INCARNAZIONE

INCARNAZIONE

Riccardo Tonelli

 

1. Alla ricerca di criteri per elaborare il pluralismo

2. L'evento dell'Incarnazione

3. Il contenuto teologico dell’Incarnazione

3.1. Gesù ci rivela un Dio per l’uomo, presente e nascosto

3.2. La testimonianza apostolica

3.3. Gesù, volto e parola di Dio, rivela chi è l’uomo

4. L'Incarnazione per una rinnovata prassi pastorale

4.1. La «mediazione»: dove immanenza e trascendenza si incontrano

4.2. Fare la salvezza secondo il progetto del Dio di Gesù Cristo

4.3. La «svolta antropologica» nella pastorale

5. Conclusione: l’Incarnazione come criterio

5.1. Alla radice del pluralismo

5.2. L’Incarnazione come criterio

 

1. Alla ricerca di criteri per elaborare il pluralismo

Siamo in un tempo di largo e diffuso pluralismo. Basta guardarsi d’attorno per costatare che il nostro non è un pluralismo solo formale, come se si usassero dei sinonimi per dire le stesse cose. Alla radice ci sono modelli antropologici molto differenti.

Questo pluralismo culturale ha invaso ormai anche l’ambito dell’esperienza ecclesiale e della sua prassi pastorale. Siamo in un tempo in cui sono diversi i modi di intendere le dimensioni fondamentali dell’esistenza cristiana.

Tutto questo dà da pensare e provoca chi vuole fare azione pastorale.

Aiuta innegabilmente a scoprire la precarietà di ogni modello, espressione sempre parziale e limitata, incapace di assicurare pienamente tutte le esigenze dei progetti pastorali.

Nella storia della pastorale non mancano, purtroppo, realizzazioni che mostrano come il rischio grave dell’integrismo o del riduttivismo incombe quando prevale il punto di vista solo soggettivo e il confronto con le altre alternative resta bloccato da radicalizzazioni indebite. Il pluralismo non può perciò essere considerato l’ultima parola.

Non lo è quando parla dell’uomo; non lo può essere quando narra di Dio e progetta la salvezza dell’uomo in suo nome.

La storia ha scritto però anche pagine illuminanti. Testimoniano la capacità di andare oltre il pluralismo; permettono rincontro appassionato nell’unità di intenti, mentre viene accolta e incoraggiata la diversità di sensibilità e di operazioni.

La Chiesa italiana ha vissuto una esperienza di questo tipo quando ha elaborato quel grande documento di rinnovamento pastorale che è​​ Il rinnovamento della catechesi​​ (Roma 1970). Dopo lunghe e sofferte contrapposizioni tra i difensori della svolta antropologica in pastorale e coloro che spingevano invece verso modelli più teocentrici, essa ha confessato la sua fede nell’evento di Gesù Cristo, proclamando: «Dio stesso, quando si rivela personalmente, lo fa servendosi delle categorie dell’uomo. Così egli sì rivela Padre, Figlio, Spirito d’amore; e si rivela supremamente nell’umanità di Gesù Cristo. Per questo, non è ardito affermare che bisogna conoscere l’uomo per conoscere Dio; bisogna amare l’uomo per amare Dio» (RdC​​ 122). In questa esperienza, come negli altri casi felici della storia della pastorale, la novità di prospettive e l’incontro nella diversità sono fioriti sulla decisione di fare dell’Incarnazione il criterio normativo di ogni proposta pastorale.

L’Incarnazione ha offerto così un criterio teologico adeguato per elaborare il pluralismo.

In questa logica si muove anche la mia proposta. L’evento dell’Incarnazione rappresenta il criterio fondamentale per ogni progetto di pastorale; per conoscere il progetto di Dio sull’uomo, dobbiamo interrogare l’evento di Gesù Cristo; e lo dobbiamo fare a partire dalla prospettiva dell’incarnazione.

 

2. L’evento dell’incarnazione

Evento di Gesù Cristo e evento dell’incarnazione non sono due formule diverse. Dicono invece la stessa cosa da angolature differenti e complementari. «Evento di Gesù Cristo» suggerisce il contenuto; «evento dell’incarnazione» sottolinea la prospettiva da cui possiamo riconoscerlo.

Evento di Gesù Cristo è una espressione sintetica che indica il messaggio proposto da Gesù su Dio. Si parla di «evento» per ricordare che sono molti gli avvenimenti con cui dobbiamo confrontarci, se vogliamo raccogliere il progetto di Dio.

Al centro sta Gesù di Nazareth: una persona, che ha un nome e una patria, che ha vissuto la sua esistenza in un segmento preciso e concreto di spazio e di tempo.

Questo Gesù ha suscitato una esperienza di sconvolgente e radicale novità in molti uomini. Lo confessano il «Cristo»; il Messia atteso, il Signore della vita, l’unico Nome in cui possiamo ottenere la salvezza. Riuniti nel suo nome, si riconoscono la Chiesa, che continua la sua causa, in ogni tempo e in ogni luogo.

La loro confessione di fede e la prassi della Chiesa apostolica sono decisive per comprendere chi è Gesù. Anche questi fatti sono parte dell’evento di Gesù Cristo.

L’evento di Gesù Cristo è perciò la storia di Gesù e la storia della fede operosa che ha suscitato nei primi discepoli e nelle comunità ecclesiali, nate sulla loro predicazione. L’Incarnazione è l’esperienza centrale e fontale della vita di Gesù e della fede che ha suscitato. È quindi la prospettiva fondamentale da cui possiamo comprendere l’evento di Gesù Cristo.

Quando i credenti parlano dellTncarnazione indicano prima di tutto un fatto preciso della vita di Gesù di Nazareth: Dio per salvare l’uomo ha deciso di farsi uno di noi ed è diventato uomo, con la collaborazione materna di Maria, in un segmento concreto di tempo e di spazio.

Non esprimono però solo questo atto di fede. L’Incarnazione è certamente uno dei tanti avvenimenti che costituiscono la vita di Gesù. Ma non è solo questo. Essa soprattutto rappresenta la prospettiva da cui possiamo comprendere in modo più preciso tutte le parole e i gesti che Gesù ha detto e fatto per rivelarci Dio. Per questo l’Incarnazione permette di comprendere in modo speciale chi è Gesù e chi è per noi.

Gli apostoli, le prime comunità ecclesiali, la Chiesa, in molti momenti solenni della sua lunga esistenza, hanno considerato l’Incarnazione l’evento, unico e irrepetibile, che ci spalanca le porte verso il mistero di Dio.

In Gesù di Nazareth, infatti, il Dio inaccessibile e misterioso, il Dio ineffabile e radicalmente trascendente, si è fatto «volto», è diventato «parola». Nel volto e nella parola di Gesù di Nazareth, si è fatto vicino, comprensibile. Possiamo parlare di Dio e possiamo parlare a Dio. Possiamo cogliere chi è per noi e cosa chiede a noi.

Nell’evento di Gesù Cristo, compreso dalla prospettiva dell’Incarnazione, la comunità ecclesiale, impegnata per attuare nel tempo la salvezza, ritrova gli orientamenti autorevoli per compiere la sua missione.

 

3. Il contenuto teologico dell’incarnazione

3.1. Gesù ci rivela un Dio per l'uomo, presente e nascosto

Per raccogliere il messaggio dell’Incarnazione dobbiamo confrontarci prima di tutto con Gesù di Nazareth, la sua persona, la sua dottrina, la sua vita trascinata a sperimentare la morte umana, proposta di una speranza stabile alla vita nella sua vittoria contro la morte.

Proviamo a rileggere l’evangelo, a partire da questa domanda: chi è Dio per l’uomo? quale volto di Dio Gesù rivela?

Si possono citare tutte le pagine. Sono, in toni diversi, le battute di una grande, unica sinfonia: il Dio di Gesù è il Dio della vita e della felicità. È Dio-per-l’uomo, che fa della vita dell’uomo l’espressione più radicale della sua gloria.

Pensiamo, per esempio, alla disputa tra Gesù e i farisei a proposito della guarigione, avvenuta di sabato, di quel povero uomo che aveva una mano paralizzata​​ (Mt​​ 12,1-14). Per la teologia dominante Dio andava onorato prima di tutto rispettando il sabato. L’uomo paralizzato poteva aspettare: sei giorni della settimana erano a sua disposizione, il settimo era invece tutto e solo per la gloria di Dio​​ (Lc​​ 13,10-17).

