INDIA

 

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Il cristianesimo in I. risale al primo secolo dell’era cristiana, con la venuta dell’apostolo Tommaso. Ma è solo dal tempo dei missionari portoghesi giunti a Goa nei primi decenni del XVI sec. che esistono documenti scritti sull’attività cat. in I. Tre catechismi furono composti da san Francesco Saverio e tradotti nelle lingue locali. Nei secoli successivi giunsero sempre nuovi missionari portando catechismi di vari paesi europei. Solo all’inizio di questo secolo si comincia a fare un lavoro cat. più appropriato alle Chiese locali dell’L II movimento cat. iniziatosi verso la fine del secolo scorso raggiunse 1’1. in ciascuna delle sue fasi. Il pioniere del movimento cat. in I. fu Fr. Thomas Gavan Duffy, fondatore e direttore del Centro Cat. di Tindivanam (1921-1941) nell’allora diocesi di Pondicherry.

1.​​ Il primo periodo.​​ Nel 1947 l’avvento dell’indipendenza portò naturalmente a un’approfondita revisione e a una valutazione realistica della missione della Chiesa. L’intera gerarchia dell’L si incontrò a Bangalore nel gennaio del 1950 per il Primo Concilio Plenario della Conferenza Episcopale Indiana. Due capitoli degli Atti conciliari furono dedicati alla C.: uno sui catechisti e l’altro sulla proclamazione della Parola di Dio, con particolare accento sulla C. (cf​​ Acta et Decreta Primi Concila Pienarii Indiae,​​ 1950, nn. 176-180, 190-207). Tra le raccomandazioni del Concilio vi erano quelle della costituzione di una Commissione episcopale per la C., e degli Uffici Cat. diocesani, con programmi per la C. degli adulti e scuole per la formazione dei catechisti. Esse furono realizzate negli anni immediatamente seguenti. I benefici del movimento cat. internazionale nella sua fase kerygmatica raggiunsero 1’1. attraverso l’attiva partecipazione di vescovi e sacerdoti indiani alla Settimana Internazionale di Eichstatt nel 1960, la pubblicazione in inglese del Catechismo tedesco del 1955 e i cicli di conferenze del P. Hofinger.

2.​​ Il Centro Catechistico Nazionale.​​ Dopo il Concilio Vaticano II la Commissione per la C. della Conferenza Ep. Indiana fu riorganizzata nel 1966, e nel 1967 fu eretto il Centro Cat. Nazionale a Bangalore, con D. S. Amalorpavadass come Direttore. Nel 1971 il Centro divenne anche Biblico e Liturgico (NBCLC). Nel 1982 venne nominato come nuovo Direttore P. Puthanangady, SDB, e la Commissione Episcopale per la C. fu integrata nella nuova “Commissione per la vita cristiana”. Il Centro Nazionale si dedicò all’inizio alla formazione dei sacerdoti e delle religiose, finché dal 1977 venne data la priorità a quella dei dirigenti laici, più di 5.000 dei quali hanno finora partecipato ai corsi di formazione. Il Centro è soprattutto un movimento, animato da uno spirito di apertura (alla complessità della situazione indiana), di comunione e di servizio. Esso tende a impostare un piano globale di rinnovamento per 1’1., nello spirito del Vaticano II.

È anche un luogo di incontro e di dialogo per tutti, senza preclusione di fede religiosa o di ideologia. Le principali linee secondo le quali il centro opera sono le seguenti:

1)​​ Culturale:​​ l’inculturazione del cristianesimo in I. è una delle preoccupazioni primarie.

2)​​ Socio-politica:​​ impreteribile viene ritenuto l’impegno per la giustizia sociale.

3)​​ Religiosa:​​ il pluralismo religioso dell’L richiede apertura a gente di altre religioni e ideologie, e postula il dialogo interreligioso. Si mira a giungere a una autentica spiritualità indiana, contrassegnata dall’esperienza di Dio, dall’interiorità e da uno stile di vita coerente con le tradizioni religiose e culturali del paese.

Il Centro Nazionale ha promosso il sorgere di strutture a livello regionale e diocesano. In ciascuna regione si è costituita una commissione che coordina le attività cat. delle diocesi in essa comprese. Il Centro si tiene anche in contatto con i docenti di Catechetica dei 30 seminari maggiori e scolasticati dell’L ; ha pure avviato la pubblicazione di numerosi libri e opuscoli di argomento cat. o affine, e ha prodotto diversi tipi di audiovisivi di specifica intonazione indiana. La rivista mensile “Word and Worship” è la pubblicazione ufficiale del Centro. Il personale amministrativo e docente è nominato dal Direttore, che dura in carica sei anni. I docenti dei corsi sono circa 70, da tutta l’L La sede del Centro è a Bangalore, e può ospitare i partecipanti ai corsi residenziali.

3.​​ I testi di catechismo.​​ Il NBCLC ha pubblicato una serie di 10 testi cat. con Guide, in inglese, con il titolo​​ God with us,​​ per le rispettive classi della scuola indiana. Essi seguono un approccio antropologico, e una metodologia incarnazionale, ambientale ed esperienziale. Cominciano dall’esperienza umana, evocandola, analizzandola, riflettendo su di essa e interpretandola alla luce della Parola di Dio e rivivendola nella fede. Altri testi sono stati pubblicati per le classi superiori e per la C. nelle famiglie. Alcune regioni, in particolare il Kerala e il Nord-est, hanno pubblicato testi o adattamenti propri, tenendo conto delle culture locali.

