a risolvere.

Per determinare concretamente la qualità del processo e i criteri di verificazione della sua funzionalità, dobbiamo trovare un accordo previo attorno alle «competenze» che definiscono questo obiettivo.

In un ambito prevalentemente formale, si tratta di determinare l’organizzazione di queste competenze nella struttura di personalità del giovane cristiano. Di solito, il richiamo alle «competenze» connota un riferimento a conoscenze da interiorizzare, comportamenti da assicurare, atteggiamenti a cui abilitarsi. Per organizzare operativamente questi livelli, dobbiamo scegliere un modello concreto. Come organizzare il rapporto tra conoscenze, comportamenti, atteggiamenti?

La mia proposta colloca al centro del processo di iniziazione cristiana dei giovani la preoccupazione di abilitarli ad atteggiamenti e ripensa da questo orientamento la funzione delle conoscenze e dei comportamenti. La prospettiva è abbastanza articolata. Per questo devo approfondirla con qualche battuta.

 

3.2.1. I comportamenti

Ricordo prima di tutto la distinzione tra atteggiamento e comportamento. Comportamento è la reazione soggettiva con cui la persona esprime la sua presenza nel contesto sociale di cui è parte. Queste reazioni sono osservabili e quantificabili. Nella persona adulta, esse sono normalmente coerenti e stabili; incanalano quindi la sua spontanea reattività verso l’esistente, secondo modalità che vanno consolidandosi. La ripetizione di comportamenti assicura quindi una specie di «pacchetto» stabilizzato di credenze, sentimenti, risposte particolari, sempre presente, pronto ad essere usato quando l’individuo si trova a dover affrontare l’oggetto appropriato. Questo sistema è l’atteggiamento: una strutturazione del proprio dinamismo psichico, che orienta i comportamenti a riguardo di un oggetto proposto.

La reale personalità di un individuo, le sue tendenze valutative e operative, i quadri di orientamento del vissuto sono espressi dagli atteggiamenti acquisiti.

Molte variabili influenzano i comportamenti, in tutte le direzioni. Gli atteggiamenti invece orientano la persona verso un progetto d’insieme in cui si esprime una decisione più carica di responsabilità e di libertà delle diverse decisioni parziali e dei comportamenti concreti che a questo progetto danno esecuzione.

Attraverso il tessuto degli atteggiamenti e dei differenti progetti d’insieme che li fondano, la persona manifesta la presenza di un disegno unitario che sorregge, comanda e rende comprensibile la scelta di fondo della vita. Tutto questo pesa, in modo particolarissimo nella vita cristiana.

Il giovane vive da credente quando è educato al pensiero di Cristo, vede la storia come Lui, giudica la vita come Lui, sceglie ed ama come Lui, spera come insegna Lui, vive in Lui la comunione con il Padre e lo Spirito Santo (cf​​ RdC​​ 38). In questo «progetto di vita» dice la sua decisione radicale nei confronti di Dio.

Sul piano delle prassi quotidiane, si riconosce invece sempre un peccatore in trepida attesa di salvezza. I suoi comportamenti manifestano più il grido verso la salvezza di Dio che la novità di vita in cui già siamo costituiti. Per questa consapevolezza, antropologica e teologica, l’iniziazione cristiana non si rivolge eccessivamente al piano dei comportamenti. Non li relega certo tra le cose che non contano. Sul piano educativo, infatti, i comportamenti rappresentano la via obbligata per la costruzione e la stabilizzazione degli atteggiamenti. Ne manifestano la qualità e ne consolidano l’esistenza nella personalità in crescita. Nell’iniziazione cristiana non sono però il fine, ma, in qualche modo, solo il «mezzo», parziale e ambivalente.

 

3.2.2. Atteggiamenti e conoscenze

Diverso è il tono rispetto alle conoscenze. L’abilitazione a vivere nell’integrazione tra fede e vita rappresenta un insieme organico di competenze in cui si coniugano atteggiamenti e conoscenze: un insieme di atteggiamenti, normati e oggettivati linguisticamente da conoscenze precise e irrinunciabili. Solo quando si è fedeli a queste «conoscenze», così come sono documentate nell’autocoscienza ecclesiale, si può vivere da credenti. La dimensione veritativa dell’esperienza cristiana (quella attenzione alla formulazione corretta della fede e all’assimilazione personale delle conoscenze in cui si esprime) viene sottolineata come davvero importante. Lo è sempre; lo diventa in modo speciale in questo tempo di soggettivizzazione sfrenata.

Le conoscenze però non sono fine a sé stesse; né rappresentano il terreno su cui verificare il livello di maturità cristiana. Non si tratta infatti di «sapere» e di dimostrare di «sapere», ma di investire tutta l’esistenza di questo «sapere». Vivere da credenti significa fondamentalmente operare una ristrutturazione di personalità, tale da restituire all’evento di Gesù la funzione di «determinante» nelle scelte e nelle decisioni di vita. Non ricerchiamo quindi conoscenze di tipo nozionistico, ma conoscenze che permettano di valutare e di intervenire nelle concrete situazioni di vita, con costanza e con coerenza. Questo modo di comprendere le «conoscenze» sposta l’accento dalle conoscenze stesse verso T«atteggiamento»: una capacità operativa che armonizzi le doti personali in una disponibilità, agile e pronta, ad intervenire quando è il momento, sapendosi richiamare a motivazioni di riferimento. Gli atteggiamenti sono quindi il centro delle preoccupazioni pastorali.

