GEMELLI Agostino

 

GEMELLI Agostino

n. a Milano nel 1878 - m. ivi nel 1959, francescano, psicologo, fondatore dell’Università Cattolica del S. Cuore.

1. Proveniente da un’agiata famiglia lombarda di agricoltori e registrato all’anagrafe con il nome di Edoardo, si laureò in medicina e, in seguito a una profonda conversione, entrò a far parte dell’Ordine francescano, assumendo il nome di Agostino. Ordinato sacerdote nel 1907, prese ad approfondire con impegno e solerzia gli studi di biologia e quelli di psicologia, sottolineando, attraverso la creazione della «Rivista di Filosofia Neoscolastica» nel 1909 e della rivista «Vita e Pensiero» nel 1914, il ruolo fondamentale della riflessione filosofica cristiana per rispondere al riduttivismo positivista e idealista.

2. Particolare attenzione G. riservò allo studio delle condotte delinquenziali, opponendosi fermamente agli studi di antropologia criminale di C. Lombroso, secondo il quale i condizionamenti sarebbero dovuti non solo a componenti ambientali socioeconomiche, ma anche a fattori indipendenti dalla volontà, come l’ereditarietà e le malattie nervose. Una tale prospettiva, a suo parere, annullava del tutto la responsabilità individuale e toglieva ogni spazio significativo al libero arbitrio nell’esperienza di maturazione e di crescita personale.

3. Analizzando l’esperienza religiosa, G. sottolineò la necessità di immedesimarsi profondamente nel vissuto altrui, di guardare con simpatia ad alcuni modelli particolarmente significativi (ad es. s. Francesco d’Assisi, s. Bernardo, s. Giovanna d’Arco), e di evitare di confondere i fenomeni mistici con alcune manifestazioni patologiche. Rispettoso dell’individualità e dell’originalità di ogni persona, G. riconobbe anche l’utilità della scienza psicologica per un discernimento vocazionale, nella consapevolezza che la grazia non prescinde dalla natura umana. A tale scopo, si impegnò perché i direttori spirituali e i responsabili della formazione nei seminari e nelle comunità religiose avessero un’adeguata formazione psicologica, suggerendo anche concreti strumenti diagnostici con i quali individuare eventuali patologie da sottoporre a più approfondito esame da parte di tecnici.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ G.A.,​​ Idee e battaglie per la cultura cattolica,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1933;​​ La personalità del delinquente nei suoi fondamenti biologici e psicologici,​​ Milano, Giuffrè, 1946;​​ La psicologia al servizio del discernimento delle vocazioni e della direzione spirituale dei seminaristi,​​ Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1957;​​ Il francescanesimo, Assisi, Porziuncola, 2000. b)​​ Studi:​​ Sticco M.,​​ Padre G.,​​ Milano, O.R., 1975; Preto E.,​​ Bibliografia di padre A.G.,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1981; Bocci M.,​​ A.G. rettore e francescano. Chiesa,​​ regime,​​ democrazia, Brescia, Morcelliana, 2003; Picicco A.,​​ Padre A.G., Padova, EMP, 2005.

E. Fizzotti​​ 

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GEMELLI Agostino

GENETICA

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GENETICA

È la scienza che studia la trasmissione dei caratteri da una generazione all’altra (detti perciò: ereditari), i meccanismi e i processi che attuano tale trasmissione e le leggi che li governano.

1. In quanto scienza sperimentale, la g. riconosce come fondatore l’abate agostiniano Gregorius Mendel (1822-1884), che coltivò con metodi selettivi e con incroci mirati piante di piselli ed elaborò in termini matematici i risultati delle sue ricerche. Riuscì così a formulare due leggi che governano i fenomeni essenziali della trasmissione dei caratteri e che vengono così enunciate: «legge della disgiunzione o segregazione dei fattori che determinano i caratteri» e «legge della indipendenza degli alleli». Una terza legge definita da Mendel «legge della dominanza» non ha trovato successivo riscontro giacché esistono casi in cui nessuno dei due fattori prevale sull’altro. Questi risultati furono pubblicati da Mendel nel 1866, ma non furono presi in considerazione forse perché in quel tempo egli non era conosciuto come un’autorità scientifica. Successivamente (1900) tre studiosi (H. De Vries, C. Correns e Von Tschermak) riscoprirono indipendentemente le stesse leggi, però con grande lealtà riconobbero la precedenza a Mendel.

2. Numerosi altri scienziati di alto valore si sono succeduti e continuano a succedersi nell’ambito di questi studi che diventano sempre più complessi e più interessanti anche per le numerose applicazioni pratiche che si possono fare. Ricordiamo fra i più notevoli i nomi di W. Johannsen che coniò i termini:​​ gene,​​ genotipo e fenotipo;​​ di W. Bateson che collaborò in modo decisivo allo studio delle variazioni e coniò i termini:​​ allelomorfo,​​ omozigote​​ ed​​ eterozigote;​​ di Th. Morgan con la sua scuola, celebre per gli esperimenti sul moscerino «drosophila melanogaster» e la produzione delle mutazioni.​​ 

3. Oggi si tende a denominare la g. mendeliana come​​ g. formale​​ in quanto prevale in essa l’osservazione e l’interpretazione dei fenomeni più il calcolo matematico, mentre si definisce​​ g. molecolare​​ quella attuale in quanto prevalentemente lavora sulla molecola degli acidi nucleici (DNA ed RNA). Celebri a questo proposito i nomi di F. Crick e J. D. Watson. Attualmente gli apporti di studiosi, soprattutto giapponesi, statunitensi, inglesi e francesi stanno facendo progredire questa scienza in modo vistoso.

4. L’applicazione della g. alla coltivazione delle piante e all’allevamento degli animali è molto diffusa e si possono ottenere nuove varietà nell’ambito della stessa specie. Nell’uomo serve a dare spiegazioni dei fenomeni ereditari e a prevenire molti errori dovuti a matrimoni non compatibili. La g., studiando inoltre l’​​ ​​ ereditarietà di alcune strutture essenziali dell’organismo (il sistema nervoso, il sistema muscolare, il sistema endocrino, il sistema immunitario e l’apparato digerente) indica anche quali saranno i modi fondamentali di reazione dell’individuo per quanto riguarda le forme innate dei riflessi sia semplici che complessi; su questi poi si instaurano forme acquisite di risposta o modalità creative originali che però risentiranno inevitabilmente delle condizioni innate delle strutture di base. Si denomina​​ ingegneria g.​​ lo studio della localizzazione topografica dei genidi nella molecola del DNA e la possibilità di intervenire per correggere eventuali errori naturali. È chiaro che in tal senso bisogna tener conto non solo delle grandi difficoltà che si interpongono al raggiungimento dei singoli genidi, ma anche dell’equilibrio che si deve mantenere nell’insieme dei genidi del patrimonio cromosomico per non determinare scompensi o sconvolgimenti.

Bibliografia

Mintz B.,​​ Genetic engineering in laboratory mammals,​​ Città del Vaticano, Pontificia Accademia delle Scienze, 1984; Serra A. et al.,​​ Medicina e g. verso il futuro,​​ L’Aquila / Roma, Japadre Editore, 1986; Cherfas J.,​​ Ingegneria g.,​​ Torino, Bollati Boringhieri, 1986; Dulbecco R.,​​ Il progetto della vita,​​ Milano, CDE, 1987; Mangia M.,​​ G. e uomo,​​ Bologna, Zanichelli, 1994; Plomin R.,​​ Genetics and experience.​​ The interplay between nature and nurture,​​ London. Sage, 1994; Gallori E.,​​ G., Firenze, Giunti, 2007.

V. Polizzi

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GENETICA

GENITORI

 

GENITORI

1.​​ Dal “principio” l’amore e la vita non cessano di unirsi e fecondarsi, sotto l’azione dello Spirito. Lo stesso amore sponsale è primordiale vocazione dell’uomo e della donna alla comunione e alla generatività. Genitori: essere coautori della genesi di una nuova esistenza. Pertanto da​​ sorgente​​ di vita, l’amore dei G. diventa​​ anima​​ (missione) e perciò​​ norma​​ (responsabilità) che qualifica tutta la loro opera educativa, anche nella fede.

2.​​ Viene così a costituirsi per​​ natura e​​ per​​ sacramento​​ un diritto-dovere dei G.:​​ essenziale,​​ inerente alla trasmissione della vita;​​ originale e primario,​​ nei confronti di altre realtà e responsabilità educative;​​ insostituibile e inalienabile​​ da non poter essere​​ delegabile​​ né​​ usurpabile​​ (va difeso).

3.​​ La Chiesa, alla scuola di Gesù, riconosce valore alla famiglia e alle premure di coloro che sono costituiti con autorità come G. Al tempo stesso la Chiesa ripudia una realtà di famiglia chiusa nella propria autosufficienza e che non sappia aprirsi, oltre la cerchia esclusiva dei propri privati affetti e interessi, alla realizzazione del Regno. Le esigenze del Regno possono infatti richiedere anche il superamento degli stessi vincoli familiari (Mt​​ 10,34-36.37-38).

4.​​ La Chiesa, nello Spirito, riconosce pure che il Signore Gesù continua a compiere oggi la sua opera di profeta e di maestro nelle​​ case,​​ mediante il servizio educativo dei G. (ministero).​​ La stessa grazia e i doni connessi con il sacramento del matrimonio sono effusi sugli sposi perché nel migliore dei modi possano portare a compimento il “ministero” al quale Cristo li ha consacrati, chiamandoli allo stato di vita coniugale. Essi infatti sono “praecones” (LG 11), cioè gioiosi annunciatori con la vita e le parole delle meraviglie di Dio (cf​​ 1 Tm​​ 1,5).

5.​​ Il loro annuncio non è soltanto premessa o supplenza di ciò che altri potranno fare in seguito. Ha una sua efficacia e una sua originalità perché in loro il “magistero della parola” si unisce al “magistero della vita”​​ (cf RdC 152). Così i figli, fin da bambini, possono riconoscere nella loro famiglia, la “Famiglia di Dio” pellegrina in terra, e senza esserne consapevoli, fanno nelle loro case la prima esperienza di Chiesa.

6.​​ È necessario e urgente che, a guisa dei discepoli (At​​ 5,42), i pastori e i loro collaboratori, visitino le case e lì incontrino le persone sia per la C.​​ pre-battesimale, prenuziale,​​ sia per incontri sul Vangelo.

7.​​ Oggi, più di ieri, è difficile e complesso essere G., e assolvere con autorevolezza, competenza e serenità il proprio compito e ministero di paternità e maternità, specie in ordine alla fede dei figli. I G. vanno aiutati, sostenuti, incoraggiati, formati e responsabilizzati dando loro fiducia. Le esperienze più significative e profetiche, oggi, sono quelle che coinvolgono, direttamente e con responsabilità, i G. nella organizzazione, conduzione e impostazione della scuola parrocchiale di catechismo,​​ neWiniziazione cristiana​​ dei loro figli. Essi hanno diritto di conoscere​​ le persone​​ nelle cui mani affidano la fede dei loro figli, i contenuti della C., i modi e l’ambiente che viene a costituirsi in parrocchia.

8.​​ Oggi, più di ieri, si avverte il problema del G. senza partner, che deve provvedere da solo all’educazione cristiana del figlio pur non avendo una vita religiosa piena; o del G. che deve provvedere da solo all’educazione cristiana del figlio in contrasto col proprio coniuge. Nei casi poi, così frequenti, di “paternità separate”, perciò di G. “parttime”, si richiede da parte della comunità cristiana molto amore per i bambini, rispetto per le persone dei loro G., sapienza e comprensione perché i sacramenti dell’iniziazione siano eventi di salvezza, annuncio di buona novella, e non si trasformino in occasioni di rottura o di umiliazione per i bambini. Situazioni del genere possono portare all’emarginazione. Siano invece occasione in cui il pastore e il catechista si fanno epifania e immagine storicizzata del “Pastore buono”.

9.​​ Gli enunciati teologico-pastorali del dopo Vaticano II possono creare attese nei pastori e nelle comunità ecclesiali, che vanno oltre le capacità reali dei G. Nel progetto di Dio la casa è il luogo privilegiato per ricevere la comunicazione della buona novella (cf​​ Dt​​ 6,4-9.20-25). Dire privilegiato non significa esclusivo. Altrimenti la trasmissione della fede apparirebbe come una faccenda “di famiglia”, privata, perciò privilegio di pochi. Non è corretto neppure enfatizzare oggi l’aspettativa che, rivalutando il compito educativo delle famiglie, ritiene che esse siano automaticamente capaci di farsi tramite della comunicazione della fede. I pastori dovranno registrare molte delusioni se si mettono in questa prospettiva. Affermiamo piuttosto che le famiglie sono “dei ministri” (cf​​ 1 Cor​​ 3,5-9).

I G. possono favorire le condizioni affettive e psicosociali che sollecitano e sostengono la crescita nella fede; possono partecipare alla prassi religiosa dei figli, portarli e introdurli nella più ampia comunità ecclesiale, cercando per loro un gruppo, l’oratorio, l’associazione. Non pochi G. riescono anche a intrattenere direttamente dialoghi di tipo cat.; alcuni di loro sono i primi iniziatori dei figli al libro di Dio. Ma tutte queste possibilità sono in concreto realizzabili a patto che le famiglie dispongano di una certa collaborazione, di un più ampio contesto di quello della propria famiglia e cerchia di amici. Abbisognano di un tessuto comunitario che costituisca un insieme di rapporti interpersonali e comunitari, simili a quelli delle​​ comunità di base​​ e dei​​ gruppi familiari.​​ La forza cat. dei G. e della famiglia dipende dalla comunità. E il compito della pastorale nei prossimi anni resterà la formazione di comunità centrate sulle famiglie, ma più ampie delle famiglie parentali.

Bibliografia

CEI,​​ Il Rinnovamento della catechesi,​​ Roma, 1970, 151-152;​​ Codice di diritto canonico,​​ cann. 774 § 2; 867; 914; 798;​​ L’educazione religiosa in famiglia,​​ Brescia, La Scuola, 1975; G. Gatti,​​ Il ministero catechistico della famiglia,​​ Bologna, EDB, 1978; Giovanni Paolo II,​​ Familiaris consortio,​​ Roma, 1981, 36-41;​​ Parrocchia e famiglie. Atti della XXX settimana nazionale del COP,​​ Napoli, Dehoniane, 1980.

Gianfranco Pregni

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GENITORI

Un g. è un padre o una madre; una persona che genera e dà la vita. Oltre alla genitorialità biologica esiste la genitorialità adottiva nella quale il g. non è stato partecipe alla procreazione del figlio, ma, sia in termini giuridici che in termini sociali ed affettivi, viene considerato alla stessa stregua del g. biologico. Diventare g. implica il passaggio da una situazione di coppia ad un’altra realtà molto diversa dalla precedente, in quanto l’interazione non è più solo diadica, ma allargata ad altri membri, i figli, che vengono a far parte della famiglia. Nella nuova concezione della vita matrimoniale si è fatto strada il concetto che il figlio che nascerà sarà il frutto di una decisione consapevolmente presa, almeno il più delle volte, da entrambi i coniugi. Questo costituisce per essi l’inizio del cammino che li porterà a diventare g.

1.​​ Divenire madre.​​ Non è una cosa semplice ed automatica come di solito si crede; non bisogna infatti dimenticare che una madre, prima di assumere questo ruolo, è soprattutto una donna con una propria vita e con un proprio particolare modo di essere e di sentire che dovrà subire un cambiamento nel momento in cui avrà un figlio. Perciò la maternità si presenta come uno dei più importanti momenti che la donna può vivere in quanto, pur essendo un evento naturale e fisiologico, esso rappresenta per lei un periodo critico che mette a dura prova le sue capacità di adattamento, a causa degli importanti mutamenti che avvengono nel suo corpo, nella sua psiche e nelle relazioni sia sessuali che interpersonali. Infatti la donna vive dentro di sé una molteplicità di sentimenti che possono andare dalla paura alla gioia, dall’entusiasmo all’incertezza, dall’accettazione al rifiuto di questo suo nuovo stato che la porterà ad una diversa realizzazione di sé. Si può dire che, sotto certi aspetti, l’amore materno è qualcosa che si forma, e che si apprende, tranne casi particolari, un giorno dopo l’altro; è qualcosa che la futura madre sente nascere dentro di sé, e che si rivolge ad un essere che sente formarsi e crescere pian piano, per nove lunghi mesi.

2.​​ Divenire padre.​​ È un’esperienza simile per quel che riguarda i dubbi e le incertezze, ma di tipo diverso da quella della madre, in quanto un padre sente che con il divenire g. chiude la sua vita di ragazzo ed inizia quella di uomo in cui vi sono nuove e più specifiche responsabilità. Infatti la paternità porta con sé nuove preoccupazioni: il​​ padre ha un accresciuto senso di responsabilità sia dal punto di vista economico che da quello educativo, acquista la sensazione dell’importanza della sua esistenza divenuta necessaria per poter provvedere alla famiglia che si è formata; nasce in lui la paura di essere meno importante per la moglie a causa del figlio e di non poter più avere con lei la calda ed esclusiva intimità dei primi tempi. Tutto, o quasi, si ridimensiona con la nascita del figlio. L’idea del ruolo paterno che si aveva un tempo sta lentamente modificandosi, ed al concetto del «buon padre» che provvedendo al sostegno economico della famiglia si estrania da essa impegnandosi in un lavoro che diventa quasi un alibi per evadere dalla situazione familiare, si va sostituendo quello di un padre presente con i suoi figli, con un nuovo ruolo, una presenza non più autoritaria, ma autorevole ed affettuosa. Si tratta certamente di un compito che implica una ristrutturazione del concetto culturale di uomo, un tempo cristallizzato nelle formule che indicavano il padre come il capo famiglia, la cui autorità era indiscussa e che costituiva la sola indicazione di apertura alla vita sociale. Inoltre, essere g. comporta anche il compito di potenziare la propria capacità di amare.

3.​​ Cambiamenti nella vita di coppia.​​ Sono molte le difficoltà che si presentano alla coppia con la nascita del figlio, e fra queste è da ricordare quella di saper affrontare il cambiamento che subisce la situazione diadica nella quale fino adesso la coppia è vissuta. Infatti uno dei compiti dei g. consiste nel ridefinire i propri ruoli all’interno della vita di coppia e nel riorganizzare la loro relazione. Ciò può essere vissuto come un periodo critico, anche se prevedibile in quanto fa parte dello sviluppo di gran parte delle famiglie, ma non per questo meno difficile a viversi. Infatti il divenire g. rompe anche l’equilibrio della diade coniugale, creando un momento di disorganizzazione, che va superato attraverso l’attuazione di alcuni compiti che porteranno ad un buon adattamento e ad un adeguato funzionamento familiare. Tra questi compiti vi sono quelli di saper far posto al figlio all’interno della vita di coppia, sia dal punto di vista affettivo che per quel che riguarda l’andamento familiare e le cure fisiche che debbono essere prestate al bambino; di definire la comunicazione in modo da poter entrambi esprimere i propri dubbi, le difficoltà e le gioie cosicché nessuno dei due si senta tagliato fuori dalla relazione col figlio; di imparare a risolvere le difficoltà in modo costruttivo ed arricchente senza giungere ad un conflitto più o meno palese; di ridefinire la relazione con la propria famiglia di origine in quanto il ruolo di coniugi è cambiato con l’essere divenuti, a loro volta, g. L’aver scelto di avere un figlio è una decisione importante per entrambi i coniugi, e la nascita del bambino, sia esso maschio o femmina, conferma pubblicamente il loro amore e richiede una loro crescita interiore. Quindi, essere padre e madre vuol dire oggi avere una relazione personale in cui il ruolo dell’uno non si può dissociare da quello dell’altro, e in cui ciascuno è corresponsabile dell’atteggiamento dell’altro nella vita familiare. Questa interdipendenza, non priva di conflitti, dà maggiore responsabilità ai g. nel loro compito di educatori.

4.​​ Comportamento genitoriale.​​ La caratteristica più importante di un adeguato comportamento genitoriale sta nel fornire al figlio stabilità, sicurezza ed affetto, ma a causa di una serie di eventi di carattere psichico, fisico o sociale, può manifestarsi in un g., od in entrambi, la presenza di un’organizzazione cognitiva problematica che può influire sul comportamento parentale ed arrecare danni di varia entità al figlio. Infatti, va tenuto presente che oltre alla modalità di comportamento adottato dai g. verso il figlio, è importante anche il modo in cui questi percepisce ed assimila i loro atteggiamenti e le loro intenzioni. Infatti è attraverso questo processo che giunge a costruire una propria realtà genitoriale che, se positiva, facilita il raggiungimento di una soddisfacente salute psichica.

5.​​ G. di un figlio adottato.​​ È infine necessario fare cenno ad una realtà che diviene sempre più comune, ossia quella di essere g. di un figlio adottato (​​ adozione). Di solito si ritiene che le esperienze vissute da un bambino adottato siano diverse da quelle di un bambino che vive con i g. naturali, come pure si crede che vi siano difficoltà diverse da superare quando si è g. adottivi. In realtà i g. adottivi incontrano difficoltà educative non più grandi, bensì diverse, da quelle che avrebbero con un loro bambino, forse perché può accadere che le caratteristiche insite nella loro famiglia si conformino con qualche difficoltà a quelle di un bambino di diversa provenienza. Alcune volte, poi, può essere difficile per loro rinunciare a veder realizzate, in quel figlio che non è stato da loro generato, i propri sogni e le proprie aspirazioni. Altre volte ancora essi rimangono incerti su quale modalità educativa usare con questo figlio poiché si chiedono se si sarebbero comportati nello stesso modo se fosse stato proprio un loro figlio. Questi ed altri problemi rendono perciò più difficile allevare un bambino adottato, anche se indubbiamente la scelta dell’adozione è stata dettata da un grande ed altruistico amore.

6.​​ La «cura» educativa.​​ Il divenire e l’essere g. comporta dunque, in tutti i casi, una notevole maturità personale e di coppia che deve procedere continuamente verso un arricchimento ed un rinnovamento, avendo come base una grande capacità d’amare. In questo senso si evidenzia la necessità di una particolare «cura» educativa per diventare e per essere g.: sia a livello personale, sia a livello di coppia, sia a livello intra e interfamiliare. In risposta a tale esigenza, negli ultimi anni sono stati pubblicati numerosi libri in cui vengono proposti itinerari per g., allo scopo di sostenerli nel loro agire educativo.

Bibliografia

Binda W., «Dalla diade coniugale alla triade familiare», in E. Scabini (Ed.),​​ L’organizzazione famiglia tra crisi e sviluppo,​​ Milano, Angeli, 1985, 175-201; Guidano V. F.,​​ La complessità del sé. Un approccio sistemico-processuale alla psicopatologia e alla terapia cognitiva,​​ Torino, Bollati Boringhieri, 1988; Cattabeni G.,​​ G. non si nasce,​​ si diventa,​​ in «Famiglia Oggi» 44 (1990) 30-37; Guiducci P. L.,​​ Accogliere la vita nascente. Una scelta totale,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1990; Mastromarino R.,​​ Prendersi cura di sé per prendersi cura dei figli, Ibid., 1995; Bellantoni D.,​​ Ascoltare i figli. Un percorso di formazione per i g., Trento, Erickson, 2007; Bavarese G.,​​ Dal divenire coppia al divenire g., Roma, Aracne, 2007.

