GIOVANI
Giancarlo Milanesi
1. Una metodologia di approccio al tema
1.1. Uno studio oggetto di molte discipline
1.2. Modalità differenti di lettura
2. Una definizione socio-culturale di gioventù
2.1. Un concetto «relativo» di gioventù
2.2. Il prolungamento artificiale della gioventù
2.3. I fattori incentivanti del prolungamento artificiale della gioventù
2.4. Le conseguenze del prolungamento artificiale della gioventù
2.5. L’assenza di prolungamento della gioventù
2.6. Le categorie per una definizione di «gioventù»
3. Le caratteristiche descrittive della gioventù
4. Le categorie interpretative
4.1. La categoria della marginalità
4.2. La categoria della frammentarietà
4.3. La categoria del cambiamento culturale
4.4. La categoria dell'eccedenza delle opportunità
4.5. La lotta per l’identità
5. Temi e problemi particolari
5.1. I giovani e la religione
5.2. I giovani e il lavoro
5.3. I giovani e le istituzioni
5.4. I giovani e il tempo libero
6. Un bilancio in prospettiva
6.1. L ’ipotesi dell’esplosione del disagio giovanile
6.1.1. Il volto concreto del disagio
6.1.2. Dal disagio alla irrazionalità
6.2. Il ripiegamento adottivo e il rischio della mediocrità
6.2.1. La generazione dell’abbastanza
6.2.2. Una profonda crisi morale
6.3. I giovani come risorsa
6.3.1. Dalla marginalità alla partecipazione
6.3.2. Dalla frammentazione alla personalizzazione
6.3.3. Dalla difficile identità ai nuovi bisogni
6.3.4. Dal presentismo alla cultura del tempo
1. Una metodologia di approccio al tema
Lo studio della realtà giovanile è stato affrontato da più discipline scientifiche, che convergono nel darne un’immagine complessa e articolata.
1.1. Uno studio oggetto di molte discipline
La storia documenta l’evoluzione che il concetto di «gioventù» ha subito lungo l’arco dei processi di formazione e sviluppo di diverse entità etniche, regionali, nazionali e internazionali, soffermandosi soprattutto sulle forme di aggregazione giovanile (movimenti, gruppi, associazioni).
La biologia e la fisiologia, insieme a diverse scienze mediche, hanno approfondito le basi genetiche e le modalità di sviluppo corporeo della persona umana in età evolutiva, sottolineando in modo particolare i problemi relativi alla maturazione fisio-psicologica (pubertà) e alle patologie tipiche dell’età.
Gli studi etno-antropologici hanno fornito ampi materiali e importanti documentazioni, utili a confronti tra diversi contesti culturali entro cui si colloca la condizione giovanile.
Le diverse scienze psicologiche, oltre a descrivere i processi di maturazione della persona in età evolutiva, ne hanno ampiamente analizzato le patologie specifiche e le distorsioni di sviluppo.
L’approccio socio-politico-culturale ha contribuito a collocare adeguatamente la condizione giovanile entro le coordinate che caratterizzano l’identità dei diversi sistemi sociali. Infine, le scienze pedagogiche, utilizzando in diversa misura gli apporti delle altre discipline, presentano una propria sintesi interpretativa della realtà giovanile, avviando la progettazione e la realizzazione di interventi educativi.
È importante sottolineare che in base alla sensibilità culturale di una certa epoca o di un certo contesto sociale si tende a privilegiare uno degli approcci elencati rispetto agli altri, adottandolo come «filtro» di lettura della complessa realtà giovanile e lasciando in ombra gli altri approcci; così, ad esempio, nelle ultime decadi l’approccio socio-politico-culturale è stato spesso preferito a quello bio-psicologico, che aveva prevalso durante una lunga stagione culturale precedente.
Anche in questo contributo si tenterà una lettura prevalentemente socio-politico-culturale della condizione giovanile, pur tenendo presenti elementi di analisi provenienti da altre discipline.
1.2. Modalità differenti di lettura
Supponendo di potere utilizzare uno studio interdisciplinare, si possono indicare due modalità di lettura complessiva, tra di loro complementari e convergenti, della realtà giovanile.
La lettura strutturale utilizza soprattutto l’analisi delle condizioni e situazioni obiettive (ecologiche, climatiche, economiche, politiche, culturali, religiose, storiche, ecc.) entro cui viene a svolgersi il vissuto giovanile. Questa prospettiva tende a considerare la gioventù come una variabile «dipendente» del sistema sociale, cioè come un «prodotto» dei processi che si instaurano a livello macroscopico (cioè nell’intero sistema) e microscopico (cioè nelle singole istituzioni, gruppi, classi sociali, ecc.). La lettura strutturale mira a collocare i giovani entro le coordinate sociali, culturali, politiche, ecc., definendone l’importanza storica in base ai ruoli e alle funzioni che i giovani stessi sono in grado di svolgervi. È pertinente a questo approccio l’interrogativo circa la «natura» sociale delle masse giovanili in termini di gruppo, generazione, classe o quasi classe, strato o condizione. È ugualmente riferibile a questa lettura strutturale la descrizione dei giovani in base alle categorizzazioni di età, sesso, scolarizzazione, occupazione, estrazione sociale e alle altre numerose variabili di status. In altre parole, la lettura strutturale offre un’immagine dei giovani «come sono», in rapporto ai referenti storici che ne definiscono la cornice esistenziale; è per questo motivo che, pur evitando di sottolineare unilateralmente il peso di questi condizionamenti, essi si devono considerare come le premesse necessarie per comprendere la «soggettività giovanile», cioè le risposte che i giovani danno alla società, interpretandola a loro modo e cercando di condizionarla a loro volta, adattandovisi, criticando, rassegnandosi o ribellandosi
La lettura culturale o sovrastrutturale utilizza invece prevalentemente l’analisi del vissuto giovanile, ampiamente inteso come somma di modelli di comportamento e di comportamenti reali che caratterizzano la vita dei giovani di un determinato contesto sociale. Analiticamente questo approccio dà molto rilievo alle percezioni che i giovani hanno del mondo e di sé, ai bisogni e alle attese, ai valori e alle opinioni, alle sensibilità e ai progetti. Più compiutamente si può dire che la lettura sovrastrutturale ha come oggetto la «cultura» dei giovani quando l’insieme dei loro vissuti si configura come sistema organico di adattamento significativo alla realtà circostante, nell’intento di comprenderla e di gestirla.
In generale l’ipotesi di una «cultura giovanile» come prodotto organico e coerente dell’elaborazione della soggettività giovanile è plausibile solo dove i giovani rappresentano una realtà sociale abbastanza omogenea, unita, capace di mobilitare la maggioranza dei membri e di suscitare motivazioni adeguate a rispondere alla società. L’elaborazione di una cultura presuppone tra l’altro una serie di condizioni previe che non sempre si verificano in concreto.
Più spesso si parla di «subcultura giovanile», intendendola in due modi diversi: o come cultura parzialmente diversa da quella degli adulti (e perciò anche parzialmente identica), oppure come cultura totalmente diversa da quella degli adulti, ma solo in alcuni settori della cultura stessa.
L’ipotesi della «subcultura» è ovviamente più credibile di quella più radicale che parla di «cultura» giovanile totalmente diversa o totalmente contrapposta a quella degli adulti (che si dovrebbe allora chiamare «controcultura», come è stato fatto durante la stagione della contestazione giovanile europea e nordamericana della fine degli anni ’60).
Molte analisi sovrastrutturali si orientano di fatto in due direzioni:
a. a identificare l’esistenza di eventuali subculture giovanili (in prima analisi come costrutti relativamente compiuti in sé stessi, anche se parziali rispetto alla cultura prevalente);
b. a identificare le componenti specifiche di tali subculture; a questo proposito vengono utilizzati costrutti e concetti di diversa consistenza e ampiezza, quali ad esempio i bisogni, le domande, le attese, le opinioni, le interpretazioni, i progetti, gli ideali, i valori, ecc.
Ognuno di questi termini è di fatto assunto nell’analisi secondo diverse modalità teoriche, che rispecchiano i diversi approcci psico-sociologici e le scuole, gli indirizzi, gli orientamenti ideologici degli studiosi o ricercatori.
Esemplificando, si possono segnalare alcune delle subculture che sono state identificate e utilizzate a scopi interpretativi in certe ricerche recenti sulla condizione giovanile: la subcultura del consumo, la subcultura del privato, la subcultura politica, la subcultura del sacro, la subcultura dell’irrazionalità, ecc.
Nell’analisi sovrastrutturale sarà bene tener presente sempre due preoccupazioni: considerare la soggettività come condizionata dalle situazioni oggettive studiate mediante l’analisi strutturale e considerare la soggettività come possibile variabile indipendente rispetto alle stesse situazioni obiettive. Ogni approccio separato porta necessariamente a distorsioni.
2. Una definizione socioculturale di gioventù
È difficile dare una definizione di gioventù o dei giovani che possa applicarsi universalmente a contesti diversi nel tempo e nello spazio. Il concetto di gioventù infatti è condizionato da molte variabili contingenti.
2.1. Un concetto «relativo» di gioventù
In particolare la storia ci dice che nel passato il concetto di gioventù, anche solo rispetto alle coordinate cronologiche, ha subito molti cambiamenti (vedi il concetto di «juvenis» presso i romani o presso i medievali). La biologia ci avverte che le condizioni di vita di una determinata società possono anticipare o posticipare le date di inizio della maturità bio-psicologica dell’individuo e del suo compimento (come di fatto è avvenuto nei paesi di rapida industrializzazione).
La psicologia ha studiato molto le trasformazioni che avvengono nella personalità adolescenziale e giovanile prima, durante e dopo l’avvento della pubertà, arrivando ormai alla convinzione che tali trasformazioni non sono legate nella loro variabilità solo a «condizioni» naturali, presenti in modo identico in tutti gli adolescenti o giovani, ma dipendono in gran parte dal contesto sociale, che è molto mutevole.
