GRACIÁN Baltasar

 

GRACIÁN Baltasar

n. a Belmonte de Calatayud (Saragozza) nel 1601 - m. a Tarazona nel 1658, scrittore, pensatore e pedagogista gesuita spagnolo.

1. G. attualizza e rielabora la​​ ​​ Ratio studiorum​​ in funzione delle coordinate ideologiche ed estetiche della sua generazione. Gli ideali pedagogici dell’umanesimo rinascimentale che furono incorporati nella​​ Ratio,​​ a distanza di un sec., secondo G., dovevano essere rivisti. Era necessario introdurre in essa i vocaboli tipicamente barocchi di acume, ingegno e concetto. Dopo aver seguito i paradigmi proposti nell’insegnamento gesuitico, bisognava superarli e andare più in là, raggiungendo l’acutezza, l’ingegnoso, l’esemplare e l’espressione scelta; in altre parole, bisognava raggiungere l’originalità. La maggioranza delle opere di G. persegue questo scopo.​​ El héroe​​ (1637) espone le caratteristiche del gigante, dell’uomo sagace, bellicoso, filosofo, politico e cortigiano. Tre anni dopo G. pubblica​​ El político,​​ di cui, a suo parere, Ferdinando il Cattolico, il «non plus ultra degli eroici re d’Aragona» incarnò le virtù. Nel​​ El discreto​​ analizza attentamente concetti pedagogici importanti come genio, ingegno, esercizio, atteggiamento, cultura, ritmo di apprendimento, ecc. L’antico «conosci te stesso» socratico viene attualizzato da G., che ritiene che «il primo passo del conoscere è conoscersi». L’Oráculo manual y​​ arte de prudencia​​ (1647) è una raccolta di aforismi, che riassumono il suo pensiero tipicamente ignaziano: «Cerca di esercitare i mezzi umani come se non avessi quelli divini e quelli divini come se non avessi quelli umani» (aforisma 251). L’aforisma 300, l’ultimo, riassume in poche parole il suo ideale pedagogico: l’uomo santo, che rende l’uomo «prudente, attento, sagace, giudizioso, saggio, valoroso, moderato, completo, felice, credibile, veritiero e universale eroe. Tre​​ s​​ rendono felice: santo, sano e saggio».

2. Opera somma della riflessione pedagogica di G. è​​ El criticón,​​ che apparve in più tempi (1651, 1653 e 1657). I suoi protagonisti simboleggiano la vita dell’uomo naturale (Andrenio) che si lascia condurre dai suoi istinti ed impulsi e la vita dell’uomo educato e giudizioso (Critilo) che pensa prima di agire. È un’opera importante della pedagogia universale che ricorda la novella del​​ filosofo autodidatta​​ arabo-spagnolo Ibn Tufail e che precorre di oltre un sec. le idee di​​ ​​ Rousseau. Andrenio è il figlio della natura che agisce spontaneamente, è attratto dall’apparenza e si lascia trasportare dai piaceri della vita. Critilo è più cauto e non si fida delle apparenze; la sua guida è la diffidenza, la prudenza e la riflessione.​​ El Criticón​​ è il fustigatore universale della società di G., che si identifica con l’atteggiamento pessimista di Quevedo, di Cervantes, di Calderón, di Valdés e di quanti ritengono che il mondo è pura apparenza, puro inganno. L’unica cosa vera e resistente è la virtù, frutto di un’educazione accurata, l’unica cosa che resta dopo che è calato il sipario del grande teatro del mondo.

Bibliografia

Coster A.,​​ B.G.,​​ Zaragoza, 1947; Batllori M.,​​ G. y el barroco,​​ Roma, 1958; Correa Calderón E.,​​ B.G.: su vida y su obra,​​ Madrid, 1961; Batllori M. - C. Peralta,​​ B.G. en su vida y en sus obras,​​ Zaragoza, 1969; García Gibert J.,​​ B.G., Madrid, Síntesis, 2002;​​ B.G. IV Centenario (1601-2001), Zaragoza, Instituto Estudios Altoaragoneses, 2003.

B. Delgado

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GRACIÁN Baltasar

GRADI FORMALI

 

GRADI FORMALI

Se​​ per​​ gradi didattici si intende “la successione delle forme di attività didattica dell’insegnante in conformità alla natura del fanciullo, alla materia di insegnamento e alla situazione didattica del momento”, l’espressione “gradi formali” ha un significato restrittivo, e denota “una successione delle attività didattiche dell’insegnante di tipo schematico, generale, indipendente dalla materia insegnata nel momento, nonché dalla situazione dell’insegnamento”.

Per Herbart essi erano quattro: Chiarezza-Associazione-Sistema-Metodo. T.​​ Ziller​​ fu il primo a tentare di chiarire anche nei minimi particolari il processo didattico e di approfondimento. Egli estese i quattro stadi dell’acquisto della conoscenza di Herbart a un procedimento in cinque stadi: l’analisi, la sintesi, l’associazione, il sistema, il metodo.​​ Dörpfeld​​ li semplificò e li ridusse a tre: contemplare-pensare-applicare. Per Otto​​ Willmann​​ essi divennero: concezione-comprensione-attività. Nel movimento cat. di Monaco (→ Monaco, metodo di) essi furono accettati come: presentazione-spiegazione-applicazione.

Lo sforzo di fissare le fasi didattiche diede per un secolo intero un potente impulso per la ricerca del “buon metodo”. I​​ gradi formali​​ sono oggi respinti. Tuttavia questo rifiuto non deve condurre a un insegnamento che si abbandoni disordinatamente all’estro momentaneo e all’improvvisazione.

Ubaldo Gianetto

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GRADI FORMALI

GRADUALITÀ

 

GRADUALITÀ

La g. (dal lat.​​ gradus:​​ passo, scalino, grado) in pedagogia indica uno dei principi metodologici dell’educazione e dell’insegnamento riconosciuto fin dall’antichità, soprattutto a partire da​​ ​​ Comenio che, con la nota formula​​ «natura non facit saltus»,​​ la considerò come uno degli aspetti più essenziali del metodo secondo natura.

1. Tale sottolineatura fu ripresa in particolare da​​ ​​ Rousseau in polemica con le forme didattiche adultistiche, sostenendo che ogni età ha la sua educazione. Tale principio afferma l’esigenza di rispettare il processo naturale e cognitivo, «iuxta propria principia», quindi di procedere secondo i seguenti criteri: a) dal semplice al complesso; b) dal globale indifferenziato all’analitico differenziato: dal tutto alle parti (criterio importante nell’insegnamento della lingua sia materna che straniera, in particolare in quello della lettura e della scrittura;​​ ​​ globalismo didattico); c) dal noto all’ignoto; d) dal vicino al lontano (è un criterio applicato soprattutto nell’insegnamento storico e geografico); e) dal facile al difficile; f) dall’episodico e occasionale al sistematico; g) un procedimento ciclico e a spirale (utilizzato nell’organizzazione dei piani di studi per diversi gradi scolastici).

2. Una particolare accezione della g. è stata data da​​ ​​ Herbart e dai suoi discepoli con la teoria dei «gradi formali» (Formal-stufen),​​ ossia la​​ chiarezza​​ (che esige la concentrazione), l’associazione​​ (comparazione), il​​ sistema​​ e il​​ metodo.​​ Ziller scompone la​​ chiarezza​​ in​​ analisi​​ e​​ sintesi;​​ Rein, invece, in​​ preparazione​​ e​​ presentazione.​​ ​​ Willmann nella sua opera​​ Didattica come teoria della cultura​​ (1882-1889) approfondì il significato di questo principio che egli chiama «principio della graduazione», riferito soprattutto all’organizzazione del contenuto didattico, che deve rispettare sia l’aspetto / ordine storico sia quello psicologico delle discipline di studio. Con​​ ​​ Vygotskij e Bruner si afferma l’esigenza di una g. a spirale che consiste nello sviluppare le conoscenze in estensione e profondità.

Bibliografia

Willmann O.,​​ Didattica come teoria della cultura,​​ Brescia, La Scuola, 1962; Titone R.,​​ Metodologia didattica,​​ Roma, LAS,​​ 31975.

H.-C. A. Chang

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GRADUALITÀ

GRAMMATICA

 

GRAMMATICA

Il termine g. viene utilizzato con significati diversi: l’arte di scrivere correttamente una lingua e il libro con cui la si insegna; la scienza che studia la forma e la struttura di una lingua definendone e descrivendone gli elementi costitutivi.

1. I greci mostrarono un grande interesse per la g., considerata strumento necessario per un uso appropriato della lingua. Nelle scuole ellenistiche lo studio della g. si impartiva a tre livelli: a livello primario, da parte del​​ grammatistés,​​ secondario da parte del​​ grammatikós​​ e superiore da parte del​​ sophistés​​ o retore. La g. assunse grande importanza presso gli alessandrini e rese possibile la traduzione dell’A. T.​​ in gr. (versione dei Settanta) oltre che la continuità delle antiche opere classiche greche e lo sviluppo delle tecniche di critica testuale e dei criteri di autenticità e di completezza.

2. In questo clima, esteso alle diverse città ellenistiche, lavorò Dionisio di Tracia, maestro di Rodi, autore della prima g. greca o manuale (téchne),​​ che si diffuse con successo in tutte le scuole. Per la prima volta vengono analizzate le diverse parti del discorso e si identificano le vocali, le consonanti, le sillabe, i dittonghi, i nomi, i verbi, gli articoli, ecc. I latini ellenizzati ereditarono la g. di Dionisio e l’applicarono allo studio del lat. nelle scuole. Nel Basso Impero eccelsero i contributi di Donato con la sua​​ Ars grammatica​​ e le​​ Institutiones grammaticae​​ di Prisciano. Alla semplice g. analitica del maestro di Rodi si aggiunsero la sintassi, lo studio dei casi delle preposizioni latine, gli idiotismi, i barbarismi, l’ortografia, la dizione, la metrica, ecc. La g. di Prisciano (m. nel 526), professore che insegnava lat. a Costantinopoli a studenti greci, fu utilizzata come testo scolastico nel​​ ​​ Medioevo da Boezio, s. Benedetto, Cassiodoro,​​ ​​ Isidoro di Siviglia e da Beda il Venerabile, che l’integrarono nei loro testi pedagogici come una parte importante.

3. La considerazione per la g. continuò durante il Rinascimento e fino al sec. XVII, periodo in cui il lat. fu a poco a poco abbandonato nelle scuole popolari a favore delle g. delle lingue nazionali utilizzate sia nelle scuole di​​ ​​ La Salle, sia in quelle di​​ Port-Royal.​​ Nel sec. XIX si insegnò in tutte le scuole europee la g. della lingua nazionale.

Bibliografia

Chomsky N.,​​ Aspects of the theory of syntax,​​ Cambridge, Mit Press,​​ 1965; Riché P.,​​ Les écoles et l’enseignement dans l’Occident chrétien de la fin du Ve​​ siècle au milieu du XIe​​ siècle,​​ Paris, Montaigne, 1979; Marrou H. I.,​​ Storia dell’educazione nell’antichità,​​ Roma, Studium, 1984;​​ Mourelle de Lema M.,​​ Elio A. de Nebrija y la génesis de una gramática vulgar, Madrid, Grugalma, 2006.

B. Delgado

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GRAMMATICA

GRAMSCI Antonio

 

GRAMSCI Antonio

n. ad Ales (OR) nel 1891 - m. a Roma nel 1937, intellettuale e uomo politico italiano.

1.​​ Vita e opere.​​ Di famiglia impiegatizia, con una borsa di studio frequenta la facoltà di lettere di Torino (1911). Non termina il curricolo, si avvicina ai socialisti e si dedica pienamente alla politica. Fonda, con amici, il settimanale (poi quotidiano) «L’Ordine Nuovo» (1919) e nel 1921 partecipa alla fondazione del partito comunista, di cui diviene uno dei dirigenti. Nel 1922 va a Mosca in rappresentanza del partito presso il comitato esecutivo della II Internazionale. Viene eletto deputato (1924), ma, in seguito ai provvedimenti speciali, viene confinato e nel 1928 è condannato a più di 20 anni e destinato a Turi. In carcere legge, riflette e scrive le​​ Lettere​​ e i​​ Quaderni dal carcere.​​ Nel 1934 chiede un periodo di libertà vigilata, che gli è concesso, ma nell’aprile del 1937 peggiora e si ricovera a Roma, dove muore il 27, per emorragia cerebrale.

2.​​ Il​​ pensiero pedagogico.​​ Premesso che l’impegno principale di G. era di ordine politico, la sua pedagogia, se così si può dire, si regge e si nutre, fino a identificarsi, di quella politicità. Infatti, mentre per il marxismo classico erano determinanti i rapporti di produzione e la struttura economica, per lui diventa risolutiva un’unità organica, dinamica, anzi dialettica e operativa di struttura e sovrastruttura, costituente il​​ «blocco storico».​​ Ogni struttura storica concreta è animata da una sovrastruttura e, quando essa è dominante, esercita un’egemonia.​​ Finora questa è stata nelle mani della classe-padrona, soprattutto in Italia, dove non ci sono stati eventi storici rivoluzionari e innovativi. Occorre un ribaltamento, per cui l’«egemonia» passi nelle mani della classe lavoratrice (operaia e contadina), dando il via a una società democratica. Ciò non è possibile tuttavia, se il proletariato non si impadronisce della cultura, che poi dovrà imporre, e a tal fine diventa insostituibile l’opera dell’educazione, che richiede l’intervento di​​ «intellettuali organici»,​​ inseriti cioè nella massa per farsene interpreti e promotori, in un rapporto di reciprocità dialettica. Infatti l’uomo è​​ «prodotto storico»​​ dei rapporti sociali animati da una volontà di intervento, e tale prodotto è portatore di una cultura, che per diventare egemone ha da essere autonoma, organica, omogenea e criticamente rapportata alle altre. In questa linea si opera una​​ «formazione storica»​​ che, libera da ogni determinismo e innatismo, darà luogo all’uomo nuovo e alla società nuova, all’insegna di una libertà disciplinata, contrapposta a ogni forma di spontaneismo libertario («sgomitolamento»). La disciplina infatti «limita l’arbitrio e l’impulsività», ma «non annulla la personalità e la libertà»; cosicché un «pizzico di coercizione» è di fatto indispensabile per la vita sociale, che richiede un conformismo dinamico, non imposto, ma proposto e accettato. Su queste basi si articolano le sue proposte per la​​ scuola,​​ prima funzionale alla subalternità della classe proletaria, che dovrà essere​​ unitaria,​​ al di sopra della contrapposizione tra cultura tecnica e umanistica, consentendo a tutti l’accesso a un ulteriore sviluppo culturale, al contrario della «riforma Gentile», classista e borghese. La scuola dell’obbligo deve essere fondamentalmente umanistica, nel senso di un nuovo umanesimo, prassico (ideale = «moderno Leonardo da Vinci»), e, al tempo stesso, disinteressata e formativa. In questo sta l’avvio della nuova società, guidata dal «nuovo principe», il partito, non dirigistico e impositivo, ma collaborativo e dialettico, teso all’elevazione della classe operaia. Le stesse tesi sono fondamentalmente riprese nelle sue​​ Lettere,​​ mirate, in particolare, all’educazione dei suoi figli.

3.​​ Valutazione.​​ G., da anni studiato e apprezzato anche all’estero, offre una reinterpretazione del marxismo (discussa specie in Italia), che identifica con la​​ «filosofia della prassi»,​​ accentuandone il carattere storicistico e dunque dialettico, di concretezza e relatività alle differenti situazioni. In tale prospettiva acquista più pregnanza anche la dimensione pedagogica (​​ marxismo pedagogico), non autonoma, ma inscindibilmente correlata alla sua lettura del reale umano-storico.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ le​​ Opere giovanili​​ di G. sono raccolte in 5 voll., Torino, Einaudi 1954-1971; le​​ Lettere dal carcere,​​ Ibid., 1947;​​ Quaderni dal carcere,​​ l’ediz. critica a cura di V. Gerratana, 4 voll., Ibid., 1975. b)​​ Studi:​​ fino al 1967, la bibliografia è raccolta in:​​ G. e la cultura contemporanea,​​ 2 voll., Roma, Editori Riuniti, 1970, vol. II, 477-544; Cammett J. M.,​​ Bibliografia gramsciana 1922-1988, Ibid., 1991. Quanto alla pedagogia: Lombardi F.,​​ Idee pedagogiche di A.G.,​​ Brescia, La Scuola, 1969; Manacorda M. A.,​​ Il principio educativo in G.: americanismo e conformismo,​​ Roma, Armando, 1970; Ragazzini D.,​​ Leonardo nella società di massa - Teoria della personalità in G., Bergamo, Moretti Honegger, 2002; Baratta G.,​​ Le rose e i quaderni. Il pensiero dialogico di A.G., Roma, Carocci, 2003.

B. A. Bellerate

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GRAMSCI Antonio

GRAN BRETAGNA

 

GRAN BRETAGNA

I.​​ Chiesa cattolica

La Gran Bretagna ha due Conferenze episcopali separate: Inghilterra – Galles e Scozia. Il presente art. si riferisce principalmente alla situazione dell’Inghilterra e del Galles nel periodo 1945-1984.

All’inizio del XX secolo due fattori determinarono il carattere difensivo e piuttosto rigido del cattolicesimo inglese: il sentimento di essere una minoranza perseguitata; e il gran numero di cattolici irlandesi che venivano nelle città inglesi in cerca di lavoro. La gerarchia temeva che la fede della gente povera e semplice fosse in pericolo non soltanto a causa dell’eresia protestante, ma anche a motivo della generale indifferenza religiosa. L’educazione dei poveri diventò prioritaria: “Preferire a ogni altra opera la creazione di buone scuole... È la scuola che assicura una virtuosa ed edificante comunità” (First Synod of Westminster, 1852).

L’opera della C. in Inghilterra era in massima parte identificata con l’istruzione della gioventù nelle dottrine della fede. Il “Penny​​ Catechism” era usato ovunque; il metodo consisteva nell’imparare a memoria il testo, con qualche breve spiegazione. Il canonico → Drinkwater reagì contro questo modo di fare. Secondo il suo parere, questo procedimento non era confacente ai bisogni e alle capacità dei fanciulli. Perciò egli richiese cambiamenti attraverso la sua riv. “The Sower”. Nonostante questi pionieri, soltanto attorno al 1960 si verificarono cambiamenti significativi. Il movimento kerygmatico entrò in Inghilterra attraverso le conferenze di → J. Hofinger, tenute in corsi estivi assai frequentati. Gli insegnanti cattolici riscoprirono la Bibbia. L’accostamento alla storia della salvezza venne generosamente accettato, e D. Lance la incorporò nel suo​​ Syllabus​​ per la scuola secondaria (11-16 anni).

Nel 1965 il card. Heenan fondò come Centro Cat. Nazionale il “Corpus Christi College”. Era diretto da H. Richards, studioso di Scrittura, e da un qualificato corpo professorale. Gli studenti venivano da diversi paesi di lingua inglese. Il gruppo direttivo si convinse presto che, all’interno di un concetto più largo di rivelazione, intesa come processo che dura ancora, la storia della salvezza era un fondamento piuttosto limitato per la C., e insistette su un approccio maggiormente esperienziale. Particolarmente influente fu l’opera di G. Moran.