W. Visconti

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GENITORI

GENTILE Giovanni

 

GENTILE Giovanni

n. a Castelvetrano (Trapani) nel 1875 - m. a Firenze nel 1944, filosofo italiano.​​ 

1.​​ Vita e opere.​​ Compiuti gli studi liceali a Trapani, s’iscrive alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove ha come professore di filosofia Donato Jaia, suo primo maestro d’​​ ​​ Idealismo, che lo incoraggia ad approfondire anche lo studio della pedagogia. Nei quattro anni di università G. legge i classici della filosofia, gli autori italiani dell’Ottocento, Hegel. Nella tesi di laurea approfondisce il pensiero di​​ Rosmini e Gioberti​​ (1897). Il tema della dissertazione al termine del corso di perfezionamento a Firenze è​​ Dal Genovesi al Galluppi​​ (1898). Studia il pensiero di C. Marx, intervenendo al dibattito che si svolge in Italia dal 1895 al 1900 sul valore del marxismo. Frutto di queste letture e discussioni è lo scritto​​ La filosofia di Marx​​ (1899). L’opera di filosofo e di scrittore fecondo si coniuga, in G., con un forte impegno personale nella scuola: professore di filosofia nei licei di Campobasso e di Napoli e nelle università di Palermo, di Pisa e di Roma; ministro della Pubblica Istruzione (1922-1924). È di questo periodo la riforma scolastica del 1923, nota come «Riforma G.». Aderisce al​​ ​​ fascismo e occupa posti nevralgici nell’ambito culturale: membro del Gran Consiglio, presidente dell’Istituto Treccani, commissario per la Scuola Normale di Pisa, presidente del Consiglio Superiore della P.I. (1926-1928). Dopo il delitto Matteotti, G. rimane fedele al fascismo e aderisce alla Repubblica Sociale Italiana. Viene ucciso da un gruppo di partigiani a Firenze davanti al cancello di casa.

2.​​ Pensiero.​​ La pedagogia di G. è strettamente connessa alla sua concezione filosofica (che egli chiama «attualismo»). Bisogna perciò richiamarne alcuni concetti chiave: la sola realtà solida, che sia dato affermare, e «con la quale deve perciò legarsi ogni realtà che io possa pensare, è quella stessa che pensa; la quale si realizza ed è così una realtà soltanto nell’atto che si pensa. Quindi l’immanenza di tutto il pensabile all’atto del pensare; o,​​ tout court,​​ all’atto; poiché di attuale, per quel che s’è detto, non c’è se non il pensare in atto; e tutto quello che si può pensare come diverso da questo atto, in tanto si attua concretamente in quanto è immanente all’atto stesso. [...] L’atto della filosofia attualistica coincide appunto col nostro pensiero» (G., 1933, 21-22). Non esiste, per G., una realtà che è data e si pone come oggetto di fronte al soggetto. Per lui questo modo di pensare è tipico del realismo che, se ha ragione nel dire che esiste una certa indipendenza degli oggetti d’esperienza dal pensiero, tuttavia non può rivendicarne una totale indipendenza. Tutto, anche la nostra esperienza, non è altro che la realtà stessa del pensiero, cioè la realtà che viene posta in atto o in essere dall’attività pensante. L’attività pensante, d’altra parte, non è condizionata da nulla, neppure dallo spazio e dal tempo; anzi l’universo diventa immanente al pensiero, che lo pensa e si esaurisce in esso senza alcun residuo: ogni realismo e intellettualismo è superato; la libertà dell’io è assoluta perché viene negata l’esistenza di ogni limite esterno. La realtà è spirito, assoluta attività pensante, Atto puro, soggetto trascendentale in cui viene meno ogni contrapposizione e dualità di atto e fatto, oggetto e soggetto, essere e dover essere, pensare e pensato. Lo spirito è autocoscienza che si conquista, riconoscendosi come unica realtà. Perciò legge fondamentale del pensiero e dell’essere è la legge dell’unità.

3.​​ Pedagogia e filosofia.​​ Nel​​ Sommario di pedagogia come scienza filosofica,​​ G. sviluppa in modo sistematico le idee già contenute nello scritto​​ Il​​ concetto scientifico di pedagogia,​​ nel quale l’educazione è definita «formazione dell’uomo secondo il suo concetto». E l’uomo, per G., «non è anima e corpo; ma, poiché è anima, è anima sola; e il suo corpo non esiste se non come un momento dell’anima, nella quale non sussiste se non idealmente» (G., 1908, 23). Educare è quindi formare l’uomo in quanto spirito, cioè soggetto che esiste nell’atto stesso che si pensa, vale a dire che ha coscienza di sé, che è autocoscienza. Si può allora dire che se la pedagogia è scienza dell’educazione e se l’educazione è il farsi dell’uomo secondo il proprio concetto, ne consegue che la pedagogia è scienza dello spirito e in quanto tale coincide con la filosofia. Quindi, qualora sussista una distinzione tra filosofia e pedagogia, ciò dipende dal non saper individuare correttamente i loro oggetti. L’identificazione della pedagogia con la filosofia è, per G., totale. «La distinzione, in verità, regge finché non si veda che lo spirito, oggetto della filosofia è appunto quella formazione dello spirito, che è oggetto della pedagogia. Ma quando per spirito non s’intende se non appunto lo svolgimento, la formazione, l’educazione, insomma, dello spirito, la filosofia stessa (tutta la filosofia, quando la realtà sia concepita assolutamente come spirito) diventa pedagogia, e la forma scientifica dei singoli problemi pedagogici diventa la filosofia» (G., 1914, 14). Perciò tutte le antinomie dell’educazione – essere e dover essere, educatore e educando, autorità e libertà, eteroeducazione e autoeducazione – non hanno più ragion d’essere, perché nella concezione idealistica i due spiriti – educatore e educando – si fondono nell’atto educativo, cioè nel momento in cui c’è o si fa educazione.

4.​​ Influsso e risonanza.​​ L’influsso dell’attualismo sulla cultura italiana nella prima metà del Novecento è stato forte e durevole. L’azione e il pensiero di G., a loro modo, hanno dato sostegno all’attivismo nazionalistico dell’Italia al suo primo decollo industriale, contribuendo allo svecchiamento della cultura e all’apertura internazionale. Ciò è collegabile: a una sua prima collaborazione con Croce nella rivista «Critica»; all’insegnamento universitario; alle molte iniziative culturali da lui avviate («Giornale Critico della Filosofia»,​​ Enciclopedia Italiana,​​ collana di classici di filosofia e di storia); ai legami che l’attualismo stabilisce con il fascismo; alla scuola gentiliana, che annovera tra i primi seguaci G. Saitta, V. Fazio Allmayer,​​ ​​ Lombardo Radice; alla sua spiccata personalità, che lo rende maestro dallo stile inconfondibile, capace di entusiasmare per gli ideali di un umanesimo culturale, personale e sociale. La concezione educativa di G. contribuisce a ridare vitalità e dignità ai valori spirituali, religiosi e umanistici della scuola, liberandola dallo scientismo positivista; a fare del maestro una persona professionalmente preparata, spiritualmente ricca, che utilizza, ma non si lascia irretire nei metodi e nelle tecniche didattiche ben sapendo che il vero insegnamento va oltre e più in profondità. Nella seconda metà del sec. si assiste a un declino dell’attualismo pedagogico, dovuto anche a limiti reali della sua impostazione. La riduzione della pedagogia a filosofia può innescare in ambito pedagogico il mal vezzo dei discorsi retorici e inconcludenti; l’esclusione di ogni dualità o antinomia emargina i soggetti reali dell’educazione e riduce oltremisura la complessità educativa. D’altra parte, in tempi recenti sono valutati positivamente aspetti rilevanti e ancora fecondi dell’opera di G., in particolare «il grande sforzo di elevare ai più alti livelli scientifici e formativi le istituzioni culturali. Per tali aspetti, che vanno al di là delle particolarità di azione didattica e di scelta di contenuti scolastici, il pensiero e l’opera di G.G. sono tuttora vitali e presenti nella cultura italiana del Novecento» (Cavallera, 1995, 51).

Bibliografia

a)​​ Fonti: G.G.,​​ Preliminari allo studio del bambino,​​ Firenze, Sansoni,​​ 91969;​​ Opere filosofiche, Milano, Garzanti, 1991;​​ Lezioni di pedagogia, Firenze, Le Lettere, 2001;​​ Sommario di pedagogia come scienza filosofica. 1. Pedagogia generale.​​ 2. Didattica, Ibid., 2003;​​ La nuova scuola media,​​ Ibid., 2003;​​ La riforma della scuola in Italia,​​ Ibid., 2003;​​ Educazione e scuola laica, Ibid., 2003. b)​​ Studi:​​ Hessen S.,​​ L’idealismo pedagogico in Italia. G.G. e G. Lombardo-Radice,​​ Roma, Armando, 1966; Chiosso G. et al.,​​ Opposizione alla riforma G.,​​ Torino, Quaderni del Centro Studi «Carlo Trabucchi», 1985;​​ G.G. e l’educazione degli italiani,​​ in «Nuova Secondaria» (1988 / 1989) 7, 25-39; Gaudio A.,​​ Educazione e fascismo in alcuni studi recenti,​​ in «Annali di Storia dell’educazione» 1 (1994) 295-302; Cavallera H.,​​ La pedagogia di G.G.,​​ in «Pedagogia e Vita» 53 (1995) 25-51; Colombo K.,​​ La pedagogia filosofica di G.G., Milano, Angeli, 2004.

R. Lanfranchi

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GENTILE Giovanni

GERMANIA

 

GERMANIA

I.​​ Chiesa cattolica

A partire dalla fine della 2a​​ guerra mondiale la Germania è divisa in due stati separati. A causa della diversa struttura sociale e politica, anche la C. e l’IR hanno seguito uno sviluppo diverso. Occorre presentarli separatamente.

I. IR e C. nella ReP. FeD. della germania a partire dal 1945

1.​​ Storia dell’IR scolastico a partire dal 1945.

a) Nello stato nazista l’IR fu tolto dalla scuola e venne sostituito da ore di pastorale dei fanciulli nell’ambito delle parrocchie. Dopo il 1945 l’IR è nuovamente in tutte le scuole. Giuridicamente l’IR è fondato nell’art. 7 della Costituzione (23-5-1949): “L’intera istituzione scolastica è sotto il controllo dello Stato” (7.1). “I responsabili dell’educazione hanno il diritto di decidere la partecipazione del fanciullo all’IR” (7.2). “In tutte le scuole pubbliche, ad eccezione di quelle aconfessionali, l’IR è materia ordinaria. Nel rispetto del controllo da parte dello Stato, l’IR è secondo i principi delle comunità religiose. Nessun insegnante può essere costretto contro la propria volontà all’IR” (7.3). Anche se l’IR, in continuità con la Costituzione di Weimar del 1919, è considerato materia ordinaria, lo studente, tramite i genitori se è sotto i 14 anni, ha il diritto dell’esonero. L’IR può determinare il passaggio a un’altra classe e può perfino essere scelto come materia per la maturità. Nelle scuole pubbliche l’IR è integrato nella struttura scolastica statale. Le Chiese però rimangono corresponsabili per i contenuti e le finalità dell’IR. Esse concedono il nulla osta per l’introduzione di programmi e per la pubblicazione di mezzi didattici. L’insegnante di religione può insegnare tale materia solamente quando ha ottenuto dal vescovo competente la “missio canonica”, vale a dire “l’incarico di un insegnamento ufficiale in nome della Chiesa”. Sulla base del cit. art. 7.3 della Costituzione, l’IR ha carattere confessionale. L’interpretazione di questo art. da parte dei giuristi non è però univoca, ed ha portato a diverse concezioni dell’IR. Il punto di vista cattolico è formulato nel Decreto del Sinodo di Wiirzburg:​​ L’insegnamento della religione nella scuola​​ (1974). Secondo questo documento occorre che “nell’IR nella scuola pubblica gli insegnanti, la dottrina e, normalmente, anche gli allievi appartengano a una confessione” (2.7.4). Nella prassi della scuola non è più possibile sostenere i tre punti richiesti, per es. nel liceo oppure nella diaspora.

b) La fase della ricostruzione dell’IR confessionale dopo il 1945 si è svolta totalmente nel segno del “rinnovamento kerygmatico dei contenuti”. Gli impulsi determinanti vennero dalla teologia dell’annuncio (H. Rahner et al.). Il libro di J. A. Jungmann,​​ Die Frohbotschaft und unsere Glaubensver kündigung,​​ pubblicato nel 1936, è stata la scintilla iniziale per mettere in moto il rinnovamento kerygmatico dei contenuti della pedagogia religiosa In questo contesto l’IR è concepito come C. o come insegnamento della fede. Al centro non si trovano più, come era ancora nei primi vent’anni di questo secolo, i metodi, bensì i contenuti. Gesù Cristo come salvatore e la storia della salvezza funzionano come principi di concentrazione dell’insegnamento religioso.

Questa concezione della pedagogia religiosa si è condensata in nuove → Bibbie scolastiche (p. es. il​​ Reich-Gottes-Bibel​​ del 1957), nel →​​ Catechismo Cattolico​​ del 1955, nel​​ Rahmenplan​​ (programma-quadro) per l’insegnamento della fede del 1967. Questo programma concepisce l’IR come annuncio e come iniziazione alla Chiesa; esso costituisce il punto culminante, e nello stesso tempo l’ultimo atto della C. kerygmatica. A causa di questa concezione, l’IR è venuto a trovarsi in una profonda crisi nell’ambito di una scuola pluralistica: era sentito come Chiesa nella scuola e quindi come corpo estraneo nel canone delle materie scolastiche.

c) Verso la fine degli anni ’50, al tradizionale “insegnamento della storia sacra”, con il suo metodo di strumentalizzazione cat., subentra l’insegnamento della Bibbia, che attribuisce anche una importanza decisiva alla figura linguistica della Scrittura. I metodi e i risultati della esegesi critica vengono sempre più introdotti nell’IR; si tiene comunque conto del punto di maturazione in cui gli studenti si trovano. La spiegazione della Bibbia a partire da testi biblici è proclamata in forma così esclusiva come principio didattico fondamentale, che H.​​ Halbfas poté​​ caratterizzare l’IR cristiano come essenzialmente biblico​​ LFundamentalkatechetik).​​ Il dilemma dell’IR ermeneutico consiste nel fatto che, da un lato, intende essere un insegnamento impostato secondo i principi didattici generali, da un altro lato postula comunque come finalità dell’IR “l’iniziazione all’incontro credente con la Parola di Dio” (G.​​ Stachel).

Verso la fine degli anni ’60 si fece sempre più insistente la critica all’indirizzo del “katechetischer Exegetismus”. Già nel 1966 H. B.​​ Kaufmann​​ (evangelico, prof, di pedagogia religiosa ) formulò la domanda critica: “La Bibbia deve essere al centro dell’IR?”. In questo modo si introdusse una nuova epoca nella concezione dell’IR, che sarà nel segno del cosiddetto “Problemorientierter Religionsunterricht”​​ (IR a partire da problemi).

d) Dal Concilio Vaticano II viene accolta l’apertura antropologica, già preparata da K. Rahner ed altri teologi. Assai presto essa fu accolta anche dalla pedagogia religiosa e dalla catechetica. In tal modo è l’uomo in quanto destinatario della rivelazione che viene a trovarsi al centro dei processi di apprendimento religioso. La fede viene ora concepita come offerta di umanità nel nostro mondo contemporaneo. L’educazione religiosa può dare un contributo decisivo al raggiungimento di questo fine (A. Exeler). La svolta antropologica applicata all’IR fa sì che si presti maggiore attenzione all’allievo; viene ora richiesto uno “Schülerorientierter Religionsunterricht”​​ (IR orientato verso l’allievo). Nella teoria curricolare, proveniente dall’ambito anglosassone, presto accolta anche nell’IR, il punto di partenza non sono più i contenuti, ma le situazioni di vita dell’allievo. L’insegnamento deve qualificare l’allievo per confrontarsi con le situazioni attuali e future della vita. Gli obiettivi diventano prioritari rispetto a contenuti e metodi. Se finora i contenuti venivano desunti dalle corrispondenti discipline scientifiche, adesso invece vengono determinati prioritariamente in riferimento al mondo vitale dell’allievo.

La domanda fondamentale suona: Come ricollegare le esperienze dell’allievo di oggi con le esperienze di fede della tradizione cristiana? (Didattica della → correlazione). In questo contesto il Decreto del Sinodo di Wiirzburg sull’IR (1974) assume una posizione chiave. L’IR è concepito come materia scolastica, fondata sia dal punto di vista pedagogico che teologico, corrispondente ai comuni interessi della scuola e della Chiesa. La gamma degli obiettivi dell’IR prospettati in questo documento deve servire “per dare una più chiara identità dell’allievo e offrire orientamenti per decidersi di fronte alla fede e per impostare la propria vita” (2.5.2). Il modello della convergenza proposto dal Sinodo (IR nel punto d’incontro tra fondazione antropologico-pedagogica e teologico-critica) ha contribuito in modo determinante al consolidamento dell’IR nella scuola e ad una crescente stima nella vita pubblica.

Anche i due → “Zielfelderplàne” (programmi di aree di obiettivi), pubblicati dal DKV rispettivamente per la secondaria inferiore (1973) e per la scuola elementare (1977) hanno dato un contributo non indifferente alla rinnovata stima dell’IR. Questi programmi seguono il metodo degli obiettivi didattici e prendono sul serio le esperienze degli studenti. Sulla base di questi programmi sono stati realizzati negli anni successivi altri programmi-quadro regionali. Così pure materiali didattici, in parte anche di alto livello didattico. Per l’insegnamento della Bibbia la Conferenza episcopale tedesca ha pubblicato a partire dal 1979 una​​ Bibbia per la scuola elementare​​ (→ Bibbia per la scuola) e una​​ Bibbia per ragazzi​​ dai 10 ai 14 anni. Va però notato che la loro funzione didattica è molto discussa. L’insegnante di religione dispone attualmente di una offerta di materiali didattici enormemente estesa, che gli rende difficile la scelta. È vero che tutti i materiali recenti per l’IR si preoccupano dei “rapporti reciproci, critici e produttivi, tra la tradizione della fede e le nuove esperienze” (F. J. Nocke), occorre però aggiungere che finora praticamente non vi sono modelli di una correlazione didattica veramente riuscita. Questo vale anche per il​​ Grundlagenplan​​ (Programma di base) pubblicato nel 1984 per l’IR dalla 5a​​ alla 10a​​ classe, in sostituzione del Zielfelderplan del 1973. L’attuale IR nella scuola continua a soffrire sotto un flusso di parole e una grande quantità di testi. Perciò la richiesta di un maggiore uso di elementi non verbali nell’IR diventa sempre più forte.

Più decisivo ancora è l’insegnante di religione in quanto persona. A lui si attribuisce la funzione di testimone; anzi, la sua attività viene interpretata come “servizio pastorale”. Attualmente si delinea con sempre maggiore chiarezza la tendenza ad invertire la marcia rispetto allo sviluppo che l’IR ha conosciuto negli ultimi 10-15 anni. Appellandosi ai recenti documenti romani, si insiste nuovamente sulla completezza della dottrina, e viene richiesta una struttura sistematica della C. L’IR deve ricuperare la sua funzione cat., vale a dire deve iniziare alla fede e introdurre alla Chiesa. I contenuti devono nuovamente essere prioritari rispetto agli obiettivi; occorre di nuovo imparare, e perfino imparare a memoria, poiché il sapere religioso dello studente al termine della scuola è spaventosamente basso. E così la richiesta di un Catechismo diventa sempre più forte anche se le esperienze con i due catechismi (Botschait des Glaubens,​​ del 1978, e​​ Grundriss des Glaubens,​​ del 1980) nell’ambito della scuola sono tutt’altro che positive. Il problema più grave con il quale si vede attualmente confrontato l’insegnante di religione è la crescente indifferenza religiosa della maggior parte degli studenti. Rompere questa indifferenza sarà il compito più urgente dell’insegnamento religioso.

e) Per la trasmissione della fede nell’ambito della scuola l’IR deve fare i conti con la composizione eterogenea degli allievi e con i limiti didattici inerenti all’apprendimento religioso. I limiti sono tali da rendere indispensabile una offerta integrativa rispetto all’IR. Già il Sinodo di Wiirzburg aveva constatato: “L’IR nella scuola pubblica non è in grado di fare tutto ciò che è richiesto dall’educazione della fede. Esso deve essere integrato da strutture extrascolastiche per studenti interessati” (3.9). In alcune scuole pubbliche, ma soprattutto nelle scuole cattoliche, i responsabili della pastorale della scuola offrono, fuori dell’orario scolastico, agli studenti, ai genitori e agli insegnanti alcune altre iniziative: gruppi di discussione, gruppi di lavoro; giornate di ritiro, celebrazioni liturgiche. La funzione del pastore scolastico non è legata inseparabilmente alla persona dell’ecclesiastico; anche laici possono assumere questa funzione. L’organizzazione della pastorale della scuola nella Rep. Fed. della Germania è ancora agli inizi, e la maggior parte delle scuole non conoscono questa istituzione.

2.​​ L'origine della C. parrocchiale nella R.F.G. a partire dal 1945.​​ Per C. parrocchiale intendiamo l’insegnamento della fede affidato alla parrocchia e rivolto a tutte le fasce di età. Infatti l’apprendimento religioso costituisce un processo che dura tutta la vita. Impulsi significativi per il lavoro cat. nelle parrocchie sono scaturiti, contrariamente alle aspettative, dal documento di lavoro del Sinodo​​ Das​​ katechetische Wirken der Kirche​​ (L’azione cat. della Chiesa). In questo documento di lavoro la C. è caratterizzata come funzione dell’intera parrocchia. Quest’ultima non è soltanto destinataria ma anche soggetto del servizio cat. Fine supremo della C. nella prospettiva del Sinodo è “aiutare l’uomo affinché, ascoltando Dio e rispondendo al suo appello, riesca nella sua vita. Colui che è desideroso di credere deve trovare nella C. un mezzo per giungere a una fede riflessa, capace di modellare la sua esistenza” (3. e 3.1).

Al centro delle attività cat. deve trovarsi la formazione degli adulti. Un’attenzione particolare merita la C. dei genitori. Finora però non si è riusciti a coinvolgere adeguatamente i genitori in una C. sistematica. Anche le offerte di formazione teologica degli adulti non hanno trovato finora la ampia risonanza che si sperava. Il punto gravitazionale della C. parrocchiale è ancora l’iniziazione dei fanciulli alla penitenza, all’eucaristia e alla confermazione. Nella maggior parte delle parrocchie vi sono inoltre messe per fanciulli e messe per famiglie; la loro organizzazione è in larga misura nelle mani di collaboratori laici (catecheti). La riscoperta della comunità come vero luogo della C. ha fatto nascere molti carismi cat. tra i membri della parrocchia, il che ha conferito una nuova vitalità alla medesima. Finora non è soddisfacente la collaborazione tra IR e C. parrocchiale. I due luoghi dell’apprendimento religioso esistono in larga misura l’uno accanto all’altro, senza che si giunga a fruttuosa collaborazione; da ambedue le parti c’è troppa paura del contatto. C’è però il rischio che la parrocchia spenda tutte le forze ed energie nella organizzazione della C. parrocchiale e non si senta corresponsabile anche per l’IR nella scuola.