4.​​ Gli “Ali-India Catechetical Meetings”.​​ Il Centro Nazionale ha organizzato Incontri per tutta l’L a intervalli regolari di tre anni, destinati ai Direttori regionali e diocesani, ai docenti di catechetica, e ad esperti e osservatori dei vari altri centri dell’I. Ne sono stati tenuti negli anni: 1967, ’70, ’73, ’76, ’78 e ’81. Il loro scopo principale era la riflessione comune sul lavoro fatto e sul modo di aSrontare i problemi emergenti ai vari livelli. In collaborazione con il Centro Nazionale operano in I. altri Centri, come il Multimedia Don Bosco​​ Centre​​ di Calcutta, il “Navjyoti Niketan”, centro regionale diretto dai Gesuiti di​​ Patna​​ per le zone di lingua Hindi, il Centro​​ Cat.​​ del Kristu Yoti College di​​ Bangalore,​​ tenuto dai Salesiani, con un Istituto Superiore di Catechetica che organizza corsi estivi o di diploma (annuali), il Centro​​ Cat.​​ Salesiano di​​ Puna​​ e il Don Bosco​​ Catechetical Centre​​ di Fatorda, Goa, ecc. Alcuni di questi centri hanno organizzato negli ultimi anni cicli di lezioni di esperti di varie parti del mondo, come P.​​ Babin,​​ A.​​ Baptiste​​ dalla Francia, A. Alessi, U. Gianetto e G. C. Milanesi dall’Italia, ecc., che hanno dato contributi originali allo sviluppo dei programmi formativi indiani.

Bibliografia

D.​​ S. Amalorpavadass (ed.),​​ First Ali-India​​ Catechetical​​ Meeting,​​ 25-27​​ Nov.​​ 1967,​​ Bangalore,​​ NBCLC, 1967;​​ Id.​​ (ed.),​​ Report of the Second AllIndia Catechetical Meeting,​​ 27th Dec. 1970-3rd Jan. 1971,​​ ivi,​​ 1971; Id. (ed.),​​ Report of the Third All-India Catechetical Meeting,​​ 11th to 17th Dec. 1973,​​ ivi,​​ 1976; Id. (ed.),​​ Report of the Fourth All-India Catechetical Meeting,​​ 5-10 Dec. 1976,​​ ivi,​​ 1976; Id. (ed.),​​ Moving with the Spirit. Report of the Fifth All-India Catechetical Meeting,​​ 11th to 17th Dec. 1978,​​ ivi,​​ 1979; Id. (ed.),​​ Catechists’ Training Schools in India,​​ ivi,​​ 1971; Id. (ed.),​​ Joyful Response to the Challenge of Faith Formation of Youth,​​ ivi,​​ 1976; Id.,​​ A Survey of one Decade of Catechetical Renewal in India,​​ ivi,​​ 1973; Id.,​​ Theology of Catechesis,​​ ivi,​​ 1973; L.​​ Colossi,​​ Child Catechesis,​​ Calcutta, Don Bosco Catechetical and Multimedia Centre, 1978.

Joseph Poovathinkal

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INDICATORI

 

INDICATORI

Il termine i. – dal lat.​​ in-dico​​ (rendo noto, manifesto), ingl.​​ indicator, fr.​​ indicateur, sp.​​ indicador, ted.​​ anzeiger,​​ weiser​​ – connota qualsiasi fatto, condotta, comportamento utilizzabile come segno più manifesto e descrivibile di un altro più complesso o astratto.

1. Autorevoli studi europei dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) analizzano da tempo gli i. dell’educazione e dell’istruzione ad uso di educatori, responsabili politici, studenti e genitori. Le informazioni riguardano prestazioni, risorse, livello di partecipazione, organizzazione di sistemi scolastici, criteri per valutare competenze di base, numerosità delle classi, durata dell’anno scolastico, prestazioni dei sistemi d’istruzione a livello quantitativo e qualitative (OECD, 2006).​​ Gli i. mirano a fornire​​ (Oakes, 1986) dati predittivi, politicamente rilevanti, confrontabili, stabili, comprensibili, attuabili, economicamente sostenibili, statisticamente validi e affidabili sul sistema scolastico (obiettivi, profitto,​​ problem solving) e sul rendimento (Cuttance, 1994; Odden, 1990), con lo scopo di controllare eziologicamente lo stato presente e il mutamento futuro (punti forti e deboli), per decisioni di sviluppo politico e amministrativo (Wyatt et al., 1989).

2. Nella​​ ricerca pedagogica​​ gli i. sono importanti per osservare, misurare, valutare, elaborare i dati. La validazione sperimentale ne verifica la corrispondenza rispetto al costrutto, alla popolazione, al campione (Calonghi, 1976). Per es., per valutare la capacità critica, si descrive il costrutto e le operazioni mentali di verifica con criteri interni (logico-formali) o esterni (realtà); tali condotte osservabili costituiscono gli i.; nella fascia evolutiva della preadolescenza gli i. possono riguardare la verifica di errori (Boncori, 1989; 1995) in sequenze di seriazioni e classificazioni, con materiale non verbale (per es. ordinamento in figure variamente classificate e disposte) o verbale (per es. ordinamento di frasi in un racconto). Nella​​ pratica educativa​​ si parla di obiettivi comportamentali​​ come i., espressi concretamente​​ come condotte o attività (Mager, 1986), evolutivamente e culturalmente coerenti: ad es., gli i. della socializzazione nella preadolescenza includono segni riguardanti modalità di raggruppamento sociale «tipo gang»,​​ con​​ segni critici​​ di maturazione (Bruner et al., 1966)​​ adatti a questa fascia evolutiva e sperimentalmente validati (Boncori, 1992; 1994). Istanze educative per la disponibilità di validi i. per l’osservazione e la valutazione contribuiscono allo sviluppo di​​ banche di obiettivi​​ (Buckley & Harris, 1970), con i. validati per diverse aree e fasce evolutivo-culturali e scolastiche.