Tali cambiamenti suscitarono in molti operatori un sentimento di insicurezza e resero diffidenti molti membri del clero di fronte alla “nuova catechesi”. Era inevitabile la controversia, che si focalizzò attorno ai Corpus Christi College. Tutto terminò nel 1972 quando tutto il gruppo direttivo preferì dare le dimissioni piuttosto che dimettere cinque professori invitati, come era stato richiesto dal card. Heenan; sostenne che ciò che veniva contestato era proprio la natura e la qualità dell’educazione religiosa richiesta dall’epoca presente. La controversia divenne generale e talvolta anche accanita. Molti reclamavano la reintroduzione del catechismo; alcuni direttori diocesani furono contestati, e vi fu un acceso dibattito nella stampa cattolica. Con il tempo la situazione si calmò, anche se il dibattito non era concluso. Diversi insegnanti di religione ottennero i gradi superiori in teologia e la qualificazione in educazione religiosa Molti erano influenzati dagli scritti di esperti in educazione religiosa appartenenti ad altre confessioni. La conoscenza e l’apprezzamento positivo della fede religiosa degli altri sembravano necessari per preparare i fanciulli all’ambiente pluralista della Gran Bretagna. Documenti cattolici ufficiali incoraggiavano il superamento della sola accentuazione dottrinale; consideravano la scuola soltanto come un agente limitato della C., e sottolineavano la necessità di lavorare con gli adulti.

La conseguenza fu che attualmente vi è un numero molto più consistente di programmi parrocchiali che vengono incontro a diversi bisogni. Diverse parrocchie hanno programmi sacramentali che coinvolgono l’intera comunità e incoraggiano una maggiore collaborazione tra la famiglia, la parrocchia e la scuola (Brusselmans, Saris). Il​​ Rito per l’ → iniziazione cristiana degli adulti​​ esercita un influsso notevole sulla vita parrocchiale. In ogni diocesi vi sono programmi ispirati al RICA. La formazione degli adulti è attualmente molto più curata, e un buon lavoro è svolto in centri quali l’Upholland Northern Institute. Una consultazione iniziata dall’Istituto pubblica resoconti e occasionalmente documenti (Progress in Aduli Christian​​ Education).​​ Il nuovo orientamento della C. è pienamente riconosciuto nel Congresso pastorale nazionale di Liverpool, 1980. Le relazioni del congresso descrivono la C. come processo di educazione e di formazione alla vita cristiana, in modo graduale, multiforme, comunitario, che dura per tutta la vita. Il rinnovamento della C. è anche incoraggiato nel documento​​ Signpost and Homecomings​​ (1981).

Il sistema scolastico in Inghilterra è unico. La struttura duale permette a due specie di scuole di esistere in collaborazione: scuole create dalle autorità locali (per es. Londra) e scuole create da enti volontari (per es. i cattolici romani). In concreto ciò significa che lo Stato sovvenziona per 1’85% (nella Scozia il 100%) la costruzione degli edifici scolastici e il loro funzionamento, e paga anche il salario degli insegnanti; così pure l’organico (con maggioranza di cattolici) che governa le scuole ed esercita il controllo sul curricolo. La religione è una materia riconosciuta nel curricolo. Nelle scuole secondarie vi è un dipartimento per la religione; si segue la politica di affidarlo a qualificati specialisti. Religione e Bibbia possono essere scelte come materie per l’esame statale. Vi sono “College” cattolici per la formazione degli insegnanti per le scuole cattoliche. Questi College, riorganizzati e ridotti di numero, offrono attualmente corsi accademici in diverse materie e non soltanto per coloro che intendono insegnare (B.A., B.Ed., M.Ed.). Studenti che desiderano insegnare in scuole cattoliche e non sono ancora provvisti di una qualificazione in teologia ed educazione religiosa, devono ottenere il certificato in educazione religiosa fornito dai vescovi a livello nazionale. Ogni diocesi è responsabile per il proprio​​ Syllabus​​ religioso. Nel corso degli anni altri Syllabus sono stati introdotti dall’America, dall’Australia, dall’Irlanda (più recentemente il programma cat. irlandese “Veritas”). D. Konstan (Westminster) e A. Bullen (Liverpool) hanno pubblicato Syllabus che sono largamente adottati.

Riguardo alle finalità dell’IR le opinioni sono divise. Educazione religiosa e/o catechesi? La frase “solidarietà critica” è stata coniata per esprimere il carattere proprio che dovrebbe distinguere la scuola cattolica nell’ambito del sistema scolastico inglese.

A livello nazionale vi è un Adviser (consulente) per i vescovi. K.​​ Nichols​​ è stato il primo (1974). Egli pubblicò, con l’approvazione dei vescovi,​​ Cornerstone. Guidelines for​​ R.E.​​ Nel 1983 la Conferenza Episcopale revisionò le proprie strutture e procedimenti e stabilì sei dipartimenti. L’Adviser nazionale per l’educazione religiosa è anche segretario del Department​​ of​​ Christian​​ Doctrine and Formation,​​ il quale comprende sette incaricati ciascuno con una specifica area di interesse (scuole, famiglia, gioventù, adulti, ecc.). Ogni commissione, composta da circa sei esperti, è presieduta da un vescovo; il loro compito è di offrire consiglio, di fare ricerca e di promuovere il settore. In ogni diocesi vi è un Direttore della C. assistito da un gruppo responsabile. Alcuni di questi gruppi sono ampi, con molti membri che si specializzano in certi aspetti del lavoro; altri sono ridotti. I comitati diocesani si incontrano una volta l’anno per discutere insieme.

Vi è un numero crescente (tuttora però sono relativamente pochi) di laici qualificati che lavorano a tempo pieno come coordinatori delle attività​​ cat.​​ di una parrocchia o di un gruppo di parrocchie. Attualmente, sotto la guida di P.​​ Purnell,​​ Adviser nazionale, è in atto un lavoro per formulare direttive nazionali, con idee e materiali, destinate non soltanto alle scuole ma anche alle parrocchie e alle famiglie.

Bibliografia

C. Brusselmans – B.​​ Haggerty,​​ We Celebrate​​ Eucharist,​​ Morristown,​​ Silver​​ Burdett​​ Co, 1975; R.​​ Duckworth,​​ Ten Years of Religious Education in England,​​ in​​ Lumen Vitae​​ 30 (1975) 3-4, 375-388; M. Hornsby-Smith,​​ Catholic Education,​​ London, Sheed and Ward, 1978;​​ Living and Believing​​ Series, London, G. Chapman, 1979; K. Nichols,​​ Cornerstone,​​ Slough, St.​​ Paul Pubi.,​​ 1978;​​ Report, National Pastoral Congress, Liverpool 1980,​​ ivi,​​ 1981;​​ Report to Bishops, Signpost and Homecomings,​​ ivi,​​ 1981; R. Rummery,​​ Catechesis and Religious Education in a Pluralist Society,​​ Sydney,​​ E.​​ J. Dwyer, 1975; W. Saris,​​ Towards a Living Church,​​ London, Collins, 1980; In.,​​ Together We Communicate,​​ ivi,​​ 1982.

James Gallagher

II.​​ Educazione religiosa nelle scuole statali

Questo art. si occupa dell’educazione religiosa in Inghilterra e nel Galles. La situazione della Scozia e dell’Irlanda del Nord rimane fuori considerazione (cf bibl.). L’attenzione è rivolta verso l’IR nelle scuole statali — caratterizzate in forme diverse come​​ county schools​​ o​​ Local Education Authority (LEA) schools​​ — anche se non mancherà qualche accenno alla situazione nella Chiesa d’Inghilterra e nelle Free Churches (le principali Chiese protestanti).

Fra il 1870, data in cui fu creato il sistema dell’educazione pubblica, e il 1944 l’IR nelle scuole era “non confessionale”, generalmente basato su un semplice programma​​ (Syllabus)​​ biblico, e fatto da docenti comuni, eccettuate alcune scuole secondarie in cui erano impiegati insegnanti specializzati nell’IR (J. Murphy,​​ Church, State and Schools in​​ Britain​​ 1800-1970,​​ London, Routledge and​​ Kegan​​ Paul, 1971). Ogni scuola incominciava la giornata con un atto liturgico non confessionale, generalmente consistente in un inno, il Padre nostro e una lettura biblica (J. M. Hull,​​ School Worship. An Obituary,​​ London, SCM Press, 1975,​​ cap.​​ 1). Le norme per l’istruzione e la liturgia erano basate su decisioni locali; non erano richieste dalla legge nazionale. Durante gli anni 1920 e 1930 gli Anglicani, le Free Churches e le LEA concordarono programmi più ricchi basati sulla dottrina cristiana e sull’etica.

Nel 1944 l’Education Act dà un sostegno nazionale a questa prassi, stabilendo che in Inghilterra e nel Galles ogni allievo in qualsiasi scuola statale riceva l’IR, basato su un programma approvato e preparato dalla LEA in collegamento con le Chiese e gli insegnanti, e che ogni giorno la scuola inizi con un atto collettivo di culto da parte di tutti gli allievi. L’IR e gli atti di culto devono essere non confessionali; per i genitori è prevista la possibilità di chiedere l’esonero per i loro figli. Questi paragrafi dell’Education Act del 1944 non sono mai stati seriamente contestati dal Parlamento e sono ancora validi oggi (W. J. H. Earl,​​ The 1944 Education Act – 40 Years On,​​ in “British Journal of Religious Education» 6 [1984] 88-92). Così l’educazione religiosa è l’unica materia obbligatoria nel curricolo della scuola primaria e secondaria, ed è anche l’unica dalla quale i genitori possono richiedere l’esonero per motivi di coscienza. È pure .l’unica materia il cui​​ contenuto​​ è approvato pubblicamente e professionalmente per mezzo di un agreed​​ syllabus​​ (programma approvato). Oltre questo provvedimento generale per l’educazione religiosa di tutti gli allievi, gli studenti più grandi, nelle scuole secondarie, hanno la libertà di scegliere “studi religiosi” come materia dell’esame pubblico, esattamente alla pari con le altre materie di esame. I programmi per gli esami pubblici di studi religiosi non si limitano alla conoscenza della Bibbia ma includono anche storia della Chiesa, dottrina cristiana, filosofia della religione, etica e religioni mondiali. '

Il quadro giuridico del 1944 è rimasto finora immutato, tuttavia il contenuto e l’orientamento dell’IR nelle scuole hanno subito profondi cambiamenti. I sussulti incominciarono a metà degli anni ’60, quando divenne sempre più evidente che il vecchio modello di insegnamento biblico non era più in grado di interessare i giovani (H. Loukes,​​ New Ground in Christian Education,​​ London, SCM Press, 1965) e gli studi psicologici mettevano in luce che era necessario un nuovo approccio (R. Goldman,​​ Religious​​ Thinking​​ from Childhood to Adolescence,​​ London, Routledge and Kegan Paul, 1964; K. E. Hyde,​​ Religious Learning in Adolescence,​​ Edinburgh, Oliver and Boyd, 1965). Da questa crisi si sviluppò il metodo esperienziale, talvolta chiamato metodo incentrato sull’allievo, o metodo a partire da problemi, di cui il “fife theme” era un particolare esempio (R. Goldman,​​ Readiness for Religion,​​ London, Routledge and Kegan Paul, 1965). Nello stesso tempo i cambiamenti nella società, gli orientamenti teologici e gli sviluppi negli studi pedagogici, particolarmente sul piano della filosofia dell’educazione, crearono un clima in cui l’intera funzione dell’IR come educazione alla fede fu messo in questione (E. Cox,​​ Changing Aims in Religious Education,​​ London, Routledge and Kegan Paul, 1966). Il curricolo fu ampliato includendo anche le religioni mondiali; la fenomenologia divenne importante come metodo per studiare nella scuola i contenuti, le azioni e i sentimenti dei credenti (Schools​​ Council,​​ Religious Education in Secondary Schools​​ [Working Paper 36], London,​​ Evans-Methuen,​​ 1971).

Queste tendenze proseguirono durante gli anni ’70. Ormai l’IR nelle scuole pubbliche era chiaramente differenziato dalla C. o dalla formazione cristiana, giudicate proprie delle comunità religiose (moschea, tempio, sinagoga, gurdwara, chiesa). L’espressione “religious education” indica un processo di descrizione e di analisi critica, orientato verso l’approfondimento e la comprensione del fenomeno “religione”, senza presupporre la fede religiosa nell’insegnante o nell’allievo. Questo cambiamento si manifestò nel 1975 con la pubblicazione da parte della città di Birmingham​​ dell’Agreed Syllabus of Religious​​ Instruction,​​ seguito un anno dopo da​​ Living Together-. A Teachers’ Handbook to the Birmingham Syllabus​​ (1976, più un​​ Supplement

1982). La controversia era aggravata dalla prescrizione del programma di Birmingham di includere anche corsi su​​ lifestyles​​ secolari, particolarmente​​ comunismo​​ e umanesimo, presentati come aspetti del contesto secolare senza il quale oggi non è possibile comprendere adeguatamente la religione. L’emergere di un consenso circa l’educazione religiosa venne ben formulato in due fra i più diffusi manuali per la formazione degli insegnanti di religione: Michael Grimmitt,​​ What Can​​ I Do in RE?​​ (Mayhew McCrimmon,​​ 1973,​​ 2a​​ ed.​​ rev.​​ 1978) e Jean​​ Holm,​​ Teaching Religion in School​​ (Oxford University Press, 1975),​​ come​​ pure in​​ un​​ Schools Council Working Paper:​​ A Groundplan for the Study of Religion​​ (London, Schools Council, 1977).

Nell’insieme, sia​​ la Chiesa​​ d’Inghilterra che le​​ Free Churches​​ sostennero questa tendenza verso una visione maggiormente educativa della religione nella scuola. Il più importante pronunciamento da parte anglicana si trova nel “report”​​ di una commissione di lavoro presieduta dal​​ rev.​​ lan Ramsey, allora vescovo di​​ Durham,​​ The Fourth​​ R​​ (London, National Society/SPCK, 1970). Questo rapporto diede un’immagine dettagliata della situazione nelle scuole libere patronate e controllate dalla Chiesa d’Inghilterra (cioè scuole sovvenzionate dallo Stato) e sostenne anche la necessità di continuare a dare una prospettiva più ampia ai programmi approvati​​ (Agreed Syllabuses).​​ La Chiesa d’Inghilterra continua ad avere un ruolo importante nella composizione di questi programmi, poiché gode del diritto di veto circa il contenuto di ogni locale​​ Agreed Syllabus,​​ sulla base di quanto stabilito nella​​ Fifth​​ Schedule dell’Education​​ Act​​ del 1944. Anche le​​ Free Churches​​ seguirono una linea simile. Pioniere molto attivo del progresso dell’IR nelle scuole statali fu il​​ Christian​​ Education Movement​​ (fusione di organizzazioni già esistenti, nel 1964), che è il maggiore organismo indipendente ed ecumenico che si occupa della presenza cristiana nelle scuole statali e della promozione di una educazione religiosa critica e aperta (indirizzo: The General​​ Secretary, CEM,​​ 2 Chester House,​​ Pages​​ Lane, London N10 1PR). Il Christian​​ Education Movement​​ ha un servizio che crea materiali per il curricolo di IR nelle scuole primarie e secondarie. Esso ha pure esercitato un influsso sulla professione dell’insegnante di religione attraverso la rivista “British​​ Journal​​ of Religious Education”​​ (Editor:​​ Dr​​ John M.​​ Hull, Books Reviews Editor: Mr Michael Grimmitt: ambedue della Facoltà di pedagogia dell’università di Birmingham, Birmingham B15 2TT).

La consapevolezza che non si può più aspettare che le scuole statali provvedano alla formazione cristiana dei fanciulli condusse le Chiese ad un rinnovato impegno per tale educazione nell’ambito della famiglia cristiana e della Chiesa, e a un rinnovato interesse per la teologia cristiana della fanciullezza (British Council of Churches,​​ The Child in the Church,​​ London, 1984).

Dopo quello di Birmingham (1975) sono stati pubblicati oltre 20 nuovi Agreed Syllabuses. Essi continuano a focalizzare l’apprendimento della religione a partire dalle sue manifestazioni nella comunità locale. Non solo il cristianesimo è normalmente raccomandato per lo studio speciale, ma anche altre religioni mondiali e ideologie secolari. Per i fanciulli si mette frequentemente l’accento sulla scoperta della religione a partire dalla storia, dai miti, dai festival, dalle visite a luoghi ed edifici sacri. Poiché sono molti i musulmani, indù e sik nella maggior parte delle grandi città, insieme con le comunità ebraiche di vecchio inserimento, ed è vasta la pluralizzazione del cristianesimo dovuta all’influsso di West Indians e africani, molte scuole sono oggi profondamente multirazziali. Anche nelle zone rurali la politica generale è di offrire una educazione religiosa pluriconfessionale che prepari alla comprensione e all’accettazione tollerante della pluralità religiosa. Altre tendenze nell’attuale educazione religiosa nelle scuole statali propongono la comunicazione e la comprensione dell’esperienza religiosa attraverso la creatività artistica, oppure insistono sullo sviluppo personale (“Life Skills”) degli allievi promosso attraverso l’incontro educativo con le religioni dell’umanità, L’insegnamento della Bibbia in questo contesto educativo aperto continua ad essere materia di preoccupazione (Can We Teach the Bible?,​​ in “British Journal of Religious Education”, 5, Summer 1983, special issue). Si cercano continuamente nuove vie per affrontare i problemi posti dalla nomina, dalla formazione e dall’aggiornamento degli insegnanti di religione.

L’assemblea scolastica quotidiana si svolge in modi notevolmente diversi. Probabilmente la maggioranza delle scuole cerca ancora di realizzare un atto di culto molto tradizionale, che consiste in inni, preghiere e letture bibliche. In un numero crescente di scuole l’assemblea è diventata un’occasione di partecipazione comunitaria, in cui l’elemento religioso può essere o non essere pubblico. Nelle scuole con molti allievi appartenenti a religioni non cristiane, spesso ha un carattere multiconfessionale. Nelle scuole secondarie però si delinea la tendenza a non fare più ogni giorno l’assemblea scolastica, oppure di farla in modo puramente amministrativo o moralistico. Queste tendenze vanno forse attribuite alla complessità amministrativa delle grandi scuole secondarie, e anche all’incertezza da parte degli insegnanti principali circa i contenuti appropriati. Là dove si attua un approccio più liberale, umanitario o multiconfessionale, può essere estremamente efficiente reintrodurre problemi di impegno e di valori in un’area centrale della vita scolastica. Sono però accaduti tre o quattro spiacevoli incidenti, in cui politici locali, facendo leva sulla xenofobia e su paure conservatrici non illuminate, in nome della tradizionale cultura cristiana dell’Inghilterra hanno attaccato assemblee scolastiche di questo tipo. Sezioni della comunità islamica, diventate più articolate e meglio organizzate, hanno espresso dubbi circa l’insegnamento dell’islam da parte di insegnanti non islamici, ma in genere si è nel vero affermando che i leaders della maggioranza dei gruppi religiosi, muniti di adeguata informazione educativa, sostengono la validità di questo insegnamento descrittivo e imparziale delle religioni non cristiane nella scuola, a condizione che sia fatto in maniera creativa e simpatica. Gruppi minoritari diventano progressivamente più consapevoli della validità del contributo che un simile IR può offrire per creare un clima di reciproco rispetto e di benevolenza. Grandi educatori cristiani hanno cercato di creare approcci teologici cristiani che dovrebbero giustificare questo tipo di educazione religiosa aperta e informativa.

La Chiesa d’Inghilterra si trova in una situazione particolarmente interessata. Sulla base dell’Education Act del 1944, confermato dalla legislazione posteriore, è permesso a gruppi volontari (per es. Chiese) di ricevere in determinate circostanze sovvenzioni pubbliche e far parte del sistema di scuole mantenute dalle Locai Education Authorities. Nel 1981, 24,7% di tutte le scuole primarie erano patronale dalla Chiesa d’Inghilterra (rispetto al 9,5% delle scuole cattoliche), e di tutte le scuole secondarie sovvenzionate 5,1% erano anglicane (rispetto a 9,1% di scuole cattoliche). La percentuale totale di tutte le scuole anglicane era del 21,1% e il totale di tutte le scuole cattoliche 9,5%. In queste scuole gli anglicani hanno il 17,3% di tutti i fanciulli che frequentano la scuola elementare (i cattolici il 9,3%) e il 4% degli studenti delle scuole secondarie (i cattolici il 9%), il che dà un totale di 10,9% di tutti gli studenti in scuole anglicane e il 9,16% di tutti gli studenti in scuole cattoliche (A Future in Partnership​​ [A Green Paper for discussioni, London, The National Society [Church of England] for​​ promoting​​ Religious Education, 1984).