II. Sviluppo della C. e dell’IR nella DDR a partire dal 1945

Un andamento molto diverso ha seguito l’insegnamento della fede nella Chiesa cattolica della Germania dell’Est, alle prese con uno stato socialista e ateo, il quale ha scritto nella sua bandiera: “Lotta senza compromessi contro tutte le manifestazioni di ideologia borghese” (Statuì der Sozial. Einheitspartei Deutschlands. Praambel, Berlin, 19763, 5). Questa ideologia borghese comprende soprattutto la religione, che il marxismo intende superare, per superare l’alienazione dell’uomo. Teoricamente la Costituzione garantisce “libertà di fede e libertà di coscienza” (Verfassung der DDR, art. 20), ma la Chiesa nella parte orientale della Germania non gode le stesse libertà democratiche che sono presenti in Occidente. Di conseguenza essa è costretta a costruire un proprio sistema di educazione religiosa Poiché la scuola nella DDR considera quale finalità degli interventi pedagogici “l’educazione comunista della gioventù”, è ovvio che non ci può e non ci deve essere alcun IR nella scuola. Perciò tutti i processi di educazione religiosa si sono trasferiti nell’ambito delle circa 1000 parrocchie e centri pastorali delle sei circoscrizioni giuridiche della DDR, e quindi la distinzione corrente nella Rep. Fed. della Germania tra IR e C. parrocchiale viene meno.

L’IR organizzato dalle parrocchie ha nello stesso tempo finalità cat., vale a dire: insegnamento e annuncio coincidono. La C. parrocchiale si fa una volta la settimana ed è divisa secondo anni scolastici fino alla​​ 10a​​ classe. Si orienta su un programma-quadro comune e obbligatorio. I materiali per realizzarlo sono però molto scarsi e vengono pubblicati presso il St. Benno-Verlag, Leipzig. Esiste una antologia biblica​​ Gotteswort​​ (Parola di Dio) per la C. biblica. Per il primo anno della scuola elementare c’è un testo di religione con il titolo​​ Kinder Gottes​​ (Figli di Dio), al quale dovranno seguirne altri. Per la C. della fede nella scuola secondaria è uscito nel 1984 una redazione adattata del catechismo​​ Grundriss des Glaubens, e​​ per la​​ 9a​​ e​​ 10a​​ classe ci si serve del libro​​ Glaube aktuell​​ (Fede oggi).

In molte parrocchie c’è un’attività cat. per i bambini della scuola materna; essa è affidata a una educatrice, una assistente pastorale o una madre di famiglia; la​​ Caritas​​ ha messo a disposizione materiali didattici per questa C.

Di grande rilievo per la educazione religiosa sono le cosiddette Settimane religiose per fanciulli (RKW), organizzate praticamente in tutte le parrocchie della DDR durante le vacanze estive. Esse sono una componente stabile della pastorale dei fanciulli, ed offrono la possibilità di incontrare una volta all’anno i fanciulli fino alla​​ 7a​​ classe, e di fare con loro un discorso religioso molto intensivo. Per l’organizzazione di queste settimane vi sono ampie guide, seguite in tutte le parrocchie, con riflessioni, stimoli metodici, abbozzi di celebrazioni liturgiche in riferimento alla tematica globale della settimana. Mamme senza professione, studenti di teologia, tirocinanti della scuola materna collaborano per la realizzazione di queste settimane.

In alcune parrocchie si cerca una continuazione delle RKW realizzando settimane religiose per ragazze e ragazzi della​​ 9a​​ e​​ 10a​​ classe. Anche le messe per fanciulli ogni domenica e/oppure le messe per famiglie rivestono una importante funzione cat.; accanto all’IR settimanale e le settimane estive costituiscono un valido contributo aU’insieme della educazione della fede nella Chiesa cattolica della DDR. Rispetto alla Germania occidentale la partecipazione dei laici è piuttosto scarsa; alcune madri di famiglia sono occasionalmente coinvolte nella preparazione alla prima comunione; per la C. della confermazione in molti posti vi sono giovani e adulti che aiutano come animatori di gruppi della confermazione (cf A.​​ Althammer,​​ La trasmissione della fede nella Repubblica democratica tedesca,​​ in “Concilium” 20 [1984] 4, 161-173 [711-723]).

Bibliografia

G. Baudier,​​ Germania​​ R.​​ F.,​​ in​​ Scuola e religione,​​ vol. 1:​​ Una ricerca internazionale,​​ Leumann-Torino, LDC, 1971, 191-263;​​ Das​​ katechetische​​ Wirken der Kirche,​​ in​​ Gemeinsame Synode der Bistümer in der BRD. Offizielle Gesamtausgabe,​​ vol.​​ 2, Freiburg, Herder, 1977, 31-97;​​ Der Religionsunterricht in der Schule,​​ ibid.,​​ vol.​​ 1, 19762, 113-152 (trad. ital.:​​ Scuola e insegnamento​​ della​​ religione,​​ Leumann-Torino, LDC, 1977);​​ D.​​ Emeis – K. H. Schmitt,​​ Grundkurs Gemeindekatechese,​​ Freiburg, Herder, 19832; W. G. Esser (ed.),​​ Zum Religionsunterricht morgen,​​ 5​​ vol.,​​ München-Wuppertal, 1970-1975; E. Feifel et al. (ed.),​​ Handbuch der Religionspädagogik,​​ 3​​ vol.,​​ Gütersloh, G. Mohn, 1973-1975;​​ Grundlagenplan für den katholischen Religionsunterricht im 5. bis 10. Schuljahr.​​ Revidierter Zielfelderplan, München, DKV, 1984; H. Halbfas,​​ Fundamentalkatechetik,​​ Düsseldorf, Patmos, 1968 (trad. it.​​ parziale​​ della prima ediz.:​​ Linguaggio​​ ed​​ esperienza nell’insegnamento​​ della​​ religione,​​ Roma-Brescia, Herder-Morcelliana, 1970); W. Nastainczyk,​​ Katechetik. Grundfragen und Grundformen,​​ UTB 1245, Paderborn 1983; K. Wegenast,​​ Religionspädagogik,​​ vol.​​ 2:​​ Der katholische Weg,​​ Darmstadt 1983;​​ Zielfelderplan für den katholischen Religionsunterricht der Schuljahre 5-10​​ (Sek. I).​​ Grundlegung,​​ München, DKV, 1973;​​ Zielfelderplan für den katholischen Religionsunterricht in der Grundschule. Grundlegung,​​ München, DKV, 1977.

3.​​ Deutscher Katecheten Verein.

Ralph Sauer

II.​​ Chiesa evangelica

1.​​ La politica della RFG prevede, accanto alla C. in senso stretto, organizzata dalla Chiesa (per es. sotto forma di C. in vista della confermazione o di servizio religioso per fanciulli), anche l’IR scolastico. L’IR, “materia ordinaria” nella scuola pubblica, è separato secondo le confessioni e gestito in collaborazione fra Stato e Chiesa. Per quanto riguarda i contenuti e i metodi, molti concepiscono (in modo piuttosto pragmatico) la C. in riferimento alla dottrina della Chiesa e alla vita parrocchiale, mentre l’IR viene visto in riferimento al compito formativo della scuola.

2.​​ In pratica però si verificano a volte delle sovrapposizioni. Dal 1945 al 1965, sia la C. che l’IR sono stati caratterizzati soprattutto dalla “Evangelische Unterweisung” (insegnamento evangelico) che aveva un orientamento prevalentemente biblico ed ecclesiastico. Questo avveniva già nel 1900 circa, nella pedagogia religiosa del “protestantesimo culturale” col suo tentativo di trasmettere la religione attraverso la formazione scolastica e la cultura. Anche il cosiddetto “Hermeneutischer​​ RU” (IR ermeneutico) degli anni ’60, che si interessava maggiormente alla “comprensione” della tradizione biblica e si voleva prudentemente distanziare dalla Chiesa, non fece una distinzione di principio tra C. e IR.

3.​​ A metà degli anni ’60, più per motivi derivanti dalla politica dell’istruzione e dalla filosofia sociale e meno per motivi di natura pedagogica e teologica, si cercò di distinguere maggiormente tra C. e IR. Si voleva che nell’ → IR di una “scuola per tutti”, al posto di una interpretazione della religione a partire da una teologia confessionale, subentrasse un concetto di religione piuttosto antropologico e sociologico (“religione” come fenomeno “generale”, che riguarda tutti gli esseri umani). Invece di un orientamento basato sulla Bibbia o eventualmente sulla tradizione, l’IR doveva avere “un orientamento basato su problemi”. Con ciò si intendeva dire che si sarebbe dovuto partire soprattutto dai problemi socio-politici: la “fede cristiana” era quindi considerata soltanto come “potenziale di soluzioni” accanto ai contributi delle altre religioni e alle concezioni del mondo. Insieme a idee dell’illuminismo dei sec. XVIII e XIX, impulsi derivanti dal neomarxismo determinavano queste concezioni “emancipatone”, che poi si ripercuotevano anche sulla C.

Comunque, sia per la C., sia per l’IR, l’educazione religiosa non doveva più essere un inserimento vitale nella tradizione cristiana, ma soprattutto elaborazione critica della “socializzazione religiosa” finora ricevuta (per es. il “Therapeutischer RU”, IR terapeutico), una critica alla tradizione religiosa come tale e in ultima analisi alla stessa società. L’”emancipazione” come categoria centrale accostava sia la C. che l’IR ad un insegnamento politico critico verso la società. Se una volta erano principalmente la teologia, la filosofia e la psicologia le “scienze-guida” dell’IR e della C., ora invece subentrano la sociologia (soprattutto nel suo aspetto socio-filosofico) e la politologia. L’”educazione” è intesa come → “socializzazione”.

4.​​ Negli anni ’70 ci si accorse che un “concetto generale di religione”, che prescindeva dalla tradizione cristiano-confessionale, era una costruzione antistorica. Nell’ambito della nostra cultura la “religione” è inseparabile dalla tradizione cristiana. Si dovette anche riconoscere che una “teoria della socializzazione” con carattere universale e vincolante non esiste. Vi è soltanto una quantità di concezioni e di programmi dipendenti dalle diverse scienze di riferimento (per es. → sociologia, psicologia, psicologia sociale, psicanalisi, ecc.).

Per uscire da queste aporie si fece sempre più uso, negli anni ’70, anche nella C. protestante, del concetto di → “esperienza”. Il termine “esperienza” ha però diversi significati. Per questo è decisivo sapere a partire da quale scienza l’esperienza viene compresa. Non è per nulla chiaro quale rapporto hanno fra loro l’esperienza umana, l’esperienza religiosa, l’esperienza biblica. Si constata per es. che nella teologia e nella C. dei cattolici romani e degli anglosassoni vi è un passaggio continuo dall’antropologia alla teologia e dalla religione alla rivelazione cristiana. Nel protestantesimo invece si trovano modelli che preferibilmente insistono sulla differenza (per es., una più netta distinzione tra rivelazione ed esperienza).

5.​​ Fra i tentativi di trovare mediazioni fra rivelazione ed esperienza va segnalato anche il ritorno, nella C. e nell’IR, a modelli ricavati dalla psicologia dell’ → età evolutiva. La psicologia evolutiva, costruita sulla falsariga dello sviluppo biologico (teoria delle fasi) e rifiutata soprattutto dalla pedagogia di matrice sociologica, si è ulteriormente sviluppata nella cosiddetta “analisi biografica”. Teorie molto complesse si fanno strada. Per es., si cerca di mettere in collegamento una psicologia evolutiva di tendenza psicanalitica, che si ispira a Freud, con concetti di psicologia cognitiva (per es. Jean Piaget), costruendo su questa base modelli di apprendimento morale utili per l’IR. Finora però non si è giunti a progettare una teoria dell’IR o della C. basata su questa psicologia evolutiva, che abbia ottenuto un riconoscimento universale. Ci si può chiedere se a questo fine sia utile per es. l’interpretazione della religione come “ricerca di senso”.

6.​​ In non poche concezioni della C. e dell’IR la categoria → “senso” non appare soltanto come un semplice concetto appartenente all’antropologia, alla psicologia o alla teoria sistematica ma come “cifra” per indicare Dio. È probabile che questo uso linguistico risalga alla filosofia della religione di Paul Tillich. Per lo meno si può dire che in questo modo si cerca (fra l’altro anche per motivi di legittimazione) di usare la ricerca di senso come mediazione fra tradizione e mondo contemporaneo, e di fondare un concetto di “religione” che non coincida necessariamente con quello tradizionale cristiano. Il termine “senso”, come “cifra” per indicare Dio o il problema di Dio, deriva in primo luogo dall’”illuminismo sociologico”, secondo il quale il “senso” non è immanente al mondo, né gli è stato dato da Dio fin dal principio, ma deve primariamente essere creato dall’azione umana. È anche noto che la ricerca di senso è connessa con la problematica del nichilismo tematizzata per es. da F. Nietzsche.

7.​​ Il “Konfirmandenunterricht” (KU, preparazione in vista della → confermazione) è una delle componenti principali dell’educazione religiosa evangelica. Ha dietro di sé una storia tormentata: ogni epoca ha proiettato su di essa valori e norme teologici, pedagogici e sociali, come pure il suo modo di sentire e le sue forme di pietà e di vita. Nella prospettiva storica troviamo diversi filoni tradizionali che si sono mescolati fra loro: il modello dottrinale del KU (insegnamento del catechismo), il modello ecclesiologico (iniziazione pratica alla dottrina e alla vita della Chiesa e della comunità), il modello personale (cura d’anime e rinnovamento delle promesse battesimali) e il modello confessionale (confermare la propria appartenenza alla Chiesa). Oggi si presentano ulteriori forme: il modello socio-pedagogico (sostegno nella socializzazione, orientamento negli stati di bisogno), il modello pastorale, nel senso di una cura d’anime che consiglia e accoglie (esperienza di sé, identità personale) e il modello parrocchiale (la comunità locale come luogo di esperienza e di apprendimento).

Tutte queste tendenze accostano il KU allo Jugendarbeit (movimenti-attività giovanili) della Chiesa. Proprio in questo il KU si deve distinguere dall’IR. Molto spesso però si dimentica in tutto ciò che IR, KU e movimenti giovanili sono determinati da condizionamenti sociali, da strutture di comunicazione e da forme organizzative diverse che non possono essere confuse tra loro. Il KU non potrà rinunciare all’insegnamento nel senso stretto del termine con la sua accentuazione dell’aspetto cognitivo (dottrina): introduzione alla Bibbia, catechismo, innario, nozioni ecclesiastiche, liturgia e diakonia ne sono componenti centrali. Non è possibile sostituirli arbitrariamente con altri elementi. A differenza dell’IR, il KU ha la possibilità, per es. attraverso giornate di ritiro, preparazione comunitaria del Servizio religioso e attività pratiche, di avviare più intensamente alla vita della comunità cristiana. Questo praticamente non è possibile nell’IR scolastico.

Inoltre, è importante lo stretto collegamento fra KU e pastorale dei genitori: sostegno del KU suscitando l’interesse dei genitori, confrontandoli nuovamente con i problemi della fede cristiana e usando la pastorale della Confermazione come mezzo di sviluppo della comunità. Nuovi regolamenti per il KU prevedono anche l’attiva partecipazione di altri collaboratori della comunità che non sia il pastore (per es. anche dei genitori). Questo dovrebbe permettere di controbilanciare la tradizionale tendenza del pastore ad accentrare a sé il KU. In questo sviluppo vi sono interessanti paralleli con la preparazione alla prima Comunione e alla C. per la → confermazione nella Chiesa cattolica romana.

Per quanto riguarda il “Servizio religioso per fanciulli”, va notato che esso fra l’altro risale alla tradizione dell’insegnamento del catechismo e della cosiddetta → scuola domenicale, avendo come fine un’opera missionario-cat. della Chiesa verso i fanciulli. Nel corso del tempo il Servizio religioso per fanciulli ha subito diverse trasformazioni. L’arco va dall’iniziazione al Servizio religioso per adulti, da un insegnamento a gruppi secondo l’età del fanciullo, da una predicazione per fanciulli, fino a tentativi di introdurre certe forme di lavoro fra i giovani (per es. giochi e attività manuali) nel Servizio religioso per fanciulli. Nel frattempo sembra che l’elemento cultuale guadagni terreno. Non soltanto nella Chiesa evangelica tedesca si sta diffondendo la “Santa Cena con i fanciulli”. A differenza della “Santa Cena per i fanciulli”, si tratta del fatto che i fanciulli insieme ai genitori e ai padrini partecipano alla Santa Cena già prima della Confermazione, che finora era il presupposto per l’ammissione alla Santa Cena. Ad ogni modo la partecipazione al Sacramento dell’altare presuppone “conoscenza e intendimento”. In che modo tale preparazione debba farsi non è ancora chiarito.

Una forma ulteriore di C. è costituita dal “Servizio religioso per famiglie”, nel quale si cerca di introdurre elementi del Servizio religioso per fanciulli in quello per adulti, per giungere in tal modo ad una celebrazione in comune.

8.​​ La discussione riguardante la riforma della C., nel senso più ampio della parola, ha messo in luce che l’educazione cristiana non può essere un compito limitato ad alcune occasioni. I processi di apprendimento religioso richiedono un lungo periodo di tempo. Accanto all’apprendimento cognitivo è importante l’avvio alla sua messa in pratica. Una siffatta educazione dipende sempre dalla collaborazione di diverse istituzioni educative e di diversi luoghi di apprendimento. Famiglia, scuola materna, IR, Servizio religioso per fanciulli, KU, attività giovanili e formazione per adulti sono chiamati tutti a collaborare per raggiungere il fine della C. cristiana evangelica. In tutto ciò sono importanti collaboratori convinti del messaggio di Cristo e disposti a trasmetterlo ai giovani, tenendo conto dei principi fondamentali della pedagogia e della psicologia. Importanti sono le comunità cristiane viventi, nelle quali è possibile sperimentare nella pratica ciò che viene appreso nella C.

Bibliografia

Chr.​​ Bäumler –​​ H. Luther (ed.),​​ Konfirma:denunterricht und Konfirmation,​​ München, 1982; K. Dienst,​​ Moderne Formen des Konfirmandenunterrichts,​​ Gütersloh, 1973; In.,​​ Religions und Konfirmandenunterricht,​​ in “Der Evangelische Erzieher” 26 (1974) 1-10; In.,​​ Die lehrbare Religion. Theologie und Pädagogik: Eine Zwischenbilanz,​​ Gütersloh, 1976, 19782; Id.,​​ Glaube – Religiöse Erfahrung – Erziehung,​​ Gütersloh, 1979; H. – J. Fraas,​​ Glaube und Identität. Grundlegung einer Didaktik religioser Lernprozesse,​​ Göttingen, 1983; K. Frör,​​ Grundriss der Religionspädagogik,​​ Konstanz, 1975, 19832; H. Grosch,​​ Religionspädagogik am Scheideweg,​​ Gütersloh, 1974; W. F. Kasch (ed.),​​ Ökumenische Bibliographie,​​ Paderborn, 1976; Id. (ed.),​​ Entchristlichung und religiöse Desozialisation,​​ Paderborn, 1978;​​ K.​​ E. Nipkow,​​ Grundfragen der Religionspädagogik,​​ 3​​ vol.,​​ Gütersloh, 1975-1982; R. Preul,​​ Religion – Bildung – Sozialisation,​​ Gütersloh, 1980; H. Schmidt,​​ Religionsdidaktik,​​ vol.​​ I, Stuttgart, 1982; Id.,​​ Didaktik des Ethikunterrichts,​​ vol.​​ I, Stuttgart, 1983; D. Stoodt,​​ Einführung in das Studium der evangelischen Religionspädagogik,​​ Göttingen, 1980; K. Wegenast,​​ Religionspädagogik.​​ Vol.​​ I:​​ Der evangelische Weg,​​ Darmstadt, 1981.

Karl Dienst

GERSONE Giovanni

Jean Charlier nacque il 14-12-1363 nel villaggio di Gerson (Champagne), da cui prese il nome, e morì a Lione il 12-7-1429. Fu teologo, politico, mistico. Della sua opera educativa e cat. ricordiamo​​ l’Opus tripartitum de praeceptis decalagi, de confessione et de arte moriendi,​​ e il trattatello​​ De pueris ad Christum trahendis​​ (1402), considerato il più importante scritto di pedagogia religiosa della fine della tarda Scolastica e del periodo mistico.

IdOpus tripartitum​​ (1400-1403) ebbe grandissima diffusione; fu una delle prime opere stampate in francese, e influenzò la C. nei secoli successivi. Il primo libro tratta della fede (che comprende, dopo il Credo, i sacramenti) e del decalogo. Il secondo parla della confessione e offre un ampio esame di coscienza sulla linea dei peccati capitali. Il terzo espone la “scienza del ben morire”. Spesso veniva aggiunto, come quarto, il “Libro di Gesù”, raccolta di preghiere e formule (tra cui quella dei “Precetti della Chiesa”, una delle più antiche formulazioni esistenti). Lo stile era espositivo-narrativo, più vicino al →​​ Catechismo Romano​​ del 1565 che ai catechismi a domande e risposte che si diffusero in Francia dopo quelli di → Calvino e Auger. Offriva (come quello Romano) un modello diverso di fare catechismo, di tipo fondamentalmente orale; il libro è in mano al catechista e non al catechizzando; il catechismo è cosa viva e non testo da imparare a memoria.

Il​​ De pueris...​​ comprendeva quattro capitoli, animati da una appassionata esortazione a occuparsi dell’educazione religiosa dei fanciulli, iniziandoli alla vita cristiana e alla confessione. Le “metodologie” cat., fino al sec. XIX, riprenderanno questo libretto, ponendolo accanto al​​ De catechizandis rudibus​​ di sant’Agostino (per la dottrina e la spiritualità) e completandolo con le disposizioni organizzative di san Carlo Borromeo.

Bibliografia

1.​​ Opere

Oeuvres​​ complètes.​​ Introduction, texte et notes par Mgr. Glorieux, Tournai, Desclée & Cie, 1960ss, 11 vol.;​​ Del​​ dovere di attrarre​​ i​​ fanciulli​​ a​​ Gesù,​​ trad, ital.​​ e commento a cura​​ di L. Locatelli​​ e​​ G. Allegranza, Milano,​​ Ancora,​​ 1945.

2.​​ Studi

J. Combes – L. Mourin –​​ F.​​ Simone, voce​​ Gerson”,​​ in​​ Enciclopedia Cattolica,​​ vol.​​ VI, Città​​ del​​ Vaticano,​​ 1951, 185-191; J.​​ C. Dhôtel,​​ Les origines du catéchisme moderne,​​ Paris,​​ Aubier,​​ 1967, 29-32, 119.

Ubaldo​​ Gianetto

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GERMANIA

GERSONE Giovanni

GERSONE Giovanni

Jean Charlier nacque il 14-12-1363 nel villaggio di Gerson (Champagne), da cui prese il nome, e morì a Lione il 12-7-1429. Fu teologo, politico, mistico. Della sua opera educativa e cat. ricordiamo​​ l’Opus tripartitum de praeceptis decalogi, de confessione et de arte moriendi,​​ e il trattatello​​ De pueris ad Christum trahendis​​ (1402), considerato il più importante scritto di pedagogia religiosa della fine della tarda Scolastica e del periodo mistico.