L’etno-antropologia ha contribuito in modo decisivo, insieme all’approccio sociologico, a relativizzare il concetto di gioventù, facendo notare che nelle culture in cui la maturità fisiologica tende a coincidere con la maturità sociale non esiste praticamente l’adolescenza e neppure la giovinezza, per cui il fanciullo viene integrato direttamente nell’età adulta attraverso i riti di iniziazione e di inserimento (vedi studi di M. Mead sulle isole Samoa). Di qui l’ipotesi, successivamente sviluppata, che l’adolescenza, la giovinezza, siano solo prodotti sociali, cioè l’esito problematico di un certo tipo di sviluppo (possibile in certe società caratterizzate da rapidi cambi) e non la caratteristica «naturale» dello sviluppo della persona umana.
2.2. Il prolungamento artificiale della gioventù
L’analisi sociologica ha portato avanti l’approfondimento dell’ipotesi emergente dai vari approcci menzionati, mettendo in evidenza alcuni aspetti tipici della logica di sviluppo propria delle società industriali e postindustriali.
Il prolungamento dell’adolescenza e della giovinezza appare come necessità fisiologica delle società complesse; per ottenere il riconoscimento dell’avvenuta maturità sociale si richiede l’acquisizione di un numero crescente di conoscenze, abilità, atteggiamenti mentali, ecc., per la quale l’infanzia e la fanciullezza sono chiaramente insufficienti. L’assunzione dei ruoli connessi all’identità adulta è posposta ad età sempre più matura. Questo avviene soprattutto per i giovani che accettano pienamente tale logica; in pratica per quelli che prolungano la scolarizzazione e le altre forme di socializzazione meno istituzionalizzate. È per questi motivi che gli studenti, in generale, manifestano più degli altri giovani i problemi connessi al prolungamento artificioso della giovinezza; come è altrettanto vero che le società caratterizzate da alti tassi di scolarizzazione presentano, a parità di altre condizioni, un più alto livello di problematicità giovanile.
Il fatto del prolungamento artificiale della giovinezza sembra assorbire in sé stesso i problemi cosiddetti «psicologici» dell’età; essi infatti sarebbero la conseguenza del disadattamento provocato da fattori sociali più che la conseguenza del disadattamento provocato da fattori endogeni (bio-psicofisiologici).
2.3. I fattori incentivanti del prolungamento artificiale della gioventù
Sembra che il prolungamento della adolescenza e giovinezza sia particolarmente problematico in alcuni contesti socio-culturali. A parità di altre variabili è influente il grado di sviluppo complessivo del sistema sociale, in termini di modernizzazione tecnologico-scientifica, industrializzazione, urbanizzazione, complessificazione culturale, burocratizzazione, ecc.
Importanti sono certi tipi di organizzazione della vita sociale, economica, politica, culturale; ad esempio una società permissiva, democratica e aperta; una società ad economia capitalista; una società pluralista, ecc. Importante è anche l’appartenenza sociale (di strato o di classe) che sembra discriminare, quanto più ci si innalza nella scala sociale. Rilevante è in certe culture il sesso, nel senso che la problematica della condizione femminile sembra sovrapporsi a quella della condizione giovanile, accumulando contraddizioni e tensioni.
Decisiva è in certi casi la struttura demografica della società: il prolungamento dell’adolescenza e giovinezza ha un significato diverso in una società in cui i giovani sono maggioranza e in una in cui i giovani sono in fase di decremento o addirittura in minoranza.
2.4. Le conseguenze del prolungamento artificiale della gioventù
Si è già accennato a certe conseguenze di tipo psico-sociologico; su questo terreno si sono prodotte analisi abbastanza numerose e attendibili che convergono nell’indicare soprattutto gli effetti negativi del prolungamento: instabilità emotiva e affettiva, insicurezza, senso dell’impotenza e della inutilità, perdita dell’autostima, ecc.
Sotto il profilo più sociologico si è molto usata la categoria della marginalità per descrivere la condizione obiettiva dei giovani in questo contesto; il che equivale a sottolineare la condizione di dipendenza prolungata e forzata, lo sperpero delle risorse umane, l’assenza di responsabilità e di partecipazione. Non mancano tuttavia coloro che vedono nella condizione di prolungata dipendenza dei giovani una situazione di privilegio sociale e psicologico; la gioventù sarebbe un lusso che viene concesso ai giovani delle società industriali avanzate, cioè un periodo di esperienza protetta, di consumo gratuito, di tempo libero garantito, di apprendimento facilitato, ecc.
Sembra che nell’attuale fase di sviluppo delle società avanzate il prolungamento della gioventù provochi effetti positivi e negativi ad un tempo.
Mentre aumentano i livelli di preparazione (e non solo intellettuale), aumentano anche le situazioni di rischio, di problematicità, di contraddittorietà, di alienazione; la condizione giovanile si presenta in questa fattispecie come un vero «problema sociale» da affrontare e da risolvere.
2.5. L’assenza di prolungamento della gioventù.
Bisogna però prendere in considerazione il fatto che non in tutte le società e in tutti gli strati di una stessa società si ha lo stesso fenomeno del prolungamento dell’adolescenza e della giovinezza.
In alcune società contemporanee (le meno evolute sotto il profilo economico) si ha una situazione di negazione dell'adolescenza, che investe larghi strati della popolazione che sarebbe in età di adolescenza. Ciò è tanto più grave quanto più si avverte anche in quelle società una forte pressione culturale a considerare la giovinezza come un bene, una possibilità, una mèta obbligatoria.
In altre parole, non si può parlare di giovinezza nel senso sociologico del termine là dove non esistono le condizioni per il prolungamento dell’adolescenza; cioè dove le condizioni economiche, sociali e culturali delle famiglie e della società non possono permettersi il lusso di un’età di transizione, protetta e improduttiva. È il caso di molti paesi del Terzo Mondo, in cui si passa direttamente dalla fanciullezza alle responsabilità (sproporzionate) dell’età adulta, con gravi conseguenze sul piano psico-sociologico.
2.6. Le categorie per una definizione di «gioventù»
Avendo ipotizzato che la gioventù è un periodo di transizione compreso tra il raggiungimento della maturità bio-fisiologica e il raggiungimento della maturità sociale (che può essere più o meno prolungato e più o meno problematico), resterebbe da dire come si possono qualificare i soggetti che vi si riferiscono, dal punto di vista dell’analisi sociologica.
A questo proposito si sono utilizzate nel passato alcune «categorie», che attualmente sono considerate più o meno valide.
La categoria «gruppo di età» o «gruppo generazionale» appare troppo nominalista per essere veramente utile all’analisi. L’età, la contrapposizione tra due diverse generazioni ha un senso solamente se si caratterizzano meglio le identità di cui i gruppi di età o le diverse generazioni sono portatori. È necessario cioè riempire di altre connotazioni sociali, culturali, politiche, religiose, ecc., la pura connotazione cronologica. Di fatto la categoria «generazione» è pressoché abbandonata nell’analisi sociologica della gioventù. La categoria «cultura» o «subcultura», usata da certi studiosi degli anni ’60, è ugualmente messa in crisi oggi da considerazioni sulla reale impossibilità di considerare i giovani come un «soggetto» unitario e omogeneo, almeno quando se ne parla a livello macroscopico. La categoria «cultura» o «subcultura» è forse utilizzabile solo per gruppi ben definiti che rappresentano solo una parte della condizione giovanile in un determinato contesto; ad esempio, si potrà parlare a certe condizioni di «subcultura giovanile della droga», o di «subcultura giovanile delinquenziale» o di «subcultura giovanile religiosa» e simili, con riferimento a gruppi, movimenti, aggregazioni particolari.
La categoria «classe» e «quasi classe» è stata anche proposta durante gli anni ’60 e ’70 per definire sociologicamente la condizione giovanile. In termini specificamente marxisti ortodossi, non è possibile applicare ai giovani la definizione di classe; essi non adempiono alle condizioni fondamentali per essere «classe» in senso marxista e cioè l’avere una chiara e comune collocazione entro i processi produttivi, una coscienza esplicita di tale collocazione, una capacità omogenea di elaborazione di un progetto alternativo di uomo e dì società, un’organizzazione efficace, capace di tradurre nella storia tale progetto. Per questo motivo le organizzazioni politiche e sindacali di orientamento marxista hanno sempre respinto la definizione dei giovani in termini di classe (riservata al proletariato e ai suoi alleati), respingendo con ciò anche le ipotesi del protagonismo giovanile nella storia rivoluzionaria.
Anche il concetto di «quasi classe» fondata sulla constatazione che i giovani sono «oggetto di una discriminazione di classe» simile a quella del proletariato e del sottoproletariato non ha avuto migliore fortuna. La frantumazione reale della condizione giovanile (sotto il profilo strutturale e soprattutto culturale) mette in evidenza come i giovani nella loro variegata identità appartengono di fatto a diverse classi e ne rispecchiano gli interessi, gli orientamenti di valore, i progetti, ecc.
Forse è più realistico utilizzare la categoria di «strato sociale», che è molto più generica e perciò si adatta a una pluralità di situazioni assai diverse; i giovani come «strato» sarebbero definibili come «categoria» a cui non corrisponde necessariamente un’aggregazione reale, una qualche forma di organizzazione e di istituzionalizzazione, ma solo un insieme di caratteristiche di status, di opzioni valoriali e culturali, di identità «abbastanza» o «relativamente» comuni a un grande numero di essi, pur senza determinare un’identità precisa.
Ciò sembra vero in maggior misura là dove non vi sono elementi che possano far pensare ai giovani come ad una entità ben precisa sotto il profilo sociologico, come in molte società del mondo occidentale a economia capitalista (ma è vero per altri motivi anche per le società a economia socialista, almeno dell’Est europeo).