Occorre precisare che, in generale, le scuole cattoliche hanno conservato una maggiore libertà per l’insegnamento confessionale che non le scuole anglicane. Questo illumina la situazione delle scuole anglicane, concepite come una parte del contributo che la Chiesa nazionale offre al sistema educativo nazionale, e quindi non concepite primariamente per servire gli interessi della Chiesa stessa, o principalmente in funzione degli allievi anglicani. Infatti vi sono numerose scuole anglicane in cui la maggioranza degli allievi non appartiene nemmeno a una confessione cristiana non anglicana, ma a qualche altra fede religiosa, per es. indù, sik o musulmana. Attualmente (nel 1984) una scuola anglicana di Birmingham ha il 98% di allievi islamici. Un recente documento di discussione, di provenienza anglicana, suggerisce che una teologia cristiana che focalizza il ruolo della Chiesa come fattore di riconciliazione potrebbe incoraggiare l’uso delle scuole anglicane per creare modelli o simboli di una armoniosa società multirazziale; questo potrebbe portare, in determinati casi, a mettere delle scuole anglicane a disposizione della comunità islamica, sotto la direzione congiunta di presidi anglicani e islamici (ibid.).

Bibliografia

1.​​ A completamento delle opere citate nel corso detratticelo:

M. Felderhof (ed.),​​ Religious Education in a​​ Pluralistic​​ Society,​​ London, Hodder & Stoughton, 1984; J. M. Hull (ed.),​​ New Directions in Religious Education,​​ London, Falmer Press, 1982; In.,​​ Studies​​ in​​ Religión​​ and Education,​​ ivi, 1984; R. Jackson (ed.),​​ Approaching World Religious,​​ London, J. Murrary, 1982; T. Kerky,​​ Teaching Religious Education,​​ London, Macmillan Educational, 1984; A. R. Rodgee,​​ Education and Eaith in an Open Society,​​ Edinburgh, Handsel Press, 1982; J.​​ Sealey,​​ Religious Education: Rhilosophical​​ Perspectivas,​​ London, Alien and Unwin, 1984; J.​​ Sutcliffe​​ (ed.),​​ A Dictionary of Religious Education,​​ London, SCM Press, 1984.

2.​​ Per la Scozia

J. Darling,​​ Curriculum Retardation and its Treatwent: The Case of Religious Education in Scotland,​​ in «British Journal of Religious Education» 3 (1980) 13-17; F. Whaling,​​ Religious Education in Scotland: A critical review of the SCCORE Report,​​ ibid. 3 (1980) 18-23.

3.​​ Per I’lrlanda del Nord

J. E. Greer et al.,​​ Religion in Ireland: A School Based Curriculum Development Project,​​ in “Learning for Living” 17 (1977) 75-78; I. F. Turner – J. Davis,​​ Religious Attitudes in an Integrated Primary School: A Northern Ireland Case-Study,​​ in “British Journal of Religious Education» 5 (1982) 28-32.

John M. Hull

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GRAN BRETAGNA

GRAZIA

 

GRAZIA

La G. verrà studiata solo come tema della C. Partiamo dalla constatazione di una situazione problematica per quanto riguarda questo tema nella C., cercando poi di definire i criteri per una sua presentazione fedele alla Parola di Dio e all’uomo contemporaneo.

1.​​ Una situazione problematica.​​ Il termine G. esprime certamente qualcosa di costitutivo, di fondamentale per la fede cristiana. Eppure oggi ha perso per molti il suo significato originario e il suo mordente; non è molto usata nella predicazione e nella C.; tra i fedeli se ne parla spesso al plurale (“le grazie” da chiedere alla Madonna o ai Santi) oppure la si intende genericamente come “aiuto di Dio” in espressioni come: senza la G. non si può evitare il peccato.

Cause molteplici hanno determinato questo stato di cose. Tra esse, non ultima, l’infedeltà della teologia dei manuali postridentini alla ricca e vitale dottrina biblica e patristica sulla G., unita all’insufficienza della C., troppo legata alle formule astratte di una teologia neoscolastica, ripetitiva e lontana dalla vita e dalla cultura attuale. Non va neppure dimenticata l’introduzione nella teologia e nella pastorale di quell’infelice separazione tra natura e G., che ha avuto tante conseguenze negative nell’ambito dell’educazione cristiana.

Oggi tuttavia si nota un’inversione di tendenza nel modo di trattare il tema della G. sia in teologia come pure nei nuovi catechismi promossi dalle Conferenze Episcopali.

2.​​ Criteri generali.​​ Dalla riflessione dell’odierna catechetica sulla natura, funzioni e fonti della C., e dagli orientamenti dei documenti ecclesiali a partire dal Concilio Vaticano II, soprattutto il DCG e la CT, si possono ricavare alcuni criteri generali riguardanti i contenuti della C. Li enunciamo brevemente.

— Il principio fondamentale del reperimento, dell’interpretazione e della comunicazione della Parola di Dio nella C. è​​ la fedeltà a Dio e la fedeltà all’uomo.​​ Questa formula è divenuta classica in tutti i documenti ufficiali sulla C. e nell’amplissima letteratura cat. di questi ultimi anni. Con essa si esprime il criterio generalissimo dei contenuti di ogni C., fedele alla sua natura e alle sue funzioni, e quindi anche della C. sulla G.

— Un secondo criterio deriva dalla natura stessa della C.: una C. che intenda essere testimonianza-annuncio dell’azione salvifica di Dio nel Cristo e del suo messaggio, ma anche interpretazione della vita alla luce di tale evento e di tale messaggio,​​ non può essere puramente nozionistica,​​ preoccupata solo dell’apprendimento mnemonico di → formule ortodosse, ma deve sforzarsi di far comprendere in modo vitale la realtà affascinante (il “tesoro” evangelico,​​ Mt​​ 13,44) del “Regno” per dar senso a tutta la vita. Quindi la C. sulla G. non deve essere finalizzata all’apprendimento dei moduli linguistici con i quali tradizionalmente si esprimeva la Parola di Dio sulla G., per quanto venerandi essi siano. Non si tratta di rifiutarli a priori, ma neppure di assolutizzarli. Ci si deve preoccupare invece di far comprendere la realtà affascinante che essi volevano esprimere.

— Un terzo criterio deriva dalla funzione evangelizzatrice ed educatrice della fede propria della C.: essa deve​​ rifarsi continuamente alle sorgenti bibliche della Parola di Dio.​​ Non può presentare, almeno inizialmente, la dottrina sulla G. in quello stadio evoluto di riflessione a cui è giunta oggi dopo tante polemiche e tanta speculazione teologica. Deve partire invece dalle formulazioni più primitive, fatte soprattutto di immagini e simboli, quali si trovano principalmente nella Bibbia, anteriori quindi alla speculazione teologica dei Padri e dei teologi medioevali e alle polemiche sulla giustificazione e sulla predestinazione dell’epoca medioevale e moderna. Solo in un secondo tempo si potranno mostrarne gli sviluppi.

3.​​ Criteri particolari.​​ Tenendo presente la trattazione sui criteri del contenuto della C., espressi nel DCG (p. III, c. I, nn. 37-46), possiamo formulare alcuni criteri particolari per una trattazione cat. sulla G., che sia attuale, vitale, accessibile all’uomo concreto e nello stesso tempo pienamente fedele alla Parola di Dio.

— La G. anzitutto non deve essere presentata come una “cosa”, ma piuttosto come un “evento” in strettissima connessione con l’evento Cristo, considerato nella sua integralità. Non si deve mai staccare il tema della G. dal contesto nel quale la Chiesa primitiva l’ha formulato. Una trattazione sulla G. sul tipo dei vecchi manuali teologici del “De Grada Christi” e del “De Deo Elevante” (tra l’altro concepiti quasi senza rapporto l’uno con l’altro), trattazione a cui si sono ispirate tante esposizioni cat. preconciliari, deve essere definitivamente messa a riposo. La G. deve apparire come comunione vitale e salvifica di tutta l’umanità con Dio mediante il Cristo nello Spirito. A nostro avviso nella C. non deve esistere una trattazione separata della G.; questo tema deve inserirsi organicamente nel contesto dei grandi temi della C. Nel tema​​ cristologico​​ anzitutto: l’Incarnazione del Verbo come “pienezza” e “fonte” di G. per l’umanità. Poi in quello​​ soteriologico​​ ed​​ ecclesiologico:​​ la G. come salvezza integrale di tutto l’uomo e comunione misteriosa con Dio per mezzo di Cristo nello Spirito, a cui tutta l’umanità è chiamata, di cui la Chiesa è segno e sacramento; come dono germinale e impegno, che si realizza “oggi” nel mistero e nella lotta, al termine della storia invece nella chiarezza, nella pienezza e nella gioia. Infine, nel contesto​​ àsWantropologia teologica-,​​ l’uomo come “imago Dei”, che nel Cristo risorto trova il suo esemplare perfetto e nell’umanità parusiaca il suo compimento. La dottrina dell’origine dell’uomo e del mondo non va mai disgiunta da quella sull’escatologia, che ne costituisce la spiegazione definitiva e il compimento. Molti catechismi recenti sembrano orientarsi su questa linea.

— In secondo luogo, il tema della G., inserito nei grandi temi del messaggio cristiano, deve essere presentato secondo​​ una prospettiva relazionale e storica.​​ Anzitutto una prospettiva relazionale: la G. è un evento salvifico al centro di un triplice rapporto. Dio Padre col suo disegno di amore sta all’origine prima ed è il fine ultimo di tutta l’economia della salvezza, che è economia di G. Cristo ne è l’evento centrale, ma anche il compimento ultimo. L’umanità è il “soggetto” che è chiamato a rispondere responsabilmente a quest’offerta di salvezza. La G. perciò possiede sempre questa triplice dimensione: teocentrico-trinitaria, cristocentrica e antropocentrica. Inoltre il tema della G. va presentato secondo la prospettiva della storia della salvezza. La C. sulla G. deve “raccontare” ciò che Dio nel suo amore infinito ha fatto per l’uomo, per la sua salvezza, dalla creazione ad oggi; ma anche le risposte dell’uomo, positive e negative (il peccato) fin dalle origini. G. e impegno, peccato e santità si intrecciano nella concreta storia dell’uomo. Deve però anche annunciare ciò che Dio farà nel modo definitivo, se l’uomo corrisponde al suo dono e al suo amore salvifico. In questo modo G. e impegno sono uniti indissolubilmente in tensione verso il compimento della “gloria”.

— La C. inoltre deve presentare il tema della G. come qualcosa di profondamente​​ vitale e arricchente​​ per l’uomo. Certo non si raggiunge lo scopo presentando la G. semplicemente come “aiuto” per fare il bene; oppure partendo dalle definizioni scolastiche di G. santificante e sacramentale, o discutendo sulla natura della G. attuale. Si deve invece inserire il tema G. in quello più vasto di “salvezza integrale” dell’uomo e presentarlo come dono di vita, inaudito e inatteso, anche se oscuramente desiderato, frutto dell’amore dalle dimensioni abissali del Padre Celeste, comunicato all’uomo per mezzo di Cristo nello Spirito Santo, per cui l’uomo entra in qualche modo a far parte della famiglia di Dio.

— In quarto luogo la C. sulla G. deve​​ rendere accessibile​​ la realtà misteriosa che si cela sotto questa parola,​​ traducendo​​ i moduli interpretativi con cui è stata espressa nel passato dalla comunità cristiana in formule, immagini, espressioni, ecc., che siano comprensibili per l’uomo d’oggi, tenendo conto dell’età, della “cultura” e delle “culture”, dei processi di maturazione nella fede dei singoli e delle comunità, delle situazioni socio-politiche ed economiche, ecc. Si tratta del processo di acculturazione del messaggio cristiano nella C., di cui parla la CT (n. 53), cosa per nulla facile, perché deve salvare da una parte l’ortodossia dei contenuti (ricordando però che questa non si tutela solo con la ripetizione delle formule tradizionali!), ma dall’altra curare la loro comprensibilità nel contesto culturale. Proprio per questo l’integrità dei contenuti della C. sulla G. deve essere intesa solo come meta finale di tutto il processo cat. e non invece come suo punto di partenza (cf DCG 38). Una C. sulla G. dovrà pertanto preoccuparsi di scoprire formule globali, comprensibili per l’uomo d’oggi, suscettibili di uno sviluppo organico e coerente. Per questo la C. sulla G. dovrà essere continuamente in dialogo con una teologia rinnovata e aperta ai problemi attuali, che tenga conto della “svolta antropologica” e si preoccupi di incarnare nel linguaggio di oggi il messaggio cristiano sulla G.

— Infine, una C. sulla G. fedele all’uomo d’oggi, sensibile ai suoi problemi, alle sue angosce e alle sue speranze, dovrà necessariamente connettersi con una teologia della liberazione, ortodossa certamente, nella quale l’impegno per la realizzazione di un mondo più umano, libero dalle oppressioni, dove tutti possano vivere dignitosamente, traduca a livello operativo nell’oggi l’aspirazione cristiana a quell’ineffabile comunione con Dio per mezzo di Cristo nello Spirito, propria del mondo definitivo, che è la meta di tutta la storia umana.

Bibliografia

G. Colzani,​​ L’uomo nuovo. Saggio di antropologia soprannaturale,​​ Leumann-Torino, LDC, 1977; J. Feiner – M.​​ Lõhrer​​ (ed.),​​ Mysterium Salutis,​​ vol. 9:​​ L'evento salvifico nella comunità di Gesù Cristo. Azione della Grazia di Dio,​​ Brescia, Queriniana, 1975; M. Flick – Z. Alszeghy,​​ Fondamenti di una antropologia teologica,​​ Firenze, LEF, 1970; In.,​​ L'uomo nella teologia,​​ Roma, Ed. Paoline, 1972; In.,​​ I primordi della salvezza,​​ Torino, Marietti, 1979; H. de Lubac,​​ Il mistero del soprannaturale,​​ Bologna, Il Mulino, 1967; J. – H. Nicolas,​​ Les​​ profondeurs​​ de la Gràce,​​ Paris, Beauchesne, 1969; K.​​ Rahner,​​ Saggi di antropologia soprannaturale,​​ Roma, Ed. Paoline, 1969; H. Rondet,​​ La Grazia di Cristo,​​ Roma, Città Nuova, 1966; E. Schillebeeckx,​​ Il Cristo. La storia di una nuova prassi,​​ Brescia, Queriniana, 1980.

Giuseppe Groppo

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GRAZIA

Carlo Rocchetta

 

1. Mondo giovanile e vangelo della grazia

1.1. La grazia nel contesto culturale odierno

1.1.1. Il linguaggio: difficoltà e valenze positive

1.1.2. 11 problema della prevalenza di concezioni riduttive

1.1.2.1. La concezione cosificante

1.1.2.2. La concezione individualista-ultraterrena

1.2. Necessità di un approccio antropologico

1.2.1. L’uomo aperto al soprannaturale

1.2.2. Struttura relazionale e corporeità

1.2.3. La grazia nella storicità dell’uomo

2. Una rinnovata comprensione della teologia della grazia

2.1. La prospettiva del manuale tradizionale

2.2. Ritorno alle sorgenti neotestamentarie

2.2.1. 11 termine «grazia»

2.2.2. 11 Dio della grazia

2.2.3. La grazia di Dio rivelata in Gesù Cristo

2.2.4. La grazia nell’uomo

2.2.4.1. La grazia come liberazione

2.2.4.2. La grazia come comunione

2.2.4.3. La grazia come vita nuova

2.2.5. La risposta dell’uomo alla grazia

2.3. Sviluppi recenti

2.3.1. La grazia fondamento della libertà dell’uomo

2.3.2. La grazia come sequela di Cristo nella Chiesa

3. Il vangelo della grazia nella pastorale giovanile

3.1. Modelli di «realizzazione»

3.1.1. Realizzazione di sé

3.1.2. Realizzazione del senso della vita e della storia

3.1.3. Realizzazione di solidarietà e di amore

3.2. Modelli di «esperienza»

3.2.1. La grazia nell’esperienza concreta del giovane

3.2.2. La grazia come «finitudine guarita»

 

La nozione di «grazia» è centrale nella conoscenza biblico-cristiana di Dio e appartiene in modo inseparabile al contenuto della missione salvifica che la Chiesa è chiamata a svolgere nel mondo. Il progetto di Dio sull’umanità è, dall’inizio alla fine, un progetto di grazia; una grazia che accompagna tutto il cammino dell’ascesa umana e che, dopo aver operato in maniera particolare nell’ elezione unica d’Israele, è stata pienamente rivelata in Gesù di Nazareth, l’Unigenito del Padre. Infatti, «dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto grazia su grazia. Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo» (Gv 1,16-17).

 

1. Mondo giovanile e vangelo della grazia

La Sacra Scrittura e la Tradizione della Chiesa indicano con espressioni molteplici la ricchezza di questo dono, e non sempre è facile districarsi compiutamente fra le diverse forme di linguaggio. Coincidono ad esempio con la nozione di «grazia», almeno per certi aspetti, categorie paoline e giovannee come «redenzione», «giustificazione-giustizia», «liberazione-libertà», «riconciliazione», «essere in Cristo», «adozione filiale», «nuova creatura», «vita dello Spirito», «comunione», «santificazione-santità», «vita eterna», «conoscenza», «essere nella luce», «elezione», «alleanza», «proprietà di Dio», «caparra di eredità», senza parlare degli svariati modi con cui la stessa nozione viene caratterizzata nella coscienza di fede della Chiesa e nella riflessione teologica. Si comprende, in questo quadro, la complessità del termine «grazia»; un termine già presente nel linguaggio greco e in quello dell’AT, ma che nell’economia della pienezza dei tempi serve ad esprimere essenzialmente il «dono del Figlio» che il Padre ha fatto al mondo nella potenza dello Spirito e che contiene in sé ogni altro dono​​ (Rm​​ 8,32).

 

1.1. La grazia nel contesto culturale odierno

La complessità del vocabolario è ulteriormente accentuata dal modo con cui il termine «grazia» è assunto nel linguaggio comune e dai concetti che richiama alla mente nella maggior parte dei nostri contemporanei. Un annuncio della grazia che voglia rivolgersi con spirito sapienziale e attenzione pastorale ai giovani di oggi non può dimenticare una tale complessità di forme espressive e di concezioni. La domanda che preliminarmente si impone è dunque la seguente: che cosa evoca il termine «grazia» nel mondo giovanile odierno?

 

1.1.1. Il linguaggio: difficoltà e valenze positive

La prima constatazione che emerge in modo immediato è che la parola «grazia» ritorna di frequente nel vocabolario giovanile. «Avere grazia», «parlare con grazia», «comportarsi con grazia», «essere graziosi», «essere nelle grazie di qualcuno», «concedere una grazia», «graziare», sono alcuni tra gli innumerevoli modi di esprimersi piuttosto comuni nel linguaggio dei giovani. Simili modalità espressive hanno, dal punto di vista che ci interessa, una connotazione ambivalente. Da una parte, infatti, un uso così diffuso del termine, invece che essere di aiuto, può rischiare di far da velo alla reale portata della nozione cristiana di «grazia», diluendone il contenuto o portando ad identificarla solo con una forma esterna di comportamento. D’altra parte, tuttavia, è indubbio che, nonostante le diversità di accezioni con cui in ognuno di questi esempi il termine «grazia» è assunto, permane in essi un nucleo semantico comune che richiama in modo costante o un elemento di bellezza oppure un elemento di gratuità, di dono e di perdono; il che — come si vedrà — corrisponde perfettamente al senso biblico-cristiano del termine «grazia».