Gli atteggiamenti rimandano continuamente alle conoscenze. Di esse esprimono la dimensione operativa e da esse, soprattutto, riprendono la qualità cristiana. Come ho già sottolineato, non qualsiasi atteggiamento fa il cristiano: egli deve misurarsi su Gesù Cristo, il suo messaggio e la testimonianza attuale della Chiesa. C’è quindi una linea di demarcazione netta tra atteggiamenti «determinati» in Gesù Cristo e atteggiamenti lontani dal suo progetto di vita. Le conoscenze sono la verifica oggettiva degli atteggiamenti, la loro riappropriazione nella direzione della verità dell’evento di Gesù.

 

3.3. Riformulare i «sistemi simbolici» dell’esperienza cristiana

Il processo di iniziazione cristiana dei giovani richiede anche una riformulazione dei «contenuti» teologici che descrivono il dover-essere del cristiano.

L’affermazione ricorda due esigenze complementari.

Sottolinea prima di tutto, almeno implicitamente, l’importanza del momento propositivo. L’iniziazione cristiana dei giovani non è un processo che macina qualsiasi contenuto. Richiede al contrario la diffusione e l’interiorizzazione dei contenuti normativi dell’esistenza cristiana, a tutti i livelli (dogmatico, liturgico, etico). Questa esigenza va proclamata con fermezza, soprattutto oggi, in un tempo di relativizzazione e soggettivizzazione.

La dichiarazione ricorda però, nello stesso tempo, che l’iniziazione cristiana non è però neppure il supporto metodologico per far passare contenuti, rigidamente bloccati, o per assicurare esiti, predefiniti con eccessiva sicurezza. Coinvolge, nello stesso ritmo, relazione e contenuto, per ridire il processo nello schema di una corretta comunicazione. Le riflessioni precedenti hanno già sottolineato lo stretto rapporto esistente tra processo e contenuti. Collocati in una ricerca sull’iniziazione cristiana dei giovani, non possiamo immaginare i «contenuti» isolati dal processo, come se potessero essere definiti in uno spazio protetto e sicuro e poi affidati a chi ha il compito di trasmetterli. Mi piace invece ipotizzare una «traditio» e «redditio» in termini anche diacronici: la comunità ecclesiale attuale restituisce la fede che ha ricevuto dalla tradizione, fatta nuova perché riespressa dentro la cultura che la segna intensamente.

Per questo, indico la necessità di «riformulazione»: sottolineo che le espressioni con cui la comunità ecclesiale testimonia la sua fede e quelle con cui i giovani manifestano la loro esperienza cristiana sono sempre segni evocativi di una realtà, più grande e meno facilmente verificabile; le riconosco segnate profondamente dalla cultura e ne cerco una continua riespressione per assicurare meglio la loro risonanza autoimplicativa.

Nel titolo del paragrafo ha chiamato «sistemi simbolici» dell’esistenza cristiana questa trama di eventi normativi ed espressioni culturali. Simbolo infatti è un segno la cui funzione non è di promuovere la conoscenza puramente cognitiva di una realtà (indicandola, ricordandola, spiegandola...), ma di stabilire con quella realtà una relazione che coinvolga il soggetto nell’insieme del suo esistere, verso la frontiera misteriosa del suo bisogno di senso.

Molti dei «contenuti» tradizionali sono diventati «opachi» per l’uomo contemporaneo, mettendo in questione così proprio la loro funzione simbolica. So che una certa estraneità è indispensabile, perché solo così possono orientare verso un’esperienza religiosa che resta, in parte, indicibile. Per questo cerco dei «simboli», che evocano la realtà significata senza mai renderla totalmente manipolabile.

È importante «riempire di vita vissuta» i sistemi simbolici tradizionali, per restituirli alla loro carica simbolica, quando l’operazione è possibile. Ed è urgente ricostruire nuovi «simboli», senza rinunciare a quel livello di estraneità di cui dicevo, per restituire anche ai giovani di oggi la possibilità di dire la loro esperienza religiosa in un linguaggio attuale e significativo. In questa operazione, le comunità ecclesiali sono chiamate a «svegliare» (alla significatività anche religiosa) i molti simboli che dormono nascosti sotto le ceneri dell’attuale cultura, continuando anche oggi quel modo di fare che ha caratterizzato sempre la storia religiosa dell’uomo e la vita della Chiesa nelle sue stagioni più felici.

In questo contesto mi basta affermare l’urgenza. Per procedere oltre dovrei ripetere in modo approssimativo espressioni contenute in molti contributi del «Dizionario». Mi basta affermare l’esigenza, per restituire l’iniziazione cristiana dei giovani alla sua verità e alla sua funzionalità.