Per questi motivi appare talora improprio parlare di «condizione» giovanile, termine che in qualche modo richiama un «soggetto storico» dalle precise caratteristiche (anche se non fino al punto di parlare di classe), capace di azioni collettive dotate di senso, in grado di elaborare e realizzare progetti unitari, ecc.; è forse meglio parlare di «giovani» e non di «condizione giovanile» là dove non esistono le condizioni per usare tale termine.
In definitiva, i giovani si possono considerare uno strato di popolazione caratterizzato sostanzialmente da attribuzioni di età, i cui limiti tendono a fluttuare e ad espandersi, come effetto di certe dinamiche tipiche delle società caratterizzate da alti livelli di divisione del lavoro (e cioè di articolazione interna, strutturale e culturale), le cui conseguenze sono generalmente problematiche.
3. Le caratteristiche descrittive della gioventù
Per avviare una descrizione sostanzialmente «strutturale» dei giovani è bene riferirsi ai dati statistici che ne quantificano la consistenza e le caratteristiche (i dati si riferiscono all’Italia).
L’andamento generale della curva demografica in Europa e in Italia indica che complessivamente si va verso un invecchiamento progressivo della popolazione sin oltre l’anno 2000; attualmente la popolazione compresa tra i 15 e i 24 anni si aggira attorno al 15.8% della popolazione totale in Europa e al 15.6% in Italia. Le previsioni ammoniscono che presto in quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale (e anche orientale) le persone con più di 65 anni saranno più numerose di quelle che hanno meno di 15 anni.
La speranza di vita della popolazione giovanile è aumentata in quasi tutti i paesi europei; in Italia alla nascita si ha la previsione di 71 anni per i maschi e di 77.7 per le femmine; a 15 anni la previsione è di 57.5 anni per i maschi e di 64 anni per le femmine. In complesso la gioventù attuale ha davanti a sé una prospettiva molto consistente di esperienza vitale.
Tra le cause di mortalità più rilevanti si hanno (in Italia) gli incidenti stradali (46.5 morti per i maschi e 10.1 per le femmine su 100.000), mentre i suicidi si assestano attorno al 5.3 per i maschi e al 2.4 delle femmine su 100.000.
Per quanto riguarda l’area dei comportamenti sessuali-familiari si nota tra i giovani un decremento costante dei tassi di nuzialità (tendenza a convivere liberamente anziché a legittimare giuridicamente il matrimonio) e di fecondità (sono feconde 23.0 donne su 1000 tra i 15 e i 19 anni; 105.2 su 1000 tra i 20 e 24 anni; 114.8 su 1000 tra i 25 e i 29; il numero medio di figli per donna in questo lasso complessivo di tempo - 15-29 - è di 1.74).
Gli aborti indotti, sempre per l’Italia, arrivano a 7.5% sotto i 20 anni a 22.6% tra i 20 e 24 anni, a 25.6% tra 25 e 29 anni; ogni donna ha mediamente in questa età 0.55 aborti, cioè abortisce almeno una volta una donna su due.
Quanto alla collocazione nell’apparato produttivo si hanno dati abbastanza problematici. Il tasso di occupazione tra i 14 e 29 anni si aggira mediamente negli anni ’80 attorno al 32-33% della popolazione, mentre quello di disoccupazione supera di molto quello della media della popolazione attiva (30-32% contro il 10-12%); alti rimangono i tassi di non presenza sul mercato del lavoro (35-40% circa, composto soprattutto da donne, destinate a restare casalinghe).
1 tassi di scolarità sono generalmente aumentati negli ultimi anni in tutti i paesi europei, anche in Italia, soprattutto per quanto riguarda la scuola secondaria e l’istruzione universitaria, raggiungendo livelli del 55-60% per l’istruzione secondaria e il 15% circa per quella universitaria.
Resta tuttavia consistente, soprattutto in Italia, in tasso di evasione dalla scuola dell’obbligo che sembra attingere i livelli del 3% annuo. Infine vanno sottolineate alcune statistiche riguardanti i problemi della devianza giovanile. Attorno alla metà degli anni ’80 gli utenti complessivi dei servizi finalizzati al ricupero dei tossicodipendenti ammontavano a 85.448 (cioè circa FI.5% della popolazione di pari età). Di essi, 8.287 stavano in comunità terapeutiche, 67.970 utilizzavano strutture pubbliche di trattamento e 9.181 strutture private. Mediamente attorno alla metà degli anni ’80 venivano condannati ogni anno da Tribunali dei minorenni o da tribunali ordinari circa 130.000 giovani tra gli anni 10 e 29 (di cui circa 17-18.000 femmine). Queste e altre più analitiche statistiche danno una prima idea della «condizione» dei giovani nella società occidentale (e in particolar modo in Italia), sollecitando un’analisi più qualitativa dei dati, che richiede particolari categorie interpretative, fornite dalle diverse scienze dell’uomo contemporanee.
4. Le categorie interpretative
Al di là delle descrizioni della condizione giovanile offerte dalle statistiche sociali, è utile riferirsi a certe categorie sintetiche che utilizzano approcci interdisciplinari e che permettono di comprendere alcuni aspetti essenziali del condizionamento socio-culturale a cui i giovani sono sottoposti e del protagonismo di cui possono o vogliono essere i rappresentanti.
Tali categorie sono di diversa consistenza e orientamento e rispecchiano anche le mutevoli sensibilità dei ricercatori e le circostanze contingenti del periodo storico; vanno prese perciò con molto senso critico e vanno utilizzate a modo di «cocktail» variabile, cioè traendone combinazioni variegate che si possano applicare a situazioni concrete e contingenti.
Se ne presentano qui alcune tra le più significative.
4.1. La categoria della marginalità
La categoria «marginalità» comincia ad apparire nella letteratura sociologica applicata alla condizione giovanile attorno al 1970 cioè a partire dal congresso internazionale di sociologia di Varna, e si presenta fin dall’inizio come un’estensione del concetto di marginalità elaborato nel contesto dell’analisi delle dinamiche territoriali (città-campagna; centro-periferia) o dei rapporti, a livello nazionale o internazionale, tra sistemi economici sviluppati e sottosviluppati. Parlare dei giovani in termini di marginalità significa attribuire loro gli stessi caratteri di esclusione dal godimento dei diritti e risorse promesse dal sistema, di non partecipazione alle decisioni che li riguardano, di irrilevanza sul piano del potere, che si attribuiscono più generalmente ai «sistemi» economici e politici subalterni. Il concetto di marginalità risulta pertanto necessariamente caricato di significati tendenzialmente simbolici e di risvolti ideologici. La elaborazione marcusiana della protesta sessantottesca, ad esempio, assegna ai giovani un’importanza strategica centrale all’interno delle lotte di tutti gli emarginati del mondo e perciò ne considera le iniziative come premessa necessaria di un processo alternativo e-o rivoluzionario di grande portata storica. Un concetto analogo è sviluppato da studiosi quali Rowntree, Touraine e Alberoni che equiparano la marginalità all’alienazione e considerano i giovani come i più evidenti protagonisti di una nuova lotta di classe, quella concernente il controllo della società tecnologica.
Oggi queste connotazioni appaiono molto sfumate; caduta l’ipotesi dei «giovani come nuova classe» e caduta l’eventualità di una gestione rivoluzionaria della emarginazione, ci si orienta verso interpretazioni politicamente meno incisive della marginalità giovanile. Generalmente essa viene definita in termini di effettiva esclusione, di isolamento, di neutralizzazione dei giovani che sono l’effetto di un processo più o meno intenzionale di obiettiva emarginazione gestito dal sistema sociale nel suo complesso e spesso rafforzato da fenomeni di autoemarginazione posti in atto da aliquote minoritarie di giovani stessi. L’emarginazione e la correlativa situazione di marginalità che ne risulta è fatta risalire alla logica di sviluppo dei sistemi neocapitalisti che per assicurarsi un equilibrio produttivo ottimale esigono che gli strati più deboli della popolazione restino a lungo parcheggiati in aree di forzata attesa e dipendenza. I segni dell’emarginazione sono numerosi: il soggiorno artificiosamente prolungato nelle strutture formative, l’esclusione dal lavoro legale, lo sfruttamento nel lavoro illegale, la condanna a funzioni quasi esclusive di consumo coatto, la limitazione ed esclusione dalle diverse opportunità di partecipazione protagonista e lo svuotamento delle forme stesse di partecipazione subalterna.
Se la logica dei sistemi che esaltano il ciclo produzione-consumo, come fattore di moltiplicazione della remunerazione del capitale ad ogni costo, spiega in gran parte la condizione di marginalità giovanile, la crisi degli ultimi anni ne spiega l’ampiezza inusitata e la profondità. L’ipotesi più diffusa infatti è che in molti paesi tutti i giovani sono oggetto diretto dei processi di emarginazione, anche se il rischio e la minaccia diventano reale condizione di marginalità solo per pochi, in modo chiaramente selettivo, colpendo soprattutto i più deboli, cioè i meno attrezzati, tra i giovani, a rispondere alla pressione emarginante.
Per questi motivi gli effetti della marginalità sono diffusi in tutta la condizione giovanile: si nota soprattutto la sindrome di caduta di senso che colpisce molti giovani ed in particolare emergono la perdita dell’autostima, il sentimento dell’inutilità, il venire meno del protagonismo ed infine, su un piano di assoluta gravità, l’eventualità di una progressiva interiorizzazione dell’emarginazione stessa come cultura, cioè come ragione di vita, come modello totalizzante di comportamento, che prelude spesso all’autoemarginazione in subculture separate.
E tuttavia l’emarginazione è letta talora in chiave almeno parzialmente positiva, come quando si ipotizza una certa capacità dei giovani stessi di sfruttare pragmaticamente la condizione di dipendenza, facendone una pre-condizione di relativa de-responsabilizzazione, che permette di difendersi dai tentativi di omologazione e di sperimentare una certa stabilità o equilibrio emotivo, almeno per periodi particolarmente delicati dello sviluppo.