 

1.1.2. Il problema della prevalenza di concezioni riduttive

11 termine, con le sue difficoltà e la sua valenza semantica, rimanda d’altronde al problema dei contenuti tipicamente religiosi da esso implicati o supposti. Quale significato hanno ad esempio per i giovani di oggi espressioni cristiane come: «perdere la grazia di Dio», «ritornare nella sua grazia», «essere privi della grazia», «vivere in grazia», «crescere nella grazia divina»? Se simili espressioni sono spesso utilizzate in senso corretto, esse possono anche nascondere (e il più delle volte nascondono) delle concezioni di «grazia» abbastanza riduttive, se non del tutto insufficienti. Ci limitiamo, tra le tante, a segnalarne due: la concezione cosificante e quella individualista-ultraterrena di grazia.

 

1.1.2.1. La concezione cosificante

Una prima idea molto diffusa consiste nel pensare alla grazia come ad una «realtà» impersonale, anonima, «un qualcosa», come un flusso di energia che si può avere o non avere, acquisire, accrescere o perdere, senza che il termine dica o richiami alcuna relazione interpersonale «io-tu», «io-noi». «Grazia» diviene allora sinonimo di un «qualcosa» di indefinito e comunque di astratto, di lontano dalla vita, di un «qualcosa» che sembra non aver niente a che fare con le esperienze concrete della nostra condizione storica, come se si trattasse di una realtà unicamente sovrasensibile da confinare nella sfera di un mondo vagamente religioso situato a metà strada tra il cielo e la terra.

 

1.1.2.2. La concezione individualista-ultraterrena

All’idea appena detta si collega un secondo modo di intendere la «grazia» in una sfera unicamente individuale, soggettiva, in corrispondenza ad una concezione altrettanto individuale e soggettiva della salvezza: Luna e l’altra intese come realtà meramente ultraterrene.

La grazia, in tale visione, viene compresa solo in rapporto all’anima (quasi che la corporeità non ne sia coinvolta), finendo per essere considerata solo come una «conditio sine qua non» in vista della salvezza dell’aldilà. Del tutto assente risulta il contenuto ecclesiale della grazia e la sua valenza storica in ordine all’impegno della costruzione del mondo nella prospettiva del «già» e del «non ancora» del Regno. In un simile quadro interpretativo, non c’è da meravigliarsi se il concetto cristiano di «grazia» finisce per risultare alla maggior parte dei giovani come un qualcosa di estraneo, se non addirittura come una categoria religiosa che non rappresenta niente (o quasi niente) di significativo per il loro vissuto reale e il loro «essere-con».

 

1.2. Necessità di un approccio antropologico

Se quanto si è detto è vero, si comprende come si faccia urgente nella pastorale giovanile la necessità della ricerca di un approccio antropologico che situi la grazia, come direbbe D. Bonhoeffer, non al limite dell’esistenza umana, ma al centro, non al di fuori o al di sopra del mondo, ma nel mondo e nel centro della vita del mondo: un approccio che ricuperi la profonda inserzione del dono che Dio fa di sé all’uomo nel quadro della condizione storica dell’uomo, pur non derivando da essa, e mostri nello stesso tempo come la grazia rappresenti una realtà profondamente interpersonale-relazionale, sia in dimensione «verticale» che «orizzontale»: una realtà che è il frutto di un favore assolutamente gratuito del Dio della rivelazione che, in Gesù di Nazareth, si china verso l’uomo, lo libera dalla sua condizione di peccato e di morte e lo introduce, mediante il dono del suo Spirito, nella partecipazione del suo ineffabile mistero di vita trinitaria, costituendolo membro vivo della «comunità escatologica della salvezza» o, come si esprime il libro degli Atti, della comunità «di coloro che sono sulla via della salvezza»​​ (At​​ 2,48).

«Grada supponit naturam et perficit illam», recita un noto assioma teologico di ispirazione tomista: «la grazia presuppone la natura umana e la porta al suo pieno compimento». La grazia si radica nell’uomo, nella sua realtà più profonda, assume tale realtà e la trasfigura in corrispondenza al mistero dell’autocomunicazione di Dio nella storia: l’uomo come essere radicalmente aperto al soprannaturale, «a struttura» essenzialmente relazionale, in cammino nel mondo.

 

1.2.1. L’uomo aperto al soprannaturale

La condizione umana non è una condizione chiusa su di sé, come una circolarità senza alcuna via d’uscita o sbocchi; al contrario, l’uomo si sperimenta come un essere chiamato ad autotrascendersi e come tale comprende sé stesso. Per dirla con B. Pascal, «l’uomo supera infinitamente l’uomo». Se «da una parte infatti, come creatura, esperimenta in mille modi i suoi limiti; dall’altra parte, si accorge di essere senza confini nelle sue aspirazioni e chiamato ad un vita superiore»​​ (GS​​ 10). La nostalgia d’infinito che è radicata nel cuore di ogni essere umano, il desiderio di una conoscenza e di un amore che non conoscano fine, non sono che le espressioni più immediate e percettibili di un orientamento verso «un di più» che caratterizza tutta la storia dell’uomo. L’uomo è più di ciò che è; è in sé stesso tendenza verso una realizzazione che lo appaghi perfettamente.

Rimane vero, d’altra parte, che una simile modalità di autotrascendenza è di fatto sperimentata dall’uomo in mezzo a mille contraddizioni. La fede biblico-cristiana dice il perché di un simile stato di cose con la rivelazione del peccato originale: un peccato che ha radicalmente ferito la condizione umana, introducendo in essa delle divisioni che fanno parte ormai della nostra realtà storica. «Quel che ci viene manifestato dalla rivelazione — nota in proposito la​​ GS​​ 13 — concorda d’altronde con la stessa esperienza. Infatti, se l’uomo guarda dentro il suo cuore si scopre anche inclinato al male e immerso in tante miserie che non possono certo derivare dal Creatore che è buono... Così l’uomo si trova in sé stesso diviso. Per questo tutta la vita umana, sia individuale che collettiva, presenta i caratteri di una lotta drammatica tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre. Anzi, l’uomo si trova incapace di superare efficacemente da sé medesimo gli assalti del male». La grazia, in quanto autocomunicazione di Dio all’uomo nella storia, non solo non è estranea ad una tale condizione dell’uomo sulla terra, nella dialettica vissuta di autotrascendenza e di limite, ma ne rappresenta in Gesù e nel suo Spirito il superamento escatologico, fino a poter dire che «in realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»​​ (GS​​ 22). La grazia, in un simile contesto, appare come il gesto benevolo di Dio che nel suo Unigenito incarnato si fa incontro all’uomo per donargli la vera liberazione e porlo in grado di realizzare il desiderio di infinito che è incancellabilmente impresso nel suo cuore. 11 vangelo della grazia è l’annuncio che l’uomo non è solo sulla terra: il Dio della rivelazione è il Dio che cammina al fianco dell’uomo, gli annuncia la vita dello Spirito per i tempi messianici e la rende presente nella pienezza dei tempi in ordine al pieno compimento del suo progetto sull’umanità e sul mondo. La grazia è il dono che fa uscire l’uomo dalla sua solitudine, con l’incapacità che egli sperimenta a realizzarsi con le sole sue forze, e lo fa entrare in una condizione di esistenza nuova e propriamente soprannaturale: è un «graziare» da parte di Dio, non dipendente dalle prestazioni dell’uomo, e dunque «un graziare gratuito» («gratis»), che rende l’uomo «grazioso», colmo della bellezza e dell’amore di Dio.

 

1.2.2. Struttura relazionale e corporeità

Tale condizione di esistenza non rappresenta semplicemente un qualcosa di esterno all’uomo, come un vestito che si limita solo a coprirlo o a toccarlo dal di fuori; al contrario, essa costituisce un cambiamento profondo nell’essere creaturale stesso dell’uomo, una realtà ontologica, al punto da configurarsi come una reale comunione con il Padre per il Figlio nello Spirito,​​ dono​​ e al tempo stesso​​ fondamento​​ dell’appartenenza alla comunione della Chiesa, a sua volta «popolo adunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo»​​ (LG​​ 4). La grazia è relazione; una relazione che si radica nell’essere relazionale stesso dell’uomo, pur trascendendolo, e innesta tale essere nelle relazioni interpersonali proprie che intercorrono fra le tre persone della ss. Trinità.

L’essere umano è per origine, costituzione e forma un essere radicalmente aperto all’altro, un «essere con». Non è semplicemente un «io-nel-mondo», ma un «io-tu nel-mondo». La struttura fondamentale della persona è una struttura di comunione. L’uomo non si esprime e non si attua come essere personale che nell’incontro con l’altro - altri. La dialettica della formazione del sé è inseparabilmente una dialettica dell’«incontro con». Di tale dialettica, il corpo è il simbolo reale: è​​ significante che rappresenta quanto indica e lo esprime in atto.​​ La grazia si pone al punto di convergenza di una tale costituzione dell’essere umano. Se è vero che ogni religione è incontro e desiderio di unirsi a Dio, è altrettanto vero che l’uomo si trova impotente nel realizzare da solo un tale incontro e un tale desiderio. Con le sole sue forze, egli ricade inevitabilmente su sé stesso e sull’immanenza del proprio mondo. Soltanto se Dio si avvicina all’uomo e lo introduce nel suo mistero di vita, l’uomo può superare sé stesso, uscire fuori dalla propria impossibilità e partecipare alla realtà stessa della comunione di Dio. L’incontro pieno e pienamente personale con l’Assolutamente-Altro è possibile solo in e per mezzo di un benevolo venire dell’Assolutamente-Altro a noi. Ora questo è precisamente quanto è avvenuto in Gesù di Nazareth ed è quanto, per mezzo dello Spirito di Pentecoste, si dispiega nella Chiesa. Tale incontro tra il mistero trascendente di Dio e l’uomo, nella sua realtà più profonda e specificamente soprannaturale, si chiama «grazia»: un incontro che non può per sé stesso essere mai separato dall’amore personale di Dio che si autodona all’uomo e dall’uomo che accoglie nella fede tale dono e si lascia trasformare da esso, nell’attesa della definitiva manifestazione del disegno escatologico di Dio sul mondo.

La grazia si radica dunque sulla struttura relazionale propria dell’essere umano, l’assume, la trasfigura e l’orienta — nel pellegrinaggio della Chiesa terrena — verso il compimento escatologico della storia della salvezza. La grazia è relazione: «relazione con» e «relazione per»; una relazione nuova rispetto alla condizione creaturale, ma non eterogenea: è infatti una relazione che assume il dialogo ontologico-creaturale dell’essere umano con Dio per innestarlo nel dialogo stesso che il Figlio intrattiene dall’eternità col Padre nello Spirito e renderlo partecipe della comunione ineffabile delle Persone divine della Trinità. 11 battezzato ha ricevuto il dono dello Spirito che lo ha reso «figlio nel Figlio» (cf​​ Rm​​ 8,15-16;​​ Gal​​ 4,4-7). Un simile dono non riguarda soltanto l’anima, ma tutta la persona: «L’amore di Dio — proclama Paolo — è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato»​​ (Rm​​ 5,5) . Si noti: «nei nostri cuori», in quel centro della persona umana che la definisce e la determina. La grazia dunque non può essere concepita come una realtà del tutto estranea alla corporeità, alla ragione e ai sentimenti dell’essere umano. Se il corpo è il luogo in cui e per mezzo di cui 1’io-spirituale si esprime e si attua ed è posto in grado di vivere «in relazione con» e «in relazione per», e se la grazia è donata alla persona umana in quanto tale, essa riguarda in modo radicale anche la condizione corporea dell’uomo ed ha su di essa un suo specifico riverbero, al punto che secondo la rivelazione neotestamentaria proprio questa condizione corporea è ormai la dimora di Dio-Trinità, chiamata per logica conseguenza ad evitare ogni collusione col peccato e a divenire invece una dossologia vivente della gloria di Dio (1 Cor​​ 6,20): un tempio in cui risplende la presenza e la bontà di Dio verso gli uomini come in un santuario, nel quale i battezzati celebrano un culto spirituale nuovo, in corrispondenza al culto escatologico realizzato «una volta per sempre» da Cristo nel suo evento pasquale (Rm 12,1-2).

 

1.2.3. La grazia nella storicità dell’uomo

La grazia si inscrive così, in pieno, nella condizione storica dell’uomo: nel suo essere-nel-mondo, chiamato a decidersi con piena libertà e ad assumersi la responsabilità di costruire il mondo e il suo futuro. La necessità della grazia divina non si pone per niente in concorrenza con l’affermazione dell’autentico sviluppo dell’uomo o di una sua raggiunta «età adulta»; è piuttosto la consapevolezza che soltanto lasciandosi «gratificare» dal Dio di Gesù Cristo, l’uomo ritrova il senso vero della libertà e del suo essere nel mondo ed è posto in grado di realizzare il suo compito nella storia, in linea col progetto di Dio creatore e salvatore. La dottrina della grazia è la dottrina della libertà e dell’uomo nuovo, impegnato ad edificare un mondo nuovo nell’orizzonte del Regno veniente di Dio.

Ciò chiede che la riflessione cristiana sulla grazia si impegni ad evitare due opposti scogli, egualmente pericolosi: il «soprannaturalismo» o l’«ideologizzazione» della grazia. Il primo pericolo si ha quando la presentazione della grazia si mantiene ad un tale livello di trascendenza da sembrare di non aver nulla a che vedere con il progetto di Dio sulla creazione e sulla storia umana e quindi con la lotta dell’uomo per liberarsi dal dominio delle forze naturali e storiche, per realizzare un futuro di sviluppo che gli sia degno e lavorare per costruire la «città dell’uomo». In un tale ambito, la grazia finisce per non aver niente a che vedere con la vita concreta, ad esempio con la sessualità, con la coppia e la famiglia, con il rispetto dei diritti umani, l’emancipazione delle classi emarginate e l’ambito culturale e sociale.

Il secondo pericolo si verifica quando l’impegno nelle varie forme di liberazione e di lotta politica arriva a prendere a tal punto il sopravvento da portare a pensare che la grazia si identifichi​​ tout court​​ con esso, legando quello che è un evento dall’alto a movimenti di promozione umana, ad alleanze o strategie ideologiche sempre immanenti e relative. La fedeltà al kerigma originario implica che la grazia rimanga un evento che non deriva da ciò che l’uomo può fare, ma solo dall’iniziativa libera e gratuita di Dio e che sia perciò irriducibile alle categorie della sola storicità dell’uomo.

La grazia è il «favore» che Dio, nonostante il peccato del mondo, concede, chiamando l’uomo ed elevandolo alla partecipazione del suo mistero ineffabile di vita. Nello stesso tempo, la fedeltà al kerigma chiede che il dono divino sia affermato in tutto il suo spessore di prassi e in ognuna delle sue incidenze etiche, pena il tradire il senso profondo dell’autocomunicazione di Dio all’umanità in Cristo.

In altri termini, non si può né confondere né dissociare la grazia con la storia. Non a caso la teologia paolina è profondamente improntata alla dialettica che va dall’indicativo all’imperativo: l’indicativo​​ della grazia come dono dall’alto suppone l’imperativo​​ di una risposta dell’uomo da manifestare nella storia, in opere concrete, e mai l’uno senza l’altro.

 

2. Una rinnovata comprensione della teologia della grazia

Quanto si è detto finora lascia intravvedere come la comprensione teologica della grazia chieda un profondo ripensamento rispetto alle prospettive del manuale tradizionale sia attraverso una più attenta considerazione del modo con cui la grazia è annunciata nelle sorgenti neotestamentarie della rivelazione che in una ricerca di categorie maggiormente adeguate all’annuncio della grazia alle nuove generazioni.

 

2.1. La prospettiva del manuale tradizionale

Per ragioni storiche e controversiste che non è qui possibile stare ad esaminare, il trattato teologico sulla grazia ha finito per concentrarsi in modo prevalente, se non esclusivo, sulle forme di «grazia» che concernono la vita dell’uomo sulla terra, in ogni suo momento o circostanza. È così che, dopo alcune nozioni fondamentali, i manuali classici erano soliti iniziare il loro studio caratterizzando le diverse forme di grazia:

—​​ sanante​​ ed​​ elevante,​​ a secondo se opera il ristabilimento della natura umana ferita dal peccato o «innalza» l’uomo all’ordine soprannaturale;

—​​ creata​​ o​​ increata: la prima è il dono di Dio che inerisce all’anima come un «habitus» in senso filosofico, la seconda è Dio stesso, fonte della grazia, in quanto si fa presente nell’uomo nel comunicargli il dono della sua vita;

—​​ abituale​​ o​​ attuale,​​ a secondo che ci si riferisca alla grazia donata in modo stabile al battezzato oppure a particolari impulsi divini che orientano nei singoli momenti l’uomo al bene.

Specialmente nell’ambito di quest’ultima determinazione, si moltiplicano le sottoclassificazioni:​​ grazia efficace​​ o​​ grazia sufficiente​​ (in relazione al fatto che il dono di Dio consegua o meno il suo fine);​​ grazia santificante​​ e​​ grazia sacramentale​​ (in corrispondenza alla condizione abituale donata col battesimo o alla determinazione che la grazia assume in rapporto ai singoli sacramenti);​​ grazia eccitante, adiuvante, preveniente, concomitante​​ e​​ conseguente​​ (in ordine alle singole tappe della vita cristiana o ai diversi effetti operati nell’uomo).

Il significato positivo di una simile classificazione è indubbio: essa permette di porre in evidenza come tutta l’esistenza dell’uomo sia sotto il segno della grazia divina, pur in modi o momenti diversi e graduati. C’è tuttavia un rovescio della medaglia: il pericolo che una simile classificazione, sia pure involontariamente, finisca per occultare il dato fondamentale a cui tutto in definitiva si riconduce: l’amore personale di Dio manifestato in Gesù e l’appello altrettanto personale che Egli rivolge ad «ogni essere che viene a questo mondo» perché partecipi alla vita del suo

Unigenito nel quale soltanto consiste la salvezza dell’uomo. È la presenza di Dio e il dono che egli fa di sé che giustifica l’uomo e lo trasforma. L’eccessiva ripartizione di «grazie», se risponde al desiderio scolastico di precisione, non deve tuttavia indurre a trascurare o a far passare in secondo piano il fatto che la grazia sia sempre un evento profondamente personale sia da parte di Dio che si dona all’uomo per introdurlo nel mistero della sua vita trinitaria, che da parte dell’uomo il quale, accogliendo nella fede la donazione personale di Dio, entra in un nuovo ordine di esistenza e di relazione con Dio e con i redenti in Cristo. La grazia non è soltanto uno «status», da intendere in termini più o meno passivi o fissisti, ma un ingresso in prima persona nel mistero della comunione trinitaria e della Chiesa e un coinvolgimento dinamico nel compiersi della storia della salvezza, con la novità che essa introduce nel divenire dell’umanità e del mondo.