Gesù propone una teologia molto diversa. La vita e la felicità dell’uomo è la grande confessione della gloria di Dio. Anche il sabato è in funzione della vita. Gesù non chiede di scegliere tra Dio e la felicità dell’uomo. Afferma, senza mezzi termini, che la gloria di Dio sta nella felicità dell’uomo. Il sabato è per Dio quando è per la vita dell’uomo. Gesù non gioca come un adolescente bizzoso con la legge. Non si diverte ad infrangerla, per il gusto anarchico di farne senza. Egli propone una interpretazione radicale della legge, per rivelare chi è Dio.

La norma fondamentale dell’agire è determinata dalla sola esigenza concreta che può abbracciare senza limiti tutta la vita dell’uomo e applicarsi nello stesso tempo e in maniera esatta ad ogni caso particolare: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore... Amerai il prossimo tuo come te stesso»​​ (Mt​​ 22,37-40).

Dall’amore nasce la libertà, nello spirito delle beatitudini: essere liberi da ogni schiavitù verso il mondo e verso sé stessi per essere pronti, in ogni momento, per Dio e per i fratelli, in un amore che si dona e sa rischiare fino alla morte.

Solo in questa prospettiva di libertà e di amore trova collocazione la legge, un fatto importante ma relativo. La prassi dell’amore non può essere fissata in leggi concrete. La libertà per l’amore può esigere talvolta che si faccia molto di più di quanto è fissato autorevolmente, perché Dio viene glorificato dove l’uomo è reso libero.

Questo «contenuto» ci giunge però in un modo molto particolare.

Gesù rivela chi è Dio per l’uomo secondo modelli comunicativi che ripetono la logica fondamentale di ogni parola umana.

Gesù pone dei gesti, testimonia un messaggio, proclama una parola.

Si tratta di gesti, messaggi, parole che hanno un loro preciso spessore e sapore storico. Possono essere compresi e decifrati attraverso gli schemi interpretativi con cui ogni giorno valutiamo le nostre esperienze. Nel profondo di questi gesti, parole, messaggi, Gesù è Dio che si manifesta all’uomo.

Le parole umane e le realtà della sua vita quotidiana sono segni che manifestano e nascondono eventi sconfinatamente più grandi: sono il segno della presenza di Dio nella storia dell’uomo.

Il passaggio da quello che si percepisce fisicamente al mistero che si porta dentro e che il segno esterno intende rivelare, richiede sempre uno sguardo penetrante, un intreccio di fantasia e di amore: richiede la fede. Solo nella fede dell’interlocutore gesti, messaggi e parole di Gesù esprimono totalmente il mistero di Dio.

Qualche volta la fede è facile, perché il segno esterno è tutto trasparente del mistero di Dio. Cosi è capitato per la donna di Naim, che ha scoperto chi è Dio per lei, stringendo vivo tra le braccia il figlio che aveva pianto morto​​ (Lc​​ 7,11-17).

Altre volte la lettura è molto più complessa. Hanno certamente faticato non poco i venditori del Tempio che si sono trovati le bancherelle sfasciate e la merce all’aria, sotto la spinta purificatrice di Gesù. Anche per loro i gesti e le parole di Gesù manifestavano che Dio è Padre buono e accogliente, è Dio di tutti gli uomini. Hanno però dovuto scatenare una dose alta di fantasia per condividere questa interpretazione​​ (Mt​​ 21,12-17).

Se riorganizziamo gli elementi sottolineati, possiamo trovarci d’accordo su questa prima conclusione: Gesù di Nazareth rivela che Dio è un Dio per l’uomo; lo rivela però in un intreccio misterioso di gesti e di interpretazioni di fede. In Gesù, noi incontriamo il volto e la parola di Dio nello spessore affascinante e fragile della sua quotidiana umanità.

 

3.2. La testimonianza apostolica

Sappiamo che le parole e le azioni di Gesù non ci sono giunte in una registrazione fredda e impersonale, quasi fosse un resoconto stenografico o una immagine fotografica. Esse sono state trasmesse attraverso la fede appassionata di uomini che, animati dallo Spirito, hanno colto il senso dell’esistenza di Gesù e lo hanno espresso nella testimonianza della parola e della vita.

Evento di Gesù Cristo è anche questa esperienza della Chiesa apostolica, espressa nei testi dei Vangeli, degli Atti, delle Lettere e nella prassi ecclesiale adottata.

Per cogliere il significato dell’evento dell’Incarnazione, dobbiamo perciò orientare la nostra ricerca anche nella direzione di questa testimonianza apostolica.

I discepoli di Gesù avevano capito di essere amati e pensati da lui. Essi sperimentavano che in Gesù la vita umana trovava un senso. La loro situazione esistenziale, spesso senza speranza e senza prospettive, carica di tanti problemi, diventava per Gesù importante, interessante, affascinante. Era qualcosa che Gesù faceva pienamente suo.

Assunta in Gesù, questa stessa esperienza, povera e fragile, veniva restituita ai discepoli piena di significati.

Essi poi compresero che tutto questo Gesù lo diceva e lo faceva nel nome di quel Dio che chiamava «Padre».

Nella bontà che gli uomini sperimentavano in Gesù, nel suo perdono, nella sua proposta di libertà, di gioia, di senso alla vita, c’era il Padre.

Nel contatto quotidiano con Gesù, gli apostoli hanno incontrato Dio e l’hanno scoperto come un Dio vicino e accogliente. In Gesù hanno sperimentato che Dio dona la salvezza in uno stile insperabilmente originale: salva nella solidarietà, in una compagnia così profonda con ogni uomo da farsi realmente uomo.

Dopo la morte e la risurrezione di Gesù la comunità ecclesiale si raccoglie attorno alla persona del Signore risorto, ora presente in modo nuovo. Animata dal suo Spirito, essa si costituisce, agisce e proclama l’evento di salvezza che ha sperimentato.

Nasce una prassi ecclesiale in cui la Chiesa apostolica cerca di ripetere quello che ha sperimentato nell’incontro personale con Gesù di Nazareth.

Alla scuola di questa prassi possiamo scoprire ancora meglio il significato dell’evento di Gesù Cristo.

La comunità apostolica deve presto rispondere agli interrogativi nuovi che le circostanze le lanciano. Tra le tante alternative possibili essa cerca quelle che permettono meglio ad ogni uomo di sentirsi amato da Dio, quelle capaci di consolidare la speranza e la fiducia nella vita oltre la morte; quelle che realizzano più efficacemente la promozione dei poveri, di quelli che non contano, per testimoniare loro che di essi è il Regno dei cieli. Agisce in questo stile perché è consapevole che Gesù stesso aveva vissuto tutto ciò in modo radicale.

Basta ripensare a quanto è successo al Concilio di Gerusalemme, come riferisce​​ Arti​​ 15. La Chiesa apostolica era alle prese con un gravissimo problema.

Stava suscitando dispute accese, tensioni e sospetti. Ci si chiedeva: coloro che si decidevano per la fede cristiana e non provenivano dal mondo giudaico, dovevano vivere sottoposti alle legge di Mosè? I punti scottanti erano soprattutto due: la pratica della circoncisione e l’astinenza da certi tipi di carne. Gli apostoli hanno discusso a lungo, senza riuscire a trovare un accordo. Erano d’accordo nel riconoscere la centralità assoluta di Gesù per la salvezza; si rendevano pienamente conto che la sua mediazione salvifica poteva risultare incrinata se subentravano altre esigenze concorrenti. Risultava però difficile decidere la portata concreta e operativa di questo orientamento di fondo.

La soluzione è apparsa invece immediata quando la testimonianza di Pietro e la saggezza di Giacomo hanno chiesto di spostare l’attenzione dai principi all’esperienza fatta stando con Gesù.

Hanno ricordato: «Non possiamo imporre agli altri dei pesi inutili, che neppure noi ci carichiamo sulle spalle».