Bibliografia

Bruner J. S. et al.,​​ Studies in cognitive growth,​​ New York, Wiley, 1966; Buckley S. - J. Harris,​​ The banking of multiple-choice questions,​​ in «British Journal Medical Education» 4 (1970) 42-52; Calonghi L.,​​ Valutare,​​ Brescia, La Scuola, 1976; Oakes J.,​​ Education indicators: A guide for policymakers, Santa Monica, CA, Rand Corporation, 1986; Boncori G.,​​ Test di pensiero critico «Caccia all’errore 12»,​​ Roma, Kappa, 1989; Odden A., «Making sense of education indicators - The missing ingredients», in T. J. Wyatt T. J. - A. Ruby (Edd.),​​ Education indicators for quality,​​ accountability and better practice, Ibid.,​​ 1990, 33-50; Boncori G., «Obiettivi educativi», in M. Laeng (Ed.),​​ Enciclopedia pedagogica, vol.​​ V, Brescia, La Scuola, 1992, 8345-8357; Cuttance, P.,​​ Monitoring educational quality through performance indicators for school practice, in «School Effectiveness and School Improvement» 5 (1994) 2, 101-126; Boncori L., «I.», in M. Laeng, cit., 5987-5989; Boncori G.,​​ Guida all’osservazione pedagogica,​​ Brescia, La Scuola, 1994; OECD,​​ Uno sguardo sull’educazione: Gli i. dell’OCSE -​​ ediz. 2006.

G. Boncori

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INDICATORI

INDIFFERENZA RELIGIOSA

 

INDIFFERENZA RELIGIOSA

1.​​ Al posto dell’ateismo militante e aggressivo di una volta è oggi subentrata largamente l’ind. rel. Essa si diffonde molto rapidamente nell’Europa occidentale ed è diventata un fenomeno globale della società. Lo si può documentare con alcuni dati statistici. Una inchiesta del 1970 fra i cattolici italiani rivelò che soltanto il​​ 5%​​ si dichiarava ateo, mentre il​​ 55%​​ si dichiarava indifferente (S. Burgalassi). Il 33% delle persone interrogate dal settimanale tedesco “Der Spiegel” nel 1979 dichiarò che il significato della religione nella loro vita era poco rilevante, mentre un 10% consideravano la religione come totalmente irrilevante. Stando ai risultati di una ricerca demoscopica del 1981 sul rapporto della gioventù tedesca nei confronti della religione, il 60% della giovane generazione la considera come relitto di tempi passati, incapace di offrire un vero aiuto per risolvere i problemi e gli interrogativi di oggi. Rifacendosi a un’inchiesta fra i giovani francesi di 20-40 anni, D. J. Piveteau considera 1’85% di questi come appartenenti al gruppo dei religiosamente indifferenti. Egli è del parere che nei fanciulli francesi questo processo inizia già verso la fine del 10° anno di vita. Ammesso pure che il fenomeno della ind. nei confronti della religione sia difficile da cogliere in statistiche, non è certo possibile trascurare i risultati di queste inchieste, tanto più che indicano tendenze convergenti nella maggior parte dei paesi europei. Essi caratterizzano una crisi profonda e ampiamente diffusa della religione, e pertanto pongono alla trasmissione della fede oggi problemi totalmente nuovi e finora sconosciuti.

2.​​ Il fenomeno dell’apatia religiosa presenta volti diversi e va affrontato in maniera differenziata. Occorre distinguere tra indifferenza nei confronti dell’istituzione ecclesiale (“Gesù sì – Chiesa no”) e nei confronti della fede cristiana. L’indifferenza può anche riguardare qualsiasi forma di religione e di metafisica, e nello stesso tempo andare di pari passo con un elevato impegno (sociale e/o politico) nel mondo, per es. nei movimenti umanistici. “Alcuni tanto esaltano l’uomo che la fede in Dio ne risulta quasi snervata”, afferma la GS 19.

L’indifferente può in generale attribuire alla religione una funzione sociale, per es. nell’ambito caritativo, però per l’impostazione della sua vita personale la fede in un qualche potere trascendente non è più rilevante. Ha fatto l’esperienza che anche senza un legame religioso o una motivazione religiosa del proprio agire si può vivere. Altri invece negano perfino questa funzione sociale della religione e la rifiutano come superflua e inutile. La forma estrema si presenta come indifferenza totale, caratterizzata da “una fondamentale apatia spirituale” (A. Liégé); non è limitata al solo ambito spirituale, ma si chiude di fronte a qualsiasi problema del senso della vita. Si accontenta della piccola felicità ed è orientata fondamentalmente sulla soddisfazione momentanea della ricerca del piacere.

Di fronte al pluralismo sociale e ideologico di oggi e alla caotica oSerta di significati non si pone nemmeno più il problema della verità. Ci si accontenta dei compiti che sono richiesti nel momento presente, e si rinuncia a prospettive di più lungo respiro. Da questa ind. rel. più o meno riflessa, si distingue l’atteggiamento agnostico, quale è rappresentato oggi dalla maggioranza dei filosofi e scrittori occidentali. Qui l’indifferentismo rel. si affaccia sotto forma riflessa. Questo pensiero moderno è stato caratterizzato in modo classico da J. Améry: “Desidero sapere chi è Dio? Mi spiace... no. In fondo la domanda non mi riguarda. Mi trovo pienamente d’accordo con Claude Lévy-Strauss, il quale ha dichiarato: “Personalmente non si pone per me il problema di Dio. Trovo sopportabile passare la mia vita nella consapevolezza che non sarò mai in grado di spiegare la totalità dell’universo”“ (Widersprüche,​​ Stuttgart, 1971, 23). In questo ateismo è sconcertante il fatto che non vuol nemmeno più provocare, di modo che la fede non si senta più provocata.