La grazia, se nella sua dimensione propriamente divina è una realtà immutabile e metastorica, nel momento in cui viene partecipata all’uomo è una realtà che non prescinde dall’uomo e dal suo inserimento concreto nella vicenda del mondo e del suo farsi. Un’integrale teologia della grazia si oppone, di conseguenza, ad ogni concezione spiritualista di «fuga mundi» o di disprezzo delle realtà umane e temporali che in qualsiasi modo arrivi a vedere il Dio della redenzione come «altro» rispetto al Dio della creazione. L’annuncio del NT è in realtà l’annuncio che quel Logos nel quale tutto è stato fatto e nel quale tutto sussiste, che illumina ogni essere che viene a questo mondo, si è fatto presente nella storia in Gesù di Nazareth, rivelando il «mistero» (il «segreto») nascosto in Dio dall’eternità e dando inizio, nello Spirito diffuso in pienezza sulla Chiesa e sul mondo, ad un processo di ricapitolazione il cui termine sarà la riconsegna di tutto nello Spirito al Padre (Ef 1,3-14). La grazia appartiene ad una tale dinamica trinitaria, in senso discendente e in senso ascendente.

 

2.2. Ritorno alle sorgenti neotestamentarie

Pur tenendo nel debito conto le distinzioni tradizionali, l’approccio teologico alla grazia deve costantemente collegarsi alle sorgenti neotestamentarie della fede. Come si presenta la «grazia» nella rivelazione biblica?

 

2.2.1. Il termine «grazia»

Il termine italiano «grazia» è una translitterazione del latino​​ grada​​ e corrisponde al greco​​ charis​​ e all’ebraico​​ hen.​​ Per una coincidenza significativa, la parola ebraica e quella greca richiamano nello stesso tempo sia colui che dona sia l’effetto operato in colui che riceve il dono: la benevolenza del donatore si fa «grazia» e riempie di sé colui al quale è indirizzata. La differenza tra la nozione greca e quella ebraica, dal punto di vista semantico, sta piuttosto nel fatto che mentre il termine​​ charis​​ pone in primo luogo l’accento sulla bellezza visibile che richiama la bontà interna del soggetto e quindi i doni che manifestano tale bellezza-bontà, il termine​​ hen​​ designa anzitutto la benevolenza gratuita di qualcuno verso qualcun altro che era nel bisogno, successivamente indica la manifestazione concreta di tale benevolenza, resa da colui che​​ fa grazia, accolta da colui che​​ trova grazia.​​ Il fascino di chi è stato beneficiato è la conseguenza del dono ricevuto. Specialmente quando il termine è riferito a Dio, l’hen​​ ebraico è di solito collegato ​​ all’hesed,​​ all’amore di gratuità, e all’emet,​​ alla fedeltà di Dio ai doni promessi o concessi. La​​ charis​​ del NT ricupera in diversi modi l’accezione all’hen​​ biblico, riferendola alla benevolenza del Padre che nell'evento salvifico di Cristo e nel dono del suo Spirito ha fatto grazia ai battezzati, santificandoli e rendendoli così «belli» della bellezza del suo Figlio; un evento che rappresenta ormai un oggi perenne dell’annuncio della Chiesa (77 3,4-7).

 

2.2.2. Il Dio della grazia

La sorgente di tale grazia è Dio. La rivelazione biblica è caratterizzata, dall’inizio alla fine, dall’annuncio di un Dio di grazia. E in tali termini ad esempio che​​ Es​​ 34,6 qualifica Jahweh: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà». La grazia, come la fedeltà, è il frutto di un Dio di misericordia e di pietà. Per questo gli uomini possono appoggiarsi con totale fiducia a colui che si è rivelato come il Dio dell’alleanza e possono invocare la ricchezza della sua grazia: «Quanto è preziosa la tua grazia, o Dio! Si rifugiano gli uomini all’ombra delle tue ali, si saziano dell’abbondanza della tua casa e li disseti al torrente delle tue delizie. È in te la sorgente della vita» (Sal​​ 36,8-10). La grazia corrisponde al generoso farsi vicino di Dio all’uomo. Il nome stesso che Dio si attribuisce non fa che caratterizzare questo suo essere-con-l’uomo e per-l’uomo. «lo il vostro Dio, voi il mio popolo»: sta in una tale vicinanza la quintessenza della rivelazione di Dio nell’AT. Jahweh si manifesta costantemente come l’essere libero che dona al suo popolo la vera libertà, come l’amore che perdona, crea, fa alleanza, si autodona all’uomo, un Dio di «benevolenza», il cui atteggiamento verso l’uomo è essenzialmente «grazia».

 

2.2.3.​​ La grazia di Dio rivelata in Gesù Cristo

L’incarnazione dell’Unigenito del Padre in Gesù di Nazareth è la proclamazione massima (quasi incredibile) di dove può giungere l’agape​​ di Dio e la sua vicinanza agli uomini. La sorgente di un evento tanto inaudito è ancora una volta la misericordia e la fedeltà di Jawheh alle sue promesse, è la​​ charis​​ come gesto assolutamente gratuito di Dio che si fa incontro all’uomo e lo salva. L’annuncio del Regno di Dio, che caratterizza radicalmente la predicazione e l’agire di Gesù, corrisponde in definitiva alla manifestazione di tale​​ charis.​​ Infatti, a differenza di come i giudei pensavano, Gesù proclama la presenza del Regno di Dio in lui non in relazione alle condizioni poste dall’uomo, ma come atto di pura liberalità divina, di perdono e di salvezza ormai concessa a tutti, nessuno escluso. Ciò che ormai caratterizza il rapporto con Dio non è tanto o in primo luogo la prestazione umana come tale, ma l’accoglienza di una liberazione e di una comunione nuova che sono soltanto dono di Dio in Gesù, e non espressione dei meriti dell’uomo. È precisamente in base a tale consapevolezza che Paolo potrà in seguito caratterizzare la «grazia» in netta contrapposizione con la «legge», condannando la pretesa dell’uomo di poter realizzare da solo o con le sole sue opere il proprio futuro di salvezza. La grazia è evento dall’alto e consiste nel vivere, per mezzo dello Spirito che ci è stato donato, in Gesù, morto per noi e vivente ormai nella gloria del Padre. Il tratto specifico della rivelazione neotestamentaria della grazia sta in un tale elemento di gratuità: è Dio che fa dono di sé e della sua benevolenza agli uomini nell’Unigenito Figlio, trionfando sul loro peccato con la potenza della sua grazia e costituendo così il nuovo «Israele di Dio» nella storia​​ (Gal​​ 6,15-16). La grazia è la rivelazione della generosità sovrana del Padre che, avendo dato il suo Figlio, fa dono agli uomini della giustificazione - giustizia (cf​​ Rm​​ 1-6), al punto che «il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini»​​ (Rm​​ 5,15). Una simile novità non è percepibile che nella fede, ma la stessa fede è frutto della grazia​​ (Ef​​ 2,8).

 

2.2.4. La grazia nell’uomo

Come si presenta il dono della grazia nell’uomo che l’accoglie e si lascia trasformare da essa? Nonostante la grande varietà di linguaggi e forme espressive con cui tale dono viene presentato, sembra si possa dire che gli scritti neotestamentari annunciano la grazia nell’uomo secondo tre dimensioni fondamentali entro cui possono essere fatti rientrare in ultima analisi tutti gli altri aspetti: la grazia come liberazione, la grazia come comunione, la grazia come vita nuova.

 

2.2.4.1. La grazia come liberazione

La grazia si rivela nella vita dei credenti come perdono dei peccati e giustificazione. L’uomo rinato in Gesù e nel suo Spirito è ormai un uomo «liberato da» e «liberato per»: liberato dalla colpa e dalla condanna che ne conseguiva​​ (Rm​​ 6,22; 8,1), dall’impotenza della legge​​ (Gal​​ 3,13), dal dominio del peccato​​ (Rm​​ 7,24) e dalla morte ultima​​ (1 Cor​​ 15,54-57); liberato per rimanere in Cristo, per camminare secondo lo Spirito e porsi, mediante la carità, a servizio degli altri​​ (Gal

5,1.13-26). Il vangelo di Giovanni presenta il tema della libertà come il frutto della conoscenza di Gesù e della sua verità: «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi... Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete realmente liberi» (Gv 8,31-36). La verità è Gesù stesso​​ (Gv​​ 14,6). Essere liberi è dunque lasciarsi trasformare da Cristo; egli è l’evento di liberazione della libertà umana. La grazia è, sotto questo aspetto, il dono di una libertà liberata o, detto in altro modo, l’espressione di una libertà donata. L’annuncio della grazia come liberazione fonda la libertà come grazia.

L’autocomunicazione dell’amore divino all’uomo è la radice di una nuova identità: un essere divenuti ormai liberi della libertà stessa di Cristo, impegnati a rimanere liberi in questa libertà per non ricadere nella precedente condizione di schiavitù​​ (Gal​​ 5,1).

 

2.2.4.2. La grazia come comunione

L’annuncio della grazia come liberazione-libertà porta con sé la proclamazione della grazia come relazione, come comunione nuova con Dio e fra i battezzati nella Chiesa, corpo di Cristo. Coloro che sono stati battezzati in Gesù e hanno ricevuto il suo Spirito, sono stati ormai liberati dall’antica condizione di schiavitù e sono stati resi figli nel Figlio, in grado di ripetere la sua stessa preghiera di intimità filiale: «Abbà»​​ (Gal 4,4-1; Rm​​ 8,14-17).

La grazia è dunque il dono di una nuova relazionalità col Padre: è partecipazione dell’uomo, nello Spirito Santo, alla relazione con il Padre propria di Gesù. Il NT qualifica tale relazionalità nuova come filiazione adottiva: il rapporto dell’uomo con Dio non è più soltanto quello della creatura di fronte al Creatore, ma del figlio di fronte al Padre. Un tale tema è caratterizzato dagli scritti neotestamentari anche in altri modi: basta pensare ad esempio alle formule paoline «in Christo» o «in Christo Jesu», a quelle giovannee relative al «rimanere in Gesù»​​ (Gv​​ 15,4-7) o alla «comunione col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo»​​ (1 Gv​​ 1,3) oppure all’espressione petrina «consortes divinae naturae», «partecipi della natura divina»​​ (2 Pt​​ 1,4) . La stessa verità è proclamata con l’annuncio della inabitazione delle Persone della Trinità in colui che crede in Gesù e si fa battezzare nel suo nome.

Qualunque sia il modo con cui il tema viene caratterizzato, il principio dinamico di questa nuova comunione rimane costantemente lo Spirito Santo diffuso in pienezza nel cuore dei credenti: è la presenza personale dello Spirito che realizza la relazione ontologica del battezzato con l’Unigenito di Dio, Cristo Signore e, in lui, col Padre. Ma la grazia come comunione non indica soltanto una nuova relazione con Dio; essa porta con sé anche una nuova relazionalità con i battezzati, quale principio di una comunione vera da estendere fra tutti gli uomini: l’inserzione in Cristo Gesù per mezzo del suo Spirito, infatti, se incorpora il battezzato nella Chiesa, corpo del Cristo​​ (1 Cor​​ 12,13;​​ Col​​ 1,18;​​ Ef​​ 4,11-16), dà inizio nello stesso tempo ad un nuovo modo di concepire ed esprimere le relazioni umane, col superamento delle antiche barriere che in vari modi avevano diviso l’umanità. «Tutti voi infatti — proclama Paolo — siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più dunque giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomodonna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù»​​ (Gal​​ 3,26-28).

Il tema paolino della riconciliazione ripete, in altro modo, Io stesso annuncio: il dono della riconciliazione concesso dal Padre in Cristo all’umanità porta con sé «un popolo solo», «un solo uomo nuovo», «in un solo corpo», in modo che ormai «possiamo presentarci gli uni e gli altri al Padre in un solo Spirito»​​ (Ef​​ 2,14-18). La grazia è questa nuova ontologia di comunione donata alla Chiesa perché si diffonda e si attui in tutta la comunità umana. Se il desiderio di comunione (con l’Assoluto di Dio e con i propri simili) rappresenta, come quello della libertà, un’aspirazione profonda dell’essere umano, la grazia assume tale desiderio e lo realizza, almeno germinalmente, conferendole il suo pieno significato. La grazia è una nuova «relazione con» e una nuova «relazione per»: con Cristo e con la Chiesa per ricondurre tutti e tutto alla comunione trinitaria. Tale è il progetto di Dio sull’umanità e sul mondo, splendidamente descritto in anticipo dall’Apocalisse (cf 21-22).

 

2.2.4.3. La grazia come vita nuova

Quanto si è detto rimanda ad un terza dimensione della grazia che in un certo senso sintetizza in sé i due precedenti aspetti: il suo costituirsi come il dono di una nuova condizione di vita in Cristo, e quindi il suo essere una nuova creazione e l’inaugurazione della creazione escatologica definitiva. Partecipare al mistero pasquale di Cristo mediante il bagno battesimale significa infatti rinascere in lui come nuove creature: l’uomo vecchio è sparito, è nato il nuovo (2​​ Cor​​ 5,17). Il battezzato ha ormai lasciato cadere il vecchio abito e si è rivestito di Cristo, l’uomo nuovo per eccellenza (Gal​​ 3,27). È questa assoluta novità che ha reso superate le antiche prescrizioni, a cominciare dalla circoncisione (Gal 6,15), così come deriva da un tale evento pasquale l’imperativo di camminare in novità di vita (Rm​​ 13,14; Ef​​ 4,22-24; Col​​ 3,7-11). Tipica è in proposito l’antitesi paolina tra morte e vita: se a causa della prima trasgressione di Adamo il mondo si trovava in una condizione di morte spirituale, grazie alla Pasqua di Cristo, nuovo Adamo, il mondo è redento e nella storia umana è ormai posto il principio di una vita nuova (Rm​​ 5,12-14), cosicché «laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» (Rm​​ 5,20). L’annuncio della grazia è l’annuncio del dono di una «nuova creazione»: fa dell’uomo una creatura nuova in Cristo. Giovanni esprime la stessa verità con le categorie del nascere da Dio (1,12-13; 1 Gv​​ 3,9), del nascere dall’alto (3,3.7) o del rinascere dallo Spirito e dall’acqua (3,5-8). Gesù è la vita che dà la vita al mondo (Gv 14,6). «Conoscere Gesù» è possedere la vita indistruttibile di Dio, «la vita eterna»: la vita che sta presso Dio, che si è rivelata all’umanità in Gesù (Gv 1,4) come grazia che fa passare l’uomo «dalla morte alla vita» (5,24).

«Chi ha il Figlio ha la vita; chi non ha il Figlio di Dio, non ha la vita», proclama l’apostolo Giovanni (1 Gv 5,12). La grazia è aver accolto in sé l’Unigenito di Dio. Il carattere vitale-personalistico della grazia non poteva essere espresso in termini più significativi. Si collegano alla stessa prospettiva, i temi giovannei dell’acqua viva (4,10-14) e del pane di vita (6,30-58), la metafora della vite e dei tralci (15,1 -11 ) e quella della luce o del camminare nella luce (1 Gv 1,5-7). La fonte di tutto è la carità di Dio rivelata in Gesù; accogliere tale carità è impegnarsi ad essere carità e a vivere nella carità, osservando i comandamenti che Dio ha dato in Cristo (1 Gv 4,7-21). Solo così si può dire di aver riconosciuto il Figlio di Dio e di essere «nati da Dio» (1 Gv 5,1-13).

Il dono della vita trinitaria suppone che tutta la realtà umana del battezzato si lasci trasformare in una reale trasfigurazione che la patristica greca ama qualificare come «divinizzazione» (la​​ deificatio).​​ La visione beatifica non sarà che il pieno compimento di un tale processo di «divinizzazione» operato dalla grazia nell’uomo.

 

2.2.5. La risposta dell’uomo alla grazia

Se l’inserimento in Cristo è il termine di un processo di conversione che fa passare l’uomo da una condizione di peccato ad una condizione filiale, opera esclusiva della grazia, l’uomo non si muove verso Cristo e non vive di lui e del suo Spirito che per puro dono di Dio. «Tutto è grazia», nella vita del battezzato. Tale dono tuttavia, nel momento in cui si cala nella storicità dell’uomo, è per ciò stesso sottomesso al rischio dell’accoglienza e della fragilità umana. La risposta dell’uomo si pone come il «sì» libero di colui che, «graziato» da Dio, permette o meno alla grazia di operare soggettivamente gli effetti di cui è oggettivamente portatrice. Il dono di Dio chiede l’opzione fondamentale dell’uomo e la sua libera collaborazione. La vita di Cristo nell’uomo rimane fragile, esposta ai pericoli e può essere conservata e vissuta solo in una continua lotta contro tutto ciò che le impedisce di portare i suoi frutti e in un’autentica esperienza di incontro con Cristo nello Spirito. Le «opere buone» con le quali il battezzato adempie ai comandamenti divini appartengono a tale dinamica: manifestano l’azione della grazia e la attuano, ponendo l’uomo nella verità della fede e della salvezza. Non a caso il Vangelo mostra che non ci può essere salvezza senza il compimento delle opere dell’amore. Se infatti la grazia è dono dell’amore di Dio e partecipazione reale a tale amore, solo chi si impegna a manifestare e ad attuare concretamente tale amore dimostra di aver davvero riconosciuto l’amore di Dio che è in lui e di averlo compreso in tutto il suo spessore storico e nelle sue reali implicazioni esistenziali.

 

2.3. Sviluppi recenti

Il problema di fondo della teologia della grazia è sempre stato quello della dialettica Dio-uomo, quasi si trattasse di due poli in concorrenza, al punto che affermare l’uno porterebbe a negare l’altro.

 

2.3.1. La grazia fondamento della libertà dell'uomo

La teologia contemporanea tende a superare una tale contrapposizione, affermando l’armonia Dio-Uomo nell’economia della grazia. Se la grazia è una libera autocomunicazione di Dio all’uomo e si presenta come un evento di liberazione-comunione-vita nuova, essa non solo non soffoca la libertà dell’uomo, ma permette piuttosto a tale libertà di poter liberamente rispondere alla «gratuità» del dono offerto.

Il Dio della rivelazione biblica è il Dio che libera l’uomo perché si decida in piena responsabilità per lui. I doni di Dio non travolgono la libertà dell’uomo; semmai la fondano come dei compiti adempiendo ai quali l’uomo consegue i doni ricevuti nel modo più perfetto.

La «gratificazione» della grazia non può dunque essere espressa nel quadro del dilemma «o Dio o l’uomo», ma dipende piuttosto «da Dio​​ e​​ dall’uomo». La concezione cristiana di Dio fa saltare l’antitesi concorrenziale «o il Creatore o la creatura»: Colui che-è-per-l’uomo, è al tempo stesso Colui che consente all’uomo di essere sé stesso e di operare in piena libertà per la realizzazione del suo futuro nel mondo. Dio non si presenta come una libertà in concorrenza con la libertà dell’uomo, ma come la libertà che fonda e rende storicamente possibile la libertà propria dell’uomo. Tale è il dono della grazia battesimale, con tutta la responsabilità etica che ne deriva di fronte al problema della salvezza eterna.

 

2.3.2. La grazia come sequela di Cristo nella Chiesa

Da quanto si è detto consegue che il dono della grazia non può che essere Ietto nella prospettiva personalistica della sequela di Cristo e in quella comunitaria della Chiesa. La venuta di Gesù nella storia dell’uomo è essenzialmente appello a porsi alla sua sequela, convertendosi e credendo al suo Vangelo. La grazia è il dono dell’accoglienza di tale appello e nello stesso tempo l’evento che opera l’inserimento reale in lui per poter divenire davvero suoi discepoli e portare frutto. Le formule paoline «in Cristo», «per mezzo di Cristo», «in vista di Cristo» esprimono tutte, in diverso modo, la medesima verità. Lo stesso per le formule giovannee relative al «restare in Cristo», all’esser diventati figli di Dio o all’avere ricevuto la vita nell’Unigenito inviato dal Padre nel mondo. Una tale sequela, d’altronde, non può essere vissuta da soli, ma come comunità di discepoli del Signore, riuniti dalla sua parola, nel suo nome. Gli uomini entrano nella comunione con Gesù non isolatamente, ma in quanto sono incorporati in una comunità di salvezza. La grazia manifesta e opera tale incorporazione. La dimensione ecclesiologica della grazia è dunque altrettanto essenziale quanto quella cristologica. Infatti, pur essendo vero che «in ogni tempo e in ogni nazione è accetto a Dio chiunque lo teme e opera la giustizia»​​ (At​​ 10,35), è altrettanto vero che «Dio volle salvare e santificare gli uomini non individualmente e senza alcun legame fra loro, ma volle costituire di loro un popolo che lo riconoscesse nella verità e fedelmente lo servisse»​​ (LG​​ 9). La grazia come unione salvifica con Cristo rimanda per sé all’unione con la Chiesa, sacramento universale di grazia per il mondo.