 

Bibliografia

Angelini G.,​​ Iniziazione cristiana e immagine di Chiesa, LDC, Leumann 1982; Gevaert J.,​​ Diventare cristiani oggi. Quadro dei problemi e chiarificazione terminologica, in «Diventare cristiani oggi», LDC, Leumann 1983, 7-21; Gianetto U.,​​ Iniziazione cristiana, in «Dizionario di catechetica», LDC, Leumann 1986, 345-357; Kaufmann F. X. - Metz J. B.,​​ Capacità di futuro. Movimenti di ricerca nel cristianesimo, Queriniana, Brescia 1988;​​ Quali «sistemi simbolici» per l’iniziazione cristiana dei giovani, in «Note di pastorale giovanile» 21 (1987) 8, 3-23; Rizzi A.,​​ Differenza e responsabilità. Saggi di antropologia teologica, Marietti, Casale M.to 1983.

 

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INIZIAZIONE CRISTIANA

INIZIAZIONE CRISTIANA DEGLI ADULTI – Rito della

 

INIZIAZIONE CRISTIANA DEGLI ADULTI (Rito della)

Questo libro liturgico (1972, = RICA) deve essere conosciuto dai catecheti per le proposte teologico-pastorali che contiene, oltre che per la parte celebrativa, anche se non ha precise indicazioni cat. Ma è impensabile l'itinerario di IC qui descritto senza una C. che lo accompagni, anzi che ne costituisca la parte più consistente e indispensabile. Inoltre la sua conoscenza risulta utile a chiunque si interessa della formazione cristiana anche dei battezzati fin dalla nascita perché, come scrivono i vescovi italiani nella prefazione alla ed. ital. (1978), “l’itinerario, graduale e progressivo, di evangelizzazione, iniziazione, C. e mistagogia è qui presentato come forma tipica per la formazione cristiana” (p. 12).

Considerando le tappe, le proposte e le esigenze per un adulto che si prepara a ricevere il battesimo si comprende meglio ciò che manca, e quindi deve essere assicurato, a chi è stato battezzato dopo la nascita.

1.​​ Origine e uso del RICA.​​ Il modo di diventare cristiani ha sempre comportato una notevole cura da parte dei responsabili della Chiesa, e solo in un regime di cristianità ci si è illusi di risolverlo con l’amministrazione dei sacramenti. Le rare annotazioni del NT fanno ritenere che, salvo casi eccezionali (come​​ Ai​​ 8,26-38; 10,34-48; 16,24-34), fra l’annuncio evangelico ricevuto e il battesimo passasse un congruo tempo di istruzione e prova. In​​ At​​ 2,37-41 a coloro che domandano cosa debbano fare per corrispondere all’annuncio Pietro chiede di convertirsi, e “con molte altre parole li scongiurava ed esortava”. In quelle “molte parole” e nei verbi usati si intravedono attività cat. e formative. I momenti della IC, fra i quali l’aver “ascoltato la parola di verità”, sono accennati in​​ Ef​​ 1,13; in​​ Eb​​ 6,1-5 si possono trovare gli elementi di un programma cat.

La documentazione più antica di un itinerario strutturato per l’IC si ha nella​​ Tradizione Apostolica​​ di → Ippolito (inizi sec. III), ma il periodo in cui l’attività ecclesiale per condurre gli adulti a diventare cristiani è più organizzata ed efficace è il sec. III, sino agli inizi del IV. Poi essa viene travolta e snaturata dal presentarsi di masse imponenti che aderiscono alla religione vincente. È proprio a quella organizzazione che si ispira il RICA, dopo aver sperimentato le forme e le proposte in alcune Chiese dell’Africa e dell’Europa (si veda la documentazione negli articoli di D. S. Amalorpavadass, nella raccolta​​ Iniziazione Cristiana,​​ Bologna, EMI, 1972).

La liturgia della IC degli adulti, appesantita nei sec. VI e VII di molti riti che pretendevano sostituire la mancanza di C., passava nel​​ Rituale romanum​​ edito nel 1614 per ordine dei Concilio di Trento, ma era praticamente inutilizzabile, perché doveva essere eseguita in una sola celebrazione, perdendo il suo aspetto di itinerario graduale segnato da tappe progressive. La pubblicazione del RICA, in seguito a un voto del Vaticano II (SC 64), ha risposto a una vera esigenza e ha riempito un vuoto millenario. Esso è destinato agli adulti che hanno “udito l’annuncio e per la grazia dello Spirito Santo... cercano il Dio vivo e iniziano il loro cammino di fede e di conversione”, per “aiutarli nella loro preparazione e, a tempo opportuno, ricevere con frutto i sacramenti” (RICA 1).

L’itinerario descritto nel RICA dovrebbe essere usato, con gli opportuni adattamenti rituali, anche per la “preparazione alla → confermazione e alla → eucaristia degli adulti battezzati da bambini che non hanno ricevuto la C.” (cap. IV, nn. 295-305) in modo che la loro preparazione ai sacramenti non sia puramente nozionistica ma costituisca una esperienza di vita cristiana e di appartenenza ecclesiale. Il RICA, nel cap. V (nn.​​ 306369),​​ delinea un itinerario catecumenale e liturgico per i fanciulli nell’età di catechismo, che non sono battezzati. Non possono essere considerati adulti, perché la loro formazione cristiana dovrà ancora essere completata dopo il battesimo. Essi vengono inseriti in un gruppo di C. con fanciulli battezzati, che con loro crescono nella fede e prendono parte ai vari riti di iniziazione.