Il criterio decisivo per risolvere i problemi è la possibilità di sperimentare la bontà di Dio. Continuando la prassi di Gesù, bisogna far sperimentare agli uomini chi è Dio: il Padre buono e accogliente, che non chiede cose inutili, come invece fa chi comanda per il gusto di farsi obbedire. Non è possibile annunciarlo nella verità, se la parola proclamata viene poi accompagnata da una serie di pretese inutili, motivate sul compromesso e sulla paura. Sollecita a questa lettura del Concilio di Gerusalemme la meditazione delle pagine di commento che Paolo ha indirizzato ai Galati​​ (Gal​​ 5).

Ritorna lo stesso tema. Paolo riprende la conclusione del Concilio: la coscienza della grande libertà a cui Gesù ci ha chiamati e la raccomandazione di astenersi dalle carni sacrificate agli idoli.

Il documento conclusivo proponeva questo impegno a tutti i cristiani. Poteva sembrare il compromesso dell’ultimo momento, per accontentare anche le minoranze intransigenti. Paolo invece commenta in termini diversi la raccomandazione. Sa di essere libero: può mangiare qualsiasi genere di carni, per la libertà a cui Cristo ci ha liberati. Non può però usare della sua libertà come gesto di disprezzo e di offesa per il fratello più debole, che ne rimarrebbe impressionato malamente. La sua inesauribile libertà termina quando incomincia il dovere sommo della carità fraterna.

Come posso annunciare il Dio di Gesù Cristo, come Padre buono e accogliente, se provoco il fratello nelle sue convinzioni più profonde, se lo metto in crisi nel nome della maturazione che ho acquisito?

La logica è la stessa di Giacomo. Paolo la porta alle conseguenze più radicali. Per risolvere i problemi pastorali che la comunità cristiana è chiamata ad affrontare lungo lo sviluppo della sua storia, il criterio è quello rivelato nella prassi di Gesù: l’esperienza che il Dio di Gesù è un Dio per l’uomo.

 

3.3. Gesù, volto e parola di Dio, rivela chi è l’uomo

Il secondo grande contenuto che la meditazione dell’evento dell’Incarnazione ci fa scoprire riguarda il significato e il valore dell’umanità dell’uomo.

Nell’Incarnazione Dio si è rivelato all’uomo in modo umano. Il suo ineffabile mistero è diventato comprensibile e sperimentabile perché ha preso il volto e la parola di Gesù di Nazaret.

È importante comprendere la qualità di questa assunzione. È troppo facile vanificarla, ragionando in termini strumentali, come se il rapporto tra Gesù di Nazaret e il Dio ineffabile fosse come quello-di una fotografia rispetto ad una persona amata o funzionasse come una registrazione rispetto alla viva voce di un amico lontano.

In Gesù Dio ha assunto un volto umano e si è fatto parola non come ci si serve di uno strumento esterno (che in nulla modifica quanto uno è), per comunicare qualcosa di sé, visto che non si può farlo direttamente e immediatamente.

L’umanità di Gesù è invece Dio-con-noi: l’evento nuovo e insperabile in cui Dio stesso, rimanendo Dio, si è fatto vicino, volto e parola, per incontrare e salvare l’uomo. La sorprendente novità, testimoniata da​​ Fil​​ 2,6-8, sta proprio in questo: Dio non ha abbandonato la «forma di Dio» per prendere quella di «servo», ma è diventato pienamente uomo, sussistendo totalmente come Dio.

Per questo l’Incarnazione è anche la rivelazione più piena dell’uomo: rivela qual è la sua sconfinata grandezza.

Gesù è uomo, di una umanità come la nostra: è uomo come lo siamo tutti noi.

La sua umanità può manifestare, rendere presente ed esprimere Dio, perché l’umanità dell’uomo è stata fatta radicalmente capace di essere manifestazione di Dio. L’Incarnazione è incominciata proprio nella Creazione. In questo primo, definitivo gesto di salvezza, Dio ha creato un uomo, capace di essere «volto» e «parola» di Dio.

Se l’uomo non fosse stato costruito così, Gesù di Nazareth non potrebbe essere Dio con noi, perché la sua umanità sarebbe incapace di offrire «una tenda» a Dio.

Oppure si potrebbe avanzare l’ipotesi contraria. Se Gesù è Dio, allora di certo non è un uomo come noi; la sua umanità è solo apparentemente simile alla nostra, mentre in realtà è diversissima, come la luce non ha nulla da spartire con le tenebre.

Lungo lo sviluppo della fede ecclesiale, ci sono stati quelli che hanno proposto la prima ipotesi (Gesù non è Dio) o la seconda (Gesù è Dio, ma non è vero uomo). La fede della Chiesa ha difeso sempre con forza e con fierezza che Gesù è uomo, profondamente e veramente uomo e, nello stesso tempo, Dio-con-noi. Questa grande affermazione ci assicura che la nostra umanità è più grande di quello che possiamo immaginare. Essa è, in piccola o grande misura, «volto» e «parola» del Dio ineffabile e inaccessibile.

Gesù è il caso supremo, unico e irrepetibile, di una umanità tanto pienamente realizzata, da essere volto e parola in modo definitivo. Egli è colui che realizza tutte le possibilità dell’uomo, raggiungendo in pienezza l’abbandono totale al mistero di Dio.

Gesù lo è di fatto. Noi abbiamo la possibilità di essere uomini pienamente umanizzati come lui; e di fatto, un pochino almeno, lo siamo, per la solidarietà di vita e di salvezza che ci lega a Gesù e a coloro che come lui hanno portato a pienezza la loro umanità. Certo, la diversità tra noi e Gesù è grande. È però sul piano della realizzazione concreta; non su quello della possibilità.

La conclusione è immediata e concretissima: l’umanità dell’uomo è il luogo in cui Dio si fa presente nella nostra esistenza quotidiana, come il Padre buono e accogliente, che salva e riempie di vita.

 

4. L’incarnazione per una rinnovata prassi pastorale

Abbiamo sviluppato una lunga meditazione teologica sull’evento dell’Incarnazione, per raccogliere il messaggio che esso ci propone.

Le informazioni acquisite ci permettono finalmente di stabilire alcuni «punti di riferimento» per ogni azione pastorale.

L’evento dell’Incarnazione si fa così «criterio» normativo di una rinnovata prassi pastorale.

 

4.1. La «mediazione»; dove immanenza e trascendenza si incontrano

Un certo modo di pensare, di fare raccomandazioni e di cogliere problemi e prospettive è abituato a contrapporre le realtà trascendenti a quelle immanenti. Il mondo della trascendenza è quello che riguarda direttamente il mistero di Dio e quei gesti, parole e interventi che cercano di raggiungerlo. Il mondo dell’immanenza è invece quello della nostra esistenza quotidiana, dove l’uomo si arrabbatta, solitario, nel labirinto delle opere delle sue mani.

In questo mondo Dio è assente, risulta lontano, estraneo. Se vogliamo incontrarlo, dobbiamo avere il coraggio di abbandonare progressivamente tutto quello che ci lega a questa esperienza troppo condizionante per accedere alla libertà del mistero.

Ci sono dei cristiani coraggiosi che fanno il grande balzo in avanti e «abbandonano tutto» per incontrare Dio. Cambiano dimora; diventano così la gente della trascendenza. Gli altri purtroppo devono continuare a fare i conti con le cose di tutti i giorni. Si ritagliano però qualche spazio privilegiato dove, ad intervalli regolari, cercano di incontrare il loro Dio: i sacramenti, la liturgia, la preghiera. Questi (e solo questi) sono i tempi sacri dove Dio opera la salvezza innondando il mondo «profano» (quello dell’immanenza) della sua grazia.

Per molto tempo i cristiani hanno vissuto la loro esperienza in questo modello. Non sono mancate le eccezioni; ma la logica dominante era questa. Ora, molti fattori, dentro e fuori la vita della Chiesa, hanno messo in crisi la prospettiva.

Avanzano soluzioni diverse. Il conflitto, su questa frontiera, attraversa la prassi pastorale. Che fare? È corretto ragionare in questo modo? C’è posto per una visione diversa? La distinzione tra «sacro» e «profano» è classica di ogni esperienza religiosa. Sembra che anche l’esperienza cristiana non possa superarla. Se è così, la pastorale si impegna a sottrarre progressivamente terreno al profano, perché solo immergendo nel sacro può assicurare la salvezza.

L’Incarnazione ci spinge invece ad una prospettiva radicalmente opposta.