 

3. Il vangelo della grazia nella pastorale giovanile

Come proclamare un simile vangelo della grazia ai giovani del nostro tempo?

La domanda che ci siamo posti all’inizio del nostro studio si ripropone adesso, e non più in termini problematici, ma propositivi. Se la rinnovata comprensione della teologia della grazia ci ha mostrato come un primo passo da compiere sia anzitutto quello del ritorno alle sorgenti bibliche, col recupero della grazia come evento personalistico-relazionale che si pone nella storia e impegna l’uomo ad una risposta libera all’appello di Cristo, il problema che si presenta adesso è di sapere se sia sufficiente per la pastorale giovanile odierna limitarsi a ripetere le categorie bibliche o teologiche (cui pur si deve far costantemente riferimento) o se non sia opportuno e perfino necessario tentare di re-interpretare queste stesse categorie entro modelli di annuncio più adeguati all’orizzonte culturale del mondo giovanile contemporaneo. In caso di risposta affermativa, quali potrebbero essere tali modelli?

La risposta ad un simile problema è più complessa di quanto comunemente si pensi. Anzitutto, perché la riflessione teologica è in tale campo ai primi inizi.

In secondo luogo, per la oggettiva difficoltà di dover trasporre un evento già detto in precise categorie in altre, facilmente accessibili a tutti, senza sminuirne o stravolgerne il significato. Cercando di mettere un minimo di ordine nei molteplici tentativi in atto in questo campo, possiamo forse racchiudere ì diversi quadri interpretativi che vengono proposti in due modelli essenziali: il modello di «realizzazione» e quello di «esperienza».

 

3.1. Modelli di «realizzazione»

Nel linguaggio giovanile è piuttosto diffusa la categoria della «realizzazione»: realizzazione di sé e della propria identità, realizzazione del senso della vita e della storia, realizzazione di solidarietà e di amore; una categoria che si confonde spesso con quella della «pienezza».

 

3.1.1. Realizzazione di sé

Il giovane si sperimenta come un essere che si sta cercando e quindi come un essere che tende all’auto-realizzazione di sé, proteso ad essere più di quanto è.

La grazia, come evento di vita in Gesù di Nazareth, è in definitiva il dono e l’appello alla realizzazione di un’esistenza completa, autentica. Essa non riguarda solo il futuro trascendente; è piuttosto un essere diventati, fin da ora, nuove creature in grado di attuare la propria identità personale a misura dell’uomo nuovo, Cristo Signore, verità ultima dell’esistenza umana e prototipo di ogni perfetta realizzazione. E se è vero che l’esigenza profonda che il giovane avverte è l’esigenza di unità, di armonia, la grazia è il dono dall’alto che pone il giovane in grado di camminare, nella potenza dello Spirito, verso tale unità-armonia nella sequela di Cristo e del Vangelo.

 

3.1.2. Realizzazione del senso della vita e della storia

Ogni essere umano è in sé «una questione aperta»; aperta sul senso della vita e della storia. Questo è particolarmente vero per il giovane: almeno in alcuni momenti della sua vita, egli si interroga sul «perché» dell’esistenza umana e del mondo, arrivando talvolta perfino a pensare che la vita sia assurda o senza direzione.

Il vangelo della grazia è l’annuncio che la vita ha un senso: Dio cammina a fianco dell’uomo, si è donato all’umanità in Gesù di Nazareth e inabita in coloro che credono e si fanno battezzare nel suo nome.

La domanda di senso riceve così nel dono che Dio fa di sé all’uomo il suo vertice e la sua piena risposta: Dio non si limita a dire qualcosa o a fornire delle informazioni; egli proclama che l’uomo è chiamato a partecipare alla sua stessa vita e vi partecipa in Gesù e nella Chiesa.

 

3.1.3. Realizzazione di solidarietà e di amore

La realizzazione che il giovane avverte non prescinde dagli altri. Il giovane si autocomprende come «un essere con», con un vivo bisogno di solidarietà e di amore. La grazia risponde in pieno a tale autocomprensione: essa è realtà di comunione, è nuova «relazione con» e nuova «relazione per», come si è avuto modo di dire. E dal momento che il dono della grazia sgorga dall’amore di benevolenza di Dio, la grazia è eminentemente amore che chiama all’amore di gratuità. Così, la grazia non si sovrappone alla potenzialità del giovane orientato ad amare, ma piuttosto assume tale potenzialità, la perfeziona e la eleva. Tutto l’essere della creatura umana, con tutta la sua ricchezza di razionalità, di affettività e di sensibilità, è ripreso e trasformato dal dono della grazia e reso capace di camminare verso la pienezza della sua realizzazione.

 

3.2. Modelli di «esperienza»

Non è molto comune caratterizzare la grazia in termini di esperienza. Specialmente tra i giovani, si è soliti pensare a questo dono come ad una realtà più o meno lontana o comunque unicamente trascendente.

 

3.2.1. La grazia nell’esperienza concreta del giovane

In tale ottica, non c’è da meravigliarsi se la grazia viene spesso intesa come una realtà estranea alla esperienza concreta del giovane, un qualcosa che sta dentro l’anima come una specie di regalo in una scatola. La grazia è allora emarginata dalla vita; la conseguenza è che la vita emargina la grazia.

La categoria di «esperienza» dovrebbe entrare a pieno titolo in un annuncio integrale della grazia: la grazia non si giustappone all’esistenza concreta dell’uomo, si pone al contrario nelle sue profondità come anima che fa vivere e tutto trasfigura e orienta. Se la teologia dice che​​ la grazia santifica l’uomo,​​ non si può pensare che questa santificazione non si manifesti da nessuna parte, nella vita e nei comportamenti del soggetto.

Dal punto di vista della pastorale giovanile, ciò implica una duplice attenzione:

— da una parte, chiede che l’annuncio della grazia sia espresso a partire dalle esperienze reali e concrete vissute dai giovani e sulla base di una verifica altrettanto reale e concreta del loro vissuto;

— dall’altra parte, domanda che la consapevolezza della gratuità della grazia si esprima come gratuità dell’esistenza, gratuità degli eventi e degli incontri che la caratterizzano: accogliere la grazia nella vita è essere chiamati a vivere la vita come grazia, nella gratuità del dono di Dio.

 

3.2.2. La grazia come «finitudine guarita»

Una delle esperienze più profonde del giovane è l’esperienza di un vuoto da riempire, di «una mancanza» da colmare: se egli si percepisce come un essere con aspirazioni sconfinate, si sperimenta nello stesso tempo come un essere finito, un essere che si scontra di continuo con i suoi limiti e i suoi conflitti interiori.

La grazia è il dono, la possibilità di essere, nell’Unigenito di Dio, pienamente sé stessi: se non è una guarigione dalla finitudine, è in ogni caso una «finitudine guarita». Ricondurre la grazia ad un simile livello di esperienza significa porre in relazione il dono di Dio con l’uomo come «essere di desiderio» e proclamare che solo in Gesù la creatura umana è in grado di ritrovare la verità del suo essere e di camminare come nuova creatura insieme a tutti i redenti in Cristo e a tutti gli uomini «di buona volontà». Il peccato è «una diminuzione dell’uomo»​​ (GS​​ 13); la grazia è «la vita, affinché, divenuti figli nel Figlio, esclamiamo nello Spirito: Abba, Padre»​​ (GS​​ 22).

 

Bibliografia

Auer J.,​​ Il vangelo della grazia. Il nuovo ordine salvifico realizzato da Cristo nella Chiesa, Cittadella, Assisi 1972; Beni A. - Biffi G.,​​ La grazia di Cristo, Marietti, Torino 1974; Boff L.,​​ La grazia come liberazione, Borla, Roma 1978; Colzani G.,​​ L’uomo nuovo. Saggio di antropologia soprannaturale, LDC, Leumann 1977; Fransen P.,​​ La grazia: realtà e vita, Cittadella, Assisi 1972; Greshake G.,​​ Libertà donata. Breve trattato sulla grazia, Queriniana, Brescia 1984; Ladaria L.,​​ Antropologia teologica, Piemme-Gregoriana, Casale Monferrato - Roma 1986; Lyonnet S.,​​ La vita secondo lo Spirito, Ave, Roma 1967; Rahner K.,​​ La grazia come libertà, Paoline, Roma 1970; Rizzi A.,​​ La grazia come libertà, EDB, Bologna 1975; Rocchetta C.,​​ I sacramenti della fede, EDB, Bologna 1987; Segundo J. L.,​​ Grazia e condizione umana, Morcelliana, Brescia 1974.

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GRAZIA

GRECIA educazione

 

GRECIA: educazione

L’apparizione della cultura greca segna un vero salto di qualità dopo le grandi culture orientali mesopotamiche ed egiziana. Essa costituisce la culla di tutta la tradizione occidentale; in essa ancora ci riconosciamo per gli aspetti essenziali della nostra attuale civiltà.

1.​​ Gli inizi.​​ Il primo autore a cui possiamo fare riferimento è il poeta​​ ​​ Omero, ma i contenuti dei poemi omerici e la loro elaborazione ci rimandano a un periodo anteriore, il cosiddetto Medioevo greco. Dobbiamo risalire al IX sec. a.C. per le origini della cultura greca, che si estese nel bacino in cui era fiorita la precedente cultura micenea. Nella sua formazione e nel suo sviluppo influiscono le tre stirpi greche, portatrici di indoli e caratteristiche culturali diverse, pur convergenti nello spirito ellenico: gli Ioni, i Dori e gli Eoli. Creatori di questa cultura sono via via i poeti, i filosofi, i politici.

2. La centralità dell’uomo.​​ L’elemento differenziante la cultura greca dalle culture pre-elleniche è la centralità dell’uomo, per cui possiamo dire che la G. è all’origine di una vera cultura umanistica; si è perciò potuto chiamare il popolo greco il popolo antropoplasta per eccellenza (Jaeger, 1991). Vi possiamo evidenziare la​​ scoperta​​ (l’intuizione) dell’intima natura e dignità dell’uomo, cantata già dai primi poeti con la suggestività del mito e la forza dell’epica, e approfondita successivamente dalla speculazione filosofica; la​​ celebrazione​​ dell’uomo nelle varie espressioni della letteratura e dell’arte, come pure nelle celebrazioni panelleniche, ricche di sport e di cultura; la creazione della​​ città dell’uomo​​ nelle​​ poleis​​ greche (tipica l’Atene di Pericle nel V sec.) e nella graduale affermazione della democrazia;​​ la formazione​​ dell’uomo, in quella​​ ​​ paideia​​ (formazione dell’uomo greco, appunto) che ha concretizzato nelle sue varie fasi e ha tramandato quella stessa cultura. La​​ paideia​​ è inscindibile dalle varie espressioni e dai vari contenuti di quella cultura, come pure dall’evoluzione della sua storia. In questo senso poeti, filosofi e politici sono gli educatori della G. In questa storia distinguiamo​​ un periodo arcaico​​ (non solo nel senso di​​ antico,​​ ma anche in quello di​​ arché​​ come principio generatore di quei paradigmi di umanità che resteranno fondamentali per tutta la storia greca);​​ un periodo aureo​​ nella creatività del V e IV sec. a.C.; e un periodo di diffusione e consolidamento,​​ il periodo ellenistico,​​ dopo la perdita dell’indipendenza delle città greche con l’occupazione macedone alla fine del IV sec. a.C.

3.​​ La formazione dell’uomo greco.​​ La formazione dell’uomo greco mira alla sua completezza: tutto l’uomo in tutte le sue potenzialità, in un intento di armonia, che è già presente nell’ideale dell’Eroe cantato da Omero, ma che si andrà perfezionando, superando fasi di predominio di alcuni aspetti, come quello militare e quello ginnico sportivo. Questa totalità è espressa in alcuni binomi cari alla tradizione della​​ paideia​​ greca. Il primo è​​ «ginnastica e musica».​​ Con​​ ginnastica​​ si indica la cultura del corpo, che caratterizza la formazione greca in tutte le sue fasi, anche se con diverse accentuazioni; la ginnastica ha come maestro il​​ pedotriba.​​ Con​​ musica,​​ oltre al culto della musica in senso stretto, si indica tutto l’ambito della cultura, cioè delle discipline protette dalle muse; nella scuola ha come maestri il citarista, il​​ grammatico (didàskalos) e il retore. Un secondo binomio tocca più intimamente la portata della​​ paideia,​​ con due termini che qualificano l’idealità formativa greca: il​​ «bello»​​ e il​​ «buono»,​​ rispettivamente​​ kalòs​​ e​​ agathòs. «Buono»​​ indica la realizzazione di quel​​ valore​​ dell’uomo che i Greci fin dall’antichità omerica chiamavano​​ areté,​​ e che formava l’anèr agathòs.​​ In un primo momento si ritenne che il vero valore umano si potesse realizzare solo nell’aristocrazia (àristos,​​ superlativo di​​ agathòs),​​ ma con l’affermazione della democrazia e con l’apporto caratteristico dei​​ ​​ Sofisti nel V sec. a.C., si estende gradualmente a tutti i cittadini greci, superando quella che è stata chiamata la polemica sulla​​ insegnabilità dell’areté,​​ cioè sulla possibilità di conseguire​​ areté​​ per via di educazione​​ «Bello»​​ concetto così caratteristico del senso estetico e dell’arte e della letteratura greca – indica in primo luogo la bellezza fisica nella cura del corpo e nel culto della corporeità, pur nella ricerca della completezza della formazione; ma raggiunge, particolarmente nell’apporto dei filosofi, quel valore di interiorità che lo rende inscindibile e in parte quasi sinonimo del valore umano espresso dal termine​​ agathòs.​​ Perciò i due termini vengono fusi in quello più comprensivo di​​ kalokagathìa​​ (unione di​​ kalòs​​ e​​ agathòs).​​ Come si vede, il greco guarda all’ideale​​ di uomo (in certo senso all’idea); ciò porta a una minore attenzione alla realtà del bambino e alla processualità del fatto educativo, con la conseguente caratteristica di​​ ​​ adultismo​​ della pedagogia greca. Altra conseguenza è il considerare elementi di​​ paideia​​ solo gli aspetti​​ liberali​​ della vita (lo sport, le lettere, la musica, la filosofia, la politica) non le pur fiorenti attività produttive e commerciali. Di questa​​ paideia della kalokagathìa​​ la città di Atene resta la capitale e la maestra, anche quando la rivale dorica Sparta, dalla seconda metà del VI sec. a.C., si chiude in un rigido militarismo e si emargina dall’evoluzione democratica della​​ paideia.

4.​​ Paradigmi ideali di paideia.​​ Si è accennato a una sostanziale unitarietà dell’ideale greco. In essa si deve però rilevare la diversità delle realizzazioni, sia per l’evolvere stesso della cultura greca, sia per l’originalità dell’apporto dei vari poeti e pensatori. Si può così cogliere la varietà di​​ paradigmi,​​ che interpretano e arricchiscono il quadro della​​ paideia:​​ diversi modi di attuare l’ideale dell’anèr agathòs,​​ sia diacronicamente, sia sincronicamente, con l’accentuazione o anche la contrapposizione di diversi elementi dell’ideale greco, nella diversa ricerca dell’armonia della formazione. Dal loro insieme si ha la visione complessa e ricca della​​ paideia.​​ Un rapido accenno ci porta ad evidenziare i seguenti​​ paradigmi ideali:​​ a) quello dell’Eroe​​ cantato da Omero (sec. VIII-VII), che rimane paradigma fontale per tutta la storia della​​ paideia;​​ b) quello del​​ contadino,​​ cantato da​​ ​​ Esiodo (sec. VII), con intento educativo, ma con applicazione diversa da quella di Omero: l’areté​​ del lavoro; c) quello del​​ soldato,​​ cantato nel sec. VII da Tirteo a Sparta e da Callino a Efeso; d) quello dello sportivo, cantato nel sec. V da Pindaro; e) quello del​​ cittadino:​​ ideale comune e prioritario, con accentuazioni diverse, a tutte le correnti di​​ paideia,​​ a cominciare dal politico / poeta Solone (Arconte ad Atene nel 594 a.C.); f) quello del​​ retore,​​ forgiato dai Sofisti del V sec. e perfezionato da​​ ​​ Isocrate (V-IV sec.); g) quello del​​ filosofo,​​ che ha avuto in​​ ​​ Platone la sua espressione più elevata. Nell’ideale retorico e in quello filosofico si affermano nel IV sec. le due scuole, in parte contrapposte, che raccolgono l’apporto di tutta l’evoluzione della​​ paideia​​ e ne tramandano l’eredità ai secoli successivi.

5.​​ La scuola.​​ Nell’attuazione dell’educazione greca, in particolare con il suo allargamento popolare all’affermarsi della democrazia, una parte importante ha l’istituzione della scuola.​​ Essa inizia alla fine del V sec. e ha la sua più compiuta organizzazione nel periodo ellenistico, nei tre gradi: la scuola primaria (o scuola del​​ didàskalos);​​ la scuola secondaria (o scuola del​​ grammatikòs);​​ la scuola (superiore) di retorica. A queste scuole, più comuni, se ne aggiungono altre di tipo più elitario, in particolare le scuole di filosofia e quelle di medicina. Attraverso la diffusione della scuola, la cultura greca raggiunge la massima espansione, anche con l’appoggio dell’universalismo di Roma, conquistata essa stessa da quella cultura (​​ storia della scuola). Nel clima culturale della​​ paideia​​ appare il​​ ​​ Cristianesimo, che in essa ha la prima​​ ​​ inculturazione, accogliendone molti aspetti positivi e dandovi un proprio apporto per una più completa formazione dell’uomo in quella che S. Clemente Romano chiama​​ en Christò paideia.

Bibliografia

Galino M. A.,​​ Historia de la educación. Edades antigua y media,​​ Madrid, Gredos,​​ 1988; Golden M.,​​ Children and childhood in classical Athens,​​ Baltimore, Maryland, John Hopkins University Press, 1990; Jaeger W.,​​ Paideia.​​ La formazione​​ dell’uomo greco,​​ Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1991; Marrou H. I.,​​ Storia dell’educazione nell’antichità,​​ trad. it. di U. Massi, Roma, Studium, 1994; Prellezo J. M. - R. Lanfranchi,​​ Educazione e pedagogia nei solchi della storia,​​ vol. 1:​​ Dall’educazione antica alle soglie dell’Umanesimo,​​ Torino, SEI, 2004.