Si è già detto dell’interpretazione ideologica della marginalità come pre-condizione rivoluzionaria; è possibile anche leggerla ideologicamente come colpevole fuga dalla responsabilità e dalla partecipazione che denota una voluta inerzia e mancanza di creatività, ed è l’interpretazione più corrente nell’ambito del funzionalismo.
Oggi però tra coloro che ancora utilizzano la categoria della marginalità, si propende a considerarla soprattutto un fattore di disgregazione, di anomia, di rottura dei processi di autorealizzazione individuale e collettiva.
In definitiva la categoria «marginalità» sembra essere applicabile a larghi strati di popolazione giovanile, anche se non è più forse utilizzabile complessivamente per tutti i giovani allo stesso modo e allo stesso livello; marginalità inoltre è un concetto che esprime sostanzialmente un processo strutturale che tende a collocare e a definire obiettivamente i giovani, ma che non implica necessariamente il risvolto «soggettivo» rappresentato dalle loro «reazioni» al tentativo di emarginazione. Il concetto cioè si rivela molto più ricco se si approfondiscono anche le molteplici forme di «adattamento» all’emarginazione, che non si possono più ridurre ideologicamente solamente o alla reazione alternativa o alla accettazione passiva.
La categoria «marginalità» infine si comprende meglio se coniugata con altre (quali ad esempio quella della frammentarietà e dell’eccedenza delle opportunità) che analizzerò più oltre.
4.2. La categoria della frammentarietà
Ho accennato precedentemente all’ipotesi della fine della «condizione giovanile». L’ipotesi non consiste solo nella previsione di una progressiva perdita di rilevanza dei giovani nelle società occidentali per effetto del loro sempre minore peso demografico e per il disciogliersi delle loro problematiche in quelle dell’intera società, ma più precisamente nella constatazione di un inarrestabile sgretolarsi della condizione giovanile verso la completa frammentazione strutturale e culturale.
L’ipotesi parte dall’analisi di due fenomeni sociali tra di loro collegati: la perdita del centro (cioè di un punto di riferimento normativo capace di legittimare il significato unitario della società) che è fenomeno tipico delle società in via di complessificazione e di secolarizzazione, cioè in crisi di totalizzazione; la crisi dei processi di socializzazione, descrivibile come sfaldamento (relativo) delle agenzie tradizionali di ottenimento del consenso sociale sui valori dominanti, di legittimità dei messaggi culturali trasmessi, di obsolescenza delle metodologie di trasmissione, ecc. Le conseguenze più macroscopiche della condizione di frammentarietà vengono identificate, in riferimento alla condizione giovanile, almeno a due livelli:
1. Come venir meno di una coscienza collettiva e come emergere di coscienze di piccolo gruppo, o al limite come affermazione di una radicale privatizzazione (prevalentemente individualistica) del comportamento. II che equivale alla crisi dell’identità collettiva dei giovani, alla difficoltà di rappresentarsi collettivamente come soggetti storici capaci di produzione culturale relativamente autonoma e quindi di partecipare efficacemente alla determinazione del cambio sociale.
Si riferisce a questa tematica l’ampia letteratura non sempre scientifica, che ha utilizzato la categoria del «riflusso», etichettata di volta in volta con i termini di «privatizzazione», «soggettivizzazione», «attenzione all’identità individuale», ecc.
2. Come segmentazione del vissuto individuale, la cui importanza e significazione rispetto all’esigenza di identità dovrebbe invece aumentare, anche in rapporto al venir meno delle identità collettive.
Generalmente se ne individuano almeno due aspetti.
a. La frammentazione del «tempo psichico», cioè l’allentarsi dei legami esistenti tra le diverse esperienze distribuite nel tempo e l’affermarsi di un «presentismo» che è interpretato e vissuto come una sorta di sospensione illimitata del tempo reale. La frammentazione del tempo psichico implica da una parte una certa scarsa memoria del passato, l’irrilevanza cioè delle radici, della tradizione, della storia, verso cui molti giovani esercitano spesso un processo di censura automatica o di rimozione intenzionale. Implica anche una scarsa capacità di progettare il futuro, che è fondata indubbiamente su situazioni obiettivamente difficili, ma che dipende anche da una soggettiva riluttanza a investire totalmente e definitivamente le proprie risorse umane su una sola opportunità o ipotesi di vita. Ciò non toglie che vi siano grandi ideali tra i giovani di questa generazione, ma, secondo l’ipotesi, essi stentano a tramutarsi in progetti realizzabili e verificabili: a questo fenomeno guardano con preoccupata attenzione soprattutto i responsabili delle organizzazioni di chiesa, di partito e di sindacato.
b. A ciò si aggiunge la frammentazione del quotidiano; il presente stesso infatti è minacciato da una radicale relativizzazione delle esperienze che lo compongono, anzi i singoli segmenti di vita tendono ad assumere significati mutevoli anche all’interno di una singola «storia di vita». Ciò è spiegabile come effetto di una scarsa socializzazione; l'ipo-socializzazione riflette infatti il quadro generale di una società in cui la disgregazione culturale non può che riprodursi anche a livello individuale, di personalità.
È ben vero che la frammentazione del quotidiano implica in qualche modo un aumento delle esperienze e delle appartenenze e che la mancanza di una precoce canalizzazione dei vissuti individuali può permettere una più ricca opportunità di scelte; si tratta di risvolti considerati positivi e capaci di mitigare gli effetti perversi della frammentazione stessa, ma in generale in questo approccio si tende a sottolineare la pericolosità di questi vissuti, soprattutto in rapporto all’esperienza dell’identità e più in generale al bisogno di significato.
Frammentazione ed emarginazione infatti appaiono spesso combinate nella spiegazione di non pochi fenomeni problematici della condizione giovanile, come ad esempio il riflusso come «ultima spiaggia» su cui è possibile attestarsi prima di cedere alla definitiva perdita di senso, il consumo esasperato come risposta alienata alla mancanza di progetto e di continuità, la devianza come conseguenza quasi-automatica alla perdita dei valori e delle norme.
Ma non mancano neppure qui i risvolti ideologici: la frammentazione è indicata spesso come conseguenza logica della «bancarotta delle ideologie totalizzanti» e non tanto come effetto di processi sociali quali la socializzazione competitiva e conflittuale e la divisione del lavoro sociale; come conseguenza logica dello schema di sviluppo, tutto incentrato su valori di scambio e d’uso e poco attento alle esigenze della ragione sostanziale. Come pure risulta talora ideologica la lettura che si fa, entro questa prospettiva, delle risposte date ai giovani alla frammentazione; tipico è il giudizio dato su certe forme di aggregazione giovanile che vengono considerate sostanzialmente ambigue. Secondo questa interpretazione dei fatti, aggregarsi significa per molti giovani opporre un antidoto solo apparente alla frammentazione; si verifica invece un meccanismo di esaltazione delle caratteristiche che rendono differenti, si nota la tendenza all’esclusione o alla selettività verso gli altri; si legittima la sollecitazione di forti dinamiche interne; si procede all’elaborazione di sistemi di significato sempre meno universali e sempre meno comunicabili; si diffonde la propensione a letture negativistiche della realtà esterna.
La frammentazione come categoria è molto utilizzata in tutta la sua vasta gamma di significati sia in ricerche empiriche che in interpretazioni teoriche globali come strumento di comprensione della fase post-sessantottesca, soprattutto da quanti vedono tale stagione della condizione giovanile come un fenomeno sostanzialmente negativo e recessivo che non poteva produrre che disgregazione. D’altra parte risulta invece molto arduo, a quanti hanno tentato di ricondurre il ’68 a espressione di un bisogno di cambiamento radicale fondato su un preciso progetto culturale, spiegare il repentino cambio di direzione e di contenuti del vissuto giovanile e la caduta della identità collettiva.
4.3. La categoria del cambiamento culturale
Una certa letteratura psico-sociologica, cito soprattutto Grasso, Tullio-Altan e Secchiaroli, ma anche un’ampia letteratura angloamericana e tedesca (Inglehart) che ha le sue radici in alcune analisi degli anni ’60 e che si estende per larga parte dei ’70, tende ad accreditare l’ipotesi secondo cui i giovani sono protagonisti di una rivoluzione culturale lenta e non vistosa, che peraltro produce una notevole innovazione sul piano dei valori elaborati e proposti. Demistificando il periodo sessantottesco, questo approccio tende a minimizzare l’importanza delle azioni collettive più vistose e dei contenuti più propriamente utopici delle proposte di cambio culturale gestite dalla contestazione giovanile di allora. È convinzione dei fautori dell’ipotesi che il cambio delle opzioni di fondo, ravvisabile solo con sofisticate tecniche di analisi del profondo non sia possibile se non sui tempi lunghi; e che perciò il ’68 abbia rappresentato solo un momento espressivamente significativo di un progresso già in atto e solo momentaneamente esaltato nelle sue componenti più esteriori.
Su questa linea vanno letti gli studi di P. G. Grasso, intesi a dimostrare una differenziata velocità di cambio (più lenta a livello di atteggiamenti-opinioni-disponibilità superficiali) e orientati a sottolineare l’emergere di una sempre più convinta solidarietà personalistica ed universalistica. Altrettanto si può dire degli studi di Tullio-Altan, che sulla scorta di certe intuizioni di Inglehart tendono a dimostrare il cambio avvenuto a cavallo del ’68, in termini di: fine della stagione dei valori acquisitivi connessi con la soddisfazione dei bisogni primari (sicurezza, lavoro, casa, ecc.) ed emergenza di valori nuovi (postmaterialistici, post-borghesi, espressivi, ecc., quali la libertà, l’autorealizzazione, la convivenza pacifica, in una parola la «coscienza politica progressiva»). Questi studi inoltre affermano che la novità del vissuto giovanile consiste soprattutto nel fatto che i nuovi modelli sono tradotti in stili di vita quotidianamente praticabili, che rendono possibile l’utopia e agibili i contenuti delle istanze politiche che il ’68 aveva focalizzato.