Al conflitto tra trascendenza e immanenza l’evento di Gesù Cristo sostituisce la categoria teologica della «mediazione sacramentale».

È vero che il mondo di Dio e quello dell’uomo sembrano lontani e incomunicabili. Dio è il totalmente altro, l’ineffabile e l’indicibile. L’uomo è lontano da Dio perché è creatura e perché ha deciso un uso suicida della sua libertà e responsabilità nel peccato. Dio e l’uomo sono i «lontani» per definizione e per scelta.

Questa però non è l'ultima parola. La parola decisiva è invece Gesù di Nazareth. In lui, Dio si è fatto vicino all’uomo: è diventato «volto» e «parola». E l’uomo è stato ricostruito in una novità così insperata da diventare il volto e la parola di Dio.

In Gesù di Nazareth i lontani sono ormai diventati i «vicini», in una realtà nuova, che ha trasformato radicalmente i due interlocutori.

Sempre la fede della Chiesa ha riconosciuto a Gesù il titolo di «mediatore». Egli non è solo colui che fa la mediazione. È la mediazione fatta persona: una persona nuova in cui Dio e l’uomo sono in dialogo pieno e totale. La grande mediazione è Gesù «uomo»; per questo l’umanità dell’uomo è, in piccola misura e in potenzialità totale, mediazione tra il mondo della trascendenza e quello dell’immanenza.

Senza Gesù nella storia dell’uomo il conflitto resta e la distanza è incolmabile. In Gesù la distanza è ormai coperta definitivamente: l’immanente è il luogo in cui il trascendente si fa «volto» e «parola».

Come in Gesù, si tratta di una presenza sotto i veli del segno.

Nel linguaggio della Chiesa questo tipo di presenza è chiamato con una formula frequente: sacramento e sacramentalità. L’umanità quotidiana dell’uomo è il sacramento in cui Dio si fa presente e vicino, per attuare il suo progetto di salvezza.

La contrapposizione tra immanenza e trascendenza, tra orizzontalismo e verticalismo (un altro gioco linguistico per esprimere la distinzione tra il mondo di Dio e quello dell’uomo), ci riporta ad una logica precedente l’Incarnazione. Ci priva così dell’esperienza fondamentale dell’esistenza nuova del cristiano. Per fare più spazio a Dio, lo si caccia follemente di casa. Al Dio di Gesù Cristo viene sostituito il dio dei filosofi, tanto «trascendente» da essere muto e impassibile: senza parola per l’uomo e senza passione per la sua vita.

 

4.2. Fare la salvezza secondo il progetto del Dio di Gesù Cristo

L’Incarnazione è una delle tante esperienze in cui si distende resistenza di Gesù e la fede di coloro che lo confessano il Signore. Si tratta di una esperienza fondamentale; ma a nessun titolo possiamo considerarla come l’unica.

Questa sottolineatura è importante per raccogliere un secondo imperativo all’azione pastorale.

Noi confessiamo sulla testimonianza di Pietro che non c’è altro nome in cui ottenere vita e salvezza, se non Gesù il Cristo, perché egli è morto e risorto per noi. Nella Pasqua Gesù è stato costituito Signore e Salvatore (Atti​​ 4).

Ogni corretta azione pastorale deve portare alla Pasqua per condurre alla salvezza. Senza l’immersione nella morte di Gesù, senza la condivisione della sua croce, non possiamo condividere la sua vittoria sulla morte e il trionfo definitivo della vita.

Questo è un dato importante e assodato. La sua disattenzione riduce la pastorale ad una delle tante metodologie terapeutiche. La svuota alla radice e la condanna alla inefficacia, perché non ha le carte in regola per fare concorrenza ai sapienti delle tecniche analitiche.

Il problema è un altro, molto più serio. L’Incarnazione dice condivisione, sottolinea la continuità tra l’esperienza umana e il mistero di Dio, anche se sotto il velo della sacramentalità.

La croce di Gesù indica invece la rottura, la separazione, il salto di qualità, perché imprima alla realtà il movimento della morte per la vita.

L’Incarnazione mette l’accento sulla costitutiva grandezza dell’uomo. La croce ricorda invece la sua debolezza e il suo tradimento. Di conseguenza è grido che invoca il dono che ci sfugge, che possediamo solo perché ci immergiamo in Dio e consegnamo a lui ogni nostro desiderio.

Se mettiamo sullo stesso piano i due avvenimenti, ci troviamo costretti a scegliere, selezionando l’uno contro l’altro.

Ma in questa operazione forzata, ci depriviamo comunque di una esperienza fondamentale.

Troppe volte la pastorale ha agito così. E sono nati i modelli dell’accondiscendenza inutile e rassegnata. E quelli delle dure pretese e delle alternative integriste.

Su questa chiarificazione di termini, si colloca la proposta di fare dell’Incarnazione la prospettiva fondamentale: non è l’unica, anche se resta quella decisiva sul piano interpretativo.

La pastorale è chiamata ad attuare la salvezza. Per questo deve portare alla Pasqua di Gesù, introducendo coraggiosamente in tutta la sua logica e nelle sue esigenze.

Lo può fare però ignorando l’umanità dell’uomo, per immergerlo solo nel mondo di un futuro che è tutto diverso dal nostro presente. E lo può fare trascinando l’uomo allo scontro con le esigenze del suo Dio. L’accento è posto sulla distinzione e sulla alterità.

Se però consideriamo l’Incarnazione come il modello fondamentale anche per la salvezza, se ripensiamo la prassi di Gesù per fare salvezza tra la gente di Galilea e di Gerusalemme, le cose cambiano intensamente.

Gesù ha portato alla salvezza di Dio facendo prima di tutto toccare con mano la sua bontà, accogliente e perdonante. Ha restituito vitalità alle gambe rattrappite dello zoppo di Cafarnao, per potergli dire in verità: Dio perdona i tuoi peccati (Lc 5,17-26). L’ha imitato Pietro, alla porta bella del Tempio, perché tutti sappiano che solo in Gesù c’è salvezza (Atti​​ 3).

Siamo peccatori; abbiamo bisogno di uscire dal nostro peccato e non lo possiamo fare che consegnando tutta la nostra vita a Dio: risuona così la voce di Gesù, oggi come nella casa di Pietro sulla riva del lago. Per vivere dobbiamo morire: come il chicco di frumento. Riconoscere il peccato e affidare la propria morte al Dio della vita è un rischio, un salto nel buio. Ci distrugge, nella nostra presunzione saccente. Ci chiede un modo nuovo di vivere, riconoscendo che solo Dio è il Signore.

Questo invito, tanto sconvolgente, è accompagnato da un gesto che ce lo rende familiare e suasivo. Continua la voce di Gesù, oggi come a Cafarnao: càricati sulle spalle tettuccio e stampelle e torna a casa con le tue gambe. Nell’esperienza di una accoglienza che anticipa nel piccolo la novità promessa, scopriamo chi è Dio per noi: il Dio che salva solo chi consegna a lui la sua fame di vita, come nella croce. Ma è un Dio di cui possiamo fidarci incondizionatamente. Lo attestano le cose meravigliose che sta compiendo oggi per il suo popolo, come segno manifestatore di interventi dalla risonanza molto più sconvolgente.

Da questa prospettiva, la pastorale trova un modo diverso di impegnarsi per la salvezza. Mette al centro la Pasqua, ma lo fa a partire dall’Incarnazione.

La vita nuova che nasce dalla croce, viene così sperimentata inizialmente attraverso i suoi segni anticipatori.

 

4.3. La «svolta antropologica» nella pastorale

Questo terzo tema riprende e rilancia i primi due, verso modelli generali, che investono la struttura fondamentale dell’evangelizzazione. Si esprimono bene con la formula messa a titolo: la svolta antropologica.

Molti lettori ricordano le lunghe polemiche suscitate nella Chiesa italiana del dopoconcilio attorno a questo problema. Spesso nascevano da una sua cattiva comprensione. Altre volte avevano alla radice le resistenze e le paure che il vento rinnovatore del Concilio aveva seminato.

Il rinnovamento della catechesi​​ ha prodotto chiarezza e consenso, soprattutto perché ha ancorato la «svolta antropologica» alla riscoperta dell’evento dell’Incarnazione.