L’Opus tripartitum​​ (1400-1403) ebbe grandissima diffusione; fu una delle prime opere stampate in francese, e influenzò la C. nei secoli successivi. Il primo libro tratta della fede (che comprende, dopo il Credo, i sacramenti) e del decalogo. Il secondo parla della confessione e offre un ampio esame di coscienza sulla linea dei peccati capitali. Il terzo espone la “scienza del ben morire”. Spesso veniva aggiunto, come quarto, il “Libro di Gesù”, raccolta di preghiere e formule (tra cui quella dei “Precetti della Chiesa”, una delle più antiche formulazioni esistenti). Lo stile era espositivo-narrativo, più vicino al →​​ Catechismo Romano​​ del 1565 che ai catechismi a domande e risposte che si diffusero in Francia dopo quelli di → Calvino e Auger. Offriva (come quello Romano) un modello diverso di fare catechismo, di tipo fondamentalmente orale; il libro è in mano al catechista e non al catechizzando; il catechismo è cosa viva e non testo da imparare a memoria.

Il​​ De pueris...​​ comprendeva quattro capitoli, animati da una appassionata esortazione a occuparsi dell’educazione religiosa dei fanciulli, iniziandoli alla vita cristiana e alla confessione. Le “metodologie” cat., fino al sec. XIX, riprenderanno questo libretto, ponendolo accanto al​​ De catechizandis rudibus​​ di sant’Agostino (per la dottrina e la spiritualità) e completandolo con le disposizioni organizzative di san Carlo Borromeo.

 

Bibliografia

1.​​ Opere

Oeuvres complètes.​​ Introduction, texte et notes par Mgr. Glorieux, Tournai, Desclée & Cie, 1960ss, 11 voi.;​​ Del dovere di attrarre i fanciulli a Gesù,​​ trad. ital. e commento a cura di L.​​ Locatelli​​ e G.​​ Allegranza,​​ Milano, Ancora, 1945.

2.​​ Studi

J. Combes -​​ L.​​ Mourin -​​ F.​​ Simone,​​ voce “Gerson”, in​​ Enciclopedia Cattolica,​​ vol. VI, Città del Vaticano, 1951, 185-191; J. C.​​ Dhótel,​​ Les origines du catéchisme moderne,​​ Paris, Aubier, 1967, 29-32, 119.

Ubaldo Gianetto

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GERSONE Giovanni

GESTALT

​​ 

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Termine ted. che corrisponde al significato di «struttura unitaria», «configurazione armonica». Esso è legato a due correnti di ricerca, nate in periodi e con obiettivi diversi:​​ la psicologia della G.,​​ una scuola teorica tedesca che negli anni Venti ha studiato la percezione, e la​​ psicoterapia della G.,​​ una scuola clinica post-analitica, sviluppatasi negli Stati Uniti negli anni Cinquanta, nell’ambito delle psicoterapie umanistiche. Tuttavia, come vedremo, il fatto che queste due scuole siano accomunate dal nome G. non è casuale.

1.​​ La psicologia della G.​​ La​​ Gestaltpsychologie​​ o Scuola di Berlino si inserisce tra le scuole strutturaliste della percezione, di cui rappresenta sicuramente quella che ebbe il maggiore influsso sullo sviluppo della psicologia (Ronco, 1977, 41ss.). La nascita della psicologia della G. si fa risalire al 1912, quando M. Wertheimer scrisse un articolo in cui identificava un processo percettivo unitario – da lui chiamato fattore «phi» – grazie al quale i singoli stimoli verrebbero integrati, nel soggetto, in una forma dotata di continuità. Ciò significava che quello che prima era stato considerato un processo passivo – il percepire – veniva ad essere pensato come qualcosa di gran lunga più attivo, come un’attività subordinata a certi principi organizzativi generali. Wertheimer intuì che non sono gli stimoli elementari ad essere colti dall’organismo che percepisce ma piuttosto le stesse configurazioni unitarie. In altre parole, per l’organismo che percepisce, l’insieme significativo è lo stimolo (Wertheimer, 1959). Da qui la legge gestaltica per cui il tutto viene prima delle parti. Wertheimer individuò una serie quasi infinita di «leggi» sul funzionamento delle G. percettive, la più importante delle quali è la​​ legge della pregnanza:​​ ciò che viene percepito contiene una forma organizzata che è​​ la migliore possibile,​​ in date condizioni ambientali, ossia risponde ad un principio di economia dell’organizzazione (il massimo dell’informazione nella struttura più semplice). Gli psicologi della G. si impegnarono in ricerche approfondite che potessero validare le loro intuizioni sul processo percettivo e, in questo percorso, il loro modello si spostò verso una accentuazione dei fattori interni all’organismo nella formazione delle G., allontanandosi dalla prospettiva originaria di Wertheimer sulla possibilità di quantificare oggettivamente, nell’ambiente, le «buone G.». Il contributo di​​ ​​ Lewin portò la psicologia della G. fuori del laboratorio, nella realtà molto più complessa della vita quotidiana, che egli considerò come «il campo» in cui l’individuo si muove per raggiungere i propri obiettivi. Il campo percettivo è per Lewin una sorta di sfondo, di mappa mentale da cui emergono di volta in volta figure nuove, che poi ritornano nello sfondo per lasciare il posto ad altre figure, percepite dall’organismo come rilevanti per il raggiungimento dei propri scopi. Ciò implica che uno stesso oggetto può essere percepito con significati diversi a seconda degli obiettivi o del bisogno che l’individuo avverte in quel momento, così come essi interagiscono con il contesto situazionale in cui sono inseriti. In altre parole, per Lewin (1935)​​ il bisogno organizza il campo.​​ Queste intuizioni di Lewin diedero il via a una serie di ricerche sul​​ ​​ problem solving​​ (che diventava il paradigma di tutta l’attività cognitiva del soggetto) e sul concetto correlato di​​ insight​​ (Köhler, 1947), così importante per la psicoterapia, nonché sul «carattere di richiesta» delle situazioni incompiute (Zeigarnik, 1927). Un’ulteriore elaborazione della psicologia della G. dal punto di vista dello sviluppo di una teoria della personalità e della psicoterapia fu il contributo del neurologo K. Goldstein, del quale fu assistente di laboratorio per un breve periodo F. Perls, che poi avrebbe fondato la psicoterapia della G. Goldstein, come Lewin e Perls, fu al fronte durante la Prima Guerra Mondiale e molte delle sue ricerche furono condotte su ex-combattenti con danni cerebrali. Questi studi condussero Goldstein ad affermare che il comportamento è organizzato in modo da coinvolgere sempre l’intero organismo (Goldstein, 1939; 1940). L’unico impulso o istinto di cui si possa parlare nel comportamento umano è l’impulso a interagire con l’ambiente e a organizzare quella interazione in schemi. Goldstein affermò ciò con forza, opponendosi alla tendenza meccanicistica che caratterizzava alcuni studi psicologici, non ultimo il modello freudiano, e che vedevano nella riduzione della tensione il fine ultimo del comportamento umano. Goldstein chiamò​​ impulso all’auto-attualizzazione​​ questo unico vero impulso, che organizza tutti gli altri pseudo-impulsi e comportamenti dell’organismo in modo gerarchico.

2.​​ La psicoterapia della G.​​ La psicoterapia della G. si inserisce tra le terapie umanistiche. Nasce a New York, nel 1950 circa, dalle intuizioni di F. Perls, uno psicoanalista ebreo tedesco, emigrato negli anni Quaranta per motivi razziali in Sudafrica e poi negli Stati Uniti, e per opera di un gruppo di intellettuali statunitensi, profondi conoscitori della psicoanalisi, che elaborò le intuizioni di Perls. Questi, insoddisfatto della teoria freudiana dell’Io, intuì che l’introiezione termina il proprio compito evolutivo fondamentale molto prima di quanto avesse teorizzato​​ ​​ Freud e indicò nello sviluppo dei denti (fase dentale)​​ l’evidenza fisiologica di tutto ciò. La capacità di masticare e di mordere che nasce nell’organismo con lo sviluppo dentale dà assoluto rilievo all’aggressività in un momento evolutivo significativamente anteriore a quello teorizzato da Freud. Inoltre, l’aggressività stessa venne intesa da Perls in termini positivi, di sopravvivenza e di crescita fisica ed esistenziale dell’organismo. In questo senso il pensiero di Perls si poneva quale modalità di superamento del dualismo presente nella metapsicologia freudiana tra impulsi dell’individuo e necessità dell’organizzazione sociale. Infatti, dal momento che l’individuo è soggetto che destruttura e ristruttura, gli si apre la possibilità concreta di vivere nel proprio mondo con pienezza. Le tre parole-chiave del titolo del primo libro di Perls, scritto nel 1945, prima ancora della fondazione della psicoterapia della G. –​​ L’Io,​​ la fame,​​ l’aggressività​​ (Perls, 1995) – sintetizzano la sua critica alla teoria freudiana sulla natura umana: non aver dato il giusto e fondamentale rilievo alla capacità dell’Io di soddisfare i propri bisogni (la fame)​​ attraverso un’attività autoaffermativa (l’aggressività),​​ che gli consente di assimilare o rifiutare l’ambiente, a seconda che esso gli si presenti come nutriente o nocivo. L’Io, la fame, l’aggressività diventarono quindi gli elementi portanti di questo nuovo modello di psicoterapia, i cui fondamenti sono contenuti nell’opera di F. Perls, R. Hefferline e P. Goodman,​​ G. therapy: excitement and growth in the human personality​​ (1951). Alla base di esso c’è la convinzione che ogni esperienza non può che avvenire al confine del contatto tra un organismo animale umano (così si esprimevano, in termini organicistici, i fondatori della psicoterapia della G.) e il suo ambiente. È proprio ciò che avviene in questo confine che è disponibile all’osservazione scientifica e all’eventuale intervento terapeutico. Il processo di contatto tra l’organismo umano e il suo ambiente consente all’individuo di imparare ad orientarsi nel mondo e ad agire su di esso al fine autoconservativo di assimilare la novità​​ ​​ il diverso da sé​​ ​​ e di crescere. Il confine di contatto è pertanto il luogo in cui è possibile mettere insieme la​​ creatività​​ (che esprime l’unicità dell’individuo) con l’adattamento​​ (che esprime la reciprocità necessaria al vivere sociale). Il modo in cui l’individuo fa (o non fa) contatto con il proprio ambiente descrive la sua funzionalità psichica. All’adattamento creativo, inteso come meta dello sviluppo sano dell’individuo, possiamo ricondurre il concetto di maturità in psicoterapia della G. Esso non risponde a un modello univoco di salute (From, 1985), ma consente la modulazione individuale su parametri di autorealizzazione e di accoglienza della novità portata dall’ambiente / altro. I bisogni individuali e quelli comunitari vengono integrati senza il sacrificio «a priori» di nessuno (Perls et al. 1951, 456ss.). Nella psicoterapia della G., quindi, la crescita di una persona verso l’autonomia coincide con la sua capacità di decidersi per l’incontro con l’altro, con il Tu. A livello clinico, dall’intuizione di Perls conseguirono alcune sostanziali differenze nella prassi psicoterapica: si pensi per esempio alla ridefinizione positiva dell’aggressività del paziente, al valore di recupero della spontaneità organismica dato alla capacità di concentrazione, che Perls sostituì alle libere associazioni, alla geniale sostituzione del concetto di causa-effetto con quello di funzione (From, 1985).​​ 

3.​​ Gli sviluppi successivi della teoria e della prassi della psicoterapia della G.​​ sono stati caratterizzati da una varietà di scuole, che si diversificano per il rilievo dato alla teoria del sé in quanto processo di contatto, l’essenziale novità di questo approccio tra le terapie umanistiche. Esse possono essere raggruppate in tre indirizzi: 1) la scuola di New York, rimasta fedele alle intuizioni del gruppo fondatore, le ha sviluppate con contributi teorici e applicazioni cliniche in situazioni di gruppo; 2) il movimento cosiddetto «viscerale», sviluppatosi lungo la costa californiana degli Stati Uniti, in seguito alle dimostrazioni «miracolose» (non supportate da spiegazioni teoriche) fatte da Perls con gruppi di pazienti affascinati dall’uso della drammatizzazione nel setting terapeutico, individua nella consapevolezza lo strumento terapeutico e dà valore alla soggettività, al corpo e alle emozioni nella crescita della persona; 3) infine, la scuola di Cleveland, un orientamento più eclettico che si focalizza sulla creazione di un linguaggio comune anche ad altri approcci terapeutici e su applicazioni a vari campi del sociale, come la consulenza aziendale. Da un punto di vista critico, l’avere intuito l’apporto creativo e significante che la forza aggressiva dell’organismo dà alle relazioni umane ha sostenuto nei primi decenni un clima teorico improntato spesso a una ribellione fine a se stessa, che ha minato significativamente l’adesione unanime ai paradigmi originali che caratterizzano i fondamenti dell’approccio. Tale mancanza di unitarietà del corpo teorico e metodologico ha lasciato oggi il posto ad un comune interesse per uno sviluppo in chiave ermeneutica capace di dare risposte alle esigenze della attuale società.

Bibliografia

Zeigarnik B.,​​ Über das Behalten von erledigten und unerledigten Handlungen,​​ in «Psychologische Forschung»​​ 9 (1927) 1-85; Lewin K.,​​ A dynamic theory of personality,​​ New York, McGraw-Hill, 1935; Goldstein K.,​​ The organism,​​ Boston, American Book Company, 1939; Id.,​​ Human nature in the light of​​ psychopathology,​​ Cambridge, Harvard University Press, 1940; Köhler W.,​​ G. in psychology,​​ New York, Liveright, 1947; Perls F. - R. Hefferline - P. Goodman,​​ G. therapy: excitement and growth in the human personality,​​ New York, The Julian Press, 1951; Wertheimer M.,​​ Productive thinking,​​ New York, Harper & Row, 1959; Ronco A.,​​ Introduzione alla psicologia, vol. 2.​​ Conoscenza e apprendimento,​​ Roma, LAS, 1977; From I.,​​ Requiem for «G.»,​​ in «Quaderni di G.» 1 (1985) 22-32; Perls F.,​​ L’io,​​ la fame,​​ l’aggressività,​​ Milano, Angeli, 1995.

M. Spagnuolo Lobb

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gestione delle RISORSE UMANE

 

RISORSE UMANE: gestione delle

R.u. è un termine composto, anzitutto legato alla parola​​ risorsa.​​ Questa​​ indica il mezzo o capacità disponibile, consistente in una riserva materiale o spirituale, o in un’attitudine a reagire adeguatamente alle difficoltà, da vocabolario (Devoto-Oli, 2007). Alla sottovoce r.u., specifica che si tratta, nel linguaggio burocratico delle aziende, del complesso dei lavoratori. La voce rimanda ancora al fr.​​ ressource, che deriva dal lat.​​ resurgere​​ (risorgere). R.u.​​ è quindi un’espressione usata nel linguaggio manageriale e nell’economia aziendale per designare il personale che lavora in un’azienda e, in particolar modo, il personale dipendente.

1.​​ R.u.,​​ aspetti specifici. Con questa terminologia si vuole evidenziare l’aspetto di valore o​​ capitale​​ insito nel personale, nella sua professionalità e nelle sue​​ competenze​​ e, quindi, di conseguenza che le spese per l’impiego e lo sviluppo di tali r. devono essere considerate investimenti. La locuzione è oggi utilizzata anche per designare una funzione aziendale (Gestione e Sviluppo delle r.u.), in passato denominata ufficio del personale, che presiede alla vita lavorativa di un individuo all’interno di un’organizzazione e prevede i seguenti processi: la Pianificazione, la Selezione, il Reclutamento, l’Inserimento, la Formazione e lo Sviluppo, la Valutazione, la Retribuzione, la Mobilità interna, la Carriera del personale – ossia si occupa dei vari aspetti di un particolare sistema operativo aziendale – e le Relazioni Sindacali (Costa, 1997; Auteri, 1998). A questi processi va ultimamente aggiunto quello dell’Outplacement, ovvero della fuoriuscita delle persone dall’organizzazione e del loro eventuale re-impiego in un’altra struttura. Si tratta di un ufficio, di solito unito o quantomeno strettamente integrato, almeno nelle organizzazioni medio-grandi, alla funzione di Direzione. La gestione delle r.u. è ancora un’area teorica, divenuta oramai una disciplina, che raggruppa gli strumenti e le metodologie per gestire gli individui all’interno delle organizzazioni dal loro ingresso alla loro fuoriuscita.

2.​​ Cenni storici. Varie teorie organizzative hanno influenzato la Gestione del personale dentro le organizzazioni. Vediamone, molto sinteticamente, alcune tra le più importanti che secondo una suddivisione di De Masi (cit. in Avallone, 1994), si dividono in due filoni: il primo quello della teoria della divisone del lavoro, tra i cui autori ricordiamo, Taylor, Fayol, Dricker (cit. in Avallone, 1994). Il secondo, quello delle relazioni umane e dei sistemi, a cui appartengono rispettivamente Mayo, Likert, Herzberg e von Bertalanffy, Emery, (1994). Uno dei primi, in ordine di tempo, ad occuparsi della gestione delle r.u. nelle organizzazioni fu F. Taylor (1911) il quale, con l’intento d’introdurre ed applicare il metodo scientifico alla conduzione delle r.u. in azienda, diede vita al modello manageriale conosciuto come​​ Scientific Management.​​ Esso è un modello ispirato ad una forte razionalità che usa i principi del metodo scientifico per la gestione delle persone; secondo l’A. una precisa distribuzione dei ruoli e dei compiti al più capace renderebbe efficace ed efficiente un’organizzazione. La spersonalizzazione di questo modello, la disaffezione al lavoro che cominciava ad essere sempre più registrata nei contesti occidentali, creò le condizioni per le ricerche di E. Mayo, incaricato, nell’anno 1924, di condurre una ricerca presso la General Electric a Chicago, volta a comprendere il problema delle produzione e dell’efficienza nel contesto lavorativo. I risultati di tale sperimentazione inaugurarono un serie di studi e ricerche che diedero vita, successivamente, alla Scuola delle Relazioni Umane ad opera anche dei contributi di D. Mc Gregor e F. Herzberg. Successivamente, siamo intorno al 1970, è la Scuola Sistemica (Lawrence - Lorsch, 1967), che introduce i concetti di scambio con l’ambiente e di omoestasi, dove l’individuo, al pari dell’organizzazione, è un sistema che apprende dal contesto, con cui scambia informazioni e al quale tenta di adattarsi. Tutte le teorie organizzative esposte, individuano, ciascuna, un preciso modello di gestione delle r.u. che vanno lungo un continuum che vede l’oggettività, la standardizzazione e la razionalità da un parte​​ versus​​ un approccio dove la soggettività, la motivazione e la complessità individuale e di sistema giocano un ruolo primario.

3.​​ Attualità.​​ La Gestione delle r.u., prendendo in considerazione il contesto italiano, ha attraversato varie fasi, a seconda delle epoche che prendiamo in considerazione. Nello specifico, e sinteticamente, abbiamo: a) Fase normativo / giuridica (anni ’50 del sec. scorso): la funzione del personale è amministrare il rapporto di lavoro dal punto di vista amministrativo (retribuzione) e giuridico (ferie, contrattualistica). b) Fase delle relazioni Umane (anni ’50):​​ siamo nelle fase successiva agli esperimenti di E. Mayo, dove vi è una maggiore attenzione all’individuo, alle buone relazioni umane ed al clima che si respira nei contesti organizzativi. c) Fase della Gestione delle R. (anni ’60):​​ si diffondono le idee di​​ ​​ Maslow e di McGregor (Isfol, 2001): l’uomo è una r. che può crescere se l’organizzazione glielo consente. Gli strumenti di gestione delle r.u. sono: Orientamento professionale e mobilità, Formazione sia tecnico-specialistica che direttivo-gestionale, Valutazione delle prestazioni lavorative e del potenziale umano, Gestione meritocratica delle retribuzioni e l’Ampliamento della delega. d) Fase dello Sviluppo delle r.u. (dal ’69 al ’75):​​ la funzione r.u. diviene la variabile critica delle organizzazioni. Il paradigma della complessità sistemica entra a far parte della lettura delle organizzazioni e pertanto gli strumenti di gestione delle r.u. si concentrano sullo sviluppo delle potenzialità, prevedendo le seguenti modalità: 1) Ampliamento e arricchimento delle mansioni, 2) Analisi organizzativa, 3) Direzione per obiettivi, 4) Valutazione del potenziale insito in ogni persona, 5) Piani di sviluppo e percorsi di carriera, 6) Attenzione ai bisogni di crescita e sviluppo dell’individuo e delle organizzazioni. e) Fase dello Sviluppo Organizzativo (fine anni ’70 e inizi anni ’80):​​ si diffondono le teorie della Scuola Socio-tecnica a seguito dei contributi di F. E. Emery e E. L. Trist (Isfol, 2001), con i concetti di sviluppo organizzativo. L’azienda è vista come un sistema aperto. Il conflitto intraorganizzativo viene inquadrato come una r. e, al contempo, una variabile da gestire. f) Fase della Direzione e Sviluppo delle r.u. (fine anni ’90 ad oggi): è la fase in cui la funzione r.u. svolge una attività di tipo strategico-sistemica volte a trovare compatibilità e coerenza tra scelte aziendali (politiche organizzative) e politiche del personale. Possiamo sicuramente affermare che la gestione delle r.u. è oggi giunta alla sua maturazione, tant’è che sempre più fa parte dei processi strategici di ogni organizzazione, nel senso che il Direttore del Personale partecipa sin dai primi momenti alle importanti e strategiche decisioni aziendali (Costa, 1997).

4.​​ Sviluppi. La gestione delle r.u., le sue tecniche e metodologie, possono essere applicate a qualsiasi contesto organizzativo. Negli ultimi tempi, si assiste ad un interesse per questa disciplina anche da organizzazioni legate al terzo settore, quali le organizzazioni​​ no​​ profit​​ (senza fini di lucro). Tra queste, J. M. La Porte (2003), include le organizzazioni professionali come le scuole, le università, gli ospedali, il sistema sanitario, le associazioni, le cooperative sociali. Si tratta in gran parte di società di servizi, che sono di solito volte alla creazione di benessere negli individui e nell’ambiente e la cui caratteristica intrinseca, strutturale, è quella di essere intangibili e difficilmente misurabili. Sono organizzazioni che dal punto di vista funzionale si reggono sulla motivazione e sulla reciproca fiducia dei membri che ne fanno parte. Questa dimensione aggregativa e gestionale sta oggi lasciando il posto, o meglio, sta avvenendo una transizione da un modello spontaneistico di gestione, verso la ricerca di uno schema più formalizzato che consenta di affrontare i problemi di coordinazione e conduzione derivanti da una crescita organizzativa di questi enti sempre più consistente. Certamente questa transizione verso l’adozione di modelli manageriali a forte razionalità per la gestione del proprio personale, pone alcuni problemi d’integrazione poiché l’innesto di sistemi formalizzati in culture organizzative caratterizzate da una certa indeterminatezza della base materiale e della tecnologia operativa non è semplice e diretto. Questa indefinitezza, lungi dall’essere una debolezza del sistema (si parla infatti di organizzazioni a legame debole), ne contraddistingue le sue peculiarità e specificità che consentono a questi sistemi una più rapida adesione al contesto di riferimento e una più rapida risposta ai cambiamenti. Tuttavia, l’introduzione di strumenti e tecniche derivanti dal corpus teorico delle r.u. è quindi motivata, da parte di questi organismi dal voler adottare sistemi di gestione più razionali e certi, nell’intento di ovviare ad alcune disfunzioni organizzative incluse ad es., quelle del reclutamento del personale, dell’organizzazione dei compiti e della formalizzazione del raggiungimento degli obiettivi organizzativi che, sovente, in queste strutture organizzative possono risentire del tempo e della incerta formalizzazione degli scopi operativi e dalla credenza che così si operi un rafforzamento surrettizio di questi legami deboli. Con il rischio, all’orizzonte, di un possibile rigetto di sistema conseguente ad un mancato adattamento critico di questi strumenti alle specificità del contesto di riferimento.