L’ipotesi tende infine ad accreditare l’idea che i giovani sono in grado di realizzare all’interno della società complessa una sintesi felice tra passato e presente, in modo non traumatico e silenzioso, e allo stesso tempo duraturo e profondo.
Tutto ciò sembra supporre un insieme di caratteri nuovi che nel «dopo-sessantotto» permettono di situarsi costruttivamente in una società che per altri versi si presenta come disgregante e destabilizzante; in particolare una ripresa di progettualità intenzionale, una dilatazione delle possibilità di opzione, un aumento della coscienza dell’importanza della vita quotidiana, una nuova capacità di controllare il proprio destino.
Molti critici ritengono che questa prospettiva pecchi di un certo meccanicismo e comunque di ottimismo. L’ipotesi suppone infatti che i giovani arrivino a fare quotidianamente ciò che gli adulti non riescono affatto, proprio per difficoltà intrinseche della società complessa; che è una società in cui è difficile trovare soluzioni generali e definitive; in cui la previsione e la programmazione sono vanificate dal cambio troppo rapido e dalla incontrollabilità dei fattori in gioco, in cui i riferimenti di valore vengono meno; in cui risulta arduo coniugare le esigenze della complessità del sistema con le esigenze delle diverse soggettività emergenti nei mondi vitali, cioè nelle esperienze sottratte al controllo del sistema sociale.
D’altra parte la definizione dei valori «nuovi» è quanto mai problematica; che senso ha veramente definire un valore come postmoderno, post-industriale, post-materialista? Forse che i sistemi sociali mutano unitariamente e univocamente senza lasciare residui o aree di arretratezza? E il «dopo» è da intendersi in senso puramente cronologico o anche logico e culturale? Ed è un «dopo» che significa necessariamente un «meglio»?
A queste domande si aggiungono i discorsi sui portatori della presunta rivoluzione silenziosa; in genere si tratta di giovani delle classi medie o medio-alte, dotati di alti livelli di scolarizzazione, capaci di utilizzare il loro tempo libero in modo proficuo e intelligente (anche perché ne hanno molto di tempo libero ed hanno i mezzi per viverlo intensamente). Sono esclusi dalla rivoluzione coloro che, storicamente, nel ’68 erano stati pensati come gli analoghi della classe operaia, detentrice del diritto-dovere della rivoluzione storica (cioè i giovani di estrazione popolare).
Per tutte queste ragioni la categoria del cambiamento culturale è spesso guardata con sospetto da certi osservatori; essa è ritenuta null’altro che una riedizione della tradizionale concezione funzionalista della condizione giovanile, secondo cui i giovani gestiscono quasi fisiologicamente la transizione, in quanto capaci di immettere nel processo la freschezza della loro vitalità bio-psicologica. Sociologicamente parlando la categoria «cambiamento culturale» sembra dunque indicare solamente che il sistema sociale è in grado di utilizzare intelligentemente le sue risorse umane per mantenersi e svilupparsi in modo e misura illimitati.
4.4. La categoria dell’eccedenza delle opportunità
All’interno della società complessa alcuni osservatori notano l’emergere di notevoli possibilità di moltiplicare le esperienze, di utilizzare strumenti di comprensione e di dominio della realtà; di ricevere stimoli e di rispondere in modo differenziato ad essi.
In questo contesto non è più necessario legarsi alla finalità del sistema ruoli-status, ma è offerta l’opportunità di percorrere itinerari diversificati verso la propria realizzazione individuale e collettiva.
Questa sarebbe la risposta unica possibile alla eterogeneità differenziata della società complessa; e se ne troverebbero tra i giovani i segni inequivocabili: quali ad esempio la preferenza per occupazioni saltuarie ed occasionali, l’abbandono degli ideali del successo e della carriera, il bisogno diffuso di fare molte esperienze senza totalizzarsi su nessuna (in questo la categoria «eccedenza delle opportunità» specifica quella della frammentazione); la capacità di vivere e convivere decentemente con le precarietà. In altre parole l’eccedenza delle opportunità permette un modello flessibile e mobile di identità e di autorealizzazione, da non confondersi con il riflusso rinunciatario e disimpegnato.
Una specificazione di questa categoria sembra essere quella dell’adattamento. Nella società complessa si risponde all’assenza di riferimenti, all’aumento dell’incertezza, alla non praticabilità delle risposte totalizzanti, al rischio della dissociazione, adattandosi. Il che significa ricercare soluzioni solo possibili e non necessariamente ottimali, nella quotidianità (e perciò lontano da modelli onnicomprensivi, totalizzanti e pretendenti alla razionalità e alla progettualità). Adattarsi significa dunque ripercorrere a ritroso l’itinerario dell’identità, cercandone le basi non nel sociale o nel politico o nelle esperienze produttive (sono luoghi dell’identità che per molti giovani sono del tutto impraticabili) ma negli ambiti che possono essere direttamente controllati dai giovani stessi. Questa area dotata di più agilità esperienziale coincide con quella delle relazioni microsociali e delle esperienze strettamente personali. Il tempo libero, l’amicizia, l’affettività, le attività espressive, i temi della formazione e della coscienza, gli hobbies, il volontariato, ecc. diventano gli ambiti in cui ogni soggetto investe parzialmente le proprie risorse vitali per raggiungere un’identità personale, diventano i luoghi in cui è possibile tentare di ridurre la complessità e le contraddizioni del sistema sociale (cioè la sua incapacità a conferire identità accettabili) e di conferirsi autonomamente identità e senso.
Certamente l’area descritta porta il segno delle opportunità dimezzate e ridotte (rispetto alle possibilità tendenzialmente utopiche, prefigurate nei segni della generazione precedente); ma la soggettività, che è il regno di questa esperienza, può essere ulteriormente e illimitatamente dilatata.
Non è difficile immaginare che questo modello sottintende un certo rischio di pragmatismo strumentale che confina con il cinismo e l’opportunismo. Ma quando l’adattamento è contenuto nei limiti indicati esso può conferire almeno una identità parziale e provvisoria, in un accumulo di opportunità di vita, che segna le tappe di un percorso di per sé mai terminato. Effettivamente esso non è molto definito dai suoi contenuti, perché conserva il carattere dell’indeterminatezza e della imprevedibilità, della labilità degli atteggiamenti e dell’eclettismo.
È a questo punto che una valutazione critica del modello non può che sottolinearne il rischio intrinseco di un esito dissociativo. Non è facile infatti sostenere a lungo la mancanza di una gerarchizzazione dei valori e delle norme; o convivere nella precarietà all’infinito; o lasciare nell’indeterminatezza i contenuti del proprio progetto di vita. Il modello dell’adattamento nel quadro di eccedenza delle opportunità rivela dunque il carattere di intrinseca provvisorietà e di limitata funzionalità del comportamento che esso analizza. L’adattamento svolge probabilmente una funzione insostituibile nell’ambito della società complessa e differenziata; ma non è in grado se non di spiegare il carattere nuovo della soggettività giovanile, senza approfondire adeguatamente le ragioni dell’obbiettiva «perdita di senso» che si produce nella società complessa.
In altre parole il modello va ripensato alla luce delle categorie più «strutturali» quali l’emarginazione e la frammentazione che tentano di rendere conto del perché radicale della perdita di significato nella società attuale da parte dei giovani. In mancanza di ciò la categoria rischia di perdersi nell’imprecisione di certi discorsi puramente sovrastrutturali.
4.5. La lotta per l’identità
Il tema dell’identità è centrale in tutti gli approcci che utilizzano soprattutto categorie psicologiche o psicosociologiche. Si può citare a questo proposito almeno Erikson e la rivisitazione recente che ne ha fatto in Italia Palmonari. Anche a livello sociologico il tema è stato ripreso da più parti recentemente, in rapporto all’ipotesi di una generale caduta dell’identità collettiva dei giovani (vedi ad esempio la categoria della frammentazione).
Questo approccio parte dalla constatazione che nella società complessa e avviata verso l’era post-industriale il conflitto sociale non è più solo un conflitto di classe centrato sul controllo e sulla proprietà dei mezzi di produzione, ma è un conflitto radicale che supera i confini tradizionali di classe e che riguarda invece il modo di produrre sviluppo, di definire i bisogni e l’identità, di determinare la qualità della vita nella società complessa. Sotto questo profilo il modello rivela notevoli analogie con il modello del «cambiamento culturale», nella misura in cui sottolinea l’emergere di nuovi bisogni, di carattere prevalentemente espressivo e non strumentale.
Esiste conflitto attorno a questi oggetti sociali perché i sistemi tendono a imporre le identità da loro predisposte (a loro funzionali) indiscriminatamente a tutti i soggetti, che in molti casi reattivamente difendono e rivendicano il proprio diritto all’identità. Presupposto fondamentale di questa ipotesi è il riemergere di una soggettività rimossa, che non è solo riflusso e solo folklore, ma piuttosto rivendicazione radicale del diritto a definire i propri bisogni e delle lotte per la loro soddisfazione.
Gli autori annotano che questa lotta ha caratteri peculiari-, ha come oggetto esigenze poco negoziabili (nascita, morte, affetti, relazioni, malattia, sopravvivenza, pace, ecc.); rifiuta il controllo politico (partitico e sindacale) sulla negoziazione del bisogno, riappropriandosi il controllo diretto sulle condizioni di esistenza, indipendentemente dal sistema; tende a coniugare sempre più privato e pubblico, superandone la separatezza; tende ad avvalersi di solidarietà comunitarie (di piccolo gruppo) come supporto ad un conflitto di minoranze capaci di gestire in proprio il confronto.
Al centro di questa lotta riappare il «corpo», luogo della resistenza contro la manipolazione e luogo dell’espressione del desiderio rivoluzionario; allo stesso tempo riappare il vecchio concetto di natura che sta a sottolineare il carattere non assoluto della storicità del bisogno; riemerge infine l’individuo come soggetto sociale irriducibile, terreno dei conflitti sociali fondamentali.