Un suo articolo è diventato presto famoso: «Chiunque voglia fare all’uomo d’oggi un discorso efficace su Dio, deve muovere dai problemi umani e tenerli sempre presenti nell’esporre il messaggio. È questa, del resto, esigenza intrinseca per ogni discorso cristiano su Dio. Il Dio della Rivelazione, infatti, è il Dio con noi, il Dio che chiama, che salva e dà senso alla nostra vita; e la sua parola è destinata ad irrompere nella storia, per rivelare a ogni uomo la sua vera vocazione e dargli modo di realizzarla» (RdC​​ 77).

Lo consideriamo per qualche momento assieme. Ad oltre quindici anni della sua formulazione ha ancora suggerimenti preziosi da offrire.

Il tono solenne della citazione lo indica come un dato centrale e discriminante. Fedeli a questa esigenza, facciamo un discorsoci cristiano» su Dio. Se invece ci discostiamo da essa, possiamo diventare responsabili dell’ateismo reattivo di tanti nostri amici, come ricorda anche la​​ Gaudium et spes​​ (GS​​ 19). La pastorale è chiamata in causa proprio nelle sue pretese costitutive.

Il problema non è se e come parlare dell’uomo, facendo teologia e operando in pastorale. Si è fatto sempre così. La teologia aveva interi trattati sull’uomo e la pastorale si interessava all’esistenza concreta e quotidiana delle persone.

L’uomo e la sua vita erano però uno dei temi: si parlava di Dio e dell’uomo.

La svolta antropologica segna un cambio radicale di prospettiva, perché mette la vita quotidiana dell’uomo al centro, per poter parlare del Dio di Gesù Cristo. La parola e il volto dell’uomo sono l’unico luogo dove è possibile incontrare e parlare di Dio nella sua verità. Non sono uno dei tanti temi all’ordine del giorno. Sono invece lo strumento linguistico, unico e insostituibile, per affrontare correttamente tutti i temi.

Per questo​​ Il rinnovamento della catechesi​​ ricorda perentoriamente che un parlare cristiano su Dio deve «muovere» sempre dall’uomo e dalla sua vita; e deve tener presente costantemente questo orizzonte linguistico per non slittare da un discorso sul Dio di Gesù Cristo ad una ricerca sul dio astratto e impersonale dei filosofi.

Ricorda anche la motivazione. Ed è prezioso suggerimento, da non dimenticare, per restare nella verità. Non si tratta di un ritrovato metodologico. Non è quel modo di fare funzionale, richiesto da una corretta comunicazione intersoggettiva, che sollecita a conoscere la lingua dell’interlocutore, per entrare in dialogo eoo lui; o quello che spinge a preferire un linguaggio immaginifico ad uno strettamente tecnico, per non escludere dal dialogo coloro che non sono addetti ai lavori. Tutto questo è importante. Ma resta «discutibile», in ultima analisi. E soprattutto non dice mai fino a che punto sia necessario giungere a questi «adattamenti».

La ragione, ricordata da​​ Il rinnovamento della catechesi,​​ è molto più sostanziale: chiama in causa l’Incarnazione. Riporta cioè all’evento fondante l’esistenza cristiana. Parlare di Dio muovendo dalle parole dell’uomo è l’unico modo praticabile di parlare di Dio, dal momento che Gesù è la parola e il volto definitivo di Dio.

In questa indicazione​​ Il rinnovamento della catechesi​​ fa eco alla affermazione molto più autorevole della​​ Dei Verbum: «Le parole di Dio, infatti, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al parlare dell’uomo, come già il Verbo dell’Eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell’umana natura, si fece simile all’uomo» (DV​​ 13). -

Parlare di Dio in parole umane significa, a conclusione, una grande conversione per gli operatori della pastorale: la svolta antropologica.

Redemptor hominis,​​ collocata in questa prospettiva, ricorda la grande legge di ogni azione pastorale: «L’uomo, nella piena verità della sua esistenza, del suo essere personale ed insieme del suo essere comunitario e sociale, (...) quest’uomo è la prima strada che la Chiesa deve percorrere nel compimento della sua missione: egli è la prima e fondamentale via della Chiesa, via tracciata da Cristo stesso, via che immutabilmente passa attraverso il mistero dell’Incarnazione e della Redenzione»​​ (RH​​ 14).

La «svolta antropologica» mette così l’uomo al centro della missione della Chiesa e segna, nello stesso tempo, lo stile di questa missione.

Non possiamo pretendere una parola su Dio e un gesto di salvezza che non sia costitutivamente la nostra povera parola e il nostro gesto. Li Dio si fa presente, come colui che rivela e che salva.

Ritorna il tema della sacramentalità. Non possiamo cercare altrove parole e gesti, quasi potessimo rubare agli angeli il loro linguaggio... Lo diciamo con gioia e con fierezza: non è il limite che dobbiamo soffrire e superare, ma l’esperienza di cui in Gesù dobbiamo compiacerci.

Se usiamo parole umane, gesti e parole restano sempre nella logica di ogni fatto umano. Sono povere, fragili, spesso opache. C’è posto per una pluralità di parole, perché nessuna può pretendere di catturare in modo esclusivo il mistero che intende esprimere. La trasparenza rispetto al mistero è assicurata dalla qualità intrinseca del discorso e dalla competenza di colui che lo pone. Certamente, la forza di salvezza trascende questa competenza. Chi parla è sempre un «servo inutile», perché non può offrire quello che per primo invoca con trepida attesa. Nella debolezza dell’uomo la potenza del mistero si fa forza di vita. Al «servo inutile» si chiede però la quotidiana fatica di far trasparire il mistero che serve.

Questi cenni non possono far concludere sulla sponda pericolosa del relativismo generalizzato. Ce lo proibisce la certezza che nella nostra povera espressione c’è sempre un mistero di grazia e di salvezza, che si fa volto e parola. Di questo mistero alcuni fratelli sono nella comunità ecclesiale testimoni autorevo

li. Anche la loro parola è parola d’uomo, per essere parola per l’uomo. La loro parola continua però in modo privilegiato quella di Gesù e dei suoi primi discepoli. Può sostenere la nostra debole fede e impegnarci in una decisione che coinvolge tutta la nostra esistenza. La pastorale è servizio della comunità ecclesiale per attuare nel tempo la salvezza di Dio. E servizio di uomini per i loro fratelli.

Lo Spirito di Gesù sostiene questo servizio. Dà forza specialissima ad alcuni segni; dà autorevolezza particolare ad alcune parole.

 

5. Conclusione: l’incarnazione come criterio

La ricerca sull’Incarnazione ha preso l’avvio da una costatazione e da una esperienza: il fatto del pluralismo pastorale e la soluzione elaborata dalla Chiesa italiana.

Al termine del lungo cammino possiamo verificare fino a che punto la prospettiva scelta aiuta a districarsi in modo corretto nell’attuale situazione pastorale.

5.1. Alla radice del pluralismo

Se consideriamo il fatto del pluralismo da un’ottica pastorale, sembra facile approdare a due costatazioni.

Prima di tutto è importante prendere atto che il pluralismo è una imposizione della stessa struttura della verità. Il mistero di Dio si rende presente all’uomo nel volto e nella parola dell’Uomo e di ogni uomo. La parola umana è sempre povera, parziale, frammentata, incapace di esprimere in modo totale il mistero di cui è presenza. Sono necessarie molte e differenti parole per approssimarsi alla verità. E si richiede sempre l’espressione soggettiva della fede per traforare il segno verso il mistero che si porta dentro. All’interno di questa consapevolezza si colloca la seconda costatazione.

La parola umana che dà espressione al mistero non è mai neutrale rispetto al mistero stesso. Al contrario, lo condiziona intensamente. Non solo lo rappresenta in modo sempre relativo, ma lo può disturbare e persino vanificare.

Certamente questo rischio è assente nella Parola definitiva di Dio, Gesù di Nazareth, anche se molti suoi contemporanei non sono riusciti a decifrare adeguatamente la sua mediazione. È invece molto presente nelle nostre parole e nei nostri progetti. Si richiede perciò un confronto critico tra mediazione e evento, tra parola umana e Parola di Dio, tra modello pastorale e progetto di fede.

Il pluralismo non può quindi essere considerato l’ultima parola.