2.​​ Struttura dell’IC degli adulti.​​ Il RICA presenta un itinerario che comporta quattro “tempi” o “periodi”, che si articolano fra di loro attraverso tre “gradi”, o momenti celebrativi di passaggio (nn. 4-8).

Primo periodo: evangelizzazione e precatecumenato (nn. 9-13). Chi è raggiunto dalla parola del Vangelo, nei modi più diversi, e chiede di essere cristiano, riceve una prima sommaria istruzione ed è aiutato a vagliare i motivi della sua richiesta. Primo passaggio: ingresso nel catecumenato (nn. 16-17; celebrazione nn. 68-97). Nell’assemblea, presentato da un tutore, il candidato fa la domanda di ricevere la fede e si impegna ad essere aiutato con un cammino di ascolto della parola di Dio, di preghiera comune, di conversione della vita.

Secondo periodo: → catecumenato (nn.​​ 1920;​​ riti durante il catecumenato nn. 98-132). È il periodo proprio della formazione cristiana che richiede una opportuna catechesi, il cambiamento di mentalità e di comportamento, la partecipazione ad alcune liturgie, la testimonianza di vita e la professione di fede nel mondo. La sua durata dipende da alcune circostanze (nel III sec. era almeno di tre anni) ed è stabilita dal vescovo, in accordo con i suoi collaboratori addetti alla formazione dei catecumeni. Il catecumenato non è in preparazione al battesimo ma è scuola di vita, nella fede, nella conversione e nella preghiera. Al catecumeno si affianca un padrino, o madrina, che lo aiuta e lo sostiene nel progresso dell’esperienza cristiana. Secondo passaggio: elezione e iscrizione del nome (nn.

22-23; celebrazione nn. 133-151). Dopo che la comunità, attraverso i suoi ministri, ha giudicato un catecumeno sufficientemente preparato, lo elegge, cioè lo sceglie, e chiama per ricevere i sacramenti, e in una celebrazione ne iscrive il nome fra coloro che sono “eletti”.

Terzo periodo: purificazione e illuminazione (nn. 21.24-26; riti durante questo periodo «quaresimale» nn. 154-207). Normalmente in Quaresima, gli eletti vengono disposti ai sacramenti attraverso apposite C., riti di “scrutinio”, perché lo Spirito Santo li purifichi nel profondo, e le consegne del Simbolo della fede (Credo) e dell’orazione del Signore (Padre nostro). Terzo passaggio: battesimo, confermazione, eucaristia (nn. 27-36; celebrazione nn. 208-234). Nell’assemblea festosa della comunità, normalmente durante la Veglia pasquale, gli eletti vengono battezzati, confermati e resi partecipi della mensa eucaristica.

Quarto periodo: mistagogia (nn. 37-40;​​ 235239).​​ Con adeguate C. i neofiti (giovani pianticelle) vengono resi consapevoli dei doni ricevuti, del significato della loro appartenenza alla comunità, della testimonianza che nel mondo dà la loro vita.

In questo itinerario programmato e nei riti che vi si compiono sono previsti notevoli adattamenti di competenza delle Conferenze episcopali, dei singoli vescovi e dei ministri (nn. 64-67), sino a prevedere un “rito più semplice” in circostanze straordinarie (nn.​​ 240277).​​ Ma ciò che è da conservare è il senso di un cammino e di una crescita, con la guida ministeriale della Chiesa e la valutazione della corrispondenza del candidato.

3.​​ Esigenze cat. della IC degli adulti.​​ Di proposito il RICA non indica alcun programma di C., pur supponendolo come indispensabile. Il periodo del catecumenato comporta “una opportuna C., fatta dai sacerdoti, dai diaconi o dai catechisti e da altri laici, disposta per gradi e presentata integralmente”. Essa è “fondata sulle celebrazioni della Parola”, e “porta i catecumeni non solo a una conveniente conoscenza dei dogmi e dei precetti, ma anche all’intima conoscenza della salvezza di cui desiderano l’applicazione a se stessi” (n. 19).

Secondo la prassi antica e alcune esperienze recenti, la C. del catecumenato deve essere essa stessa “iniziatica”, cioè deve introdurre il catecumeno all’incontro con il Signore che gli parla, per poi introdurlo nella fede professata dalla Chiesa. Deve quindi utilizzare saggiamente la Bibbia, deve essere convenientemente vitale toccando il vissuto del catecumeno, deve familiarizzare con le espressioni dottrinali della Chiesa più usate, ma deve anche tener conto dell’ambiente culturale in cui il catecumeno vive per aiutarlo a risolvere le questioni che gli pone. Dopo aver aiutato il catecumeno a scoprire che Dio parla ed averlo esercitato nell’ascolto credente, nella risposta orante e nella applicazione della parola compresa alla vita, converrà proporgli una lettura sintetica delle Scritture che gli faccia percorrere le grandi fasi della storia della salvezza, comprese come tappe del suo cammino di fede. Questa conoscenza sintetica e interpretazione vitale dei grandi eventi biblici, di alcune figure fondamentali, dei simboli più rilevanti, sono indispensabili anche per comprendere il linguaggio verbale e segnico delle celebrazioni liturgiche e in particolare dei sacramenti della IC.