È importante verificare se e come i giovani sono coinvolti in questa lotta per l’identità. L’ipotesi in analisi individua un certo percorso privilegiato che spiega la presenza dei giovani al centro di questo conflitto.
Secondo questo modello la scolarizzazione di massa che prolunga la dipendenza non è che un momento interlocutorio del processo; è infatti la disoccupazione, la sottoccupazione, l’occupazione illegale che conferiscono al vissuto di dipendenza un’essenziale precarietà e marginalità, che rende i giovani disponibili ad ogni forma di manipolazione ideologica. Di fatto il mercato riesce quasi sempre a dare alla dipendenza-precarietà-marginalità un contenuto simbolico illusorio, promette cioè al giovane un’identità che si paga a prezzo di consumo illimitato.
Lo sbocco di questa situazione apparentemente senza ritorno è dato invece unicamente dalla presa di coscienza del proprio «nulla» che reclama identità solida, o meglio sottolinea drammaticamente il diritto di conferirsela autonomamente.
L’esigenza di identità, peraltro, si esprime prevalentemente in negativo: i giovani reclamano identità con il loro silenzio, con l’indifferenza verso il potere, con la separatezza (che è quanto dire: trovare un modo di comunicare senza perdere identità), con la mancanza di progetto (e dunque con un ritorno duro al presentismo, inteso come unica misura del mutamento).
Anche in questa linea come in quella tracciata dalla categoria «eccedenza delle opportunità» si considera ovvia la rivendicazione alla provvisorietà e alla reversibilità delle scelte, alla pluralità e al policentrismo delle biografie individuali e degli orientamenti collettivi. In altre parole la protesta silenziosa che esprime il bisogno di identità è accompagnata dal rifiuto degli itinerari prefabbricati attraverso cui l’identità è conferita ufficialmente nel sistema (cioè i processi di socializzazione istituzionalizzati) e dalla valorizzazione delle diverse forme di autosocializzazione, anche quelle più radicali.
Non per questo i giovani diventano automaticamente protagonisti assoluti della lotta-conflitto per l’identità; essi sono di fatto assoggettati a condizioni di marginalità, massificazione, condanna al consumo coatto che ne diminuiscono di molto le capacità di opposizione alternativa.
Riemergono nel modello descritto alcuni elementi categoriali già evidenziati in altri modelli, ma senza dubbio la categoria «lotta per l’identità» sembra adattarsi precipuamente a fenomeni recenti di aggregazione e di esperienza giovanile del tutto imprevedibili durante la stagione sessantottesca (i movimenti pacifisti, le associazioni di interesse religioso, ecologico, salutistico, culturale, le varie forme di impegno nel volontariato, ecc.).
Il modello soffre forse di poca specificità, perché la lotta per l’identità radicale non sembra manifestare le caratteristiche di un interesse o bisogno di generazione; ingloba infatti componenti di età, di classe o di strato, di scolarità e di militanza sociale e politica molto eterogenee.
Con tutto ciò anche questo modello sembra ricco di stimoli e applicazioni.
5. Temi e problemi particolari
Le categorie interpretative globali possono costituire uno sfondo su cui inserire analisi particolari di temi e problemi che toccano aspetti specifici della condizione giovanile. Qui se ne presentano alcuni, rinviando ad altre voci del presente dizionario l’approfondimento di argomenti analoghi, quali: associazionismo, appartenenza politica, devianza, ecc.
5.1. I giovani e la religione
Sulla base di non poche ricerche recenti si può ritenere che:
1. Nell’attuale atteggiamento giovanile verso i valori e verso la fede emerge il carattere della soggettivazione e della frammentarietà, espresso come subordinazione della domanda e del vissuto religioso ai bisogni di identità individuale, di autorealizzazione e di autovalutazione come ne fanno evidenza i risultati riguardanti le domande su Dio, sulla fede, sul messaggio cristiano, sul rapporto fede-politica e fede-etica. In altre parole, la religiosità dei giovani di questa generazione è sottoposta ad una forte spinta verso la soggettivazione e la privatizzazione, da intendersi sia come «psicologizzazione» della religione, cioè come utilizzazione della religione a strumento di soluzione e risposta ai propri problemi psicologici, sia come tendenza al consumo passivo e individualistico della religione.
2. Il carattere di soggettivazione è presente però anche in termini di domanda di protagonismo dei giovani nei riguardi della religione. Essa consiste nella spiccata disponibilità alla riappropriazione creativa del fatto religioso in chiave personale, accompagnata da un certo distanziamento dal modello istituzionale e da un’esplicita richiesta di fare esperienza religiosa in aggregazioni vivaci. Il protagonismo così inteso è diametralmente opposto all’atteggiamento «consumista», perché è aperto ad una esperienza gratuita della religione, intesa come valore autonomamente motivante rispetto agli impegni sociali, nel culturale e nel politico.
3. Esiste tra i giovani italiani di questa generazione una esplicita domanda di religione, anche se non la si può considerare maggioritaria. Il «ritorno al sacro» e la «ripresa di religione» sono fenomeni rilevanti più sul versante «qualitativo» che su quello «quantitativo», cioè più per quello che viene espresso dal bisogno di protagonismo e di radicalità evangelica dei pochi, che per quello che viene evidenziato nel tradizionalismo religioso della maggioranza dei praticanti.
4. Questa domanda di religione rischia molto quando cerea i canali entro cui esprimersi come vissuto significativo nella quotidianità: parte di essa si perde e si vanifica in una privatizzazione che è funzionale solo ai bisogni di sicurezza e di equilibrio psicologico, mentre è soltanto un segmento quello che cresce nella ricerca costante di equilibri difficili tra fede e prassi, tra identità «settaria» e «integrazione ecclesiale», rischiando anche forme di ghettizzazione, o forme di integrismo, o forme di secolarismo.
5.2. I giovani e il lavoro
Molte ricerche teoriche ed empiriche hanno analizzato in questi anni le modalità di presenza dei giovani nel mercato del lavoro e nella stessa struttura occupazionale.
Risulta anzitutto che i giovani premono sul mercato del lavoro anche con maggior urgenza che in passato, sfatando l’ipotesi della disaffezione nei riguardi del lavoro o per lo meno limitandola ai lavori più pesanti, nocivi, alienanti.
Resta anche confermata la generalizzata difficoltà di quasi tutti i giovani nel periodo della transizione tra strutture formative e attività lavorativa, non tanto e non solo per la mancanza di posti di lavoro quanto per la sfasatura esistente tra formazione e esigenze produttive.
Sul versante più soggettivo si analizzano soprattutto gli atteggiamenti verso il lavoro, il valore che gli viene assegnato, la qualità attribuita al lavoro, il rapporto tra lavoro e tempo libero. Emerge dalle ricerche uno spostamento netto verso una concezione prevalentemente strumentale del lavoro (è una necessità che fornisce i mezzi per risolvere i problemi pratici della vita quotidiana e nulla più) rispetto a una concezione etica che esaltava il lavoro come esperienza capace di conferire identità, di stimolare la socialità e la creatività umana, di modificare la qualità della vita.
Inoltre le ricerche mettono in evidenza che i giovani sperimentano per motivi diversi una certa alienazione da lavoro, legata alla fatica, alla nocività, alla ripetitività, alla incongruenza tra attese e realtà del lavoro, all’assenza di utilità sociale di molti lavori. Molti giovani si attendono dal lavoro le sole soddisfazioni legate alla maggior retribuzione, alla possibilità di fare carriera, alla sicurezza del posto.
Il lavoro in definitiva pare perdere importanza nella scala dei valori; viene dopo l’interesse per la famiglia, ma prima degli interessi affettivi; è un «pezzo della vita», ma non è più la via maestra per l’autorealizzazione.
5.3. I giovani e le istituzioni
Gli atteggiamenti nei riguardi delle istituzioni si diversificano assai in base all’importanza delle singole istituzioni nella vita dei giovani. Contrariamente a quanto si può immaginare, la famiglia occupa ancora una parte importante tra i desideri e i valori dei giovani di questa generazione; essa è intesa come luogo ideale della comunicazione interpersonale profonda e non tanto come struttura giuridica che legittima i ruoli sessuali e parentali. Si pensa cioè non tanto al modello della famiglia tradizionale quanto alla famiglia a legami allentati, fondata sulla libera e flessibile scelta reciproca e poco proiettata sui figli o sulla parentela. Su questo modello per altro pesano le ipoteche di una intrinseca fragilità, documentabile attraverso le statistiche problematiche (se non proprio allarmanti) riguardanti le unioni di fatto, le separazioni, i divorzi, le conflittualità diffuse.
Rispetto alla scuola, permangono le ambiguità di sempre: diminuita la tensione che aveva caratterizzato le stagioni della contestazione, nella scuola i giovani sembrano stare tranquillamente parcheggiati, quasi subendone la paralisi culturale e organizzativa, senza forti propensioni alla partecipazione e alla responsabilità. Si pensa generalmente che la funzione culturale sia impari alle esigenze del sistema produttivo, ma ciò non ha impedito una certa ripresa dell’impegno che porta almeno alla conquista del titolo di studio, se non proprio all’acquisizione di una cultura adatta alla società complessa, e post-industriale.
Verso le istituzioni politiche l’atteggiamento prevalente è quanto mai problematico: la crisi di credibilità della politica continua a influire negativamente sui giovani, limitandone la partecipazione attiva alle diverse forme di aggregazione partitica e sindacale. Allo stesso tempo la logica della società complessa ha relativizzato le pretese totalizzanti delle ideologie politiche, ridimensionando perciò la funzione, che si voleva universale, della politica come soluzione ideale dei problemi umani. Di qui la ricerca sofferta, in gruppi giovanili minoritari, di un nuovo concetto di politica che passa attraverso prassi di piccolo contenuto ideale e di maggiore concretezza storica. Un esempio tra i tanti di questa propensione a riscoprire la politica si ha nel volontariato e in tutte le altre forme di presenza nel sociale (cooperative di vario genere, associazioni a scopo ecologico, pacifista, ecc.) che qualificano l’impegno di non pochi giovani della presente generazione.