Abbiamo invece bisogno di criteri, capaci di funzionare come principio di verificazione nel pluralismo.

L’Incarnazione «giustifica» così il pluralismo nel rapporto tra segno e evento, suggerisce il criterio fondamentale per valutarlo ed elaborarlo.

5.2. L’Incarnazione come criterio

L’Incarnazione, come ho ricordato nelle pagine precedenti, ci propone un evento salvifico, che fonda un metodo pastorale, un metodo cioè di attuazione di questa salvezza. In questo senso, la considero il criterio fondamentale della pastorale e della pastorale giovanile. La pongo al centro di ogni ricerca non come il dato unico e conclusivo, quasi che tutta la pastorale potesse ridursi alla attuazione dell’Incarnazione. Lo considero invece come il progetto costitutivo su cui misurarsi e la sorgente degli imperativi per l’azione pastorale.

Dall’evento dellTncarnazione la pastorale ritrova il suo obiettivo e l’orientamento metodologico fondamentale: attuare la salvezza «incarnandosi» nella vita quotidiana dei giovani concreti.

La fedeltà al criterio dellTncarnazione spinge a dilatare lo sguardo e la preoccupazione della comunità ecclesiale e dell’operatore pastorale verso una interpretazione globale della storia e del destino di Gesù per la salvezza dell’uomo.

Tutto questo introduce in ogni progetto pastorale la prospettiva escatologica, in tensione perenne con quella incarnazionistica.

La critica escatologica contesta la radicale provvisorietà di ogni realizzazione, svuota la pretesa risolutiva delle mediazioni pastorali, stempera le pianificazioni troppo sapienti, nel ricordo della sconvolgente creatività di ogni dono dello Spirito. L’Incarnazione non riduce perciò l’approccio cristologico. Suggerisce invece il metodo mediante cui aprire l’uomo all’autocomunicazione di Dio nello Spirito Santo e sollecita verso condizioni precise da assicurare per rendere quest’uomo capace di accogliere il dono della salvezza.

L’evento si fa così criterio.

 

Bibliografia

Arnold F. X.,​​ Storia moderna della teologia pastorale, Città Nuova, Roma 1970; Goldbrunner J..​​ Cristo nostra realizzazione. Antropologia pastorale sulla linea dell’Incarnazione, LDC, Leumann 1971; Metz J. B.,​​ Sulla teologia del mondo, Queriniana, Brescia 1974; Metz J. B.,​​ La fede, nella storia e nella società, Queriniana, Brescia 1978; Pattaro G.,​​ Incarnazione, in «Dizionario di pastorale della comunità cristiana», Cittadella editrice, Assisi 1980, 275-286; Rahner K.,​​ Scienza e fede cristiana. Nuovi saggi IX, Edizioni Paoline, Roma 1984; Rahner K.,​​ Teologia dall'esperienza dello Spirito. Nuovi saggi VI, Edizioni Paoline, Roma 1978; Tonelli R.,​​ Pastorale giovanile. Dire la fede in Gesù Cristo nella vita quotidiana, LAS, Roma 1987.

 

image_pdfimage_print
image_pdfimage_print
INCARNAZIONE

INCLUSIONE SOCIALE

 

INCLUSIONE SOCIALE

Per i.s. si intende un processo multidimensionale di interventi rivolto ad assicurare la piena partecipazione di tutti alle opportunità sociali. Qui ci si limiterà all’ambito educativo.

1.​​ Obiettivi e strategie a livello macro. Di fronte alle sfide della globalizzazione e della nuova economia basata sulla conoscenza, nel 2000 l’UE si è data a Lisbona un programma per questo decennio e ha individuato in un grande rafforzamento dell’istruzione e della formazione la chiave di volta per realizzare, tra l’altro, l’i.s. Ricordo i capisaldi, rilevanti per il nostro tema, di questo progetto che vincola tutti i Paesi dell’Unione, compresa l’Italia. In primo luogo si tratta di migliorare la qualità e l’efficacia​​ dei sistemi di istruzione e di formazione in modo da consentire a tutte le persone di realizzare il loro potenziale in qualità di cittadini e di rendere i sistemi sociali più competitivi e dinamici. La prevenzione dall’esclusione sociale deve prendere le mosse proprio dalla realizzazione di questo impegno perché è provato che la probabilità di cadere nella emarginazione è notevolmente superiore tra quanti sono privi di una preparazione e di qualifiche adeguate. Pertanto si richiede che tutti i cittadini possiedano conoscenze, competenze e capacità adeguate e aggiornate per contribuire allo sviluppo proprio e del Paese. Nella stessa linea si pone l’obiettivo di facilitare l’accesso di tutti all’istruzione e alla formazione lungo l’intero arco della vita e di consentirlo in un ambiente di apprendimento aperto. In questo quadro va anche garantita a ciascuno l’utilizzazione delle nuove tecnologie data la loro rilevanza ai fini dell’i.s.

2.​​ Obiettivi e strategie a livello micro. Un primo obiettivo consiste nello sviluppare le capacità per la​​ ​​ società della conoscenza. Passando nello specifico, bisognerà rafforzare l’alfabetizzazione di base e consentire a tutti di acquisirne un livello operativo adeguato perché qui risiede la chiave di volta di tutte le successive capacità di apprendimento e dell’occupabilità. Strategia fondamentale per raggiungere questo obiettivo è di rendere l’apprendimento più attraente. Nella stessa linea altri due impegni del prossimo decennio consistono nell’incentivare gli studi scientifici e tecnici e nel migliorare l’apprendimento delle lingue straniere data la loro incidenza sulla i. ed esclusione sociale delle persone.

Bibliografia

Consiglio,​​ Programma di lavoro dettagliato sul follow-up circa gli obiettivi dei sistemi di istruzione e di formazione in Europa, in «Gazzetta ufficiale delle Comunità europee» (14.6.2002), C 142, 1-22; Malizia G. - C. Nanni,​​ Istruzione e formazione: gli scenari europei, in Ciofs / Fp - Cnos-Fap (Ed.),​​ Dall’obbligo scolastico al diritto di tutti alla formazione: i nuovi traguardi della formazione professionale, Roma, 2002, 15-42; Standing Conference of European Ministers of Education,​​ Building a more humane and inclusive Europe: role of education policies,​​ Draft final declaration, Istanbul, 4-5 May 2007.

G. Malizia

image_pdfimage_print
INCLUSIONE SOCIALE

INCONSCIO

 

INCONSCIO

In senso​​ descrittivo​​ si riferisce all’insieme dei contenuti mentali che non sono presenti nel campo attuale della consapevolezza. Entro quest’ottica, dal punto di vista dinamico esistono due tipi d’i.: il primo è inaccessibile alla coscienza, mentre il secondo con uno sforzo di memoria può essere facilmente rievocato; quest’ultimo è denominato​​ preconscio.​​ In senso​​ topico​​ riguarda uno dei sistemi descritti da S.​​ ​​ Freud nella sua prima teoria della personalità (concezione​​ stratigrafica:​​ conscio, preconscio, inconscio). Nella sua seconda formulazione teorica (concezione​​ strutturale:​​ Es, Io, Super-Io),​​ i caratteri generali dell’i. sono attribuiti principalmente, anche se non in modo esclusivo, all’Es.

1. L’i., i cui contenuti sono rappresentanti delle pulsioni, è caratterizzato da processi emotivi dominati dal principio del piacere e che quindi non tengono conto delle leggi del pensiero razionale. Esso inoltre è essenzialmente dominato da processi dinamici che si manifestano sia attraverso il meccanismo della rimozione (​​ meccanismi di difesa) che nella produzione di derivati di ciò che è rimosso (ritorno del rimosso) attraverso formazioni di compromesso (sogni, lapsus, atti mancati, sintomi nevrotici o psicotici, attività creativa, ecc.).

2. L’i. si forma nella prima infanzia come risultato di una rimozione di una serie di rappresentazioni mentali originate da stimoli percettivi esageratamente intensi e fonte di ansia. Esso dà origine alla​​ realtà psichica​​ dell’individuo, detta anche​​ realtà interna​​ o​​ soggettiva,​​ che si distingue e talvolta si oppone alla realtà esterna o oggettiva. Maggiore è il predominio della realtà psichica su quella esterna, più alto è il rischio di disturbi nevrotici o psicotici. L’accesso all’i., è possibile solo attraverso un’analisi accurata dei propri desideri, delle proprie emozioni e dei propri comportamenti condotta all’interno del rapporto terapeutico psicoanalista-paziente. In particolare, Freud sottolinea che la via regia per accedere all’i., è rappresentata dall’analisi dei sogni.