Bibliografia

Avallone F.,​​ Psicologia del lavoro. Storia,​​ modelli,​​ applicazioni, Roma, Carocci, 1994; Costa G.,​​ Economia e direzione delle r.u., Torino, UTET, 1997; Auteri E.,​​ Management delle r.u., Milano, Guerini e Associati, 1998; Grimaldi A. (Ed.),​​ Area occupazionale-gestione delle r.u. - Repertorio delle professioni, Roma, ISFOL, 2001; La Porte J. M.,​​ Comunicazione interna e management del no-profit, Milano, Angeli, 2003.

E. Riccioli

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gestione delle RISORSE UMANE

GESÙ CRISTO

GESÙ CRISTO

Angelo Amato

 

1. Gesù Cristo nella cultura contemporanea

1.1. Una cristologia «dal di fuori»?

1.2. La comprensione «umanistica» di Gesù

1.3. La comprensione «religiosa» di Gesù

1.4. La comprensione «letteraria» di Gesù

1.5. Gesù nella cultura «giovanile»

1.6. La comprensione «teologica» di Gesù

1.7. Il Cristo biblico-ecclesiale

2. I contenuti normativi dell’annuncio cristologico

2.1. La narrazione della storia di Gesù

2.2. La presenza personale di Gesù come il Vivente oggi nella Chiesa, in continuità con il dato biblico e l’intera tradizione ecclesiale

2.3. La confessione dì Gesù come salvatore assoluto e definitivo

2.3.1. Significato di questa pretesa

2.3.2. Fondamento di questa pretesa

2.4. La rilevanza salvifica del Cristo biblico-ecclesiale

3. Criteri pastorali dell’annuncio cristologico

3.1. Il vissuto «personale»

3.2. Il vissuto «comunitario»

3.3. Il vissuto «salvifico»

3.4. Il vissuto «culturale»

 

1. Gesù Cristo nella cultura contemporanea

Gesù Cristo ha di fatto un posto centrale nella storia dell’umanità. Nonostante l’esistenza di altri calendari il comune computo del tempo su scala mondiale viene fatto a partire dalla sua vicenda terrena. Fra qualche anno si celebrerà il secondo millennio della sua nascita. L’influsso di Gesù, però, non è solo estrinseco. La sua opera e il suo messaggio, conosciuto e trasmesso mediante la sua Chiesa, pervade anche il mondo non cristiano. Gli aneliti religiosi, morali e sociali di gran parte della cultura contemporanea trovano spesso ispirazione e sostegno nella figura del fondatore del cristianesimo, che si conferma personaggio di perenne attualità.

 

1.1. Una cristologia «dal di fuori»?

Nella cultura mondiale sono disponibili significative comprensioni non cristiane di Gesù Cristo, che si presenta come una fonte inesauribile di intelligenza profonda dell’uomo e di recupero della sua autentica umanità. Nonostante un diffuso atteggiamento di indifferentismo religioso, Gesù Cristo appare ancora come colui che può svelare l’uomo all’uomo, restituendo all’umanità il suo autentico significato e il suo valore. Questo ritratto non specificamente cristiano di Gesù — qualche volta chiamato anche «cristologia dal di fuori» — rappresenta un’originale conquista dell’uomo d’oggi alla ricerca del vero volto di Dio e della propria identità umana.

 

1.2. La comprensione «umanistica» di Gesù

Tale comprensione è propria del pensiero filosofico occidentale, soprattutto a partire da Spinoza e dalla demolizione da lui operata della religione rivelata e quindi della negazione della divinità di Gesù Cristo e della necessità della sua redenzione. Nonostante la presenza di un’importante corrente di filosofia specificamente «cristiana», sembra prevalere oggi l’interpretazione cristologica di K. Jaspers, che, pur ritenendo Gesù il più decisivo degli uomini «normativi», lo considerava tuttavia un semplice uomo al pari di Socrate, Buddha e Confucio. In questa tendenza umanistica si situa, ad esempio, l’interpretazione marxista. Dopo il superamento teorico della corrente «mitologica», che riteneva Gesù come un’invenzione fraudolenta della primitiva comunità cristiana, e dopo l’affermazione della corrente «storica», che collega invece il cristianesimo alla figura storica del suo fondatore, una recente posizione «neomarxista» ha rivalutato in modo efficace il personaggio Gesù di Nazaret, considerandolo un modello di umanità rivoluzionaria liberata e liberante. Gesù viene visto come un uomo aperto, soggetto di azione creatrice, capace di superare continuamente i suoi orizzonti (V. Gardavsky); o come esempio di radicale autenticità, capace di esprimere liberamente la verità e di difenderla senza compromessi (L. Kolakovsky). Questa immagine eretica e ribelle di Gesù (E. Bloch) rappresenta per non pochi neomarxisti una continua fonte di ispirazione. Liberato dalla sua trascendenza, Gesù rivelerebbe il vero nucleo del suo messaggio, che sarebbe essenzialmente terreno e sociale (M. Machovec, F. Belo). Questa interpretazione umanistica scopre in lui valori significativi per l’uomo contemporaneo, come, ad esempio, la rivalutazione del personale, l’invito a una ortoprassi più liberante per tutti, l’eliminazione della violenza nei rapporti umani, l’invito a non vivere di solo pane, l’abolizione dell’idea di popolo eletto, il continuo ricordo della miseria fisica della temporalità.

 

1.3. La comprensione «religiosa» di Gesù

In questa interpretazione presente nelle religioni non cristiane si apprezza in modo particolare la dimensione religiosa di Gesù e cioè il suo rapporto con Dio. Secondo l’induismo Gesù è un «avatara», cioè un’incarnazione plenaria e salvifica di Dio. Egli sarebbe pertanto uno dei più grandi maestri spirituali, modello di moralità e di unione con Dio. Per l’Islam Gesù è il più santo dei profeti prima di Maometto e il suo messaggio e soprattutto il suo discorso della montagna provoca ancora ammirazione e rispetto. Anche il buddhismo pone Gesù accanto a Buddha e Confucio tra i grandi saggi dell’oriente. Nel giudaismo, a partire dal secondo dopoguerra, è in atto una positiva riconsiderazione di Gesù, non più chiamato dispregiativamente «quell’uomo», ma accolto invece come «grande fratello ebreo» (M. Buber, G. Vermes, S. Ben Chorin) e come «rabbino» e cioè interprete ufficiale della legge mosaica (P. Lapide, H. Falk). Questo ritratto religioso di Gesù visto come incarnazione salvifica di Dio e come profeta e testimone della verità sull’uomo e su Dio coglie un aspetto essenziale della sua personalità.

Al pari di quella umanistica anche questa interpretazione non prende in considerazione o rifiuta il riconoscimento della divinità di Gesù. Questa cristologia dal di fuori pertanto si presenta come un processo non solo di comprensione, ma anche di assimilazione parziale dell’autentica realtà di Gesù Cristo, considerato o come semplice modello di umanità o come uno dei tanti mediatori esemplari tra l’uomo e Dio. Questa interpretazione riduttiva si ritrova anche in non poche sette non cristiane (cf la Chiesa dell’unificazione di Sun M. Moon o la «Christian Science» di Mary Baker-Eddy [1821-1910]).

 

1.4. La comprensione «letteraria» di Gesù

Intendiamo qui per letteratura quell’evento altamente ispirato che è alla base di ogni opera d’arte a livello universale. In tal senso essa diventa lo specchio della realtà nei suoi aspetti più dinamicamente umani e religiosi, quali la vita, la morte, l’amore, l’odio, il dolore, la gioia, la preghiera, l’imprecazione, la caduta, la conversione, lo smarrimento, il ritorno.

Dotato del dono della parola, l’autentico letterato diventa l’interprete e il profeta dell’uomo e della società. La letteratura appare quindi come una prospettiva utile per la decifrazione del divino e dell’umano. Tra i tanti ritratti letterari di Gesù ne suggeriamo due particolarmente suggestivi per la cultura giovanile di tutti i tempi. Nel​​ Cristo nascosto —​​ cf l’Idiota​​ di F. Dostoiewsky — il riferimento a Gesù è indiretto, anche se la sua santa presenza è avvertita come l’unica autentica chiave di soluzione dell’enigma umano. Nel modello del​​ Cristo epico —​​ cf​​ II Signore degli Anelli​​ dello scrittore cattolico inglese J. R. R. Tolkien — personaggi e vicende circoscritte nel tempo e nello spazio diventano universale parabola della lotta del bene contro il male fino alla definitiva sconfitta del male ad opera di un salvatore divino che annienta alla radice il potere del male assoluto.

 

1.5. Gesù nella cultura «giovanile»

Dai non molti dati disponibili si ricava che Gesù esercita ancora un significativo richiamo per i giovani, che non restano indifferenti di fronte al suo messaggio e alla sua persona. Egli è ancora capace di provocare una risposta giovanile impegnata ed entusiastica. Spesso lo spessore teologico di tale risposta coinvolgente non è dei più consistenti. Ci sono gruppi e movimenti giovanili che hanno una precisa spiritualità cristologica, come fonte della loro formazione personale e del loro impegno ecclesiale. Nell’ultimo decennio la loro presenza e il loro influsso hanno offerto un decisivo contributo al superamento entusiastico di una certa crisi d’identità di non poche comunità cristiane. Generalmente parlando, però, la cultura giovanile sembra operare solo un aggancio superficiale all’evento Cristo, considerando Gesù come esempio di rivoluzionario e di pacifista, il cui unico messaggio sarebbe il superamento di ogni legalismo strutturale e di ogni coercizione morale e religiosa. Non rare volte, questi movimenti giovanili, ignari della tradizione ascetica e mistica della chiesa e desiderosi, d’altra parte, di profonda esperienza religiosa, si aprono a nuove spiritualità soprattutto orientali. L’esoterismo dei riti, il linguaggio nuovo, il fascino della musica, l’approccio immediato dell’io alla realtà ultima, danno luogo a strani sincretismi religiosi in cui Gesù appare spesso come un maestro di vita spirituale accanto ad altri spesso più autorevoli maestri. Al di fuori dei gruppi teologicamente attrezzati, la «cristologia giovanile» presenta alcune rilevanti carenze, come, ad esempio, l’insufficiente elaborazione biblica e teologica; la tendenza a privilegiare il proprio rapporto personale con Gesù, non rare volte al di fuori o in contrasto con la comunità ecclesiale, una insufficiente esperienza sacramentale e una certa tendenza a risolvere il proprio rapporto con Gesù a livello culturale o psicologico. Sembra ancora valido pertanto il giudizio che il sociologo G. Milanesi dava a questa comprensione giovanile di Gesù: «In definitiva si può quasi dire che l’approccio della maggioranza dei giovani alla figura di Gesù è di tipo catecumenale, qualora si intenda questo termine come equivalente ad una conoscenza ancora incompleta, provvisoria e generica di Gesù Cristo, tipica cioè di persone a cui Cristo è stato solo incoativamente annunciato» (Milanesi G.,​​ Attese, interrogativi e immagini di Gesù Cristo nella situazione giovanile oggi​​ in Amato A. - Zevini G. (a cura),​​ Annunciare Cristo ai giovani,​​ LAS, Roma 1980, p. 83). Lo stesso autore però presenta anche alcune caratteristiche positive della cristologia giovanile, come, ad esempio, la coscienza della centralità di Gesù come persona e come messaggio in funzione di una matura definizione dell’esperienza religiosa dei giovani; l’attualità del messaggio di Gesù e la sua capacità di rottura rispetto al mondo contemporaneo e alle sue contraddizioni; l’affermazione della sua piena e paradigmatica umanità; l’accentuazione, infine, della dimensione esperienziale vissuta all’interno della comunità cristiana.

 

1.6. La comprensione «teologica» di Gesù

La lettura di Gesù nella cultura contemporanea non è priva quindi di contraddizioni e di tensioni. In essa sembra prevalere un duplice orientamento di fondo: quello umanistico, che vede in Gesù una via esemplare alla scoperta e alla valorizzazione dell’uomo e del giovane in modo particolare; quello religioso, che considera Gesù soprattutto come maestro religioso e guida privilegiata verso Dio. Gesù cioè è tramite sia per la scoperta della vera umanità, sia per rincontro autentico con Dio. In questa cristologia dal di fuori è spesso carente la considerazione di Gesù che in sé stesso è l’unica vera via salvifica dell’uomo in Dio. Anche quando questa affermazione è presente, spesso è assente la sua adeguata motivazione e fondazione. Di qui la necessità di un richiamo alla riflessione teologica normante del Cristo, elaborata all’interno del vissuto ecclesiale e sul ricco fondamento della tradizione biblica ed ecclesiale. Sia la tradizione cattolica, come quella ortodossa e protestante sono unanimi nell’affermare che Gesù è in sé stesso, nel suo evento e nella sua Chiesa animata dallo Spirito, l’unico e vero salvatore dell’umanità. I modelli teologici adoperati per l’annuncio di tale realtà variano. Mentre nella tradizione ortodossa sembra prevalere quello doxologico (della gloria), in quella protestante prevale quello staurologico (della croce). Nella riflessione cattolica contemporanea si dà una pluralità di approcci con una forte accentuazione e valorizzazione della piena umanità di Gesù Cristo e della necessità dell’inculturazione del suo messaggio. Si spiega così l’ampio ventaglio delle proposte sistematiche cattoliche contemporanee, come, ad esempio, la cristologia cosmica di P. Teilhard de Chardin, la cristologia storica di W. Kasper e B. Forte, la cristologia trascendentale di K. Rahner, la cristologia escatologica di M. Bordoni, le varie cristologie in contesto, la cristologia religioso-popolare di Puebla.

 

1.7. Il Cristo biblico-ecclesiale

L’esistenza di una pluralità di modelli cristologici pone il problema sia della loro legittimità a mediare nell’oggi ecclesiale l’evento Cristo, sia della loro scelta in base a precisi criteri valutativi. Di fronte alle riduzioni e alle carenze della cristologia dal di fuori e alla molteplicità dei modelli della cristologia dal di dentro ci si chiede pertanto dove e come rintracciare il vero volto di Cristo. Diciamo subito che la nostra opzione è per il​​ Cristo biblico-ecclesiale,​​ così come la Chiesa ce lo consegna nella Scrittura e nella sua esistenza di fede. La vita spirituale del popolo di Dio, il suo impegno di santità, di apostolato e di missione, la sua tensione ecumenica ha la sua sorgente in Gesù Cristo, Figlio di Dio incarnato e redentore, vero uomo e vero Dio, consustanziale al Padre e a noi. Il successo della salvezza dell’umanità è assicurato solo da questo spessore personale umano e divino del Cristo. Una pastorale non sufficientemente fondata sul Cristo biblico-ecclesiale rischia di trasformarsi in mero annuncio umanistico o genericamente religioso e non manifesta la vera identità di Gesù, che in sé stesso è l’unica via alla verità di Dio e alla salvezza dell’uomo. Il Cristo biblico-ecclesiale ha il suo luogo privilegiato nel vissuto della comunità dei credenti in lui. È nell’esperienza di fede della Chiesa che emerge l’autentico volto del Cristo. È nella Chiesa, comunità eucaristica, comunità di preghiera, comunità apostolica, comunità di peccatori salvati, che si vive ancora oggi, non come ricordo archeologico, né solo come dogma teorico, ma come realtà sperimentata, la proclamazione entusiasta che Pietro fece prima (cf​​ Mt​​ 16,16) e dopo la pasqua: «In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati»​​ (Atti​​ 4,12). La comunità ecclesiale è infatti fermamente convinta della totalità della salvezza dell’uomo e dell’assolutezza di tale salvezza nel Cristo. È lui che viene proclamato come il vivente, il liberatore assoluto della storia e del cosmo. In nessun altro l’uomo troverebbe il pieno significato alla sua vita, alla sua morte, alla sua gioia, al suo essere con gli altri, al suo amore, al suo lavoro, ai suoi scacchi, alla sua solitudine. È questo anche l’annuncio fondamentale di ogni pastorale cristologica ai giovani. Un annuncio tutto da motivare, ma che deve essere ribadito e professato come gratuito dono del Padre nello Spirito. «Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli»​​ (Mt​​ 16,17).

 

2. I contenuti normativi dell’annuncio cristologico

Si tratta di enucleare quei pilastri fondamentali senza i quali l’annuncio cristologico non può dirsi completo e con i quali esso si qualifica in tutta la sua densità salvifica. Al tempo stesso, questi elementi costituiscono i criteri di verifica di ogni pastorale che voglia chiamarsi autenticamente cristiana e senza alibi riduzionistici. Sono quattro gli elementi fondamentali per una comprensione globale dell’evento Cristo:

1) la narrazione della sua​​ storia;

2) l’affermazione della​​ presenza personale​​ di Gesù come il vivente oggi nella Chiesa, in perfetta continuità con il dato biblico e con la tradizione ecclesiale;

3)​​ la confessione di Gesù come​​ salvatore assoluto e definitivo;

4) la​​ rilevanza della sua salvezza​​ nella Chiesa e nel mondo oggi.

Questa piattaforma criteriologica non costituisce una pretesa razionalistica o apologetica, ma una sua indispensabile esigenza di verifica richiesta da Gesù stesso — «Voi chi dite che io sia?»​​ (Mt​​ 16,15) — e dalla domanda di giustificazione e di motivazione del giovane contemporaneo. Non si tratta poi di aree separate dell’evento Cristo, quasi a costituire quattro diversi settori del suo mistero. Si tratta invece dell’unica persona di Gesù Cristo, progressivamente avvicinata e riscoperta nella completezza del suo mistero salvifico. Aggiungiamo anche che da questi contenuti emergono altrettante istanze metodologiche della pastorale giovanile.

 

2.1. La narrazione della storia di Gesù

Il Cristo biblico-ecclesiale non è un’idea atemporale, né un mito o una creazione astorica della comunità cristiana primitiva.

Il primo nucleo di ogni annuncio cristologico è pertanto la narrazione della storia di Gesù di Nazaret, come fonte primaria dell’esperienza cristiana di ogni tempo e spazio. La storia è qui intesa nella sua duplice valenza di luogo di eventi reali accaduti in determinate circostanze spazio-temporali, e di luogo dell’intervento salvifico plenario di Dio. Nel cristianesimo la salvezza è data nella storia concreta di Gesù Cristo. È in lui che la storia diventa storia di salvezza. Contro ogni negazione dell’esistenza storica di Gesù, l’annuncio di fede deve riproporre la storicità inconfutabile del suo evento, come fatto accaduto duemila anni fa in Palestina nell’ambito dell’impero romano. La ricerca storica contemporanea è sempre più criticamente convinta nell’affermare che i vangeli sono il rigetto di ogni mitologia colmi come sono fino all’orlo di autentica storia. L’annuncio della salvezza cristiana — il Cristo per noi — si fonda su questa base storica. Il kerygma apostolico a Pentecoste con il suo successo strepitoso non è che la semplice narrazione della parabola storica di Gesù. È in questo evento che la fede ecclesiale trova il suo contenuto e la sua norma.

È la storia concreta di Gesù di Nazaret — la sua esistenza, i suoi gesti, le sue parole, i suoi atteggiamenti, il suo mistero pasquale — che diventa la salvezza definitiva dell’uomo. Per questo il Cristo biblico consegnatoci dal Nuovo Testamento è il polo originario e insostituibile di ogni annuncio cristologico.

 

2.2. La presenza personale di Gesù come il Vivente oggi nella Chiesa, in continuità con il dato biblico e l’intera tradizione ecclesiale

Ci si chiede se il Cristo dell’odierno annuncio ecclesiale — quello della professione di fede, del dogma, della religiosità popolare, della teologia, della catechesi e della pastorale — sia lo stesso Gesù di Nazaret storicamente determinato dalle fonti bibliche, o non sia stato invece indebitamente ampliato dalla fede millenaria della comunità ecclesiale, dai dogmi conciliari e dalla ricerca teologica, sì che in realtà il Cristo dell’annuncio ecclesiale risulterebbe diverso da quello della storia. Questi, ad esempio, risulterebbe indebitamente arricchito di qualità divine a lui estranee, provocando così un considerevole divario tra il Gesù della storia e il Cristo della fede. Non ci sarebbe quindi una continuità personale tra l’autentico Gesù storico e l’inautentico Cristo della fede ecclesiale.

Il nodo da sciogliere riguarda la comprensione «pneumatica» ed ecclesiale dell’evento Cristo. Si tratta cioè di ricondurre la cristologia alla sua fonte originaria, e cioè all’evento Cristo, ma letto, vissuto, approfondito e rinarrato nel tempo e nello spazio della sua comunità di fede guidata e illuminata dallo Spirito.

Per cui non solo la Scrittura, ma anche i concili, la vita liturgica, la devozione popolare, la riflessione teologica hanno offerto lungo i secoli elementi cristologici legittimi, che non hanno corrotto o indebitamente ampliato il Gesù della storia, ma lo hanno adeguatamente riannunciato ed esperimentato nel corso della storia della Chiesa, con comprensioni e con categorie inculturate disponibili nelle varie epoche.

Questo problema ha una sua storia paradigmatica sia nel protestantesimo sia nella teologia cattolica postconciliare. Diciamo solo che oggi c’è sostanziale accordo nell’affermare l’unità del Cristo biblico-ecclesiale e cioè la continuità personale esistente tra il Gesù della storia e il Cristo della fede e del dogma ecclesiale.

La storia salvifica di Gesù non si ferma al suo passato biblico, ma continua nella conoscenza e nell’esperienza storica della Chiesa, che nello Spirito lo confessa il Vivente-Risorto-Parusiaco.