M. Simoncelli​​ 

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GRECIA educazione

GREGORIO MAGNO

S. GREGORIO MAGNO

(c. 540-604)

 

Vincenzo Recchia

 

1. La figura

2. La vita e le opere prima del pontificato

3. Il pontificato

3.1. Personaggi giovanili dei Dialoghi

3.2. Mete educative

3.3. I contenuti educativi

4. La predicazione e la catechesi

5. La scienza profana

1. La figura

Gregorio Magno, papa (590-604), è figura di massimo risalto dell’alto medioevo. La complessità della sua opera e l’incidenza che questa ebbe nei secoli posteriori fanno di lui l’ispiratore del medioevo cristiano. Testimone dell’ultima grande invasione barbarica, quella longobarda, e spettatore del declino di Roma, egli vive coscientemente la fine di un’epoca storica e, con le sue scelte di politica civile e religiosa, si pone come precursore di una nuova èra basata totalmente su principi cristiani. Legato come scrittore all’età patristica, si dischiude, con le sue opere, a una nuova cultura, la quale rifiuta espressamente le idee del mondo classico che gli altri padri della Chiesa avevano tentato di conciliare con i dettami del Vangelo, ma utilizza di questo mondo le forme espressive. Interamente raccolto sulla Bibbia, pur richiamandosi costantemente agli ideali monastici, si rivolge con le sue opere a uomini di ogni stato, di ogni livello culturale e di ogni condizione sociale per istradarli sulla via che conduce dalla riforma morale ai più alti livelli di vita cristiana nella contemplazione di Dio e dei beni eterni. Si può considerare quindi il fondatore di una nuova cultura, quella medievale, basata tutta sui valori del cristianesimo come sono enunciati nelle fonti scritturistiche, senza una diversa mediazione culturale. Per questo si giustifica la presentazione del suo profilo nel presente dizionario. Gli studi su Gregorio in questi ultimi anni si sono ampliati e approfonditi, essendo caduti i limiti e le riserve risultanti da una conoscenza limitata del personaggio già considerato quasi esclusivamente, alla luce del suo​​ Registrum Epistularum,​​ come uomo di azione. Oggi si guarda al grande mistico, al maestro di esegesi biblica, di teologia, di diritto canonico, di spiritualità, al grande scrittore, al riformatore del clero, al fondatore di monasteri, all’uomo politico che modera i rapporti tra Romani e Barbari, Oriente e Occidente, al riformatore dell’amministrazione dei beni temporali della Chiesa.

 

2.​​ La vita e le opere prima del pontificato

Nato in Roma da famiglia di patrizi (Gregorio di Tours,​​ Hist. Frane.​​ X 1) della cerchia degli Anici, ebbe tra i suoi antenati il papa Felice III (483-492;​​ Dial.​​ IV 17), il​​ clericus​​ Gordiano​​ (Liber Pont.​​ LUI 5), perito agli inizi del sec. VI nei tumulti sorti in Roma tra le fazioni di papa Simmaco (498-514) e l’antipapa Lorenzo (498-507), e il figlio di questi papa Agapito (535-536;​​ Liberpont.​​ LVIII 1). Si tratta di uomini impegnati, come la​​ gens Anicia,​​ dall’apertura dello scisma acaciano (484-518), provocato appunto da Felice III, al Sinodo Costantinopolitano del 536, preparato proprio dal papa Agapito, nella lotta antimonofisita e contrari alla supremazia del patriarcato di Costantinopoli nell’Oriente cattolico.

Gregorio fu educato nel clima di rinnovamento culturale inaugurato in Italia dalla​​ pragmatica sanctio​​ di Giustiniano superando, secondo la testimonianza di Gregorio di Tours​​ (Hist. Frane.​​ X 1), nello studio della grammatica, della dialettica e della retorica, i suoi coetanei. Divenuto verso il 563​​ praefectus urbi​​ acquisì e perfezionò nella funzione pubblica l’esperienza nell’amministrazione che rivelò poi come apocrisario o rappresentante pontificio a Costantinopoli e come papa nel disbrigo degli affari ecclesiastici e civili e nella riforma del patrimonio pontificio. Convertitosi dopo lunga meditazione alla vita monacale, trasformò in monastero la casa di famiglia al​​ Clivus Scauri​​ sul Celio, quella casa che papa Agapito e Cassiodoro avrebbero voluta sede di una scuola di catechetica e di esegesi biblica in Roma: un progetto andato a monte per rinfuriare della guerra gotica (535-553; De Rossi,​​ Inscipt.​​ II 28; Cassiod.​​ Instit. praef.​​ 1).

Papa Benedetto I (575-579), ma più probabilmente Pelagio II (579-590) ordinò Gregorio diacono. Pelagio II lo inviò come suo apocrisario a Costantinopoli. Qui il futuro pontefice rimase sino alla fine del 585 o l’inizio del 586. In questo periodo commentò ai monaci, che si era condotti da Roma per instaurare nel palazzo di Placidia la regolarità della vita monastica, il libro di Giobbe. Ne risultò un vastissimo e articolato commentario in 35 libri, i​​ Moralia in Iob​​ (Mor), una vera enciclopedia del sapere cristiano che esercitò un grandissimo influsso sulla cultura del medioevo; un’opera nata dalle conversazioni spirituali tenute ai monaci, continuata poi​​ dictando​​ e profondamente rielaborata dall’autore tra gli anni 586-600.

 

3.​​ Il pontificato

Ritornato a Roma, Gregorio assunse le funzioni di consigliere e segretario di Pelagio II, al quale successe, anche se riluttante, quando questi morì di peste il 7 febbraio 590. I suoi primi anni di pontificato furono molto fecondi per la sua attività di scrittore. Subito dettò la​​ Regula pastoralis​​ (RP) indirizzata a Giovanni, vescovo di Ravenna (Ep.​​ I, 24a: ad Ewald-Hartmann) che lo aveva rimproverato per la sua riluttanza ad assumere il compito di pastore. Essa si compone di quattro parti, di cui la terza, di gran lunga la più ampia delle altre, tratta del modo di dirigere sulla via della perfezione cristiana le varie categorie di fedeli distinti secondo la loro diversa caratterizzazione sociale, morale e psichica, dal momento, egli dice, che l’esortazione del direttore di spirito va proporzionata ai vari tipi di situazione umana e secondo le diverse tendenze che allontanano le anime dalla virtù.

L’autore, attingendo largamente alle fonti scritturistiche e rifacendosi anche​​ all’Oratio apologetica​​ di Gregorio Nazianzeno, intesse un ampio trattato, per così dire, di pedagogia cristiana.

Il suo discorso si rivolge di volta in volta agli uomini e alle donne, ai giovani e ai vecchi, ai poveri e ai ricchi, ai soddisfatti e agli scontenti, ai superiori e ai sudditi, agli orgogliosi e ai pusillanimi, ai pazienti e agli impazienti, ai benevoli e agli invidiosi, ai semplici e ai perfidi, ai sani e agli ammalati, a quelli che temono i castighi e conducono per questo una vita innocente e a quelli talmente ostinati nel male che neppure i flagelli riescono a farli ravvedere...​​ (RP​​ 3,1). La​​ Regula pastoralis​​ ebbe una grandissima diffusione nel medioevo ed è letta anche oggi con frutto dai pastori di anime. Costituì per il clero quello che la​​ Regula Benedicti​​ fu per i monaci.

Negli anni 591-592 Gregorio compose le quaranta​​ Homiliae in Evangelium (HEv). Di esse venti furono dettate dal pontefice impedito a parlare in pubblico dalle cattive condizioni di salute e poi lette in Chiesa alla sua presenza da un notaio; venti furono pronunziate direttamente da lui e raccolte dalla sua viva voce dai tachigrafi. Nel 593 riordinò questa materia in due libri, la cui copia autentica fu conservata nello​​ scrinium​​ del Laterano. Sono prediche indirizzate nella maggior parte al popolo, dense di insegnamento morale e mistico esposto in forma semplice e naturale, avvalorato spesso dalla forza dell’exemplum.​​ Gregorio si serviva dell’esempio per educare alla virtù i​​ simplices: «Quanto ai dotti — scrisse nella​​ RP​​ —, torna utile il superarli nella dialettica, i semplici invece restano convinti dal racconto delle egregie azioni compiute... Con i primi san Paolo usava quindi la forza delle argomentazioni, con gli altri riteneva più facile condurli al bene ricordando gli esempi lasciati dai santi»​​ (RP​​ 3,6).

 

3.1. Personaggi giovanili dei Dialoghi

È questo il principio che presiede alla stesura dei quattro libri dei​​ Dialoghi,​​ scritti o perfezionati nel 593​​ (Ep.​​ 3,50): un’opera singolare nella quale il pontefice attesta la santità di molti vescovi, monaci, preti e anche uomini e donne della nobiltà e del popolo d’Italia a lui contemporanei o quasi, confermata dai miracoli, dalle profezie e dalle visioni. Il secondo libro di questi​​ Dialoghi​​ è dedicato interamente a Benedetto di Norcia e si può affermare che contribuì in modo rilevantissimo, se non determinante, alla fortuna dell’opera benedettina nei secoli posteriori; mentre il quarto evoca quelle manifestazioni miracolose che dimostrano l’immortalità dell’anima umana.

L’attenzione degli studiosi si è concentrata in questi ultimi anni sui vari problemi che quest’opera suscita: si è esaminato il valore storico dei personaggi dei​​ Dialoghi​​ e dei suoi racconti, ci si è interessati alle fonti da cui Gregorio assunse le notizie riportate, alle ascendenze con le quali l’opera si collega, ai rapporti dei singoli episodi con la Scrittura, all’insegnamento ascetico e mistico che si intende trasmettere, al valore letterario e a quello simbolico dell’opera... La nostra attenzione si sofferma, sia pure brevemente, su alcuni personaggi giovanili di quest’opera o sulla giovinezza di qualche eroe di essa.

Il fine dell’opera è fondamentalmente educativo: essa si rivolge a coloro che sono sollecitati all’amore della patria celeste più dagli esempi che dalle argomentazioni. Nell’animo di colui che ascolta — fa dire Gregorio dal suo interlocutore, il diacono Pietro — l’effetto dell’esempio dei Padri è duplice: accende nell’animo l’amore della vita futura, e induce all’umiltà chi ha una qualche stima di sé nel confronto con chi ha agito meglio di lui (D I​​ Prol.​​ 9). È un principio di metodologia educativa sul quale l’autore ritorna spesso nelle sue opere:​​ Mor​​ 30,37;​​ HEv​​ 38,15; 39,10;​​ HEz​​ 11,7,3, e che vale per i​​ sirupi ices​​ e, naturalmente, per gli adolescenti e per i giovani. È vero che nell’opera gregoriana non si riscontra una netta distinzione tra le varie età dell’uomo: il​​ puer, l’adulescens,​​ lo​​ iuvenis,​​ il​​ vir...​​ È una nomenclatura che già di per sé non ha perfetta rispondenza con i nostri corrispettivi termini, ma che in lui assume la connotazione più dell’età psicologica che di quella fisica.

Onorato, figlio di un colono del patrizio Venanzio, mostrò già​​ ab annis puerilibus​​ un grande amore per la patria celeste che si concretizzava nell’esercizio dell’astinenza e nella pratica del silenzio interiore ed esterno​​ (D​​ 1,1,1) . Anche Benedetto fin dal tempo della sua puerizia mostrò un cuore da vegliardo, precorrendo gli anni con il suo tenore di vita (D II Prol. 1). Egli fu​​ religiosus et pius puer,​​ religioso e pio fin da ragazzo, legato alla sua nutrice, portato sulla via della santità da una straordinaria virtù​​ (D​​ 11,1,2). Ma quando prese l’abito della consacrazione a Dio e si ritirò nell’angustissimo speco di Subiaco, divenne​​ vir Dei,​​ uomo di Dio​​ (D​​ II, 1,4). E così è chiamato nel seguito della sua biografia.

Dei due discepoli più giovani di Benedetto, Mauro, già grandicello (iuvenis) e ben costumato, cominciò ad aiutare il suo maestro; Placido viveva ancora da quel bambino che era​​ (D​​ 11,3,4). Egli rimarrà a lungo un​​ puer​​ o un​​ puerulus (D​​ 11,5,2; 7,1).

Puerulus monachus è​​ anche quel discepolo di Benedetto che fugge dal monastero perché legato ancora molto all’amore dei suoi parenti​​ (D​​ 11,24,1). L’altro Benedetto che vive in Campania, a quaranta miglia da Roma, è giovane di età, ma carico di anni quanto alla condotta (D 111,18,1).

Musa, sorella del monaco Probo, intimo amico di Gregorio era una​​ parva puella​​ quando le apparve la Madonna attorniata da un gruppo di coetanee in vesti bianche. La fanciulla chiese alla vergine Maria di unirsi ad esse e di porsi al suo servizio, e questa le raccomandò di non compiere più nulla che sapesse di leggerezza infantile, assicurandole che in capo a un mese sarebbe stata associata alle fanciulle contemplate in visione.

Dopo questa visione la piccola cambiò completamente condotta e deterse da sé con mano severa ogni leggerezza propria di una bambina​​ (D​​ IV,18,1-3). Nel sottolineare il fatto che questi suoi eroi — specialmente Musa — superano le leggerezze dell’età giovanile, l’autore si rifà a quanto è detto di Tobia nella Scrittura, secondo la​​ Vulgata: «Nihil puerile gessit in opere» (Tb​​ 1,4).

Il nostro autore sembra molto severo nel giudicare e condannare la condotta dei bambini piccoli, anche se mostra di volere con questo mettere in guardia i genitori e gli educatori dall’essere accondiscendenti verso le loro cattiverie (cf​​ Ep.​​ 7,23;​​ Expos. in lib. primum Regum,​​ V, 55). Nel c. 19 del libro IV dei​​ Dialoghi​​ descrive a colori molto vivi la morte di un bimbo di cinque anni che aveva preso l’abitudine di bestemmiare Dio se incontrava qualche ostacolo nella giornata. Egli morì nella peste del 590 sulle ginocchia del padre, mentre ai suoi occhi apparvero degli uomini dalla pelle oscura (Mauri)​​ che tentavano di strapparlo dalle braccia paterne. Spirò bestemmiando ancora Dio, perché fosse chiaro il male commesso dal padre nell’essere stato indulgente verso la condotta del figlio. Gregorio, del resto, sulla base di​​ Gb​​ 15,14;​​ Gv​​ 3,5;​​ Ef​​ 2,3, pensa destinati al supplizio eterno i bimbi morti senza battesimo (Mor​​ 9,32).

 

3.2. Mete educative

Se, come abbiamo visto, egli guarda alla crescita e maturazione dello spirito che può avvenire anche in tenera età, ci chiediamo qual è il segno del raggiungimento di questa meta. Intanto c’è da sottolineare il fatto che il processo di educazione dello spirito — perché di questo si occupa il nostro autore — avviene ordinariamente sotto la guida di un maestro. Onorato ha eretto un monastero a Fondi ed è divenuto padre e maestro di quasi duecento monaci, ai quali la sua vita fu modello di sublime condotta. Egli non ha avuto, a sua volta, un maestro, ma è stato guidato direttamente dallo Spirito. È un’eccezione da non imitarsi dai deboli, perché è legge che non presuma di mettersi al comando degli altri chi non ha imparato a obbedire. La sicurezza dell’autentica conduzione dello Spirito Santo è data dal dono dei miracoli e dall’umiltà: ce lo confermano le figure bibliche di Mosè e Giovanni Battista​​ (D​​ 1,1,5,7). D’altra parte, Gregorio non si nasconde che ci sono situazioni obiettive che non possono essere affrontate da chi è al di sotto di una certa età: poiché la vita dei monaci è particolarmente dura nelle isole, come nell’isola​​ Palmaria​​ (Parmarola), il pontefice interdice l’accesso ad essa ai​​ pueri​​ al di sotto dei 18 anni. Se vi sono aspiranti che non hanno raggiunto l’età canonica, essi siano indirizzati a Roma​​ (Ep.​​ 1,48). Nel continente, come a Cassino, ci potevano essere anche dei​​ pueruli monachi​​ (D​​ 11,5,2; 24,1).

Ma, riprendendo il discorso delle mete educative, queste si commisurano naturalmente, secondo i singoli individui, alla vocazione personale e ai doni dello Spirito. Benedetto prende le mosse già da una grande perfezione​​ (D​​ 11,1,2). Dopo aver superato la tentazione della carne, meritò di divenire maestro di virtù. I leviti, spiega Gregorio rifacendosi ai valori biblici, dai cinquant’anni in su erano posti a custodia dei vasi sacri, che sono il simbolo delle anime, da affidarsi soltanto a coloro la cui mente è tranquilla e libera dall’impulso della tentazione​​ (D​​ 11,2,2-4).

Un altro segno della raggiunta maturità dello spirito è quello di poter «abitare con sé stesso». A questo punto l’anima non depone la calma abituale e non distoglie l’occhio della mente dalla luce della contemplazione. Quando, spiega Gregorio, qualche pensiero ci porta troppo fuori di noi, siamo ancora noi, ma non siamo con noi, poiché, vagando altrove, non vediamo più noi stessi. «Dico quindi — prosegue l’autore dei​​ Dialoghi​​ — che Benedetto abitava con sé stesso, perché, sempre attento e vigilante su di sé, vedendosi sempre sotto lo sguardo del creatore, ed esaminandosi senza posa, non lasciò vagare l’occhio della mente fuori di sé». E porta, a chiarimento del suo pensiero, gli esempi del figlio prodigo, che rientra in sé stesso dopo la dissipazione della colpa (Lc​​ 15,11-17), e di Pietro che ritorna in sé stesso e si accorge di essere stato liberato per virtù divina dalle mani di Erode (At​​ 12,11), per dire che in due modi usciamo fuori di noi: quando, macchiando l’anima con il peccato, cadiamo al di sotto di noi, o quando con la grazia della contemplazione ci eleviamo al di sopra di noi​​ (D​​ 11,3,5-9).

 

3.3. I contenuti educativi

L’habitare secum​​ è per Benedetto — e qui il nostro discorso si sposta dalle mete ai contenuti educativi che Gregorio intende trasmettere nelle sue opere — un punto di arrivo nella sua ascesi, ma anche un punto di partenza nell’approfondimento del suo rapporto con Dio e nella conseguente realizzazione in sé dei valori biblici di cui l’uomo perfetto, secondo la concezione pedagogica di Benedetto, è portatore. Nei cc. 3-8 del secondo libro dei​​ Dialoghi​​ l’autore sottolinea la rispondenza tra la figura di Benedetto e i tipi biblici come Mosè (Nm​​ 20,11), Eliseo​​ (2 Re​​ 6,5-7), Pietro (Mt​​ 14,29), Elia (1 Re​​ 17,6), Davide​​ (2 Cr​​ 1,11; 18,3).

Nei capitoli seguenti prende a descrivere la lotta di Benedetto contro il demonio (cc. 811), lo spirito di profezia del santo (cc. 1122), la sintonia tra la forza della sua parola e quella del suo potere taumaturgico (cc. 2230). Alla parola nei cc. 30-35 succedono i miracoli compiuti​​ aut potestate aut prece,​​ cioè con il suo potere interiore e la sua preghiera. Ci si avvicina così al silenzio esterno al quale corrisponde l’apertura massima della mente​​ e del cuore fino alla visione cosmica che Benedetto ebbe in occasione della morte di Germano di Capua (c. 35,3). Dopo la descrizione di questa esperienza Gregorio si sofferma, negli ultimi tre capitoli del secondo libro dei​​ Dialoghi,​​ sulla espansione della parola​​ —​​ e qui si parla della​​ Regula monachorum​​ — e sulla presenza taumaturgica di Benedetto oltre ogni confine dello spazio e del tempo (cc. 36-38).

Mi sono soffermato sui particolari della vita di Benedetto in quanto essa sintetizza,​​ per exempla,​​ il disegno educativo che Gregorio tende a delineare anche nelle sue opere esegetiche.​​ Viva lectio est vita bonorum: la vita dei santi è meditazione viva della Scrittura, sentenzia il nostro autore in​​ Mor​​ 24,16. Le​​ virtutes patrum,​​ i miracoli dei padri attualizzano gli aspetti infiniti della figura di Cristo — la chiave di volta di tutta la Scrittura —, e il commento che se ne intesse può ricondurre a sua volta alle fonti scritturistiche. Benedetto, come ho ricordato, ripropone le figure di Mosè, Eliseo, Pietro, Elia, Davide. Egli è grande santo perché ha assimilato e reso attuali, con i suoi prodigi, molti valori biblici. Sono soltanto questi, per Gregorio, i contenuti da trasmettere con la parola e con l’esempio nella predicazione o nell’azione educativa cristiana.