3.​​ ​​ Jung ritiene che non esiste solo un​​ i. personale,​​ costituito da esperienze individuali infantili rimosse, ma anche un​​ i. collettivo,​​ inteso come insieme di contenuti (archetipi, simboli, miti) derivati da esperienze fondamentali del genere umano.

Bibliografia

Jung C. G.,​​ Psicologia dell’i.,​​ Torino, Bollati Boringhieri, 1968; Ellenberger H. F.,​​ La scoperta dell’i. Storia della psichiatria dinamica,​​ Ibid., 1976; Freud S., «L’i.», in​​ Opere,​​ vol. 8, Ibid., 1976, 49-88; Matte Blanco I.,​​ L’i. come insiemi infiniti,​​ Torino, Einaudi, 1981; Lang R.,​​ La comunicazione inconscia nella vita quotidiana,​​ Roma, Astrolabio, 1988; Akoun A.,​​ El inconsciente a debate: comprender,​​ saber,​​ actuar revisión y actualización,​​ Natalia Ojeda, Bilbao; Mensajero, 2002 Tallis F.,​​ Breve storia dell’i., Milano, Il Saggiatore, 2003; Frankl G.,​​ Esplorare l’i. Un nuovo metodo per l’analisi del profondo, Torino, Bollati Boringhieri, 2005;​​ Mollon P.,​​ L’i., Torino, Centro Scientifico, 2006.

V. L. Castellazzi

image_pdfimage_print
INCONSCIO

INCULTURAZIONE

 

INCULTURAZIONE

1.​​ Dopo un periodo in cui si è parlato molto di adattamento e di acculturazione del cristianesimo, si è introdotto progressivamente, a partire dal 1959, il neologismo “inculturazione”.

Per I. s’intendono realtà diverse tra loro. I. significa “piantare il germe della fede in una cultura e farlo sviluppare, esprimersi secondo le risorse e il genio di quella cultura” (Y. Congar,​​ Cristianesimo come fede e come cultura,​​ in «Regno-Documenti» 21 [1976] 1, 43). “La fede deve essere seminata come un seme in un determinato mondo culturale, un determinato spazio socio-culturale umano, e in esso deve trovare la propria espressione partendo dalla cultura stessa. Questo è un problema estremamente difficile” (R. Coffy,​​ Synode – Catéchèse,​​ in “Catéchèse” 18 [1978] 70, 89). A un secondo livello il termine I. sottolinea la “incarnazione della vita e del messaggio cristiano in una concreta area culturale, in modo tale che questa esperienza non solo riesca ad esprimersi con gli elementi propri della cultura in questione (il che sarebbe ancora un adattamento superficiale), ma diventi il principio ispiratore, normativo e unificante, che trasforma e ricrea questa cultura, dando origine a una nuova “creatura”“ (P. Arrupe 1978).

Diverse istanze si sovrappongono quindi nell’idea di I.:

— superare l’identificazione del cristianesimo con la sua veste occidentale-europea, oppure con forme espressive (linguistiche e strutturali) troppo legate ad altre epoche culturali (occidentali) ormai superate e scomparse;

— esprimere il cristianesimo con elementi culturali delle rispettive culture (non occidentali) o delle nuove espressioni culturali (occidentali);

— intervenire creativamente nella trasformazione e nella liberazione delle culture esistenti, dando origine a nuove configurazioni culturali.

2.​​ Poiché ogni cultura è una realtà articolata e strutturata, con aree relativamente autonome, che hanno diversa attinenza con la realtà della fede cristiana, anche 1’1. della fede è una realtà diversificata e articolata. Di conseguenza l’apporto della C. all’I. presenta aspetti che vanno sufficientemente distinti tra loro. — Vi è anzitutto uno strato culturale che è particolarmente rilevante per l’aggancio del Vangelo con le persone viventi in quelle culture. Da un lato la ricerca della salvezza, il modo di porsi il problema del senso della vita, gli umanesimi vissuti, l’antropologia implicita, la scala dei valori, ecc. Da un altro lato l’immensa realtà delle religioni non cristiane.

— Vi è tutta la sfera delle espressioni culturali della religiosità: le modalità del pregare, i riti, il culto, i simboli religiosi, la spiritualità. Ma anche più specificamente il linguaggio (la terminologia) religioso, la professione di fede, la teologia, ecc.

— Sul piano della vita vissuta, dell’impostazione fondamentale della vita, s’incontrano i valori tipici di una cultura: la realtà etica, la mentalità dominante, gli ideali civili, ecc. — Non vanno dimenticate le strutture sociali, economiche e politiche, le forme significative di diaconia e di servizio sociale, il modo di fare politica, ecc.

3.​​ È ovvio che l’apporto della C. all’I. del cristianesimo non coincide semplicemente con tutti i compiti che la Chiesa deve risolvere al riguardo. L’I. è un compito che spetta anzitutto all’intera comunità ecclesiale e non primariamente o specificamente alla C. Anzi è difficile che la C. da sola possa superare di molti passi lo stadio concreto di I. del cristianesimo raggiunto nelle diverse Chiese particolari. La C. da sola non ha né i mezzi né gli strumenti teologici e operativi per venir incontro ai difficili problemi posti dall’L Basta pensare al linguaggio teologico, ai riti liturgici, al rapporto con le religioni non cristiane, ecc.

L’I. appare ancora largamente un compito non realizzato e non facilmente realizzabile. Sul piano delle dichiarazioni di principio vi è un orientamento assai esplicito e concorde circa la necessità di un cristianesimo inculturato. Ma per ora è estremamente difficile vedere in che linea concreta questa I. si realizzerà. Per es., tutti in Africa auspicano un cristianesimo che abbia un volto maggiormente africano, ma è difficile immaginarsi come ciò si realizzerà, se è necessario che gli africani lo vivano come autenticamente africano e nello stesso tempo gli altri cristiani nella cattolicità lo possano considerare un’espressione autentica del Vangelo. Un compito del genere richiederà secoli di ricerca.

4.​​ La C. ha comunque una grande responsabilità nell’I. del cristianesimo. Essa offre spazi specifici per realizzare una maggiore I. L’annuncio del Vangelo ai singoli cristiani e la sua esplicitazione nella C. deve ancorarsi sulla ricerca concreta di salvezza in quella cultura, sul modo in cui la gente è alla ricerca del senso della vita, sulle visioni dell’uomo e sugli umanesimi vissuti concretamente dalla gente. Ciò presuppone da parte dei catecheti uno sforzo incessante per comprendere le istanze antropologiche di fondo che pervadono la cultura della gente.

Lo stesso vale per lo studio e la comprensione delle → religioni non cristiane. Anche nell’ambito della C. ci dovrà essere un serio dialogo con queste religioni. Il messaggio liberatore e redentore del Vangelo dovrà pure essere formulato in termini di riferimento, di critica e di completamento nei confronti delle religioni non cristiane che sono attivamente presenti nella cultura o spesso costituiscono un tutt’uno con questa cultura.

I compiti della C. sul piano del → linguaggio sono numerosi e impegnativi. Da ogni parte si proclama la necessità di teologie africane, indiane, orientali, latinoamericane: teologie che esprimono il messaggio cristiano in riferimento alle categorie centrali di quelle culture. La C. però non può incrociare le braccia in attesa che questo compito “secolare” della teologia sia portato a buon termine. Già oggi la C. deve costantemente tradurre il Vangelo in termini che sono intelligibili alla gente semplice. Questo richiede uno sforzo incessante per andare verso ciò che è veramente essenziale nel cristianesimo, liberandolo da tante incrostazioni culturali occidentali e tante sovrastrutture non pertinenti all’essenza del messaggio.

Per ciò che riguarda i grandi → simboli religiosi, essi devono essere oggetto di particolare attenzione nella C. sia per comprenderli in riferimento all’origine culturale e antropologica di cui sono rivestiti nella tradizione culturale del cristianesimo sia per riferirli al simbolismo religioso notevolmente diverso presente nelle culture non occidentali.