 

2.3. La confessione di Gesù come salvatore assoluto e definitivo

 

2.3.1. Significato di questa pretesa

Il terzo pilastro di questa piattaforma contenutistica riguarda l’assolutezza della salvezza offerta da Gesù Cristo. Cosa implica tale pretesa e su che cosa si fonda? Le sfide degli umanesimi atei e il contenuto «salvifico» delle religioni non cristiane rendono particolarmente acuto questo problema oggi. La teologia cattolica postconciliare da una parte afferma la volontà salvifica universale di Dio, ammettendo «i raggi di verità» presenti fuori del cristianesimo (cf​​ NA​​ n. 2); dall’altra sottolinea che tale volontà salvifica si è rivelata e realizzata in modo unico e definitivo in Cristo e viene attuata nella storia mediante la Chiesa, suo sacramento di salvezza. Con ciò si è operato uno spostamento di enfasi. Si è passati dalla considerazione di Gesù come salvatore​​ esclusivo,​​ che esclude radicalmente ogni altra forma di salvezza al di fuori della sua Chiesa visibile, a quella di Gesù come mediatore​​ costitutivo​​ di salvezza. Egli cioè è l’evento salvifico unico e definitivo, che sostiene come unica fonte ogni altra invocazione e parziale concessione di salvezza al di fuori del cristianesimo. Ogni salvezza disponibile per l’umanità è radicalmente attinta nell’evento Cristo, al quale sono quindi da ricondurre le altre eventuali presenze salvifiche. Cristo quindi non è né il salvatore esclusivo, né semplicemente normativo o relativo di salvezza — e cioè un paradigma e uno dei tanti mediatori salvifici —, ma il mediatore unico e costitutivo di salvezza per l’intera umanità.

 

2.3.2. Fondamento di questa pretesa

Questa indispensabilità soteriologica del Cristo si fonda sul suo evento. Si possono ridurre a tre gli elementi essenziali della definitività, dell’insuperabilità e dell’universalità della salvezza in Cristo:

1)​​ l’annuncio del regno,​​ come offerta e realizzazione in lui della totalità dei beni messianici e del superamento definitivo del male, del peccato e della morte, con la conseguente potenza di ri-creazione dell’uomo e della natura;

2)​​ la sua coscienza filiale e messianica​​ e cioè la consapevolezza della sua profonda unione ontologica e psicologica col Padre e l’intenzionalità salvifica del suo evento umano-divino come fonte unica di salvezza per l’umanità;

3)​​ il suo mistero pasquale​​ e cioè la realtà intrinsecamente salvifica della sua passione e morte redentrice e della sua risurrezione-ascensione-pentecoste.

 

2.4. La rilevanza salvifica del Cristo biblico-ecclesiale

Fa parte dei contenuti cristologici essenziali anche l’enfasi dell’attualità della salvezza cristiana nel mondo contemporaneo. L’evento Cristo è infatti il radicale superamento dei cerchi diabolici del peccato e della morte ed è anche la risposta adeguata e senza riduzioni alle sfide e ai legittimi aneliti degli umanesimi atei e delle religioni non cristiane. La salvezza cristiana, infatti, consegna l’uomo a Dio, al mondo, alla comunità e a sé stesso nella sua integralità spirituale e corporale e nel suo continuo trascendersi umano e religioso. La salvezza cristiana è globale e dinamica e si estende alla sua realtà storica e metastorica. Essa è la suprema realizzazione dei valori estetici, morali, intellettuali, religiosi, personali e sociali dell’intera umanità.

 

3. Criteri pastorali dell’annuncio cristologico

La precedente piattaforma contenutistica costituisce anche la realtà primaria e indispensabile di ogni strategia pastorale che voglia alimentare nel giovane la gioiosa convinzione della sua esistenza cristiana. La riproposizione globale dell’evento Cristo, motivata e arricchita nei suoi contenuti teologici, spirituali e morali, non è un di più culturale elitario ma una base necessaria per la maturazione convinta di ogni opzione di fede cristiana. In tal modo essa offre opportune difese per superare disagi, delusioni, crisi di rigetto, atteggiamenti fondamentalistici o fughe verso l’indifferentismo e il relativismo religioso. Più che da ulteriori considerazioni estrinseche, pertanto, un’adeguata criteriologia pastorale può essere ricavata dall’intrinseca struttura dell’annuncio cristologico. È il dinamismo insito in tale annuncio che riesce a liberare le energie necessarie per alimentare, rafforzare e sviluppare la continua maturazione di fede dei giovani. In tal modo la conoscenza di Gesù si fa esperienza di fede personale e comunitaria. L’ortodossia diventa ortoprassi, che verifica e realizza sé stessa nella vita dei singoli e delle comunità ecclesiali. La proposta di alcuni criteri inoltre non significa assolutizzazione di aspetti parziali e irrelati tra loro, ma graduale e complementare integrazione e unificazione della propria esistenza di fede. La conoscenza di Gesù in tal modo diventa esistenza pneumatica e cioè un impegnato pellegrinaggio di fede, di speranza e di carità nello Spirito del Signore Risorto. Aggiungiamo ancora che questi criteri costituiscono solo orientamenti generali, la cui efficace applicazione implica l’apporto di altre competenze con gli opportuni adattamenti a precise situazioni culturali, sociali e religiose.

 

3.1. Il vissuto «personale»

In corrispondenza con la piattaforma contenutistica, il primo criterio pastorale che emerge dalla narrazione della storia di Gesù è quello dell’incontro personale con lui. Come i discepoli, i giovani sono chiamati per nome non solo a una conoscenza ma anche a una esistenza di fede con Gesù. Non si tratta solo di Gesù riconosciuto come amico fedele, come maestro di vita o come profeta religioso. Si tratta di Gesù riconosciuto come salvatore: «Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo)» (Gv 1,41), dice Andrea a Simone suo fratello, dopo aver incontrato e conosciuto Gesù.

La storia narrata di Gesù diventa in tal modo la storia vissuta del discepolo, la cui vita personale diventa dialogo e sequela quotidiana del Cristo. Ciò significa che Gesù risponde personalmente alle drammatiche domande sul significato e sul valore dell’esistenza personale e comunitaria nel suo maturarsi umano e cristiano nella storia. L’incontro con la storia di Gesù diventa criterio di vita e di storia personale. Si tratta dell’esplicitazione cosciente del proprio essere battesimale, che è vita con Cristo e in Cristo. Camminare con Gesù, vivere alla sua sequela è quindi il primo momento di questo progetto esistenziale cristiano.

 

3.2. Il vissuto «comunitario»

Il vissuto personale implica anche un innegabile aspetto comunitario. L’incontro con Gesù fin dal battesimo avviene concretamente nell’ambito della comunità ecclesiale, trovando un particolare momento celebrativo nella liturgia eucaristica, quando i battezzati vivono insieme la loro esperienza di salvati nel mistero pasquale di Cristo. Vivere con Gesù è quindi vivere con la Chiesa e nella Chiesa. Nella Chiesa l’incontro personale con lui diventa incontro sacramentale e cioè dispensazione di grazia e di redenzione personale e comunitaria. Risiede in ciò la giustificazione ultima dei gruppi giovanili ecclesiali, come adeguato luogo di maturazione cristiana e di impegno umano e sociale.

Il vivere con Gesù nella Chiesa infatti non solo è celebrazione religiosa, ma anche apostolato e solidarietà comunitaria. È questa la narrazione, l’esperienza e l’annunzio di salvezza che i discepoli di Gesù fanno nella storia.

3.3. Il vissuto «salvifico»

Il vissuto personale e comunitario diventa esperienza salvifica integrale. La vita in Cristo e nella Chiesa offre non solo l’illuminazione e la conoscenza, ma anche l’aiuto e la forza necessaria per superare i limiti spirituali, morali e fisici della non salvezza. È l’esperienza del vissuto salvifico la chiave del successo della vita cristiana. Associati al mistero della morte e della risurrezione di Gesù, i cristiani diventano in lui la nuova umanità. Sono cioè liberi e liberanti, dinamicamente aperti a superare ogni ottusità e prevaricazione, per vivere il loro vangelo di dialogo con Dio, di pace e fratellanza universale, di difesa della vita in tutti i suoi aspetti, di rispetto della natura e del cosmo. In Gesù, terra dei viventi, i cristiani progettano e realizzano il rinnovamento continuo della storia dell’umanità.

 

3.4. Il vissuto «culturale»

Il Cristo narrato, celebrato nella Chiesa, vissuto nella propria esperienza salvifica, si fa inevitabilmente cultura, e cioè storia e tempo, carne e sangue, linguaggio e atteggiamento, tradizione e sviluppo. L’esperienza religiosa cristiana — allo stesso tempo personale e comunitaria, religiosa e sociale — diventa sintesi culturale nuova e lievito indispensabile alla trasformazione e al miglioramento umano e religioso di altre culture. L’inculturazione della fede trova qui la sua giustificazione e il suo criterio ultimo. Essa infatti non è proposizione o arida sperimentazione teoretica, ma graduale trasformazione di parole, simboli e tradizioni in linguaggio ed espressione autenticamente salvifici. Questa cultura, che rinnova continuamente sia le culture tradizionalmente cristiane, sia le culture non cristiane, è la storia di Cristo narrata e vissuta dai cristiani nel loro pellegrinare terreno. È una cultura di vita, che non rigetta niente di quanto è autenticamente umano e religioso, perché è perfezione e realizzazione di ogni utopia umana e religiosa. L’incontro con Cristo pertanto non solo offre salvezza personale e comunitaria, ma tende a produrre nella storia una «cultura di salvezza». Si tratta di una realtà già in atto, ma storica e quindi in continua fase di realizzazione e compimento. Si tratta quindi di un compito e di un impegno. In questa rilevanza culturale della salvezza cristiana il nostro itinerario metodologico raggiunge il suo vertice, che non significa però conclusione ma sua ulteriore ripresa esperienziale.

1 criteri del vissuto cristologico, infatti, presentano uno sviluppo a spirale che si allarga continuamente nella storia. Per cui il vissuto culturale, sostenuto e alimentato dalla narrazione della storia paradigmatica del Cristo, diventa progresso nella comprensione e nella realizzazione del regno.

Dire Gesù Cristo oggi è soprattutto per i giovani esperienza e impegno di «ricreazione» della cultura umana in cultura di vita, di pace e di salvezza integrale dell’umanità.

 

Bibliografia

Diamo la preferenza ad alcune opere di grande sintesi pubblicate negli anni ’80 soprattutto in lingua italiana.

Amato A., Gesù il Signore, saggio di cristologia,​​ Edizioni Dehoniane, Bologna 1988;​​ Amato A. - Zevini G. (a cura), Annunciare Cristo ai giovani,​​ LAS, Roma 1980; Bourgeois H.,​​ Le culture di fronte a Cristo,​​ Borla, Roma 1981; Castelli F.,​​ Volti di Gesù nella letteratura moderna,​​ Edizioni Paoline, Cinisello B. 1987; Emeis D.,​​ Gesù Cristo maestro di vita. Cristologia catechetica, Queriniana,​​ Brescia 1987; Forte B.,​​ Gesù di Nazareth. Storia di Dio, Dio della storia,​​ Edizioni Paoline, Roma 1981; Germain E., Jésus-Christ dans les catéchismes,​​ Desclée, Paris 1986; Latourelle R.,​​ L'uomo e i suoi problemi alla luce di Cristo,​​ Cittadella Editrice, Assisi 1982; Pelikan J., Gesù nella storia,​​ Laterza, Bari 1987; Vernette J.,​​ Jesus dans la nouvelle religiosité,​​ Desclée, Paris 1987.

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GESÙ CRISTO

1.​​ Gesù Cristo, scopo della C.​​ Gesù (nome ebraico che significa “Iahvè è salvezza”) Cristo (termine greco che significa “Unto” e che corrisponde all’ebraico “Messia”), fondatore del cristianesimo e Figlio di Dio incarnato, è il nucleo centrale dell’annuncio cristiano. Giovanni Paolo II parla del “cristocentrismo” di ogni autentica C., sia perché al centro stesso della C. noi troviamo la persona di Gesù di Nazaret, l’Unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità, sia perché catechizzare è condurre qualcuno a scrutare questo mistero in tutte le sue dimensioni (CT 5). “Più precisamente lo scopo della C., nel quadro generale dell’evangelizzazione, è di essere la fase dell’insegnamento e della maturazione, cioè il tempo in cui il cristiano, avendo accettato mediante la fede la persona di Gesù Cristo come il solo Signore ed avendogli dato un’adesione globale mediante una sincera conversione del cuore, si sforza di conoscere meglio questo Gesù, al quale si è abbandonato: conoscere il suo “mistero”, il Regno di Dio che egli annuncia, le esigenze e le promesse contenute nel suo messaggio evangelico, le vie che egli ha tracciato per chiunque lo voglia seguire” (CT 20). La centralità del Cristo è il motivo ispiratore e la base portante dei moderni catechismi, soprattutto dei giovani e degli adulti. In essi l’intero patrimonio di verità e di vita cristiana ruota a ragione intorno alla figura di Cristo, e da lui trae ispirazione e fondamento.

2.​​ Gesù Cristo nell’odierno conflitto delle interpretazioni.​​ Oltre alla sfida degli umanesimi atei e delle religioni non cristiane, il cristiano deve riscoprire e riannunciare la vera identità del Cristo oggi. Sono fondamentalmente tre le grandi precomprensioni del Cristo nella cultura mondiale contemporanea: quella umanistica, quella religiosa e quella propriamente cristiana.

a)​​ La precomprensione “umanistica” del Cristo.​​ Essa fa riferimento a Cristo in un quadro razionalistico chiuso all’ipotesi Dio. Eliminato con un colpo di spugna Dio dall’orizzonte dell’uomo, l’uomo diventa l’unico facitore del suo destino, il salvatore di se stesso. Egli cerca di uscir fuori dal pantano della sua esistenza tirandosi per i capelli. In quest’ottica vengono condotte le interpretazioni umanistiche del Cristo da parte delle correnti filosofiche atee e materialistiche, delle varie scuole psicanalitiche (ad eccezione di quella di V. Frankl), delle correnti razionalistiche e radical-borghesi. La lettura umanistica vede nel Cristo uomo solo una via paradigmatica per la piena realizzazione dell’uomo e della società, ricuperando in lui tutti i risvolti positivi a favore di un’esistenza umana dinamica e liberata. Di qui l’enfasi sul Cristo “uomo aperto”, che si trascende continuamente (R. Garaudy); che è ribelle e sovversivo a ogni imposizione sia dall’alto che dal basso (E. Bloch); che è soggetto dinamico di azione umana creatrice ed esempio di radicale autenticità umana (L. Kolakowski); che predica e realizza l’amore universale tra gli uomini, supporto di ineliminabili valori morali, iniziatore e realizzatore in proprio di una prassi personale e sociale di liberazione totale, difensore fino al martirio della sua verità e della sua originalità umana (M. Machovec, F. Belo). Riaffermando l’assoluta “normalità umana” dell’evento Cristo, quest’ottica lo considera solo un “uomo” alla pari di Socrate, Buddha, Confucio, nel pantheon ristretto dei grandi dell’umanità. È la radicale “razionalità” del Cristo, di cui parlava K. Jaspers (I​​ grandi filosofi,​​ Milano, Longanesi, 1973, 280-307).

b)​​ La precomprensione “religiosa” del Cristo.​​ Nelle grandi religioni non cristiane Gesù è visto non solo come via all’uomo, ma anche come via a Dio, come tramite al trascendente e al divino. È questa l’immagine presente, ad esempio, nell’Islam, in alcune correnti teologiche buddhiste e indù: egli è ritenuto profeta di Dio, maestro di fratellanza universale tra gli uomini, martire di giustizia, presenza salvifica di Dio sulla terra. Tutto ciò, però, sempre nell’ambito di una interpretazione “relativizzante” della persona e dell’opera di Gesù, considerato piuttosto come una delle numerose e significative tende della presenza salvifica di Dio sulla terra; uno dei suoi tanti profeti e martiri; un​​ avatara​​ (discesa del divino nel cosmo; incarnazione come manifestazione terrena della divinità) tra i molti. L’enfasi è tutta rivolta alla personalità umana del Cristo. Si veda la reinterpretazione ebraica contemporanea del Cristo, considerato ormai positivamente come “fratello ebreo”, come “rabbino o maestro” (P. Lapide), come leader dalla personalità imponente, maestro di moralità e di lealtà giudaica, e martire per la causa giudaica (S. Sandmel). In Gesù resta del tutto incompresa e rifiutata l’ipotesi di una possibile pienezza di trascendenza divina. In Cristo non si intende scorgere nessun salto di qualità nell’offerta salvifica gratuita proveniente da Dio all’intera umanità.

c)​​ La precomprensione “cristiana”. Le due precedenti interpretazioni sottolineano due aspetti fondamentali dell’evento Cristo: quello di essere “via” all’uomo e “via” a Dio. Date le loro premesse, però, non riescono a coglierne l’originalità assoluta: di essere, cioè, egli stesso​​ l’unica vera via verso l’autentico uomo e verso l’autentico Dio;​​ di essere, anzi,​​ nella sua persona e col suo evento, la parola definitiva e salvifica di Dio all’uomo e il liberatore unico e decisivo dell’uomo in Dio.​​ Questo volto autentico del Cristo ce lo consegna la precomprensione cristiana, che così porta a compimento gli aspetti validi delle ottiche umanistiche e religiose. Essa si fonda sul Cristo della Scrittura, sul Cristo dei concili ecumenici e sul Cristo del vissuto ecclesiale contemporaneo. Prima di accennare ai modelli cristologici presenti nella teologia e nella prassi cattolica contemporanea, riassumiamo l’ottica cristologica di fondo della teologia ortodossa e protestante.

d)​​ Il Cristo nella teologia ortodossa-, il modulo della “gloria”. Non è tanto il progresso nella comprensione intellettuale del Cristo, né il risvolto concretamente prassiologico il distintivo della ricerca teologica ortodossa, quanto piuttosto la partecipazione più intima possibile alla sua divinità da parte dell’uomo. Si ha una vera cristologia dall’alto, in cui Cristo-Dio, col suo peso ontologico di gloria divina, non viene messo in discussione, ma viene contemplato, adorato, vissuto e annunciato come un geloso tesoro della fede dei Padri da mantenere intatto per sempre. In questa precomprensione, che raggiunge il suo clima vitale nella liturgia, c’è la rasserenante certezza del dono di Dio fatto all’uomo nella persona del Cristo, salvatore dell’umanità.

e)​​ Il Cristo nella teologia protestante', il modulo della “croce”. Per Lutero — e per l’intera tradizione protestante fino a Barth e al​​ Dio crocifisso​​ di J. Moltmann — la croce è il modulo più adeguato per comprendere e vivere il messaggio cristologico. Di qui la sua “theologia crucis”, che è la sua visione di fondo, la sua metodologia teologica, la sua conoscenza pratica ed esistenziale del cristianesimo. In questa prospettiva si valorizza tutto quanto Dio ha reso visibile di sé in modo paradossale nella kénosi del suo Verbo, incarnato e crocifisso. Perciò è la cristologia — come rivelazione della croce — il centro e il solo oggetto della teologia protestante. Solo nel Verbo incarnato, infatti, Dio si rivela e si nasconde: “In Christo​​ crucifixo​​ est vera theologia et cognitio Dei” (WA 1,262). La passione e la croce di Cristo sono gli autentici segni della presenza di Dio e costituiscono l’unica conoscenza indiretta che l’uomo può avere di Dio, e l’unica a lui proporzionata.

3.​​ Il Cristo nella teologia e nella prassi cattolica contemporanea.​​ L’interpretazione cattolica si presenta oggi in una varietà eccezionale di ottiche, quasi tutte ugualmente distanti sia dall’enfasi della gloria divina nel Cristo, sia dall’assolutizzazione dell’evento della croce. Oggi si punta — a livello teorico e cat.-pastorale — alla riscoperta, alla rilettura e alla rivalorizzazione in tutte le sue implicanze dell’umanità di GC. La pluralità dei moduli cattolici è dovuta a diversi fattori: al tentativo di una rilettura moderna del modello calcedonese; ai diversi quadri di riferimento filosofici e prassiologici; infine, all’attenzione teologica che si dà alle diverse zone ecclesiali, che si riscoprono portatrici di culture originali e capaci di riappropriarsi del vangelo in categorie concettuali e vitali proprie. Presentiamo qui in estrema sintesi alcuni modelli cristologici contemporanei. Segnaliamo anzitutto una rielaborazione cristologica sostanzialmente classica: la cristologia​​ dinamica o dell’identità​​ di J. Galot, il quale presenta un Cristo fortemente ancorato alla ricchezza delle fonti bibliche e conciliari. Ponendosi in equilibrio tra la cristologia dal basso e quella dall’alto, e tra teoria e prassi, il Galot punta alla riaffermazione dell’identità ontologica umano-divina del Cristo, come fondamento della sua opera di redenzione e di liberazione. C’è poi la cristologia​​ trascendentale​​ di K. Rahner, così come viene esposta nel suo​​ Corso fondamentale sulla fede​​ (Torino, Ed. Paoline, 19844). Partendo dall’uomo e dalla sua situazione ontologico-esistenziale di “uditore della parola”, si arriva a Dio, alla sua rivelazione, e poi al Cristo e al suo evento. Un terzo modello è quello​​ storico,​​ usato, ad esempio, da W. Kasper, che propone la storia come la chiave ermeneutica essenziale del destino unico ed irripetibile del Cristo. Questi, infatti, non è adeguatamente deducibile dai bisogni dell’uomo o della società; egli viene saldamente afferrato soprattutto nella sua storia concreta, con tutti gli eventi originalissimi, straordinari e unici di cui fu protagonista. Un altro modulo è quello​​ cosmologico,​​ tradizionale nella patristica greca dei primi secoli e riproposto con enfasi profetica dallo scienziato-teologo P. Teilhard de Chardin. Gesù Cristo è l’Omega divino personale e trascendente, punto supremo di maturazione cosmica. Egli è colui che sostiene, guida, purifica, attira e porta a compimento tutto lo sforzo evolutivo del cosmo e dell’umanità.

Un ulteriore modello è quello​​ esistenziale-prassiologico,​​ che legge nell’evento Cristo soprattutto l’appello a una nuova forma di esistenza personale e sociale di liberazione e di giustizia. È un’ottica che non si interessa tanto dell’essere del Cristo, quanto piuttosto della storia dell’uomo e della società contemporanea, da liberare mediante la dottrina, la prassi e l’opera del Gesù storico, mettendo così in rilievo soprattutto il significato umano e prassiologico del suo evento. Il Cristo è significativo in quanto ispiratore di prassi personale e sociale di salvezza liberatrice già su questa terra. In quest’ambito si muovono, ad esempio, le teologie e le cristologie della liberazione latinoamericane (cf L. Boff, J.​​ Sobrino,​​ L.​​ Segundo).​​ Altri modelli cattolici contemporanei sono dati da quello​​ estetico​​ di Hans Urs von Balthasar, da quello​​ personalistico​​ di​​ Olegario González​​ de​​ Cardedal,​​ da quello​​ culturale​​ di H. Kùng, da quello​​ metadogmatico​​ (molto problematico, perché non sembra ricuperare adeguatamente l’intero dogma cristologico) di P. Schoonenberg e E. Schillebeeckx, da quello​​ religioso-popolare​​ di​​ Puebla.​​ Il Cristo Liberatore di​​ Puebla​​ non è una semplice istanza rivoluzionaria e politica, né una ideologizzazione con esclusive finalità intramondane: è invece il Cristo “Unico Salvatore”​​ (Puebla,​​ 1166), che proprio in virtù del suo spessore umano-divino, della sua prassi di liberazione, del suo evento pasquale, si presenta di fatto “Signore della nostra storia ed ispiratore di un vero mutamento sociale” (ib.,​​ 174).