Secondo la tradizione antica, la C. più propriamente dottrinale e sistematica dovrebbe costituire l’ultima parte dell’itinerario catecumenale, aiutando i catecumeni a comprendere ordinatamente le realtà della fede, eventualmente secondo lo schema trinitario e cristologico del Simbolo apostolico, che verrà consegnato a ogni “eletto”.

La C. mistagogica, che attraverso i riti e le preghiere fa entrare nell’intelligenza di fede (intus legere-,​​ leggere dentro, e​​ intuire-,​​ andare dentro) del mistero celebrato, ha la sua collocazione specifica dopo che i neofiti hanno fatto l’esperienza delle celebrazioni sacramentali. Non è un tornare indietro per rendersi conto di ciò che è avvenuto, ma è un procedere in avanti nella comprensione di ciò che essi sono diventati e di ciò a cui sono chiamati a essere. Lungo il cammino catecumenale, specialmente nel periodo quaresimale, sono molte le occasioni celebrative in cui iniziare questa C. mistagogica.

Gli operatori di queste diverse C. sono, di volta in volta, il vescovo (RICA n. 44), i sacerdoti incaricati (n. 46) e soprattutto i catechisti che “hanno un compito molto importante per il progresso dei catecumeni e la crescita della comunità” (n. 48).

Bibliografia

1.​​ Precedenti storici e pastorali del​​ RICA.

C.​​ Floristán Samanes,​​ Il catecumenato. Una Chiesa in stato di missione,​​ Alba, Ed. Paoline, 1974;​​ Iniziazione cristiana. Un catecumenato rinnovato secondo il Concilio e il RICA,​​ Bologna, EMI, 1972; A. Laurentin – M. Dujarier,​​ Catéchuménat.​​ Données​​ de​​ l’histoire​​ et​​ perspectives nouvelles,​​ Paris,​​ Centurion,​​ 1969;​​ Problèmes du catéchuménat,​​ Paris, CNER, 1962.

2.​​ Edizioni del​​ RICA.

Rito della iniziazione cristiana degli adulti,​​ CEI,​​ Città del Vaticano, 1978;​​ Rituel du baptême des adultes par étapes,​​ A.E.L.F., Paris, 1984;​​ Rituel du baptême des enfants en âge de scolarité,​​ Paris,​​ Chalet-Tardy,​​ 1977​​ (queste edizioni ufficiali francesi sono molto interessanti per gli adattamenti).

3.​​ Presentazioni e commenti.

L. Della Torre,​​ L'iniziazione cristiana degli adulti,​​ in​​ Nelle vostre Assemblee,​​ vol. 2, Brescia, Queriniana, 1984, 20-54; C. Rocchetta,​​ Cristiani come catecumeni. Rito della iniziazione cristiana degli adulti,​​ Roma, Ed. Paoline, 1984; i fascicoli delle riv. dedicati al RICA: «Rivista liturgica» 66 (1979) n. 3; «Rivista di pastorale liturgica» 16 (1978) n. 89;​​ «Concilium»​​ 15 (1979) n. 2.

Luigi Della Torre

INSEGNAMENTO DELLA RELIGIONE (fondazione e natura)

L’IR scolastico è oggi un’istituzione che fa parte integrante — sia pur con legittimazione e modalità organizzative molto diverse da paese a paese — dell’organico delle materie scolastiche nella stragrande maggioranza dei paesi “cristiani” del mondo occidentale. Letteralmente il termine IR (preferibile a​​ insegnamento religioso,​​ che denota piuttosto una modalità o una qualità educativa anziché l’oggetto dell’insegnamento) significa istruire, e rispettivamente venir istruiti, sulla religione. La tradizione cristiana ha utilizzato i termini di​​ institutio christiana,​​ di​​ doctrina​​ Christiana,​​ che, anche se riferiti alla scuola gestita dalla Chiesa, erano sostanzialmente sinonimi di C. Ma nelle lingue moderne, soprattutto a partire dal postconcilio e in seguito al processo di progressiva autonomia della scuola pubblica dalla tutela delle Chiese, il concetto di IR assume un contenuto semantico distinto e originale rispetto a quello di C. A seconda delle varie aree linguistiche il concetto è tradotto oggi con​​ Religionsunterricht, religious education, enseignement religieux,​​ enseñanza​​ religiosa, ensino religioso​​ (oppure:​​ ensino​​ da​​ Jgreja ñas escolas),​​ schoolkatechese​​ (in Olanda).

1.​​ Distinzione tra IR e C. ecclesiale.​​ È emersa sin dalla fine degli anni ’60 in Europa l’esigenza di distinguere l’IR dalla C. comunitaria: da una parte, la C., sotto la spinta del precedente movimento kerygmatico e delle più recenti acquisizioni pastorali del Vaticano II, aveva bisogno di ritrovare l’originalità dei procedimenti propri dell’iniziazione e dell’educazione alla fede, emancipandosi da quel modello di pedagogia scolastica che, negli ultimi secoli, l’aveva profondamente caratterizzata e non poco snaturata (si è parlato infatti, tra gli anni ’60 e ’70, di​​ descolarizzazione​​ della C.); dall’altra, l’IR, per non venir ulteriormente emarginato da una scuola in rapido processo di secolarizzazione e per riconquistarsi una plausibilità culturale ed educativa non poco compromessa in una società diventata pluralistica, ha dovuto verificare le ragioni della sua legittimità scolastica e ridisegnarsi quindi un profilo epistemologico e disciplinare compatibile con la natura e la vocazione di una scuola pubblica intesa come agenzia di socializzazione autonoma e secolare.