3.​​ Questa assenza apparentemente totale di Dio nel nostro mondo, e anche nella vita dei singoli, costituisce in realtà la suprema sfida per la fede e per la trasmissione della fede. Di fronte al progredire dell’apatia rel. si rivelano inefficienti le convalidate strategie della trasmissione pastorale e cat. Un semplice cambiamento di tattica pastorale o di metodi cat. è assolutamente inadeguato di fronte ai nuovi compiti, che non si possono più risolvere con i mezzi tradizionali. È necessario che l’intera teologia cambi i suoi paradigmi; questo compito non può essere scaricato sulla sola teologia pratica. Ci muoviamo in una problematica nuova, in cui soltanto a tastoni possiamo fare i primi passi. Senza pretendere la completezza, si possono comunque indicare alcuni settori e compiti.

1) Quando K. Rahner afferma che “l’unico vero e radicale agnosticismo” consiste nell’”incondizionato abbandono di se stesso alla incomprensibilità di Dio”, risulta urgentissima la trasmissione di una valida immagine di Dio, che si sostiene anche in presenza delle critiche che scaturiscono dalla sofferenza e dal male. Invece di parlare di Dio come se ne sapessimo tutto, occorre entrare nella scuola della “teologia negativa” e rispèttare il mistero di Dio. Non già il dominatore onnipotente e onnisciente dell’universo, ma il Dio che solidarizza con l’uomo nella im-potenza dell’amore sulla croce, si fa ascoltare dall’uomo d’oggi. Il “Dio crocifisso” deve nuovamente tornare al centro dell’attenzione; poiché sulla croce si è rivelato come Dio che ha com-passione.

2)​​ Esperienze elementari, quali l’ansia, la speranza, la gioia, l’amore, la libertà, ma anche l’esperienza della routine quotidiana, che evoca sicurezza, devono essere verificate sotto il profilo della trasparenza, di modo che nel mezzo della vita quotidiana si apra una porta su un altro mondo (mistagogia dell’esperienza religiosa). Nella vita dei giovani si possono scoprire “tracce degli annunciatori”, per es. nel loro entusiasmo per lo sport, nell’esperienza estatica della musica, nella disponibilità all’impegno sociale e politico, nella ricerca del lontano... Nel colloquio con i giovani è necessario aiutarli prudentemente a vedere questa nascosta dimensione del profondo, presente in questi fenomeni apparentemente così immediati.

3)​​ Per mezzo di esercizi di silenzio e di concentrazione, nonché di varie forme di meditazione, è possibile esercitare nuovamente la possibilità dello stupore, cosicché qualcosa del carattere misterioso delle cose si lasci intravedere. Aprendo in questo modo i sensi, l’uomo contemporaneo potrà nuovamente aprirsi al problema del senso della sua esistenza, e scoprire che esso non si esaurisce nel momento presente, ma desidera la totalità della realtà (compito di una didattica del → simbolo).

4)​​ Fantasia e creatività vanno educate, di modo che tutto l’uomo possa svilupparsi ed essere interpellato negli strati profondi dell’esistenza. In questo contesto diventano particolarmente rilevanti il gioco, la danza, la festa, la celebrazione. Le comunità e i gruppi cristiani devono nuovamente offrire esperienze di celebrazioni veramente riuscite, in cui l’uomo riesca a dire sì al fondamento divino della realtà. Una convinta cultura della festa esprime precisamente la radice cultuale della festa e della celebrazione; contemplazione e impegno sociale o politico non si escludono, ma si condizionano reciprocamente (cf Taizé).

5)​​ Ci si lamenta molto spesso della inefficacia del cristianesimo nel tempo moderno. Questa, fra l’altro, potrebbe anche essere connessa con il fatto che il → linguaggio religioso non aderisce all’esperienza, essendo largamente fossilizzato in cliché linguistici. Occorre enunciare nuovamente la fede sviluppando un “gioco linguistico” che si faccia ascoltare dall’uomo contemporaneo e mediante il quale si apra un nuovo accesso alla Parola di Dio. Il problema posto da​​ Bonhoeffer​​ nel suo diario della prigione: “Come possiamo parlare di Dio senza religione, cioè senza i presupposti culturali della metafisica e della interiorità...?” è finora rimasto senza risposta. Il nostro linguaggio religioso deve nuovamente mettere le radici nella terra. Nello stesso tempo però deve anche prendere il lettore e l’ascoltatore sottraendolo alla banalità e alla logica del quotidiano e condurlo al confine, dove “incomincia l’ineffabile” (W. Willems). Il linguaggio religioso, essendo metaforico, è imparentato con il linguaggio della poesia. Una sensibilità per il linguaggio poetico può anche aprire al linguaggio religioso.

6)​​ La crescente mancanza di interesse per la ricerca del → senso della vita rende anche problematica l’offerta cristiana di tale senso, e mina radicalmente il fondamento di qualsiasi religione. Da questo fatto scaturisce la necessità di un ecumenismo delle religioni mondiali, poiché ogni religione si vede minacciata nella propria esistenza. Le grandi religioni devono entrare in dialogo tra loro, e cercare in che modo possano reagire insieme di fronte a questa sfida del tutto nuova. Ancora più urgente si rivela la collaborazione tra le Chiese cristiane, che non si possono più permettere il lusso di guerre confessionali da trincea.

7)​​ Gruppi cristiani che rifiutano l’adattamento conformistico allo spirito dell’epoca, e cercano di vivere radicalmente a partire dallo spirito del Vangelo, colpiscono l’attenzione dei “fratelli non credenti” e suscitano la curiosità. La loro testimonianza può essere un segnale per il loro ambiente e diventare un segno di speranza. Anche dal singolo cristiano può scaturire una forza di attrattiva, quando la sua fede lo stimola alla pratica dell’amore. L’uomo che è religiosamente indifferente può forse essere risvegliato dalla sua apatia e dal suo letargo incontrando testimoni della trascendenza. In tal modo il muro dell’indifferenza può essere superato.