5.4. I giovani e il tempo libero
Quest’area di interessi tende da tempo ad ampliarsi per effetto di una convergente serie di fattori: assenza o limitazioni del lavoro, bisogno di esperienze alternative a quelle tradizionalmente considerate «forti» in rapporto alla formazione dell’identità, migliore definizione e specificazione delle «offerte» riversate sul mercato del tempo libero dai mass media e dalle varie organizzazioni turistiche, sportive, ecc.
In altre parole, prende consistenza l’ipotesi secondo cui l’area del tempo libero può diventare ormai per molti giovani l’occasione prioritaria per esperienze che conferiscono identità in alternativa alla scuola che non forma, al lavoro che non c’è o è alienante, alla politica che ha perso credibilità; si tratta solo di un’ipotesi, perché ancora molte ricerche sottolineano il fatto che per molti giovani il tempo libero è tempo della compensazione, funzionale alla ricostituzione delle energie produttive o al superamento delle alienazioni accumulate nella vita sociale e individuale. Spesso il tempo libero giovanile appare ipotecato da pesanti modelli consumistici, che ne impediscono un uso più intelligente e produttivo.
Va riservata, in questo contesto, particolare attenzione al fenomeno sportivo che registra un’innegabile espansione presso i giovani in termini di pratica agonistica o dilettantistica (quasi la metà dell’associazionismo giovanile è concentrata nell’attività sportiva), ma che allo stesso tempo evidenzia periodicamente fenomeni di alienazione collettiva (vedi violenza negli stadi) che confermano la vecchia ipotesi secondo cui lo sport mercificato e strumentalizzato a scopo puramente evasivo diventa droga pericolosa e distruttiva.
Poche ricerche focalizzano la funzione educativa dello sport per i giovani; esse sottolineano che la domanda di sport, pur inserendosi tra i bisogni del privato e oscillando tra individualismo consumista e personalismo impegnato, evidenzia tratti educativamente rilevanti: bisogno di piena autorealizzazione anche attraverso la riappropriazione dei valori della corporeità, bisogno di relazioni umane significative, ricerca di soddisfazioni concrete e realistiche attraverso il sacrificio e l’impegno.
Una richiesta esplicita di valori espressivi quali lo star bene insieme, il condividere la felicità, il manifestare solidarietà attraversano la pratica sportiva dei giovani più sensibili.
6. Un bilancio in prospettiva
Oltre a offrire stimoli utili alla rivisitazione di certe categorie di lettura della condizione giovanile, le considerazioni fin qui fatte ricollocano il discorso sui giovani al centro di una lettura complessiva della realtà italiana e riportano alla necessità di ipotizzare e rendere effettive le risposte che sono urgentemente sollecitate dai problemi.
La preminente dimensione operativa delle conclusioni a cui il discorso può condurre non deve far dimenticare lo spessore scientifico delle questioni in discussione; la politica rinvia pertanto alla scienza, per quel poco o molto che quest’ultima può dire in termini di comprensione e previsione circa i comportamenti giovanili. Quanto si dice qui a modo di conclusione mantiene dunque il carattere di discorso necessariamente aperto ad ulteriori verifiche.
6.1. L’ipotesi dell’esplosione del disagio giovanile
La parola «disagio» racchiude un contenuto variegato: ha indubbiamente una sua base obiettiva, che coincide con la somma di inadempienze, ritardi, tradimenti di cui i giovani sono stati l’oggetto privilegiato degli ultimi anni ed ha anche un vissuto soggettivo ad ampio spettro fenomenologico.
6.1.1. Il volto concreto del disagio
Senza volere generalizzare ad ogni costo e senza cadere nel moralismo, non è difficile elencare una serie di percezioni, emozioni e sentimenti, valutazioni, bisogni e domande che nascono da una sofferenza spesso sommersa, ma non per questo meno autentica e sincera. Più frequentemente si fa riferimento alle frustrazioni che nascono dalla precaria situazione occupazionale e dalla incertezza degli sbocchi d’inserimento; è forse l’aspetto più appariscente, ma non l’unico o il più importante del disagio giovanile. Più globalmente le radici della sofferenza vanno cercate nell’inadeguatezza degli atteggiamenti con cui gli adulti si relazionano alle domande problematiche dei giovani: non è raro registrare risposte che vanno dalla incompetenza alla strumentalizzazione, dalla sfiducia all’inerzia, dal cinismo alla stigmatizzazione.
Il problema essenziale del disagio giovanile va dunque ravvisato in una generalizzata incapacità del mondo adulto a riconoscere le esigenze della realizzazione, così come si presentano nell’attuale momento di transizione. Le espressioni di questa inadeguatezza si distribuiscono lungo l’asse privato-pubblico, con specifiche accentuazioni e tematiche: l’abbandono familiare, l’incomunicabilità, l’inutilizzazione, il mantenimento in una dipendenza forzata, la mediocrità della risposta, il giovanilismo ad oltranza, la deresponsabilizzazione, il calcolo e il non riconoscimento, la dispersione delle risorse, ecc. Vi è una gamma di non-risposte di cui la crisi delle istituzioni preposte alla socializzazione e alla valorizzazione delle nuove generazioni rappresenta il compendio più sintomatico.
6.1.2. Dal disagio alla irrazionalità
Se il disagio con tutte le sue articolazioni fenomenologiche appare indiscutibile, più difficile risulta la connessione tra esso e i suoi sbocchi ipotetici. Fino ad ora il disagio si è irrobustito a livello di «sommerso», non trovando fattori d’innesco sufficienti a farlo esplodere in comportamenti devianti, carichi di significato eversivo o, comunque, di conflittualità sociale. La tossicodipendenza, specialmente nel suo massimo sviluppo quantitativo, ha provocato soprattutto una preoccupazione centrata sul destino individuale e sul deterioramento delle relazioni microsociali dei giovani coinvolti; solamente in alcuni brevi momenti il comportamento «tossico» ha potuto assumere il ruolo di veicolo simbolico di una generalizzata contestazione del sistema, riducendosi in genere a solo meccanismo di fuga da una realtà non più sopportabile.
La valenza potenzialmente esplosiva della droga è stata abilmente neutralizzata mediante una sua radicale privatizzazione, che di fatto non ha provocato altro che un’ulteriore emarginazione di tossicodipendenti. Ora però riemergono forme vecchie e nuove di devianza giovanile legate alla criminalità organizzata; si agita nuovamente lo spauracchio di un terrorismo a radici internazionali; si registra una preoccupante «escalation» della violenza degli stadi; gli studenti scendono in piazza con rivendicazioni urgenti; si verificano spesso episodi di vandalismo su cose e di crudeltà su persone ed animali. Siamo arrivati forse ai livelli di guardia, cioè ai valori di soglia del disagio giovanile, oltre cui non c’è se non l’irrazionalità collettiva?
6.2. Il ripiegamento adattivo e il rischio della mediocrità
Se il «disagio» giovanile chiama in causa le contraddizioni e le strozzature che caratterizzano il modello di sviluppo del sistema sociale, altri aspetti odierni della questione giovanile sembrano mettere sotto accusa i giovani stessi, l'inadeguatezza della loro stessa risposta adattiva o alternativa ai problemi che li riguardano.
Sarebbe fuori posto, in questo contesto, una generica colpevolizzazione dei giovani che non tenga conto delle radici obiettive della loro eventuale inadeguatezza; e, dall’altra parte, vanno ormai respinte come pericolosamente irresponsabili tutte le forme di complicità e di vezzeggiamento che tentano di legittimare tutto ciò che è espressione giovanile, senza criterio e discernimento. Giustamente è stato osservato che i giovani stessi non hanno paura della verità che li riguarda e che preferiscono la «critica impietosa dei profeti» alla menzogna ambigua degli adulti insicuri.
Già nelle pagine precedenti non si è omesso di sottolineare certe ambivalenze insite in alcuni meccanismi di difesa e di adattamento adottati dai giovani di fronte alla complessità sociale; come pure certi rischi connessi ad una interpretazione unilateralmente pragmatica della propria condizione esistenziale. Sono ambivalenze e rischi non estranei neppure al mondo adulto, ma che in un giovane si è portati, forse per inconscia deformazione professionale, a considerare quanto meno controproducenti.
Senza timore di scadere in un «j’accuse» indiscriminato, credo siano da segnalare comportamenti che risultano certamente disfunzionali al superamento delle diverse forme di «disagio» e di «estraniazione» di cui soffrono i giovani.
6.2.1. La generazione dell’abbastanza
Sono modelli che non sono generalmente condivisi dalla maggioranza e che trovano spesso una smentita clamorosa in modelli diametralmente opposti, che dimostrano la possibilità concreta (anche se difficile) di comportamenti alternativi. Realmente vi sono alcuni modi di pensare, valutare ed agire che denotano l’accettazione fatalistica delle condizioni di marginalità, frammentazione, perdita di identità ecc. e che tendono a considerare queste condizioni come alibi che giustificano la mediocrità. Il consumismo sfacciato dei figli di papà, la rinuncia consapevole alla progettualità, una certa allergia nei riguardi di ciò che è arduo e impegnativo, l’inerzia che accompagna la lunga stagione della dipendenza; queste ed altre sono le modalità di un vissuto che è effetto e causa del disagio giovanile.
Chi ha definito questa generazione come «generazione dell’abbastanza» ha forse centrato con esattezza l’aspetto problematico di una generazione che, pur avendo ricevuto più di ogni altra le risposte essenziali ai bisogni primari, è tentata di adagiarsi sui risultati ottenuti, mortificando il gusto di scoprire e soddisfare nuovi bisogni e valori.