A livello di principi la distinzione, anche se inizialmente avversata e troppo lentamente recepita, è ora quasi unanimemente accettata e persino ufficialmente riconosciuta anche da istanze gerarchiche della Chiesa; a livello di prassi scolastica invece la distinzione ha incontrato e incontra tuttora difficoltà tali che l’IR — sia in fase di programmazione pedagogica che di organizzazione didattica — è spesso rimasto una versione scolarizzata della C. confessionale, o a volte, all’opposto, ha perso la sua identità educativa alla ricerca di una malintesa obiettività scientifica o di una illusoria neutralità informativa.

2.​​ Legittimazione.​​ Il problema della legittimità dell’IR ha costituito un leitmotiv permanente del dibattito sviluppatosi in molti paesi sia sul versante politico-legislativo (in riferimento alle riforme scolastiche in atto o ancora in progetto), sia sul versante propriamente culturale e pedagogico interno o esterno alle Chiese. Di fatto, la presenza dell’IR nella scuola pubblica è stata oggetto in questi anni di molteplici contestazioni: contestata sul piano dell’efficacia per l’apparente esiguità dei risultati constatabili, ma soprattutto sul piano dei principi per svariati motivi o pretesti: la religione sarebbe lesiva della laicità della scuola, il suo profilo scientifico sarebbe insufficientemente fondato, il suo carattere confessionale imporrebbe la rinuncia all’obbligatorietà di frequenza.

Anche sul piano ecclesiale si è spesso obiettato che è incongruente per i credenti accettare di insegnare la propria religione dentro strutture come quelle della scuola pubblica che sono in stridente contrasto con la novità eversiva del messaggio; la stessa legittimazione concordataria, tuttora operante in alcune democrazie occidentali per ragioni storiche e politiche, se può essere ancora considerata plausibile dal punto di vista politico-diplomatico-giuridico, appare teologicamente superata e pedagogicamente insufficiente.

D’altra parte sono venuti a decadere certi motivi che potevano ancora giustificare in precedenza la presenza dell’IR nella scuola; per esempio: il principio della religione intesa come “fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica” (cf Riforma scolastica Gentile e Concordato italiano del 1929), la pretesa dei genitori di esigere un’educazione confessionale dalla scuola di stato, il principio della supplenza pastorale per cui la comunità ecclesiale delega alla scuola compiti cat. che non le sono propri, ecc.

Si è così gradualmente imposta una nuova “fondazione” dell’IR, oggi largamente condivisa dall’opinione pubblica più informata, codificata in recenti ordinamenti scolastici statali, avallata anche da molte istanze ufficiali delle Chiese in varie nazioni. La Germania Federale (col documento​​ Scuola e insegnamento della religione​​ approvato dal Sinodo nazionale, 1974), il Belgio (col​​ Chiarimento sull’insegnamento della religione nella scuola secondaria,​​ 1975), l’Olanda (con gli​​ Orientamenti per la catechesi nella scuola primaria,​​ 1976), l’Inghilterra (col direttorio​​ Cornerstone,​​ cattolico, 1978, analogo a un precedente documento anglicano, 1971), la Spagna (con gli orientamenti pastorali su​​ La​​ enseñanza​​ religiosa​​ escolar,​​ 1979), l’Austria (col nuovo​​ Direttorio catechistico nazionale,​​ 1981), il Portogallo (con l’appello dei vescovi agli operatori scolastici, 1983), l’Italia (con la revisione del Concordato e la relativa​​ Nota​​ della presidenza della CEI sull’IR, 1984) hanno tentato di ridefinire per i rispettivi contesti nazionali il profilo di un IR che, se si configura essenzialmente come servizio educativo offerto dalle Chiese all’umanizzazione integrale dell’alunno, deve però caratterizzarsi e qualificarsi in coerenza con lo statuto laico e con la funzione critica ed educativa propria della scuola pubblica. Si parla infatti di fondazione pedagogico-scolastica, perché assume la scuola modernamente intesa come referente prioritario e come criterio​​ normante​​ per legittimare la presenza di un approccio scientifico ed educativo al fatto religioso, confessionale e non.

Tre sono, in sintesi, le linee di argomentazione comunemente adottate:

— la linea storico-culturale, che punta sulla rilevanza culturale della religione (cattolica, evangelica, anglicana) nella genesi e nello sviluppo del patrimonio spirituale ed etico dei popoli europei e sulla conseguente necessità che ogni cittadino ha di familiarizzarsi con tale patrimonio per situarsi responsabilmente nella propria storia;

— la linea antropologica, che affida alla scuola di religione il compito di promuovere nel giovane la capacità di interrogarsi sul senso fondamentale della vita, di misurarsi criticamente con le risposte offerte dai vari sistemi di significato (quelli religiosi compresi), di maturare perciò una consapevolezza e una responsabilità di scelta circa il proprio ruolo nella vita e nella società;

— la linea istituzionale o pedagogica, che, assumendo la scuola come luogo privilegiato di mediazione critica della cultura, le assegna tra i compiti irrinunciabili anche quello di mediare la cultura religiosa, naturalmente con la propria specificità di obiettivi educativi, di metodologie di approccio, di criteri di valutazione.