Bibliografia

R. Bleistein,​​ Hinwege zum Glauben,​​ Wüxzburg,​​ Echter Verlag, 1973;​​ L’indifferenza religiosa,​​ in “Concilium” 19 (1983) 5, 1-165;​​ Pastorale​​ (dell'ateismo),​​ ibid. 3 (1967) 3, 1-172; D. J. Piveteau,​​ Les jeunes, l'athéisme​​ et la​​ catéchèse,​​ in “Lumen​​ Vitae»​​ 38 (1983) 183-191; K.​​ Rahner,​​ Glaubensbegründung​​ in​​ einer​​ agnostischen​​ Welt,​​ in​​ Schriften zur Theologie,​​ vol.​​ XV, Zürich, 1983, 133-138;​​ Le​​ religieux”: indifférences et attraits,​​ in “Catéchèse” 24 (1984) n. 96; R.​​ Sauer,​​ Religiöse Erziehung auf dem Weg zum Glauben,​​ Düsseldorf, Pattnos, 1976, spec. 57-90;​​ H.​​ R. Schlette (ed.),​​ Der moderne Agnostizismus,​​ Düsseldorf, Patmos, 1979; J. Schmidt,​​ Desinteresse am Religionsunterricht?​​ Ein Text zur Messung der religiösen Ansprechbarkeit von Schülern, Einsiedeln, Benziger Verlag, 1982;​​ Segretariato​​ per i​​ non credenti,​​ L’indifferenza religiosa,​​ Roma, 1978;​​ J. F. Six,​​ L'incroyance et la foi ne sont pas ce qu’on croit,​​ Paris, 1979; K. H.​​ Weger,​​ Der Mensch vor dem Anspruch Gottes.​​ Glaubensbegründung in einer agnostischen Welt, Graz, 1981.

Ralph Sauer

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INDIFFERENZA RELIGIOSA

INDIVIDUALISMO

 

INDIVIDUALISMO

Il termine i. indica in modo generico una qualche forma di attenzione preminente alla soggettività individuale, sia da parte del soggetto stesso, come forma di comportamento egocentrico, sia nell’ambito della filosofia sociale, come forma di interpretazione della socialità umana. In questa seconda accezione, essa è diffusissima nella nostra cultura.

1. La​​ ​​ società viene vista, in questa concezione, dalla prospettiva del singolo individuo: essa si riduce perciò a una somma di individui. Ognuno di questi individui è portato a cercare il suo interesse personale, l’appagamento dei suoi bisogni, potenzialmente illimitati. Egli vede gli altri esclusivamente nella prospettiva del suo vantaggio personale e li tratta come mezzi da utilizzare, o come ostacoli da superare nel perseguimento dei suoi intenti. È chiaro che una simile radicale contrapposizione di egoismi tenderebbe, per sua natura, a sfociare in una guerra di tutti contro tutti. Se questo non si verifica, è soltanto perché sarebbe troppo contrario all’interesse di ognuno. È infatti interesse di tutti i singoli addivenire a una certa composizione consensuale e quasi contrattuale (il cosiddetto «contratto sociale») di queste pretese contrastanti. La società nasce (non una sola volta, in un lontanissimo «illo tempore»,​​ ma in ogni singolo presente storico) da questa tregua d’armi tra gli interessi conflittuali dei singoli, in forza di un interesse comune. La società nasce quindi dall’egoismo dei singoli individui, è conforme ai loro veri interessi. L’egoismo del singolo, per trasformarsi in forza di coesione sociale, ha solo bisogno di essere «razionale», cioè di riconoscere l’impossibilità di portare avanti, nella loro illimitatezza, tutte le sue pretese e il vantaggio di accettare dei limiti, in cambio della cosiddetta «certezza del diritto». L’egoismo razionale (o meglio la razionalità dell’egoismo) è così l’unica virtù sociale, l’unica vera qualità moralmente positiva dell’uomo. Naturalmente non viene chiusa del tutto la porta alle più diverse forme di solidarietà disinteressata, ispirate a sentimenti di pietà e di filantropia; ma si tratta di un​​ optional​​ di lusso che viene lasciato alla gratuita generosità dei singoli, senza altri obblighi che non siano quelli legati alle libere scelte etiche degli individui.

2. La filosofia sociale esattamente opposta a quella dell’i. è il collettivismo (​​ marxismo pedagogico). La prospettiva, in questa visione, è del tutto diversa: chi analizza il fatto sociale si pone dalla parte della società stessa, considerata come un assoluto, rispetto al quale i singoli individui non hanno né esistenza, né dignità autonoma. L’individuo è solo «parte» della società, proprio nel senso in cui l’ingranaggio è parte della macchina e la cellula parte dell’organismo; egli non esiste che come «parte»: è mezzo nei confronti della società-fine. Solo la società-stato è il vero soggetto della storia, il beneficiario ultimo del Grande Progresso Illimitato di cui questa storia è fatta. La dedizione incondizionata al «collettivo», qualunque esso sia di fatto, è la sola virtù sociale, l’unica forma di positività etica.