Vi è inoltre una curiosa tendenza alla spettacolarizzazione della vita, che si nutre talora di ciò che è effimero e superficiale, che premia l’apparenza e il successo gratuito, che gioca con il linguaggio senza significarlo; indubbiamente ciò è perfettamente consono ad una certa tendenza generale alla spettacolarizzazione che ha investito diversi settori della vita sociale, dalla politica alla religione, dallo sport alla cultura e trova vigoroso impulso nel contenuto prevalente dei networks radiofonici e televisivi.
6.2.2. Una profonda crisi morale
Un altro risvolto problematico è forse rappresentato dalla progressiva banalizzazione del linguaggio; non siamo più ai «cioè» e ai «non so» post-sessantotteschi, ma si verifica largamente un imbarbarimento delle espressioni orali e scritte. La volgarità e l’equivoco hanno preso il posto dell’ironia e dell’invettiva che in altra epoca nobilitavano per certi aspetti il graffito politico o lo slogan dei cortei.
Infine va forse segnalata una crisi morale più profonda di quanto non appaia dai comportamenti visibili. La delegittimazione in atto di molti modelli di comportamento, fino ad ora sostenuti da un generale consenso sociale, ha spinto molti (giovani e no) a forme diverse di autolegittimazione che spesso non corrispondono affatto allo sforzo di inventare una morale autonoma alternativa, ma scadono inevitabilmente nella giustificazione di comodo della scelta contingente. Al di là di questa radicale relativizzazione non resta che il gregarismo opportunista, il cinismo, l’individualismo. Spesso non si nota la ricerca faticosa di nuovi equilibri (vedi l’equivoco annaspare che ha seguito la liberalizzazione di comportamenti sessuali), ma solo una progressiva deriva verso la sterilità morale. Questo discorso critico sui giovani non è nuovo al discorso sociologico; e risente necessariamente delle scelte valoriali, delle identità e delle appartenenze dei singoli osservatori sociali.
Se ne trova un’eco, anche recentemente, in certe rammaricate constatazioni circa l’allontanamento dei giovani dalla politica o dalla religione, il presunto «riflusso» privatistico, o la negazione edonistico-narcisistica, la scelta della violenza terrorista, la «fuga» nella droga, ecc.
È un discorso che rischia di diventare moralistico e paternalistico se pretende di proiettare sui soli giovani le contraddizioni che sono di tutti e che in ogni caso non è giusto se applicato indiscriminatamente; ma può anche essere ripreso entro una più articolata e realistica valutazione di modelli di comportamento giovanile che anticipano in positivo una migliore qualità della vita e già realizzano forme creative e innovative. È anche da questi chiaroscuri che prende senso il complesso «puzzle» giovanile.
6.3. I giovani come risorsa
Forse va dato per scontato che i giovani rappresentano una «risorsa» sociale solo a certe condizioni. Non è il loro numero che conta, né il clamore che circonda certe iniziative o manifestazioni di cui i giovani sono protagonisti.
È invece la qualità della proposta che emerge dagli stessi problemi e dalle domande più o meno inespresse che contraddistinguono i comportamenti giovanili. A ben guardare, i problemi e le domande non sono sempre originali ed inedite, ma trovano accenti di autenticità proprio in rapporto alla capacità di incidere nel processo di cambiamento sociale in termini concreti e costruttivi.
La «risorsa» si specifica come anticipazione di valori, modelli, stili di vita realistici e allo stesso tempo utopici.
Alcuni osservatori ed operatori del settore hanno già esplicitato alcune delle domande giovanili che includono un valore, cioè una parziale ma reale produzione di significato per la vita e che stimolano l’attenzione operosa degli adulti. Si tratta di indicazioni apparentemente banali, e quasi solo fondate su considerazioni di senso comune, ma che nella loro semplicità rappresentano un momento di rottura rispetto al convenzionalismo di tanta letteratura sui giovani. Vi si parla di «valore-domanda» di verità, amore, fortezza, autenticità, protagonismo, soggettività, personalizzazione, fede, ricerca, purezza, felicità.
Ne risulta una immagine della realtà giovanile che forse pecca di ottimismo perché non è attribuibile nella sua totalità alla generalità dei giovani, ma che indubbiamente esprime una ragionata fiducia nel potenziale creativo che i giovani sono in grado di esprimere, se accompagnati da un’attenzione educativa onesta e liberante e se agevolati da un apparato istituzionale adeguato alle loro esigenze reali.
Quali sono in sintesi le domande che anche da questa variegata serie di saggi ricevono una più circostanziata legittimazione? La risposta, interlocutoria, è aperta ad ulteriori approfondimenti.
6.3.1. Dalla marginalità alla partecipazione
Dalla marginalità, o meglio dalla presa di coscienza della propria possibile o reale condizione di marginalità, può nascere una domanda di partecipazione-appartenenza-responsabilità che diventa proposta concreta di protagonismo serio, costante, vigoroso.
Già sono all’opera e si diffondono iniziative che ne documentano la ricchezza progettuale e la creatività metodologica: in prima linea il movimento cooperativistico e le diverse forme di impegno per la creazione di nuovi posti di lavoro, poi anche le articolate forme di volontariato giovanile (dall’educativo al culturale, dal sociale al ricreativo, ecc.), infine il risorgente impegno nelle più svariate realtà associative (dal politico all’ecclesiale, dallo sportivo al sindacale, ecc.).
Vi sono sintomi non trascurabili di un ritrovato gusto per impegni che abbiano una chiara finalità di utilità sociale; e non raramente si trovano giovani che identificano il percorso della propria realizzazione personale con quello della solidarietà universalistica. La qualità della vita, centrata attorno a valori che più o meno correttamente sono stati definiti post-materialistici, si precisa ormai in rapporto ad un bisogno di relazione non solo funzionale alla securizzazione o espansione personale, ma sensibile ad esigenze «di sistema».
6.3.2. Dalla frammentazione alla personalizzazione
Dalla frammentazione, se colta consapevolmente nella sua valenza positiva, può nascere una forte domanda di riflessività, interiorità, personalizzazione che viene investita prioritariamente sulla variegata e ricca produzione soggettiva di senso. Sembra esserci in alcuni giovani il bisogno di ridurre a unità l’esperienza senza mortificarne la complessità e il bisogno di ricomporre in totalità il vissuto senza operare tagli ingiustificati. Sintomi di una ritrovata capacità di superare la frammentazione (o almeno di convivere decentemente con essa) si ritrovano in certi vissuti comunitari, in certe relazioni di coppia, in certe sperimentazioni di comunicazione aperta e profonda: vi è un mondo giovanile da riscoprire nella sua differenziata capacità di riflessione non evasiva, che include credenti e non credenti, tossicodipendenti in via di autoriscatto e artisti, ex-sessantottini neocontemplativi e nuove leve di impegnati politicamente.
6.3.3. Dalla difficile identità ai nuovi bisogni
Dall’espropriazione dell’identità, cioè dall’impoverimento progressivo di valori e dall’incertezza dei percorsi verso l’autorealizzazione, può nascere una domanda urgente di soddisfazione di nuovi bisogni, espressa come riappropriazione del diritto a darsi un’identità fortemente personalizzata e fortemente storicizzata. Questa tensione si muove, sul versante critico, tra rifiuto dell’ideologia e sfiducia verso l’utopia gratuita; e sul versante propositivo si nutre in prima istanza del ricupero di alcuni valori che la società postindustriale rende praticabili: la corporeità, la relazione, l’etica, l’amicizia, la dignità personale, la realizzazione di sé, l’impegno sociale. Recedono alcuni bisogni di tipo acquisitivo (ma non del tutto e forse non per sempre) ed emergono, come essenziali all’identità, nuove ed antiche esigenze espressive. I sintomi di tutto ciò sono sparsi in misura non esigua in tutta la produzione culturale giovanile.
6.3.4. Dal presentismo alla cultura del tempo
Dall’estraniazione prodotta da un tempo scandito secondo ritmi non ancora consueti può nascere una nuova consapevolezza del valore del tempo individuale e sociale. Vi sono i segni di una diversa «cultura del tempo»; non solo e non più l’esperienza della noia e dello spreco dentro un tempo senza significato, né l’urgenza di un presentismo che brucia ogni possibilità ad ogni istante, ma la consapevolezza dell’importanza e della irripetibilità delle opportunità offerte ad ogni stagione della vita.
Si può leggere tutto ciò nella domanda di un tempo più pieno e più vivo per il momento formativo (vedi proteste per le inadempienze della scuola), nell’urgenza di vivere diversamente la transizione verso il lavoro, nell’esigenza di anticipare la stagione dell’impegno sociale e dell’attività produttiva e più in generale nella domanda di ritmi di vita più «a misura d’uomo».
Queste ed altre domande, variamente combinate in ogni giovane e in ogni strato, aggregazione, gruppo giovanile, in modo da comporre un cocktail imprevedibile di intenzioni progettuali, convivono e interagiscono con le contraddizioni ed ambivalenze altrettanto variegate che accompagnano il vissuto giovanile. Ne risulta una geografia estremamente complessa, il cui senso globale può facilmente sfuggire, ma la cui ricchezza problematica continuerà a sollecitare la ricerca scientifica e l’interesse degli operatori.
Bibliografia
Un’informazione bibliografica aggiornata sui problemi della condizione giovanile a livello internazionale si può avere dal bollettino trimestrale Tuttogiovani Notizie edito dall’Osservatorio della Gioventù dell’Università Pontificia Salesiana di Roma (P. Ateneo Salesiano 1, 00139 Roma).
L’Osservatorio possiede un’ampia banca dati bibliografica computerizzata e un centro di documentazione. Inoltre si tengano presenti: Cavalli A. (et alii), Giovani oggi, Il Mulino, Bologna 1984; Ipotesi sui giovani, Borla, Roma 1986; Milanesi G., I giovani nella società complessa, LDC, Leumann 1989.