Il nostro autore segna un deciso distacco dal mondo culturale a lui precedente sul piano dei contenuti educativi, che pure conosce e con i quali si è formato nella sua giovinezza. I Padri dai quali attinge nella sua esegesi biblica, come Ambrogio, Girolamo, Agostino, avevano tentato una fusione tra gli insegnamenti degli autori pagani e quelli propri del cristianesimo. Egli invece rifiuta per principio i postulati della filosofia e della morale del mondo greco-romano per rifarsi interamente ai dettami scritturistici. Per questo, come dicevo, egli è il fondatore di una nuova cultura, quella del medioevo cristiano. In tutte le sue opere fa riferimento a un modello di uomo e di società che attinge alle fonti del Nuovo e Antico Testamento.

 

4.​​ La predicazione e la catechesi

Tra la fine del 593 e l’inizio del 594, mentre Roma era sotto la minaccia dell’assedio da parte dei Longobardi, comandati da Agilulfo, Gregorio fece il commento del profeta Ezechiele​​ (HEz).​​ Si tratta di 22 omelie di cui le prime 12, del primo libro, dirette particolarmente ai​​ praedicatores​​ e ai pastori di anime, ci presentano l’esegesi di​​ Ez​​ 1,1-4,3, la teofania del profeta, e le ultime dieci, del secondo libro, ci danno il significato delle misure e delle varie parti che compongono il tempio contemplato in visione dal profeta e descritto nel c. 40 del suo libro. L’orientamento del commentario ci offre con chiarezza l’impostazione metodologica della predicazione e della catechesi di Gregorio. Nella prima omelia, infatti, parla di profezia: ne dà la definizione essenziale e ne descrive con molta esattezza le qualità temporali e spaziali con una classificazione precisa ed esauriente. Ma alla fine di questa omelia, Gregorio dice di aver fatto un esercizio di navigazione nel recinto di un porto, mentre si accinge, con il commento diretto del testo sacro, a uscire nell’immensità dell’oceano.

Egli rifiuta così le​​ quaestiones infinitae,​​ il​​ propositum​​ o la tesi del metodo proprio delle scuole filosofiche, per affrontare invece le​​ circumstantiae personarum​​ che appartengono alla impostazione retorica del discorso: ama parlare non tanto di profezia quanto del profeta. La sua attenzione si concentra così sulla​​ causa​​ o sull’ipotesi il cui obietto sono le persone e i fatti storici — le​​ circumstantiae personarum,​​ come si soleva dire nelle scuole di retorica —; nel caso specifico, la figura di Ezechiele che preannunzia negli infiniti aspetti e atteggiamenti della sua persona il Cristo, e il​​ praedicator​​ o il maestro di spirito che attualizza il Cristo nella storia. La meditazione di Gregorio si fa articolata e ricchissima di spunti atti ad alimentare la spiritualità degli ascoltatori che, nel caso delle omelie su Ezechiele, dovevano essere più selezionati nei confronti dei destinatari delle omelie sui Vangeli.

Egli, come ho detto, segue il metodo dei retori. Dopo aver impostato la​​ coniectura, cioè, dopo aver accertato 1’esistenza della identità Ezechiele-Cristo, proprio come avveniva nelle cause forensi, si concentra sul Cristo per darcene una definizione nozionale o descrittiva in tutti i particolari che gli offre la lettura simbolica dei vari aspetti della profezia di Ezechiele. Passa quindi alla determinazione delle​​ qualitates​​ dello spirito di profezia. Nei dibattiti forensi e nelle scuole di retorica le parti avverse potevano convenire sulla​​ coniectura,​​ l’esistenza del fatto o sull’identità di una persona, e anche sulla​​ finitio​​ dell’uno o dell’altra, ma divergevano completamente sulla qualificazione, per la quale il dibattito diveniva quanto mai teso tra gli oratori di parte contraria, sul giusto e l’ingiusto, il conveniente e lo sconveniente, l’utile e il dannoso... Nel discorso cristiano la prospettiva cambia nei confronti del comune discorso umano: le​​ oppositae qualitates​​ si armonizzano in unità. Lo spirito di profezia è contemporaneamente​​ (simul)​​ luminoso e oscuro, presente e assente, eterno e passeggero​​ (discurrens),​​ impartito ai singoli e presente in tutti... Gli animali di Ezechiele avanzano e tornano indietro, ma sono continuamente protesi in avanti. Il nostro esegeta insiste particolarmente nella quinta omelia sull’armonizzazione delle​​ oppositae qualitates​​ nel discorso catechetico ai livelli più elevati. Se si prescinde da questa caratterizzazione peculiare, il discorso cristiano decade al livello dei dibattiti umani.

 

5.​​ La scienza profana

Non si sa con precisione quando Gregorio abbia pronunziato l’Expositio in Canticum Canticorum​​ e i sei libri​​ dell’Expositio in librum primum Regum.​​ Probabilmente queste​​ Expositiones​​ appartengono al periodo del suo ritiro nel monastero di sant’Andrea al Celio. Si tratta di prediche non raccolte, come le omelie su Ezechiele, dalla viva voce di Gregorio, ma dettate dal monaco Claudio, il quale riportava a memoria quanto aveva udito dal nostro autore. Il testo dettato da Claudio fu richiesto dal pontefice per la revisione nel gennaio del 602 a Giovanni, Apocrisario pontificio a Ravenna​​ (Ep.​​ XII 6). Non sappiamo se Gregorio abbia effettivamente corretto e pubblicato le​​ cartulae​​ di Claudio; tuttavia nel testo a noi giunto si riconosce con sufficiente chiarezza il pensiero e lo stile del nostro autore.

Le 848 lettere che possediamo ci sono trasmesse dal​​ Registrum Epistularum​​ composto da 14 libri corrispondenti agli anni del suo pontificato. Sono soltanto una parte delle lettere del pontefice, ma ci documentano la sua grande attività. Ci sono lettere della comunicazione spirituale; quelle ufficiali da leggersi in pubblico che si distinguono per la regolarità del​​ cursus; gli​​ indiculi,​​ che sono appunti di governo indirizzati, per lo più, ai​​ defensores​​ e ai​​ rectores​​ dei patrimoni pontifici e ai delegati del papa; formulari per le nomine, gli incarichi, le autorizzazioni, i privilegi che ripetono le formule in uso nella cancelleria pontificia.

Per il tema che ci interessa, dalle lettere e dall’Expositio in librimi primum Regum​​ si ricavano dati che ci permettono di ipotizzare i rapporti del pensiero e dell’opera letteraria di Gregorio con la scienza profana e la cultura classica trasmessa dalla scuola di stato, riorganizzata in Italia, come ho detto sopra, dalla​​ Pragmatica sanctio.​​ Si tratta di un tema approfondito in studi recenti. Nella lettera indirizzata a Leandro di Siviglia, che fa da introduzione ai​​ Moralia (Ep.​​ V 53a, ed. Ewald-Hartmann) Gregorio dice di trascurare le regole di Donato. In un’altra lettera​​ (Ep.​​ XI 34) indirizzata al vescovo Desiderio di Vienne, rimprovera duramente quel vescovo che si dedicava all’insegnamento della grammatica, come era già d’uso, sulla base della poesia pagana. D’altra parte​​ nell’Expositio in librum primum Regum​​ (V 84) egli afferma chiaramente che la​​ saeculariorum librorum eruditio​​ è indispensabile a una più profonda comprensione della Scrittura e a una più efficace comunicazione dell’esperienza religiosa fino al punto che chi trascura tale​​ eruditio​​ si presta al gioco del demonio.

In realtà, oltre a esprimere la sua reazione a quanti valutavano la Bibbia in base a criteri grammaticali e stilistici e facevano, ai suoi tempi, della preziosità del linguaggio la somma di ogni ricerca intellettuale, pare che egli sostenga l’impostazione di una paideia cristiana in cui l’istruzione grammaticale, dialettica e retorica si basasse non sui testi profani, come avveniva ai suoi tempi e faceva Desiderio di Vienne, ma sui testi sacri. Ed è quanto si nota in seguito in Isidoro di Siviglia, Giuliano di Toledo, Beda. Occorre distinguere il piano della metodica e quello dei contenuti. «L’erudizione dei libri secolari — si dice nel brano citato del commento al libro dei Re —, sebbene non giovi alle spirituali battaglie [l’autore fa riferimento a​​ 1 Re​​ 13,19-20], se si congiunge con la Sacra Scrittura, ci mette in condizione di approfondire la nostra conoscenza della stessa Scrittura. Le arti liberali bisogna apprenderle soltanto a questo scopo, per comprendere più a fondo la parola divina».

 

Bibliografia

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GREGORIO MAGNO

GROUP-MEDIA

 

GROUP-MEDIA

1.​​ Mass-media/group-media: criteri per una distinzione.​​ A prima vista la distinzione sembra essere semplice:

— da una parte la stampa, la radio, il cinema, la televisione (con il sistema di trasmissione via antenna, via cavo, via satellite), teletext, le agenzie di informazione, le banche dati, le case discografiche, i grandi circuiti teatrali;

— dall’altra il disegno, il manifesto, il canto, il mimo, la danza, la fotografia, la diapositiva, i piccoli proiettori, il registratore audio e video, la radio locale, il volantino, il ciclostile...

Il criterio di distinzione è quello​​ dell'accessibilità​​ considerata dal punto di vista economico, tecnico ed espressivo:

— sono mass-media quelli che hanno bisogno di un grande pubblico indifferenziato, di un’alta concentrazione di capitali e know-how tecnico, di grande professionalità manageriale;

— sono group-media quelli che si rivolgono a un numero ristretto di fruitori e sono acquistabili, gestibili dal singolo o dal piccolo gruppo: le pur necessarie abilità tecnicoartistiche non sono tali da essere riscontrabili solo in chi ne abbia fatto la sua professione.

Ad un esame un po’ più attento però il criterio dell’accessibilità agli strumenti non è così universale ed efficace. Non riesce infatti a discriminare realmente i due gruppi di media: ciò che fa parte dei group-media in un posto, non lo è necessariamente in un altro. Ad esempio, la macchina fotografica: se la struttura culturale, economica, tecnologica dell’ambiente in cui si lavora è lontana da quella in cui la macchina fotografica trova normale utilizzazione, essa può convertirsi in uno strumento che conferma il potere di un singolo sugli altri e toglie spazio alle forme di comunicazione tipiche del gruppo e della cultura locale. Può essere come un corpo estraneo, utile forse a documentare altri sulla comunità, ma non ad ampliare i suoi spazi di comunicazione. La stessa cosa può essere detta del videoregistratore, dei proiettori, del ciclostile.

Se poi si valuta la distinzione proposta dal punto di vista dei programmi le cose non si chiariscono:

— programmi elaborati per un pubblico di massa possono essere utilizzati in modo eccellente anche dal gruppo;

— programmi costruiti dal o per il gruppo possono essere diffusi nei grandi circuiti; — un programma può essere pensato contemporaneamente per una doppia utilizzazione, per una diffusione su larga scala e per l’attività dei gruppi (esempio tipico la produzione SERPAL in America Latina).

Neppure il fatto che la comunicazione avvenga in un gruppo piuttosto che essere rivolta a una massa indifferenziata di persone è senz’altro garanzia di maggior partecipazione, di maggior libertà di espressione: il gruppo può essere luogo deresponsabilizzante; si può condizionare il pubblico esercitando uno stretto controllo sui mass-media, ma si può condizionare il singolo in modo molto più efficace lavorando a livello di gruppo.

A questo punto sembra chiaro che la polarizzazione del discorso in termini contrapposti (mass-media​​ no,​​ group-media​​ sì) non è feconda. Sarebbe tuttavia un grave errore lasciar cadere il dibattito senza accorgersi che esso nasce dalla chiara percezione dell’inadeguatezza della comunicazione ecclesiale. L’opzione group-media non è anzitutto un problema di mezzi o di programmi o di efficacia pedagogica: è ricerca di una comunicazione umanamente vera, è nostalgia di una comunità dove sia possibile credere, pregare, agire insieme, rimanendo contemporanei al nostro mondo. È urgente far emergere le ragioni che sollecitano il cambio ed elaborare dei criteri con cui fondare una strategia pastorale della comunicazione.

2.​​ Mass-media e group-media. I perché di una scelta.​​ Negli anni ’70 l’attenzione di molti operatori e teorici della comunicazione religiosa si è andata spostando verso forme alternative ai mass-media. Il convegno mondiale​​ Audiovisivo ed Evangelizzazione​​ del 1977 a Monaco di Baviera, se vide la contrapposizione delle due parti — prò e contro i mezzi di comunicazione di massa — fu anche la conferma della nuova attenzione che gli operatori pastorali avevano per i “mezzi leggèri”.

Per alcuni la scelta​​ group-media​​ è​​ giunta​​ come conclusione di una esperienza di lavoro con i mass-media: si opta per i mezzi audiovisivi di gruppo con la convinzione che i massmedia non sono funzionali alla evangelizzazione. Un esempio significativo è padre R. Pichard: responsabile dei programmi religiosi della televisione francese, lascia nel 1970 il suo incarico, fonda presso Lisieux il centro CIDAL (Centre International de​​ Documentation​​ Audiovisuelle de Lisieux), e avvia un progetto-sfida: fare dell’audiovisivo uno spazio privilegiato di ricerca e di dialogo per la piccola comunità locale di Hòtellerie (200 abitanti).

Per alcuni altri la scelta​​ group-media​​ è applicazione coerente di una decisione più globale. È il caso di molti operatori in America Latina. Chi si è schierato per una pedagogia, una teologia liberatrice, quando si tratta di annunciare il messaggio religioso non può scendere a patti con strutture giornalistiche, radiofoniche, televisive funzionali allo statu quo; per non soccombere a compromessi e condizionamenti deve ricorrere a mezzi economicamente autonomi, non facilmente ricattabili: si scelgono mezzi poveri e forme di comunicazione proprie alla gente con cui si compie il cammino di liberazione.

Per altri la scelta dell’audiovisivo di gruppo è maturata dalla sfiducia per i mezzi tradizionalmente utilizzati nella C.: le formule, il testo scritto, la struttura “scuola”. Tra questi c’è chi vede nell’audiovisivo uno strumento potente che gli garantirebbe il controllo sul gruppo e l’efficacia nella trasmissione del suo sapere; ma c’è anche chi — come Pierre Babin — si “converte” all’audiovisivo per ragioni fondate sull’intuizione che l’avvento delle nuove tecnologie di comunicazione sta cambiando la cultura e l’uomo stesso: per dialogare con l’uomo d’oggi sono necessari un linguaggio ed uno stile comunicativo nuovi (P. Babin,​​ J’abandonne la catéchèse,​​ in “Catéchistes” 19 [1968] 76, 415-428).

Sono tutti fermenti che hanno fatto maturare nella Chiesa l’attenzione per i group-media. Va anche osservato che contemporaneamente gli studi sulla comunicazione umana facevano ampi progressi, e questi non potevano non aver influsso sulla riflessione catechetica: si è così ridimensionato lo strapotere attribuito ai mass-media, riconoscendo un’importanza decisiva alla comunicazione interpersonale, ai gruppi cui ciascuno appartiene, ai leaders d’opinione; si è messo in evidenza il ruolo attivo e critico del ricevente stesso...

3.​​ Il gruppo, la comunità come luogo della comunicazione.​​ La vera novità che oggi si impone e che sta alla base dell’opzione “group-media” è la scelta dell’autenticità nella comunicazione: è necessario garantire con ogni mezzo a disposizione che l’annuncio della Parola avvenga nel rispetto sia dell’originalità del Messaggio che della dignità della persona.

Il massimo di autenticità nella comunicazione si realizza all’interno di una comunità umanamente viva, dove il singolo è accolto e partecipa — ciascuno con pari dignità — alla gestione dell’informazione.

Per il cristiano — da sempre — la comunità è il luogo privilegiato dove si incontra la Parola, dove la si accoglie, la si riesprime in opera e preghiera: il dialogo è esercizio del sacerdozio comune, garanzia di fedeltà al mandato di Cristo.

Di fronte ad una società che per ragioni economiche, politiche, organizzative tende a identificare i singoli attraverso dei numeri e a considerarli “massa”, inderogabile è oggi per la Chiesa l’opzione​​ comunità.​​ Fare questa opzione comporta una certa politica a livello di comunicazione:

— Tutto ciò che può alterare in modo negativo o bloccare le reti di comunicazione proprie di un gruppo verrà lasciato cadere (non ogni mezzo, anche se gestibile da un singolo, troverà spazio).

— Tutto ciò che ricupera e approfondisce la vita di comunità è privilegiato: in questo senso è doveroso dare priorità alle forme di comunicazione dove i singoli sono soggetti attivi: il dialogo, il canto, la danza, il mimo, la festa; ma anche la radio, la fotografia, il videoregistratore..., a seconda della situazione concreta in cui si vive.

— L’immagine e il suono sono linguaggi particolarmente validi per conoscere, dire, celebrare il mistero di Dio e la vita dell’uomo; quanto si riesce a far percepire con l’audiovisivo può essere molto più intenso e vero di quanto non sia comunicabile attraverso le parole, tanto più che le parole tecniche, utili ad un discorso approfondito, spesso non sono conosciute; e un messaggio espresso in immagini e suono può facilmente divenire area comune di riflessione e di dialogo, dove ciascuno si sente libero di intervenire. (Ciò non significa però misconoscere il ruolo della parola e della razionalità; non basta infatti essere affascinati da una proposta di fede; è indispensabile giungere — e far giungere — ad una comprensione sufficiente delle ragioni che sostengono la propria speranza).

— La scelta della comunicazione a dimensione comunitaria non deve fare escludere la doverosità di un servizio a livello di massmedia, soprattutto quando risultasse che gran parte della gente ha come fonte di informazione quasi esclusiva i mass-media: a condizione che il sistema di comunicazione sociale in cui si opera non sia tale da rendere ambigua la proposta cristiana e che non si pretenda di trasformare i programmi in prolungamenti o surrogati delle forme di comunicazione e celebrazione proprie della vita comunitaria.

— In questa prospettiva il presbitero, il catechista, l’educatore cambiano in parte la modalità della loro presenza all’interno della comunità: ieri erano i depositari di una tradizione già fissata nelle sue formulazioni, e queste ciascuno doveva saper accogliere e ridire; oggi devono vivere in profondità la speranza cristiana, conoscerne le ragioni e guidare il lavoro di scoperta, di appropriazione e di annuncio. Non sono più soltanto trasmettitori di un messaggio: sono​​ garanti della comunicazione nella comunità.

Bibliografia

P.​​ Babin​​ et al.,​​ L’audiovisivo e la fede,​​ Leumann-Torino, LDC, 1970; A.​​ Baptiste –​​ C.​​ Belisle,​​ Photo/méthode. Comment utiliser​​ photolanguage”​​ pour les travaux de groupe,​​ Lyon, Ed. du Chalet, 1978;​​ E. Calzavara – E. Celli,​​ Audiovisivo: attualità e mitologia,​​ Torino, SEI, 1975; M. P. Giudici et al.,​​ Vedo, ascolto e penso. I ragazzi e la comunicazione audiovisiva,​​ Roma, AVE, 1977;​​ Medien Praxis​​ (serie di fascicoli), Frankfurt/M,​​ Katholisches Filmwerk,​​ 1976-1979; D.​​ J.​​ Saunders,​​ Visual​​ communication​​ handbook. Teaching and learning using simple visual materials,​​ Guilford, United Society for Christian Literature, 1979.

Franco Lever

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