3. Accanto a queste due concezioni del sociale, chiaramente caratterizzate da una certa unilateralità, ne esiste una terza, che sembra salvare meglio di queste due sia il valore e la dignità della persona, sia la sua costitutiva vocazione sociale. Questa concezione è molto più vicina delle precedenti alla visione cristiana dell’uomo e, come tale, è stata di fatto ripetutamente proposta dall’insegnamento sociale della chiesa. Essa si fonda sul primato della persona umana nei confronti di tutte le cose, e quindi anche delle istituzioni da essa stessa create per la sua autorealizzazione e per la strutturazione della sua convivenza. La persona umana ha quindi lo statuto di «fine», e non può mai essere considerata mezzo nei confronti di nulla. Ma proprio questa stessa dignità e non-strumentalizzabilità di «ogni» persona vieta al singolo individuo di guardare alla società-convivenza (e quindi alla società in quanto insieme di persone) come a un mezzo. La vocazione sociale costituisce l’uomo nella verità del suo essere: non è il segno della sua indigenza, ma del suo destino di essere spirituale, fatto per realizzarsi nell’apertura disinteressata agli altri.

4. L’i., nella forma della​​ expedient morality, è alla base del vissuto morale infantile. Aprire gradualmente il​​ ​​ bambino a quelle forme di riconoscimento dell’altro e di altruismo che caratterizzano la maturità morale è compito importante dell’educazione sociale.

Bibliografia

Maritain J.,​​ La persona e il bene comune,​​ Brescia, Morcelliana, 1968; Utz A. F.,​​ Ethique sociale,​​ Bale​​ / Roma, Herder, 1970; Vandeplans-Holper C.,​​ Sviluppo sociale e morale,​​ Roma, Armando, 1977; Maffettone S.,​​ Verso un’etica pubblica,​​ Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1984; Gil Villa F.,​​ I. y cultura moral, Madrid, Centro de Investigaciones Sociológicas, 2001.

G. Gatti

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INDIVIDUALISMO

INDIVIDUALIZZAZIONE

 

INDIVIDUALIZZAZIONE

1.​​ Principio metodologico che afferma l’esigenza di adattare il processo educativo e l’azione del maestro-educatore alle capacità e caratteristiche originali dell’educando-alunno.

L’individualizzazione​​ dell’insegnamento non va confusa con l’insegnamento individualizzato, teorizzato da autori come Rousseau, e attuato lungo la storia in certe forme aristocratiche di educazione (un solo alunno riceve lezioni da un solo maestro-precettore).

2.​​ Nella pedagogia moderna (dopo la generalizzazione della scuola pubblica e la scolarizzazione di massa), l’istanza dell’individualizzazione si è sentita con più forza, soprattutto come reazione a certe accentuazioni sociologistiche e a una impostazione collettiva della scuola che ignorava la realtà concreta del ragazzo. Pedagogisti ed educatori autorevoli (Quintiliano, Vives, Huarte de San Juan) avevano insistito sulla necessità di tener presente le differenze individuali. Ma particolarmente gli sviluppi della psicologia e l’opera dei fautori dell’ → attivismo fecero prendere coscienza dell’urgenza di una “scuola su misura” (Claparède). L’attenzione si spostò dall’insegnamento all’apprendimento; dai risultati scolastici alla maturazione della persona. Infatti, si potrebbe oggi parlare piuttosto di​​ personalizzazione,​​ per affermare la necessità di integrare, nell’azione educativa, la prospettiva individuale e quella sociale.

3.​​ Nell’IR e nella C. l’accoglienza di questi principi non è stata priva di difficoltà e diffidenze. La preoccupazione​​ dell’oggettività​​ e dell’integralità del programma ha fatto trascurare le situazioni particolari del​​ soggetto.​​ L’impegno di studiosi e catecheti sensibili ( Manjón,​​ Quinet,​​ Fargues,​​ Boyer,​​ Nosengo, Riva...) riuscì a vincere inerzie e resistenze. Il Concilio Vaticano II ha dichiarato poi senza ambiguità il diritto di tutti gli uomini “ad una educazione che risponda al proprio fine, convenga alla propria indole, alla differenza di sesso, alla cultura e alle tradizioni del loro paese»​​ (GE​​ 1).

In recenti documenti ecclesiali, il principio​​ dedlindividualizzazione-personalizzazione​​ è affermato chiaramente: “Il metodo della C. è attento alle esigenze singolari dell’individuo. La natura umana è comune a tutti, ma ciascuno è inconfondibile, per le sue caratterizzazioni originarie e il ritmo di sviluppo; per i condizionamenti che lo avvolgono e le attitudini che sa sviluppare; per le sofferenze e le gioie che continuamente lo plasmano e per l’originalità che la chiamata di Dio gli rivolge” (RdC 170).

4.​​ Tra le modalità più diffuse di applicazione di questi orientamenti hanno avuto una verifica nella pratica: i test di catechismo, le prove oggettive nell’IR, i piani e progetti di lavoro, le biblioteche di classe con i libri e sussidi per la ricerca personale e di gruppo... Attualmente, nell’ambito della pedagogia e della didattica, si parla di programmazione, di computerizzazione dell’insegnamento. L’entrata del calcolatore nella scuola e nell’educazione significa una sfida anche per l’IR e per la C.

Bibliografia

G.​​ Adler –​​ G.​​ Vogeleisen,​​ Un​​ siècle​​ de​​ catéchèse en France​​ 1893-1980,​​ Paris,​​ Beauchesne,​​ 1981; A.​​ Boyer,​​ Faire​​ Face”. La méthode des projets pour l’enseignement religieux dans l’enseignement court,​​ Paris, Éd. de l’École, 1960; M. Fargues,​​ «Tests» collectifs de catéchisme,​​ Sèvres, Société d’Éditions, 1954-1957; Id.,​​ Catéchisme pour notre temps. Principes et techniques,​​ Paris, Spes, 1951; V. Garcîa Hoz,​​ Educazione personalizzata. Individualizzazione e socializzazione nell’insegnamento,​​ Firenze, Le Monnier, 1981.

José M. Prellezo

 

INDIVIDUALIZZAZIONE

L’i. consiste nell’adeguare gli interventi educativo-didattici alle caratteristiche individuali del soggetto, per aiutarlo a crescere nel miglior modo possibile.