Contestualmente a questo sforzo di rifondazione scolastica e culturale si è venuto precisando anche il profilo epistemologico dell’IR, chiamato nella scuola a dialogare con le altre discipline scolastiche e quindi a esibire una sua identità scientifica. La teologia non basta più da sola a garantire il carattere di scientificità dell’IR. Anche le scienze dell’educazione, le scienze sociali e le scienze positive della religione concorrono a definire il nuovo statuto epistemologico dell’IR e ne fondano la legittimità nell’organico delle discipline scolastiche.

3.​​ Natura e funzione.​​ Il dibattito intorno alla legittimazione dell’IR ha comportato una più attenta verifica della congruenza della prassi scolastica con i principi enunciati, ed ha così contribuito a individuare la vasta gamma di modelli di IR praticato sul terreno. Tra questi modelli, alcuni sono da considerarsi superati o comunque insufficienti:

— il modello cat. o strettamente confessionale, in quanto si rivela inattuabile, nella scuola pubblica d’oggi, sia dal punto di vista teologico che psicologico e scolastico;

— il modello radicalmente aconfessionale, centrato unicamente sulla cosiddetta religiosità naturale o su problemi di antropologia religiosa, senza concreto riferimento alle religioni positive, in quanto disattende l’irrinunciabile aspetto storico e culturale di uno studio della religione;

— il modello esclusivamente informativo, in quanto, oltre che far torto alla natura stessa della realtà religiosa che non è mai riducibile a un puro dato obiettivo, intrattiene l’illusione che solo una presunta neutralità dell’IR risulti più propizia alla libertà di coscienza dell’alunno;

— il modello esperienziale, che si esaurisce nella trattazione episodica della sola problematica esistenziale, in quanto non garantisce un accesso sistematico e un apprendimento significativo delle fonti bibliche, degli eSetti storici, delle espressioni culturali ed etiche, dei sistemi di significato cui la religione ha dato origine;

— il modello “infradisciplinare”, quello cioè che non considera l’IR come disciplina autonoma a sé stante, ma la vede e la tratta all’interno di altre materie scolastiche secondo la logica del contenuto e del metodo di queste discipline: modello inaccettabile, perché segna semplicemente la dissoluzione disciplinare ed educativa dell’IR.

Il modello di IR che ottiene oggi maggiori consensi perché sembra rispondere meglio a una corretta concezione di scuola, di religione e di educazione religiosa è quello che viene variamente denominato come “modello scolastico”, o “culturale”, o “curricolare”, che ha uno statuto di materia ordinaria e quindi obbligatoria, che assume la confessionalità a livello di contenuti materiali ma rispetta la laicità della scuola a livello di finalità e di metodo, e che può essere sinteticamente definito come “un approccio educativo e culturale al fatto religioso, preso nella concretezza delle sue realizzazioni storiche e nella molteplicità delle sue dimensioni, in conformità e sintonia con il progetto educativo e culturale della scuola stessa” (E. Alberich,​​ Catechesi e prassi ecclesiale,​​ Leumann-Torino, LDC, 1982, 217). Più specificamente, quanto all’obiettivo di fondo, si attende che questa materia sia: a) un apprendimento organico e sistematico da parte dell’alunno, b) riguardante la dimensione religiosa dell’esistenza, c) elaborata culturalmente con criteri e strumenti interdisciplinari, d) interpretata in prospettiva anche cristiana ma non propriamente cat., e) in vista di un fondamentale orientamento etico e di una maturazione critica sul problema religioso e quindi anche di una possibile opzione di fede (F. Lefevre). Quanto ai contenuti, tenendo conto complessivamente delle diverse dimensioni caratteristiche della religione (dottrinale, etica, esperienziale, affettiva, spirituale, sociale), si può pensare ad una articolazione pedagogica (mediata da una necessaria programmazione in situazione) che faccia intervenire e raccordare alcuni nuclei problematici e tematici basilari, quali, per esempio: “Studio della religione e del cristianesimo come fatto culturale nella storia e nel presente; studio della fede cristiana nelle sue principali dimensioni (fonti, punti essenziali della fede, celebrazione, dimensione sociale...); studio dei grandi problemi esistenziali che stanno nel cuore delle religioni e caratterizzano ogni essere umano; studio delle altre visioni della vita di maggior rilievo nel paese o nella cultura in cui si vive; studio dell’impatto culturale che nasce dalla riflessione e dall’azione dei cristiani nell’ambito del sociale e della umanizzazione del mondo, con particolare attenzione alla problematica etica” (J. Gevaert,​​ La presenza dei valori religiosi nella scuola statale,​​ in N. Galli [ed.],​​ Educazione ai valori nella scuola di stato,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1982, 85).