4.​​ Il Cristo biblico-ecclesiale.​​ Nell’affollata galleria degli odierni ritratti del Cristo, spesso così diversi da sembrare irrelati tra di loro, quali criteri adottare per non smarrire il suo vero volto? E dove trovare il vero Cristo oggi? Diciamo subito che è nella Chiesa contemporanea, nella sua esperienza di salvezza in Cristo che emerge il volto autentico del Cristo della fede cristiana. È, infatti, nella Chiesa — comunità di peccatori salvati, comunità eucaristica, comunità apostolica, comunità di preghiera... — che si vive ancora oggi, non come ricordo archeologico, né solo come dogma teorico, ma come realtà esperienziale la proclamazione entusiasta che Pietro fece, prima — “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivente” (Afi 16,16) — e dopo la Pasqua: “In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati” (At​​ 4,12).

Il centro della fede e della vita cristiana, del suo apostolato e della sua catechesi, è il Cristo biblico-ecclesiale. Per far maturare la fede nel Cristo biblico-ecclesiale, per fondare adeguatamente e creativamente l’adesione globale alla sua persona, per rendere ragione della nostra speranza, bisogna cogliere i nuclei essenziali dell’evento Cristo. Si tratta, cioè di evidenziare quegli elementi fondamentali che rendono decisamente cristiana la nostra proposta di fede, superando qualitativamente gli stadi delle precomprensioni semplicemente umanistiche o religiose del Cristo. Sono quei pilastri senza i quali una catechesi autenticamente cristiana non può dirsi tale e con i quali, invece, essa si qualifica in tutta la sua portata salvifica. Al tempo stesso questi elementi costituiscono gli essenziali criteri di verifica e di progettazione di un annuncio di fede completo, senza ingiustificati alibi riduzionistici. Infatti, qualsiasi modello cristologico si possa scegliere, una catechesi in tanto può dirsi completa, in quanto non disattende e non elide le istanze contenute nei nuclei essenziali della fede.

Sono quattro gli elementi fondamentali per un’adeguata maturazione e fondazione del nostro discorso cristologico.

a)​​ La storia di Gesù Cristo.​​ È la storia la fonte dell’esperienza cristiana di ogni tempo e di ogni spazio. È la storia che mi testimonia che il Cristo biblico-ecclesiale non è un mito, un’idea atemporale, o una creazione della comunità primitiva. In primo luogo bisogna quindi narrare la storia di Gesù di Nazaret, visto nella sua concretezza di personaggio realmente vissuto in Palestina (più o meno tra il 7-4 a.C. e il 30 d.C.), che ebbe una determinata parabola vitale fino alla sua morte in croce. Nell’evento di Cristo la storia è giunta alla sua massima pregnanza salvifica, dal momento che in lui la storia (= esistenza, gesti, parole, atteggiamenti, evento pasquale) è contemporaneamente salvezza definitiva: la sua parabola storica è allo stesso tempo evento salvifico unico e definitivo.

b)​​ La continuità personale tra il Gesù della storia e il Cristo dell’annuncio e della fede ecclesiale contemporanea.​​ Con tale criterio si afferma che il Cristo biblico-ecclesiale contemporaneo è l’autentico Gesù della storia e non una arbitraria dilatazione dogmatica ecclesiale: sì che i concili, la vita liturgica, la devozione popolare, l’interpretazione teologica di ieri e di oggi presentano elementi cristologici legittimi e indispensabili, che non hanno corrotto o ampliato indebitamente il Gesù della storia, ma lo hanno adeguatamente riannunciato nel corso della storia con comprensioni e con categorie inculturate, disponibili nelle varie epoche.

c)​​ Gesù Cristo liberatore assoluto e definitivo.​​ Ciò significa che in nessun altro nome c’è salvezza totale e integrale: solo in lui l’uomo, la storia e il cosmo trovano il loro significato positivo, si realizzano totalmente, purificandosi e liberandosi definitivamente dai cerchi negativi della morte fisica, psichica, sociale, etica, spirituale, cosmica. Significa che solo in Cristo si può realizzare l’autentico essere uomo in assoluta e armonica sintonia con gli altri uomini e con il cosmo. Significa ancora che in GC Dio ha portato a compimento ultimo il suo piano di salvezza, e che l’evento Cristo ha in se stesso le ragioni di tale salvezza definitiva. I fondamenti di questa pretesa: 1. L’annuncio del → “regno di Dio” e l’irruzione-identificazione di questo regno con la persona e l’opera di Gesù, compimento supremo di tutte le promesse della creazione e dell’alleanza. 2. La coscienza da parte di Gesù della sua relazione unica e filiale col Padre. 3. L’evento pasquale della sua morte e → risurrezione redentrice. È questo il volto del Cristo così come lui stesso lo ha mostrato e come la prima comunità cristiana e la fede ecclesiale

di secoli l’ha compreso ed espresso con differenti modulazioni linguistiche ed esperienziali. È in questo evento Cristo che Dio offre all’uomo in modo definitivo e assoluto la sua salvezza. E nello spessore umano e divino del Cristo, persona trinitaria, che si fonda la definitività della salvezza dell’uomo, della storia e del cosmo.

d)​​ La rilevanza “salvifica” del Cristo biblico-eccle siale oggi.​​ L’annuncio cristologico trova la sua compiutezza quando diventa offerta di → salvezza per l’uomo e per la sua storia oggi. È a questo punto che 1’”in sé” del Cristo si fa “per noi”, producendo così i suoi frutti di salvezza. L’evento Cristo non è solo contemplazione ma soprattutto partecipazione personale e comunitaria, storica e metastorica alla salvezza da lui portata e da lui trasmessa. L’annuncio della rilevanza e dell’integrità della salvezza in Cristo è il vertice della maturazione di fede del cristiano oggi. Questi quattro criteri non costituiscono zone separate dell’evento Cristo. Rappresentano invece fasi di un progressivo avvicinamento alla riscoperta graduale e fondata del suo mistero di salvezza nella sua completezza sostanziale. Con questi criteri si riduce all’unità la pluralità dei moduli cristologici contemporanei, ma soprattutto si danno risposte adeguate a quegli interrogativi e problemi, che necessariamente sorgono dal profondo dell’intelligenza di fede dell’uomo contemporaneo e che non possono essere disattesi.

Bibliografia

E. Alberich,​​ Istanze e problemi per l’annuncio di Cristo nella catechesi oggi,​​ nel vol. A. Amato (ed.),​​ 'Problemi attuali di cristologia,​​ Roma, LAS, 1975, 75-94; A. Amato – G. Zevini (ed.),​​ Annunciare Cristo ai giovani,​​ Roma, LAS, 1980, 19-77; 215-233; 355-373; L. Boff,​​ Gesù Cristo liberatore,​​ Assisi, Cittadella, 1973; H. Bourgeois,​​ Le culture di fronte a Cristo,​​ Roma, Boria, 1981; N. Ciola,​​ Studio bibliografico sulla cristologia in Italia​​ (1965-1983),​​ Roma, PUL, 1984; J. Galot,​​ Chi sei tu, o Cristo?,​​ Firenze, Fiorentina, 1977; Io.,​​ Gesù Liberatore,​​ ivi, 1978; In.,​​ Cristo contestato,​​ ivi, 1979; U. Gianetto – P. Damo,​​ Rassegna di studi e sussidi per la catechesi cristologica in funzione pastorale,​​ nel vol. A. Amato – G. Zevini, cit., 327-354; Gruppo di “Catechesi”,​​ Annunciare Cristo oggi. Problemi, istanze, proposte teologiche e pastorali,​​ Leumann-Torino, LDC, 1976; W. Kasper,​​ Gesù il Cristo,​​ Brescia, Queriniana, 1975; H. KOng,​​ Essere cristiani,​​ Milano, Mondadori, 1976; R. Latourelle,​​ L’uomo e i suoi problemi alla luce di Cristo,​​ Assisi, Cittadella, 1982; G. O’Collins,​​ Interpreting Jesus,​​ London, Chapman, 1983; Io.,​​ What are they​​ saying​​ about Jesus?,​​ New York, Paulist Press, 19832; J. F. O’Grady,​​ Models of Jesus,​​ Garden City,

N.Y., Image Book, 1982; J. L.​​ Segundo,​​ El hombre​​ de​​ hoy​​ ante​​ Jesús​​ de Nazaret,​​ 3 vol., Madrid,​​ Cristiandad,​​ 1982; J.​​ Sobrino,​​ Cristologia​​ desde​​ America Latina,​​ Mexico, Edic. CRT, 19772.

Angelo Amato

GESUITI (Catechesi dei)

La C. dei G. (fino alla soppressione dell’ordine, 1773) merita attenzione in quanto prestazione compatta — anche se non molto originale — della riforma cattolica. Essa ebbe ampie ripercussioni sulle attività cat. ovunque. È anche facile documentarla, per il fatto che la Società di Gesù ha sempre curato molto l’informazione e la conservazione della propria storia.

L’impegno dell’ordine nell’ambito pedagogico-cat., soprattutto nei paesi di lingua tedesca, o segnati dalla Riforma, non fu comandato da uno specifico programma, ma si è realizzato gradualmente sulla base di necessità concrete. Proprio in quelle regioni apparve prioritario l’insegnamento cat. dei fanciulli, dei giovani, degli analfabeti, come pure la formazione di una élite cattolica. Il programma di formazione della élite (Ratio​​ studiorum,​​ 1599) rivela che la C. formale occupa uno spazio piuttosto ridotto. Essa consiste soprattutto nell’apprendere a memoria il catechismo e nella sua spiegazione, qualora risultasse necessaria. Si dà invece grande importanza alla pratica religiosa (messa quotidiana per gli studenti, confessione regolare, prediche, ecc.) come pure alla direzione spirituale privata, al controllo sociale, all’inserimento in associazioni di persone con lo stesso ideale (Congregazioni mariane; cf l’educazione nell’internato). Anche rappresentazioni teatrali, di natura morale-religiosa, dovevano servire allo scopo di una socializzazione cristiano-cattolica. Nella misura del possibile tutti questi elementi erano anche adoperati nella C. dei “semplici” (fanciulli e adulti).

I G. si presentano anzitutto come redattori di catechismi (cf → Auger, Astete, Bellarmino, Canisio, Ripalda, ecc.), ma pure e quasi nello stesso tempo come teorici della C. Uno fra i primi è Antonio Possevino con la sua​​ Tbeologia catechetica​​ (1593, in parte già 1583), che costituì la base del vol.​​ Practica Catechismi​​ (1592; attribuito probabilmente per errore a Canisio) e di altre guide cat. (cf soprattutto Diego de Ledesma,​​ De modo catechizandi,​​ 1573; Nicolaus Cusanus,​​ Christliche​​ Zucht-Schul,​​ 1627; Tobias Lohner,​​ Instructio practica... de munere... catechizandi,​​ 1679; fino a Franz Neumayr,​​ Vir Apostolicus,​​ 1752, e​​ Rhetorica Catechetica,​​ 1766). Gli studi teorici rispecchiano l’impegno pratico, soprattutto della C. nella chiesa (“Kirchenkatechese”, accanto oppure dopo la predica), e in parte della C. nelle scuole (superiori), e perfino dei tentativi di utilizzare, dove era possibile, la strada per catechizzare e per attirare anche i genitori alla collaborazione. Si usava per es. cantare a cori alterni (ragazzi e ragazze) i testi del catechismo, e si fecero concorsi per recitarlo, ecc.; come premio si regalava per es. una immaginetta. Si ricorreva a esempi e a paragoni per concretizzare l’apprendimento (cf per es. — seguendo Canisio — Antoine d’Averoult,​​ Les Fleurs des exemples, ou Catéchisme​​ historial,​​ 1603, anche in latino, e in parte in tedesco); i canti (cf → Canisio) e le rappresentazioni sceniche delle verità del catechismo (soprattutto come “Katechismusprozessionen”) avevano lo scopo di creare familiarità con il catechismo stesso. Per coloro che non volevano studiare o non ne erano capaci si fecero catechismi con immagini (→ Canisio).

Feste e celebrazioni (a partire dal sec. XVII si promuove una particolare celebrazione della prima comunione) come pure l’insegnamento complementare nelle famiglie avevano lo scopo di fissare e soprattutto di inserire nella vita l’insegnamento cat. Tuttavia — in conformità con le abitudini dell’epoca — l’accento principale durante le ore del catechismo era messo sulla recita — sofferta sempre più come fastidiosa e ottusa — delle formule di preghiera e delle formule di fede (Padre nostro, Ave Maria, Credo, decalogo, testi del catechismo).

Un modello bello e conciso di questa catechetica e di questa C. si trova in Georg​​ Vogler,​​ Catechismus in auserlesenen Exempeln...​​ (Wiirzburg, 1625): catechismo abbastanza diffuso, che nel linguaggio contemporaneo dovrebbe chiamarsi “una raccolta di materiali omiletico-cat.”. Contiene infatti: una guida cat., il piccolo catechismo di Canisio, una spiegazione di questo catechismo, una teoria dell’educazione cristiana, l’esposizione di una Katechismusprozession, un libro di canti e di preghiere per i fanciulli, e naturalmente una grande quantità (più di 700) esempi e paragoni. Con un certo fondamento l’illuminismo ha combattuto questo metodo.

Per ciò che riguarda la C. dei Gesuiti dopo la rinascita dell’ordine (1814) cf → Deharbe, e poi → Jungmann e → Hofinger. Con il progredire del tempo è sempre più difficile distinguere uno specifico profilo cat. della Società di Gesù.

Bibliografia

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Eugen Paul

GIOVANI (Catechesi dei)

1.​​ L’orizzonte

a)​​ L’interesse della C. per i giovani è un dato relativamente recente. Nella sua rilevanza attuale è dovuto ad alcuni fattori di indole generale che qui si possono solo ricordare.

Anzitutto, il rinnovamento dei metodi pedagogici che progressivamente spostano l’asse d’interesse dalla dottrina al soggetto. Donde la preponderante attenzione alla maturazione personale e ai dinamismi psicosociali che la promuovono; ma anche la parte attiva che il soggetto ha nell’elaborazione della stessa dottrina: il G. assume quindi un ruolo significativo anche per interpretarla ed esprimerla, soprattutto sul fronte operativo. Recentemente l’urto della contestazione ha radicalizzato la conflittualità giovanile; anche la fede è stata severamente criticata e poi massicciamente disertata dai G. Il fatto ha sconcertato la comunità credente: l’ha costretta a ripensare la propria proposta e le sue condizioni di credibilità.

b)​​ Per quanto concerne specificamente la C., s’impongono problemi molteplici; due soprattutto: l’identificazione dei destinatari, la loro disponibilità alla fede.

— L’identificazione dei destinatari.

Parlando di giovani ci si riferisce tendenzialmente all’età con tutte le fluttuazioni che le diverse teorie psico-sociologiche propongono. Nella C. il termine G. è assunto per lo più a partire da una condizione di incipiente maturità: indicativamente i diciott’anni. Essi, oltre che una connotazione psicosomatica, denotano per molti Paesi europei la conclusione della Scuola Media Superiore, con il conseguente inserimento nell’ambiente di lavoro o, se gli studi continuano, l’orientamento ad una peculiare professione. Quindi corrispondono ad un processo di integrazione sociale in cui il G. è sollecitato ad assumersi ruoli definiti, a fare scelte operative e ideologiche precise se non definitive.

La sua situazione educativa cambia profondamente. Gode di più larga autonomia, è spesso chiamato a responsabilità: a verificare le proprie convinzioni in confronto con le situazioni concrete, spesso disumanizzanti. Recenti esperienze, specialmente contestative, hanno portato alla ribalta il tema globale della condizione giovanile: è stato molto discusso se​​ i​​ G. rappresentino una cultura sostanzialmente unitaria e identificabile. Si può ragionevolmente scartare l’ipotesi.

— La disponibilità dei G. alla fede.

In termini molto generali e approssimati si può notare una progressiva disaffezione al fatto religioso: la documentazione ormai largamente confermata e attendibile concerne soprattutto la pratica religiosa. Il G. critica l’istituzione, ma coinvolge ben presto la dottrina.

C’è chi vede nell’atteggiamento giovanile attuale indifferenza e rifiuto della religione e della sua proposta; e c’è chi vi presagisce un’esigenza di autenticità e di rinnovamento da operare soprattutto lungo la spinta dell’istanza secolare o anche delle fedi alternative (religioni sotterranee).

Inoltre la C. è chiamata in causa nella sua dimensione educativa, perché a questo livello si verificano i mutamenti più profondi. I G. annunciano una “diversa” presenza: esigono più larga responsabilità e partecipazione; oltre le consuetudini e le norme vogliono scoprire valori: cercano il dialogo improntato a libertà e franchezza.

La proposta cristiana è quindi sottoposta a verifica esigente e a confronto critico: imposta un rapporto fra G. e adulti sotto molti aspetti inedito nella consuetudine ecclesiale.

2.​​ L’azione catechetica

a)​​ I giovani rappresentano quindi una sfida palese alla C. Gli anni successivi al Concilio hanno visto la comunità ecclesiale impegnata con serietà sul problema giovanile, aggiornando metodi e interventi: progressivamente consapevole dell’urgenza di elaborare una strategia unitaria e di ripensare l’obiettivo stesso della C. ai G.

Soprattutto si fanno insistenti e allarmanti i richiami del magistero all’incontro con i G. A livello di Chiesa universale il problema è chiaramente avvertito nel Sinodo del 1974. Con esso la Chiesa intende “uscire” ad incontrare i G. Nella EN Paolo VI richiama un’attenzione “tutta speciale ai giovani” per offrire loro l’ideale evangelico, ma anche perché essi stessi diventino apostoli della gioventù (n. 72).

Ma il problema è a fuoco soprattutto con il Sinodo del 1977, che esplicitamente punta alle “giovani generazioni” come fulcro dell’impegno cat. e pastorale. Lo stesso titolo,​​ La C. del nostro tempo con particolare riferimento alla C. dei fanciulli e dei G.,​​ dice la preoccupazione che muove e attraversa il Sinodo. In realtà, il Sinodo ha spostato man mano l’asse dell’interesse sulla comunità. Tuttavia i G. vi conservano una considerazione assidua e privilegiata: “La preoccupazione di fare autentica C. ai G. è stata onnipresente nei lavori sinodali”.

Si può dire di fatto che dai lavori del Sinodo 1977 sono emerse indicazioni preziose: — Ai G. va data speciale attenzione perché portatori di atteggiamenti nuovi — socializzano attorno a nuovi bisogni (Instrumentum laboris,​​ n. 11); e perché particolarmente disponibili alla fede (ibid.,​​ n. 12).

— Si tratta tuttavia di pensare le condizioni corrette in cui la loro presenza e partecipazione risulti accolta, venga sollecitata da scelte di campo solidali con le loro aspirazioni; trovi spazio di responsabilità: essi “non solo debbono ascoltare e imparare, ma hanno qualcosa di loro specifico da dare” (ibid.,​​ nn. 34-35). La comunità vive e s’alimenta anche del loro entusiasmo, della loro iniziativa e creatività.

Donde l’attenzione alla dinamica complessa e provocante della condizione giovanile, sottintendendo con ciò stesso una precisa scelta di metodo: le connotazioni sulla condizione giovanile restano inevitabilmente parziali, indicative, discutibili; ma appunto lo sforzo di interpretare i giovani nella situazione reale — personale e collettiva (Messaggio,​​ n. 3) — che li definisce, privilegia una metodologia esperienziale ormai acquisita: irrinunciabile nell’educazione delle giovani generazioni, ma importante a tutte le età, in quanto interpreta una cultura, oltre che una sensibilità.

Privilegiare l’età giovanile non è dunque strategia momentanea e settoriale. È scelta che qualifica e focalizza il rinnovamento della C. e dell’esperienza ecclesiale: “Scegliendo di focalizzare l’attenzione sui G., sui loro problemi, sulle loro esigenze, sulle loro domande, il Sinodo ha scelto il punto di vista più stimolante per inquadrare tutta la problematica cat. attuale e interrogarsi su di essa” (A. Del Monte).

La CT puntualizza alcuni elementi certamente significativi per una pedagogia della fede ai G.:

— responsabilità e consapevolezza morale; — prospettive e proposte che la C. è chiamata ad elaborare;

— significato che queste possono assumere per le scelte fondamentali che il G. opera e per il senso che va conferendo alla propria esistenza (CT 39).

b)​​ Nella concretezza della prassi ecclesiale si opera su fronti molteplici, non sempre organicamente coordinati. Gli apporti vengono da aree diverse:

— i movimenti ecclesiali, ciascuno con una propria esperienza educativa, spesso anche teoricamente elaborata: lo spazio dato alla maturazione e alla responsabile collaborazione dei G. è di solito preponderante;

— i gruppi spontanei ecclesiali, profondamente diversificati secondo la situazione dei vari Paesi: per lo più i G. vi sono chiamati a dare un contributo fattivo alla soluzione dei problemi incombenti sia a livello ecclesiale, sia, specialmente nei Paesi in via di sviluppo, a livello socio-politico;

— infine, rinnovamento conciliare, esigenze di collaborazione ecclesiale — C., liturgia, impegno caritativo — o comunque provocazioni culturali (secolarizzazione) hanno complessivamente risvegliato interesse e partecipazione a corsi di studio, anche specializzati; raccolgono un numero notevole di G., li mettono a contatto reciproco, consentono esperienze di condivisione comunitaria oltre che di approfondimento dottrinale.

Un discorso a parte comporta l’educazione religiosa scolastica. L’ → IR assume in talune nazioni — esempio tipico la Rep. Fed. tedesca — un’importanza preponderante; resta tuttavia attraversato da problemi complessi, soprattutto per la difficile composizione fra esigenze confessionali e rispetto della laicità della scuola.

c)​​ In Italia c’è anche da segnalare fra le sollecitazioni più significative la pubblicazione del Catechismo dei G.,​​ Non di solo pane;​​ rappresenta un’esperienza assai rilevante.

Non è qui il caso di entrare nei dettagli. Resta invece importante rilevare lo sforzo del catechismo

— di incontrare il G. nella sua atmosfera culturale. L’estensore sottolinea la “presenza alla cultura”, soprattutto nella prima parte:​​ Alla ricerca;

— di presentargli una figura di Cristo storicamente incarnata ed esistenzialmente credibile; seconda parte:​​ Gesù il Cristo;

— di annunciargli il messaggio con considerevole serietà ed esigenza, anche quando la proposta risulta alternativa o provocante; terza parte:​​ La vita nuova.

3.​​ Problemi e prospettive

a)​​ Si può dire che la C. giovanile ha recentemente percorso un cammino notevole. Restano resistenze e problemi di non facile soluzione. Sottolineo i più rilevanti con cui oggi la ped. cat. si confronta.

— La condizione fluttuante, frammentata e diversificata che scoraggia la pretesa di dare un volto unitario alla gioventù, e quindi di identificare precisamente l’interlocutore;

— cui accede una divaricazione culturale che in taluni paesi — l’Italia è fra questi — porta ad atteggiamenti di contrapposizione ideologica, spesso indifferente, se non ostile, alla religione;

— provocazioni professionali ed esistenziali che urgono negli armi giovanili, impongono scelte e decisioni da cui la fede risulta per lo più estranea, dato anche il processo ormai largo di secolarizzazione che coinvolge il Paese.

b)​​ Va comunque sempre meglio delineandosi la diversa e complementare responsabilità delle varie aree educative.