1. È un principio che afferma la necessità di rispettare, nel contesto dell’azione educativo-didattica, le differenze sia interindividuali che intraindividuali in rapporto a interessi, capacità, ritmi, difficoltà, attitudini, carattere, inclinazioni, esperienze precedenti di vita e di apprendimento. In ciò è evidente l’apporto della​​ ​​ psicologia differenziale. L’i. s’impone come problema nella scuola democratica che deve essere scuola di tutti e di ciascuno, e diventa un principio maggiormente significativo in sede didattica richiedendo di conoscere in profondità ciascun alunno, e di rispondere adeguatamente alle sue esigenze formative in termini di integrazione, recupero e sviluppo. L’i. non si effettua solo verso il basso, ma anche verso l’alto, per cui una​​ ​​ didattica differenziale deve includere necessariamente un’attenzione anche ai​​ ​​ superdotati. Il discorso relativo alla didattica differenziale e alla pedagogia speciale rientra nella prospettiva di questa. È un principio che va applicato in senso personalizzante, promotore cioè della formazione integrale della personalità. Per questo nell’ambito iberoamericano si parla del principio della personalizzazione inclusiva dei due principi dell’i. e della socializzazione.

2. L’i. può andare dall’applicazione circoscritta di una semplice tecnica didattica fino alla completa riorganizzazione dell’insegnamento e della struttura scolastica; inoltre può avvalersi di mezzi tecnologici e dell’assistenza tutoriale. Una corretta i. deve effettuarsi piuttosto in gruppi eterogenei che omogenei. La pedagogia contemporanea ha sostenuto fortemente la necessità di un’i. soprattutto didattica. Essa presenta un vasto panorama di esperienze, espedienti, realizzazioni al riguardo. Oggi, con l’impiego degli elaboratori elettronici, la didattica, anche dal punto di vista dell’i., trova realizzazioni interessanti e significative. La recente normativa scolastica italiana esige di elaborare e quindi realizzare, per ogni alunno, il cosiddetto​​ ​​ Piano di studi personalizzato.

Bibliografia

García Hoz V.,​​ Educación personalizada,​​ Madrid, CISC, 1970;​​ Gronlund N. E.,​​ Individualizing classroom instruction,​​ New York, Macmillan, 1974; Titone R.,​​ Metodologia didattica,​​ Roma, LAS,​​ 31975,163-236; 390-423; Baldacci M.,​​ L’istruzione individualizzata,​​ Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1993; Tenuta U.,​​ I.,​​ autonomia e flessibilità nell’azione educativa e didattica, Brescia, La Scuola, 1998; Jaligot A. - G. Wiel,​​ Construire des stratégies de nouveau départ. Organiser des parcours scolaires personnalisés, Lyon, Chronique Social, 2004.

H.-C. A. Chang

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INDIVIDUALIZZAZIONE

INDOTTRINAMENTO

 

INDOTTRINAMENTO

Interiorizzazione di idee, valori, modelli di comportamento, come esito di propaganda, informazione, insegnamento, istruzione, catechesi, a fini o con esiti di conformismo acritico o di settarismo culturale, politico, religioso.

1. Il termine ha normalmente un significato peggiorativo, collegato con forme di «lavaggio del cervello» (come si pratica presso certe sette o gruppi fondamentalistici o sotto regimi autoritari) o con forme di «omologazione» (come effetto della propaganda politica o mass-mediale). Il pericolo o l’intenzione dell’i., è molto sentito dalla mentalità moderna, sensibile al problema delle libertà democratiche.

2. In sede pedagogica il tema è connesso con questioni, quali l’incidenza educativa della​​ ​​ comunicazione di massa, la cosiddetta laicità della scuola, 1’​​ ​​ insegnamento della religione, il rapporto tra educazione, pedagogia e​​ ​​ ideologia, e più largamente si riverbera sul​​ ​​ rapporto educativo in genere. Il rischio dell’i. attraversa l’insegnamento sia a livello di intenzione sia a livello di contenuto sia a livello di metodo. In termini generali si può affermare che l’i. può essere evitato se l’insegnamento sarà veramente tale, cioè offerta di quel tanto di informazioni e di strategie di apprendimento adeguate alla reale domanda degli allievi e alle loro effettive capacità, in modo tale che sia loro possibile continuare a ricercare e ad istruirsi da sé in libertà. Informazione corretta, sistemazione riflessa e critica, stimolazione integrativa sembrano essere i tratti di un insegnamento che eviti l’i., ma parallelamente anche il vuoto di informazioni (che lascia nell’ignoranza e nel pregiudizio), il meccanicismo e lo specialismo (che non permettono la formazione di quadri culturali di riferimento), o stili didattici che non stimolano o non lasciano liberi di apprendere.

Bibliografia

Reboul O.,​​ L’i.,​​ Roma, Armando, 1979; Morin E.,​​ La testa ben fatta, Milano, Cortina, 2000.

C. Nanni

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INDOTTRINAMENTO

INDUISMO

 

INDUISMO

Tra le religioni attualmente esistenti, l’I. è quella più antica, poiché esiste da quattromila anni. L’I. non è una religione organizzata e neppure un’unica religione, poiché si presenta come «un mosaico di religioni», da una religione della natura al politeismo o al monoteismo, dal panteismo al monismo; non ha un fondatore, né un’autorità centrale, né impone credenze, dogmi o pratiche religiose. Gli elementi comuni che caratterizzano un indù sono: fede nell’autorità infallibile dei​​ Veda;​​ fede in Dio, in una forma o in un’altra; fede nella concezione ciclica del mondo e della storia; fede nel​​ karma-samsara​​ (trasmigrazione delle anime); fede nello​​ mukti​​ o​​ moksha​​ (la liberazione definitiva dell’anima); osservanza della​​ varnasrama-dharma​​ (legge della casta e degli stadi di vita); qualche rito cultuale. Per comprendere il sistema di educazione (moderna ed antica) dell’India ci si deve riferire sempre al contesto religioso, che ha come scopo ultimo lo​​ moksha,​​ e anche ad alcuni concetti e categorie della vita sociale e del sistema di valori dell’I.:​​ varna​​ (quattro caste),​​ purusartha​​ (quattro scopi dell’esistenza umana) e​​ asrama​​ (quattro stadi della vita).