L’accentuazione dell’una o dell’altra di queste componenti contenutistiche dà luogo a una vasta tipologia di sottomodelli di IR assai frequenti nella prassi e nella pubblicistica didattica, e si parlerà, per esempio, specie nell’area tedesca, di “problemorientierter Religionsunterricht”, di “bibelorientierter​​ RU”, di “therapeutischer​​ RU”, di “politische Katechese”, ecc.

Quanto infine all’aspetto metodologico, l’IR deve intanto soddisfare le esigenze minimali tipiche di ogni lavoro scolastico: programmazione in base alla situazione degli alunni, strumentazione culturalmente valida e didatticamente funzionale, attenzione interdisciplinare, criteri obiettivi di valutazione, continuità didattica da un anno all’altro, ecc. Entro questo quadro ha poi sue esigenze specifiche la didattica della religione, sia in ordine a un itinerario paradigmatico costante che scagliona la lettura del fatto religioso​​ (es.:​​ dal segno al significato, dal significato al valore, dal valore alla scelta), sia in ordine al tipo di approccio preferenziale che si vuol operare​​ (es.:​​ approccio antropologico, storicocritico, etico, psicologico...), sia in ordine al raccordo tra religione e altre discipline, tra la propria religione e le altre o altri sistemi di significato, tra religione studiata e vissuto personale (esemplare a questo proposito la collaudata “didattica della → correlazione” tra esperienza di vita e ricerca di significato).

Bibliografia

1.​​ Principali documenti ufficiali nazionali sull'IR.​​ UCN,​​ Nota sull’insegnamento della religione nelle scuole secondarie superiori,​​ Roma, 1971; Sinodo... della Germania...,​​ Scuola e insegnamento della religione,​​ Leumann-Torino, LDC, 1977;​​ Comité​​ Catholique...​​ du​​ Québec,​​ Voies et​​ impasses,​​ Montreal, Fides, 1975; HKI,​​ L’insegnamento della religione nella scuola primaria,​​ Leumann-Torino, LDC, 1977 (Olanda); K.​​ Nichols,​​ Cornerstone.​​ Guidelines​​ for Religious Education,​​ Middlegreen, St. Paul Publications, 1978;​​ Österreichische Kommission...,​​ Katecbetisches Direktorium für​​ Kinder-​​ und Jugendarbeit,​​ Wien, Sekretariat ÖBK, 1981;​​ Comisión Episcopal...,​​ Orientaciones​​ pastorales​​ sobre enseñanza religiosa escolar,​​ Madrid, PPC, 1979; CEI,​​ L’insegnamento della religione cattolica nelle scuole di Stato,​​ in “L’Osservatore Romano”, 23 sett. 1984.

2.​​ Studi.

E.​​ Alberich​​ et al.,​​ Enseñar religión,​​ boy,​​ Madrid,​​ Bruño,​​ 1980; G. Dente,​​ La religione nelle costituzioni europee vigenti,​​ Milano, Giuffrè, 1980;​​ Dibattito sull’insegnamento della religione.​​ Atti del Colloquio 5-6 nov. 1971,​​ Zürich,​​ PAS-Verlag, 1972; N. Galli,​​ L’insegnamento della religione nella scuola di stato,​​ in “Humanitas” 38 (1983) 6, 847-891; G. Groppo,​​ L’identità dell’IR nella scuola. Riflessioni teologico-epistemologiche,​​ in “Orientamenti Pedagogici” 24 (1977) 673-688; H. Halbfas,​​ Linguaggio ed esperienza nell’insegnamento della religione,​​ Roma, Herder, 1970; U.​​ Hemel,​​ Theorie der Religionspädagogik,​​ München, Kaffke, 1984;​​ Insegnare religione oggi.​​ Vol. I:​​ Nella scuola primaria.​​ Vol. Il:​​ Nella scuola secondaria,​​ Leumann-Torino, LDC, 1977; A. M. Marenco – M. Vigli,​​ Religione e scuola,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1984; P. Moitel – P. Bourdoncle,​​ Aumòneries de Tenseignement Public,​​ Paris, Ceri, 1978; F. Pajer,​​ Per uno statuto laico dell’insegnamento religioso scolastico,​​ in “Religione e scuola» 7 (1978-79) 8-9, 350-359; Id.,​​ La religione come disciplina scolastica: quale statuto epistemologico?,​​ ibid. 9 (1980-1981) 5, 215-222; Id. (ed.),​​ Società civile, scuola laica e insegnamento della religione.​​ Atti del convegno nazionale​​ 1719​​ nov. 1982, Brescia, Queriniana, 1983;​​ Quali programmi di religione nella secondaria superiore?,​​ in “Religione e scuola” 12 (1983-84) n. 10; G. Rovea (ed.),​​ Scuola ed educazione religiosa,​​ Roma, UCIIM, 1975;​​ Scuola e religione.​​ Vol. I:​​ Una ricerca internazionale.​​ Vol. Il:​​ Situazione e prospettive in Italia,​​ Leumann-Torino, LDC, 1971-1973.

Flavio Pajer

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INIZIAZIONE CRISTIANA DEGLI ADULTI – Rito della
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