Un compito delicato e difficile della C. consiste nell’indicare come si vive cristianamente nel mondo e nella società, cioè in quella determinata cultura. Sul piano teorico è abbastanza facile formulare i principi generali per l’etica, i valori, la politica, la famiglia. In pratica però risulta spesso molto difficile concretizzare, anche solo negli aspetti principali, il comportamento.

Bibliografia

P. Arrupe,​​ Catechesi e inculturazione.​​ Intervento al Sinodo dei vescovi su “La catechesi nel nostro tempo” ( 1977), in “Aggiornamenti sociali” 28 (1977) 665-668; G. Butturini (ed.), Le​​ nuove vie del Vangelo. 1 vescovi africani parlano a tutta la Chiesa,​​ Bologna, EMI, 1975; F. Clark,​​ Making the Gospel at Home in Asian Cultures,​​ in​​ Teaching All Nations» 13 (1976) 131-149; In.,​​ Inculturation: Introduction and History,​​ ibid. 15 (1978) 211-225; R. Divakar Parmanda,​​ Evangeli!​​ nuntiandi and the Problem of Inculturation,​​ ibid., 226-232; V. Gracias,​​ Christianity and Asian Cultures,​​ ibid. 8 (1971) 3, 3-29;​​ Inculturation: Challenge to the local church,​​ in​​ East Asian Pastoral Review”​​ 18 (1981) 204-299; L. Luzbetak,​​ Un solo Vangelo nelle​​ diverse culture.​​ Antropologia applicata alla​​ pastorale,​​ Leumann-Torino, LDC, 1971;​​ Il​​ problema​​ dell’inculturazione.​​ Documento di lavoro​​ per​​ la Compagnia​​ di​​ Gesù,​​ in​​ Il Regno –​​ Documenti”​​ 23 (1978) 451-455;​​ Il​​ problema​​ dell’inculturazione​​ oggi.​​ Editoriale di «La Civiltà Cattolica» 129 (1978/IV) 313-322; Y. Raguin,​​ Indigenization​​ of the Church,​​ in “Teaching​​ All​​ Nations”​​ 6 (1969) 150-168; A. Roest Crollius,​​ Inculturation and the Meaning of​​ Culture,​​ in “Gregorianum” 61 (1980) 253-274; In.,​​ What is​​ so​​ new about Inculturation?​​ A​​ Concept and its Implications,​​ ibid. 59 (1978) 721-737; A. Shorter,​​ Culture​​ africane e cristianesimo,​​ Bologna, EMI, 1974.

Joseph Gevaert

 

INCULTURAZIONE

Per i. s’intende il processo educativo per cui i membri di una​​ ​​ cultura vengono resi coscienti e partecipi della cultura stessa.

1. In questo processo, l’individuo non è un soggetto passivo, ma accoglie i modelli e i valori culturali con il suo giudizio critico. Inoltre, nell’individuo si sviluppa una crescita continua della capacità di interpretare in maniera autonoma e personale ciò che vede o che gli viene proposto. Tutta la società si preoccupa per i giovani che sono chiamati a far parte della sua realtà e storia comune. L’i. comprende particolarmente l’assunzione del patrimonio sociale comune di conoscenze, idee, valori, norme, tecniche, modelli operativi, ecc. L’i. si coglie con maggior evidenza durante l’infanzia, quando il​​ ​​ bambino viene educato ad essere​​ ​​ uomo o​​ ​​ donna nell’ambito della​​ ​​ famiglia e dei gruppi spontanei di coetanei. All’interno del processo d’i. si può parlare di tre stadi: a) si informa l’individuo; b) si forma la sua visione mentale; c) si orienta il suo comportamento. L’informazione nutre la coscienza e l’individuo che, da creatura del tutto dipendente, diventa una persona responsabile e autonoma. Oltre ai tre stadi, c’è anche​​ l’imitazione​​ che è un aspetto dell’i., che appare determinante soprattutto al periodo infantile. L’imitazione però non appartiene soltanto al periodo dell’infanzia, ma continua tutta la vita e prosegue con il processo d’i.

2. Il processo di i. può avvenire in due modi:​​ formale​​ e​​ informale.​​ Secondo i sistemi propri della società, a un determinato momento del loro sviluppo, i giovani – maschi e femmine – vengono affidati a specifiche istituzioni (la​​ ​​ scuola) o a specifiche persone (i maestri, ecc.), ai quali si attribuisce il compito dell’i. formale. Diversa è l’i. informale, che si attua continuamente lungo tutta la vita dell’individuo. La distinzione tra i. formale e informale, pur essendo netta, non dev’essere assunta come assoluta. Per es., anche durante il processo dell’i. formale in una istituzione rigida, niente può inibire l’individuo a cogliere tutto ciò che gli si presenta in maniera informale.

3. Questa concezione di i. viene sempre più frequentemente scambiata con il termine​​ ​​ socializzazione. Però, la socializzazione è oggetto di studio di varie discipline scientifiche; per es., la psicologia, la sociologia ecc. e ognuna di esse le dà un significato differente, seguendo il suo punto di vista. Mentre nella prospettiva psicologica si bada ai meccanismi e ai processi evolutivi, in quella sociologica la socializzazione va studiata sulle procedure sociali che determinano la condizione sociale, individuale e collettiva. Invece, nell’ambito dell’​​ ​​ antropologia culturale l’interesse per la socializzazione si svolge attorno al rapporto tra il mondo della cultura e la personalità, individuale e collettiva; a tale senso si avvicina a quello che noi chiamiamo i. Nel quadro della cultura, l’i., come anche la socializzazione, è vista da parte dell’individuo come l’insieme dei processi da acquisizione della cultura, e da parte del gruppo come il sistema di comunicazione di cultura.

4. È necessario fare una distinzione anche tra i. e​​ acculturazione​​ per cogliere meglio il significato dell’una e dell’altra, perché all’i. si accompagna o si sovrappone l’acculturazione.​​ Benché per fini analitici sia possibile isolare il processo di i., non sarebbe esatto considerarlo in maniera avulsa dai contatti che una cultura ha con un’altra. Mentre l’i. riguarda la dinamica interna di una singola cultura in relazione ai suoi membri, l’acculturazione si riferisce alle relazioni esistenti tra più culture e agli effetti che derivano dai loro contatti. Ma è da notare che, essendo la cultura non statica, ma dinamica, si può dire che una delle sue costanti è il fatto di essere sempre in trasformazione. Ora tale processo da Herskovits è chiamato anche​​ acculturazione.​​ Nel linguaggio antropologico la parola acculturazione è in uso fin dal 1948, e si è diffusa ormai nel linguaggio anche degli storici. Tuttavia il fenomeno è stato da sempre studiato, sia pure con prospettive diverse da quelle attuali.

5. Nell’ambito pastorale i. è usato per indicare l’inserimento del cristianesimo nelle culture, sia nell’annuncio della Parola come anche nella​​ ​​ catechesi. Benché l’uso ecclesiale della parola i. nel 1979 fosse considerato un «neologismo», oggi non è più considerato una scelta facoltativa, ma qualifica ogni attività della missione della chiesa. Questo concetto è meglio precisato nell’attività liturgica e nella​​ ​​ catechesi, in quanto si tratta di un incontro dialettico fra la fede cristiana ed una cultura particolare, in cui tutte e due vengono ratificate, sfidate e trasformate o arricchite in vista del regno di Dio.

Bibliografia

Bernardi B.,​​ Uomo cultura società. Introduzione agli studi etno-antropologici,​​ Milano, Angeli, 1977; Groome T.,​​ I.: come procedere in un contesto pastorale, in «Concilium» 30 (1994) 1, 159-176; Pace E. (Ed.),​​ Dizionario di sociologia e antropologia culturale,​​ Assisi, Cittadella, 1989; Nanni C.,​​ L’educazione tra crisi e ricerca di senso,​​ Roma, LAS, 1990; Tentori T.,​​ Antropologia culturale. Percorsi della conoscenza​​ della cultura,​​ Roma, Studium, 1990; Roest-Crollius A.,​​ Teologia dell’i.,​​ Roma, Pontificia Università Gregoriana, 1993.

C. De Souza

image_pdfimage_print
INCULTURAZIONE
image_pdfimage_print