1.​​ L’educazione e le quattro caste.​​ La società induista è divisa in quattro caste:​​ brahmina,​​ ksotriya,​​ vaisya​​ e​​ sudra.​​ Esiste anche una quinta casta (pancama),​​ gli intoccabili o «paria». Anche l’educazione si basò su questa divisione delle caste; essa divenne monopolio delle tre caste superiori, mentre l’ultima casta (inclusi gli intoccabili e le donne) ne fu esclusa. Nel periodo vedico l’educazione consisteva principalmente nello studio dei​​ Veda.

2.​​ L’educazione e i quattro scopi della vita dell’uomo.​​ L’unico​​ summum bonum​​ della vita umana, secondo la​​ Sanatana Dharma​​ è lo​​ moksha:​​ lo stato di felicità assoluta (la realizzazione di Dio). L’educazione deve servire proprio a questo fine. I saggi, le scritture e i sistemi filosofici indicano numerose vie (morga)​​ e metodi (sadhana​​ o​​ yoga)​​ per arrivarvi e ogni branca della conoscenza deve servire a questo scopo. La conoscenza suprema, secondo le​​ Upanishad,​​ consiste nella conoscenza intuitivo-esperienziale del​​ Brahman.​​ Ma dato che l’uomo è una combinazione di materia e spirito, è necessario soddisfare i bisogni di entrambe le componenti per avere una vita felice. Per soddisfare i bisogni materiali, l’individuo deve cercare di fornirsi dei mezzi necessari:​​ artha​​ (ricchezza e fama); deve trarre dalla vita anche godimenti psico-fisici:​​ kama​​ (piacere e amore); però i beni materiali e i piaceri psico-fisici devono essere regolati secondo le norme morali:​​ dharma.​​ Così,​​ artha kama,​​ dharma​​ e​​ moksha​​ sono i quattro scopi della vita e l’educazione è diretta ad aiutare l’individuo a raggiungerli.

3. L’educazione e i quattro stadi della vita dell’uomo.​​ La vita dell’individuo è divisa in quattro stadi (a’srama): brahmacarya​​ (periodo di studi sacri),​​ grhastha​​ (vita di famiglia),​​ vanaprastha​​ (vita di eremita) e​​ sannyasa​​ (vita di perfetta rinuncia). Con il rito di iniziazione (upanayana),​​ verso i dieci anni di età, si è introdotti nel periodo di​​ brahmacarya​​ sotto la guida di un​​ guru​​ per essere istruiti nei​​ Veda​​ e ricevere l’educazione. Durante questo periodo lo studente lascia la sua casa e si trasferisce alla casa del​​ guru​​ o all’asram​​ (scuola o eremitaggio del​​ guru).​​ Il​​ guru​​ ha un ruolo assoluto e indispensabile; egli è colui che distrugge l’ignoranza (avidyā) – causa di tutti i mali – e rivela al discepolo la conoscenza sacra; è colui che proclama la giusta legge (dharma)​​ per la sua realizzazione finale. Questo periodo, che dura più o meno per altri dodici anni, è uno stadio di intensa vita religiosa (con quattro voti di castità, povertà, austerità e studi sacri) e disciplina monastica. Gli studi sacri consistono principalmente nell’imparare a memoria i​​ Veda,​​ ma questo periodo si riduce generalmente a pochi giorni simbolici. Nel secondo stadio, l’accento è sul matrimonio e sui diritti e doveri del capofamiglia. Durante questo periodo, anche se lo sforzo è prevalentemente fisico, il capofamiglia non deve esimersi dagli studi dei​​ Veda. Vanaprastha​​ è il periodo dedicato totalmente allo studio, meditazione, preghiera, insegnamento e a scrivere dei libri a beneficio dell’umanità intera. L’ultimo stadio (sannyasa)​​ è quello della «rinuncia totale», di «unione con Dio».

4.​​ Neo-I. e educazione.​​ I protagonisti del neo-I. (Dayanand, Vivekananda,​​ ​​ Gandhi,​​ ​​ Tagore e​​ ​​ Aurobindo) sono stati ispirati dagli ideali religiosi, però allo stesso tempo hanno cercato di unire questi ideali con il progresso materiale. Dayanand, per es., fondò nel 1875 la​​ Arya Samaj,​​ che aveva come scopo educativo la liberazione della società indù dai vari pregiudizi e superstizioni. Per realizzare questo scopo la​​ Arya Samaj​​ gestisce varie scuole e collegi dove grande importanza è data allo studio delle scienze naturali e applicate.

Bibliografia

Altekar A. S.,​​ Education in Ancient India,​​ Benares, Kishore,​​ 31948; Kabir H.,​​ Indian philosophy of education,​​ London, Asia Publishing House, 1961; Nanavaty J. J., «Hindu Education», in T. Husen - T. N. Postlethwaite (Edd.),​​ The International encyclopedia of education,​​ vol. 4, Oxford, Pergamon Press, 1985, 2257-2261; Mookerji R. K.,​​ Ancient Indian education.​​ Brahmanical and Buddhist,​​ Delhi, Motilal Banarsidass, 1989.

S. Thuruthiyil

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