La famiglia perde man mano di incidenza: non solo per la naturale emancipazione che il G. rivendica e consegue, ma anche per ragioni più specifiche, quali la rapida evoluzione culturale, la divaricazione ideologica, l’incidenza dei mass-media, gli impegni di studio e di lavoro, per lo più vissuti lontano, o comunque fuori della famiglia: condizioni tutte che ne riducono notevolmente le possibilità educative.

L’educazione scolastica è segnata da tentativi controversi ed estenuanti di riforma: denunciano il disagio e l’impasse. In Italia TIR scolastico risulta fortemente condizionato. Il recente approdo concordatario e la conseguente faticosa elaborazione organizzativa possono aprire varchi di evasione e di disinformazione evidenti. L’opportunità di offrire un’occasione seria di confronto maturo e organico sull’esperienza religiosa a tutti i G. italiani è compromessa.

La comunità ecclesiale si riafferma quale luogo privilegiato di esperienza e di maturazione di fede. Del resto i G. tornano a guardare con un certo interesse alla Chiesa, almeno come a luogo aperto di confronto e magari di impegno. Promettente appare la partecipazione a iniziative di approfondimento teologico-culturale (teologia per laici) o di impegno cat., di animazione pastorale.

Il gusto ritrovato di stare assieme, di fare gruppo, ripopola le aggregazioni e i movimenti. È evidente l’apporto di questi ultimi in particolare: offrono una proposta differenziata e spesso sollecitante, intensamente condivisa, sia pure con rischio anche palese di enfatizzazione unilaterale.

Le aggregazioni ecclesiali ribadiscono l’urgenza di comunità a dimensione umana, che consentano rapporti interpersonali autentici. Resta ancora problematica la caratterizzazione, la funzione, la stessa identità dei gruppi ecclesiali: gruppo di aggregazione o di riferimento, rapporto con la comunità parrocchiale, correlazione fra impegno religioso ed esperienza affettiva, professionale, politica...

L’integrazione fra le diverse aree educative si rivela diffìcile; manca per lo più un progetto unitario: tentativi di elaborare una strategia educativa condivisa in ambito giovanile risultano occasionali, né vanno molto oltre i “buoni propositi”.

L’area ecclesiale è comunque in movimento, e i G. vanno prendendovi una parte rilevante. Una pedagogia della fede è per lo più implicita e soggiacente sia nei vari movimenti che nello “stile” delle diverse aggregazioni. Anche l’esperienza di gruppo resta debitrice degli orientamenti pedagogici man mano vincenti; basta pensare per il recente passato ai metodi ispirati alla nondirettività, alla revisione di vita, all’animazione...

Comunque i tentativi di offrire un’elaborazione unitaria di itinerario formativo sono obbligati a tener conto delle varie componenti che qualificano l’esperienza giovanile. In questo senso risulta ad es. ancora “centrata” la scelta suggerita per la giovinezza da → Colomb:​​ C. di integrazione.

4.​​ Il nodo attualmente provocante

Riguarda il ruolo della fede, la sua corretta collocazione e funzione nella maturazione del G. credente. L’educazione giovanile alla fede ha da riformulare il proprio obiettivo. Il che comporta un ricupero urgente della credibilità della fede, del suo significato per l’esistenza e la sua piena espansione: compito ermeneutico. C’è inoltre un itinerario pedagogicamente attento all’apporto delle scienze antropologiche. E, soprattutto, c’è un’esperienza di corresponsabilità e di fraternità ecclesiale da promuovere.

Bibliografia

G. Adler – G. Vogeleisen,​​ Un siede de catéchèse en France,​​ Paris, Beauchesne, 1981; A. Amato – G. Zevini (ed.),​​ Annunciare Cristo ai giovani,​​ Roma, LAS, 1980; P. Babin,​​ 1 giovani e la fede,​​ Roma, Ed. Paoline, 1965; Id.,​​ Metodologia,​​ Leumann-Torino, LDC, 1967; P. Braido (ed.),​​ Educare,​​ vol. III,​​ Zürich,​​ PAS Verlag, 1962, cap. IV: Catechesi giovanile; G. Caprile (ed.),​​ Il Sinodo dei Vescovi 1977,​​ Roma, La Civiltà Cattolica, 1978;​​ Il Catechismo dei giovani “Non di solo pane”,​​ Roma, CEI, 1979; (Verso il) catechismo dei giovani,​​ in «Notiziario» 7 (1978) n. 1; nn. 3-4; J. Colomb,​​ Al servizio della fede,​​ vol. II, Leumann-Torino, LDC, 1968, cap. VI: Catechesi d’integrazione. La giovinezza; F. Coudreau,​​ Si può insegnare la fede?,​​ ivi, 1978; B. Grom,​​ Metodi per l'insegnamento della religione, la pastorale giovanile e la formazione degli adulti,​​ ivi, 1981; G. Milanesi,​​ Oggi credono così,​​ 2 vol., ivi, 1982; D. Piveteau,​​ Aprire i giovani alla fede,​​ ivi, 1979; M. Sauvètre,​​ I giovani scoprono la catechesi,​​ ivi, 1970; Z. Trenti,​​ Giovani e proposta cristiana,​​ ivi, 1985.

Zelindo Trenti

GIOVANI (Pastorale dei)

1.​​ Per una definizione di pastorale giovanile.​​ Nel dopoconcilio PG non è stata una voce univoca. Attorno a questo tema, infatti, si è sviluppato un fenomeno di dilatazione semantica, che ha minacciato la sua vanificazione per continue indebite estensioni. Come reazione, non sono mancati tentativi di rifiuto a proposito del termine stesso e dei significati che tradizionalmente veicolava. La dilatazione è stata giustificata dal bisogno di dare una risonanza globale ai diversi interventi settoriali rispetto al processo di educazione alla fede (C., prassi sacramentali e liturgiche, animazione di gruppi e movimenti...), con la conseguente riduzione di specificità. Il rifiuto è stato invece legato al giusto tentativo di superare la settorialità nell’azione educativa e pastorale e alla riaffermata responsabilità degli “adulti” nella vita e nella fede. Di conseguenza è stata sottolineata come unica e totalizzante l’azione pastorale della comunità ecclesiale.

Superando queste due prospettive riduttive, affermiamo la pertinenza di una PG, precisandone l’ambito e il significato.

L’ambito della PG è determinato da quelle azioni della comunità ecclesiale con/per i giovani, in cui essa assolve il suo compito costitutivo e originale di attuare la salvezza in situazione. Come si sa, la salvezza cristiana ha anche una dimensione intrastorica e promozionale. Ma questa dimensione è di competenza solo indiretta della comunità ecclesiale, come “parte integrante” di una missione la cui originalità è determinata “dalla finalità specificamente religiosa dell’evangelizzazione” (EN 32).

Queste azioni specifiche sono molte e differenziate. Generalmente sono organizzate in quattro capitoli: la C. e il ministero della parola; la liturgia e le celebrazioni sacramentali; l’esperienza di comunione; il servizio di promozione dell’uomo, in prospettiva personale e collettiva. Il loro insieme costituisce l’azione pastorale. La riflessione su questa complessa azione considera soprattutto la procedura globale, capace di animare e unificare i differenti interventi.

Queste azioni sono misurate sulle attese e sui bisogni dei giovani concreti, perché la comunità ecclesiale è sollecitata ad offrire un servizio specializzato, per attirare i processi di salvezza in situazione. In sintesi quindi studio sulla PG significa riflessione sulla azione multiforme che la comunità ecclesiale, animata dallo Spirito Santo, realizza con/per i giovani (soggetti in età evolutiva), per attuare in essi il progetto di salvezza di Dio, in riferimento alle loro concrete situazioni di vita.

2.​​ Il difficile sviluppo della PG.​​ Purtroppo non esiste una letteratura, del recente passato, sufficiente per delineare lo sviluppo della PG. Molti libri che trattano di tematiche relative alla PG non affrontano in modo riflessivo il suo statuto specifico. Si può scrivere una storia solo sulle pagine, confuse e vivaci, della prassi. Una chiave interpretativa che aiuta a organizzare questo materiale frastagliato, è fornita dalle grandi correnti di teologia pastorale che hanno esercitato, direttamente o indirettamente, un influsso su questa stessa prassi.

La corrente di teologia pastorale, più diffusa almeno fino al tempo del Concilio, ha offerto il supporto culturale a un modello di PG che possiamo definire “storico-oggettivo”. Esso infatti mette fortemente l’accento sulla iniziativa di Dio, sul suo progetto di salvezza e sulla sua importanza per l’autorealizzazione personale. Nel dono di salvezza, presentato agli uomini dal Padre in Gesù Cristo, attraverso la mediazione storica della Chiesa, sta la realizzazione personale e sociale. La singola persona e l’umanità nel suo insieme, la società stessa raggiungono il loro pieno significato solo accettando il dono di Dio.

La PG ha come compito l’educazione dei giovani ad accogliere vitalmente il progetto di Dio. Essa è preoccupata di moltiplicare i contatti tra i momenti tipici della fede e la vita quotidiana dei giovani. Di qui la centralità del momento cat., realizzato prevalentemente come “annuncio” del progetto di Dio, in cui è contenuta la risposta definitiva alle domande che la vita pone. Di qui ancora l’insistenza sulla pratica sacramentale, perché i sacramenti sono i “mezzi” della salvezza e quindi della realizzazione personale.

Molti operatori di PG, soprattutto verso la fine degli anni ’60, si sono trovati però a dover fare i conti con una constatazione problematica che minava alla radice la logica di questo primo modello: per molti giovani la fede è diventata un fatto marginale, insignificante. Chi constatava questa complessa situazione, si è trovato presto in consonanza con i temi espressi nelle correnti di teologia pastorale, centrate sui nodi esistenziali dell’esperienza e della prassi di liberazione. Si è così consolidato un modello di PG animato dalla pretesa di reinserire l’esperienza di fede nella vita quotidiana, perché capace di svelare le domande profonde dell’esistenza e di riformulare la fede come risposta a queste domande.

Il centro di attenzione educativa e il luogo privilegiato dell’azione pastorale diventa così la vita concreta e quotidiana dei giovani. L’intervento educativo ha la funzione di stimolare a definire la propria realizzazione come riconoscimento dell’altro e impegno a promuoverlo. In questo progetto, la fede è oggettivamente in causa. L’intervento pastorale vuole stimolare alla presa di coscienza soggettiva di questo dato oggettivo. Questo modello può essere definito come “esistenziale” perché sposta l’accento dalla norma alla persona, dalla razionalità alla prassi, dai valori in assoluto alle valorizzazioni personali, dal dato di principio alle situazioni concrete, dai progetti astratti alle esperienze personali.

Alla fine degli anni ’70, sulla PG rimbalzano le contraddizioni che attraversano le comunità sociali ed ecclesiali. La condizione giovanile fa problema e interpella. Sul modo di interpretare e risolvere queste provocazioni si frantumano i modelli di PG.

Resta predominante il modello esistenziale, fatto ormai maturo, anche per il sostegno della letteratura specializzata. Esso ritrova l’esperienza comunitaria come sua dimensione qualificante, riuscendo così ad acquisire una buona incidenza formativa.

Il modello tradizionale tenta una rivincita, riscoprendo in termini accorti e culturalmente raffinati due esigenze pastorali che il modello esistenziale aveva parzialmente sottaciute. Da una parte si riafferma l’importanza dell’approccio veritativo, come momento in cui sollecitare ad apprendere, con pazienza e fermezza, i contenuti oggettivi della fede. Dall’altra, lo stimolo della teologia dialettica e il confronto con esperienze carismatiche portano a sottolineare la centralità del momento spirituale e l’efficacia immediata dei mezzi specifici dell’azione pastorale.

In questi ultimi anni si fa strada un terzo modello, caratterizzato da una forte risonanza comunitaria. Esso non solo segna e modifica i precedenti, ma tende a costituirsi come progetto autonomo e alternativo. Il rapporto tra fede e realizzazione personale non è risolto attraverso una rivisitazione dei due moduli in questione, come fanno gli altri due modelli, ma favorendo il contatto per identificazione con un vissuto: una comunità di appartenenza, che si offre come proposta affascinante di vita cristiana. Per costituire queste comunità sono privilegiati gli interventi finalizzati alla formazione dei gruppi primari e si reinterpreta l’esistenza cristiana da questa prospettiva: intensificazione dei rapporti a faccia a faccia; creazione di una ampia omogeneità interna, anche mediante l’accesa contrapposizione verso l’esterno; circolazione di modelli di comportamento e di informazioni; accentuazione degli aspetti comunitari dell’esistenza cristiana; prevalenza del metodo kerygmatico perché meno pluralista; lettura della Bibbia in forma mistagogica; riscoperta della preghiera di gruppo.

3.​​ Prospettive e problemi attuali.​​ Oggi la PG attraversa una stagione felice nella vita delle comunità ecclesiali. Semplificando un poco le cose, ci sembrano due le linee di tendenza emergenti: una prospettiva attenta a risolvere problemi di “iniziazione”, e una che cerca di cogliere le sfide culturali più alla radice e tenta processi di “riformulazione”.

La prospettiva della “iniziazione” è legata a una ricomprensione dei compiti della PG soprattutto in termini di metodologia pastorale. Mette l’accento sulla necessità di elaborare itinerari precisi e articolati, forniti di strumentazioni efficaci, per far acquisire e interiorizzare contenuti e progetti che vengono accolti dalla esperienza cristiana ufficiale, testimoniata dalle attuali comunità ecclesiali.

Questa svolta, che rappresenta un notevole cammino di qualificazione, è affiorata soprattutto quando gli operatori si sono posti seriamente il problema del “metodo”. Sotto la spinta della teologia dell’Incarnazione, che tanta parte ha avuto nel rinnovamento conciliare, ci si è resi conto della necessità di assumere con serietà e rispetto i “fatti umani”, primi fra tutti quelli “educativi”. Anche se le scienze umane non possono dire l’ultima parola, perché il processo di maturazione della fede attinge nel suo profondo le soglie misteriose del dialogo tra la grazia interpellante di Dio e la libertà responsabile dell’uomo, esse possono offrire preziosi e insostituibili contributi sul piano della visibilizzazione storica di questo dialogo, sul piano cioè delle mediazioni umane in cui questo dialogo si articola e si sviluppa. La definizione di un processo di “iniziazione”, costituito da riti, strutture e interventi, si colloca appunto nel centro di questo complesso confronto. La PG ha trovato così un suo statuto epistemologico specifico, autocomprendendosi come luogo di interdisciplinarità pratica tra teologia e scienze dell’educazione e della comunicazione.

La seconda prospettiva procede oltre: le comunità ecclesiali più sensibili hanno toccato con mano che senza metodo pedagogico corretto non si può fare PG, ma che il vero problema era più a monte. È spuntata così una linea di pastorale giovanile, fortemente legata a processi ermeneutici, che cerca la soluzione dei problemi in chiave di “riformulazione” dell’esperienza cristiana stessa. Rendendosi conto che il linguaggio ecclesiale è, molto spesso, legato a una cultura lontana da quella dei giovani d’oggi, ci si è dovuti interrogare sui processi attraverso i quali la Parola di Dio è diventata parola dell’uomo e per l’uomo. Ancora una volta la teologia dell’Incarnazione ha offerto la strumentazione per comprendere e formulare il problema.

Se la Parola di Dio, come in Gesù Cristo, prende l’umana carne della cultura dell’uomo, per farsi parola di salvezza in situazione, le comunità ecclesiali sono sollecitate a verificare quale cultura viene utilizzata per “dire” la parola di salvezza. In questa verifica sono spontaneamente portate a misurare la distanza esistente tra la cultura utilizzata generalmente e la reale situazione giovanile. Si rende così urgente la decodificazione di molti messaggi ecclesiali, per sceverare il nucleo irrinunciabile e costitutivo della fede dal rivestimento culturale in cui viene espresso. Da questa decodificazione prende le mosse il grave impegno pastorale di riesprimere la fede in un codice che sia, nello stesso tempo e con la stessa intensità, rispettoso della fede e del mondo esperienziale dei giovani.

Questa prospettiva accentua l’esigenza di “riformulazione”: mette infatti sotto processo i contenuti e il progetto che definiscono l’esigenza cristiana, come ci sono offerti dalle comunità ecclesiali attuali. La PG non ha solo un problema metodologico da risolvere. Essa deve lavorare anche sull’obiettivo di tutto il processo. Le difficoltà con cui si scontrano le comunità ecclesiali che vogliono iniziare i giovani d’oggi alla esperienza cristiana, non sono forse legate al fatto che loro si chiede un passo indietro rispetto a! loro mondo culturale?

Qualche volta, nelle pubblicazioni e nelle prassi, le due prospettive sono vissute come alternative e contrapposte. Nei modelli più maturi, invece, si fa progressivamente strada la percezione che la “sfida” sta proprio qui: se il problema della PG, come ogni problema giovanile, è prima di tutto di “comunicazione” tra mondi che sembrano chiusi, è urgente trovare una prospettiva più profonda, capace di funzionare come criterio di verifica e di discernimento nella indispensabile complementarità tra iniziazione e riformulazione. Ed esistono studi e realizzazioni che testimoniano la praticabilità di questa ipotesi.

Bibliografia

Area francese

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Area inglese

M. Harris,​​ Portrait of Youth Ministry,​​ New York, 1981.

Area italiana

C. Bucciarelli,​​ Realtà giovanile e catechesi,​​ 2 vol., Leumann-Torino, LDC, 1973-1975; Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale,​​ Condizione giovanile e annuncio della fede,​​ Brescia, La Scuola, 1979; R. Martinelli,​​ Rinnovamento psicopedagogico della pastorale giovanile. Ricerche e orientamenti,​​ Roma,​​ PUL,​​ 1977; R.​​ Tonelli,​​ Pastorale giovanile. Dire la fede in Gesù Cristo nella vita quotidiana,​​ Roma, LAS, 1982.

Area latino-americana

S.​​ Benetti,​​ Pastoral​​ de la​​ juventud,​​ Buenos Aires, 1971;​​ Consejo Episcopal Latinoamericano,​​ 'Elementos para un directorio​​ de​​ pastoral juvenil orgánica,​​ Bogotá, 1982; J. Andrés Vela,​​ Pastoral juvenil en América Latina,​​ Bogotá, 1978.

Area spagnola

A.​​ Larrañaga,​​ Una pastoral juvenil en línea catecumenal,​​ Madrid, 1981; J. L. Pérez Alvarez,​​ Juventud y compromiso de la fe,​​ Madrid, 1975.

Area tedesca

R.​​ Bleistein,​​ Kirchliche Jugendarbeit,​​ Dusseldorf, 1976; W.​​ Jentsch,​​ Handbuch der Jugendseelsorge.​​ Geschichte – Theologie – Praxis, Gütersloh,​​ 19631981;​​ J. Schilling,​​ Kirchliche Jugendarbeit in der Gemeinde,​​ München, 1979.

Riccardo Tonelli

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GESÙ CRISTO

GESUITI

 

GESUITI

Membri della Compagnia di Gesù, ordine religioso di chierici regolari fondato da s. Ignazio di​​ ​​ Loyola, approvato da Paolo III (1540).

1.​​ Finalità e mezzi.​​ Nacquero come un gruppo di presbiteri che desideravano prima di tutto​​ servire sotto il vessillo della Croce solamente il Signore Gesù,​​ e la sua sposa la Santa Chiesa sotto il Romano Pontefice,​​ dedicandosi intensamente alla salvezza e santificazione delle proprie anime nel servire quelle del prossimo. La loro spiritualità si fonda nella «conoscenza intima» della Persona di Gesù Cristo, contemplato, amato e seguito; nella preghiera personale, e nel servizio ecclesiale per la difesa e propagazione della fede. Per realizzare questo obiettivo, essi si servono di quei mezzi che​​ maggiormente​​ ad esso conducano: predicazione della Parola, insegnamento,​​ Esercizi spirituali,​​ catechesi, sacramenti, missioni estere, opere assistenziali, promozione umana e della giustizia sociale, mezzi di comunicazione, ecc. I g. si distinguono per il loro particolare voto di obbedienza al Papa circa le missioni che egli dovesse loro affidare. La loro struttura di governo è molto gerarchica: il preposito generale è eletto a vita dalla Congregazione Generale della Compagnia (formata dai superiori provinciali e da altri eletti nelle congregazioni provinciali). La​​ Formula dell’Istituto​​ è la loro Regola fondamentale, sviluppata nelle​​ Costituzioni,​​ redatte da s. Ignazio (con l’aiuto speciale del p. Polanco) tra gli anni 1539-53.

2.​​ Storia.​​ Il motto dell’Ordine (A maggior gloria di Dio)​​ è stato messo in pratica dalle loro prime attività nel sec. XVI, sia in Europa, nella difesa e propagazione della fede, sia nei territori cristiani, sia nei Paesi «di Missione», attraverso i diversi ministeri e servizi apostolici: dal lavoro catechetico alla ricerca scientifica, dall’attenzione spirituale ai malati alle opere di civiltà delle Riduzioni americane, dalle opere d’insegnamento alle riviste ed altri mezzi di comunicazione. Erano 10 i primi compagni (Favre, Xavier, Laínez, Salmerón, Rodríguez, Bobadilla, Jayo, Broet, Coduri e Ignazio) che fissarono il loro centro di attività a Roma. L’8 aprile 1541 Ignazio fu eletto a preposito generale, ed i compagni presenti a Roma fecero la professione solenne il 22 dello stesso mese nella basilica di san Paolo fuori le mura. I primi collegi per esterni furono estensione o apertura ai laici dei collegi fondati anzitutto per la formazione dei futuri g. A Gandía (Spagna) aprirono un collegio per studenti della Compagnia con accesso anche ai figli dei «moreschi» (1546); similmente fecero a Messina (1548), per altri studenti esterni; il Collegio Romano – origine dell’Università Gregoriana – fu fondato nel 1551 ed in esso si sarebbero formati i futuri g., i seminaristi diocesani e perfino cattolici secolari molto impegnati. A partire dal 1553 nei collegi dei g. si cominciarono ad impartire anche lezioni di Filosofia e Teologia. I collegi gesuitici divennero anche centri cittadini di assistenza sociale e spirituale. Quando Ignazio morì (1556) i g. erano più di un migliaio, e i loro collegi erano 39, sparsi in 7 nazioni europee; nel 1580, i collegi erano 140; nel 1600 erano 245; e nel 1626 giunsero a 444. A questi bisogna aggiungere 56 seminari, oltre alle istituzioni universitarie per gli studenti g. L’insegnamento era gratuito, perché era ritenuto ministero apostolico. Per questo, quando era creato un collegio, si cercava sempre che avesse una «fondazione» (rendite o donazioni che assicurassero il suo mantenimento). Mediante tale strumento i g. incidevano nelle strutture della società. Si dedicarono pure alla predicazione, come avevano fatto ai loro inizi, a Siena e a Parma, mandati da Paolo III. Altri furono inviati ad espletare missioni diplomatiche in favore della Santa Sede (Broet e Salmerón furono nunzi apostolici in Irlanda, 1541). A richiesta di Paolo III, Ignazio inviò al Concilio di Trento Laínez e Salmerón (1546). P. Favre, uno dei più fedeli amici di Ignazio, accompagnò in Germania il dr. Pedro Ortiz, diplomatico, il quale partecipò alle dispute religiose tra cattolici e protestanti a Worms e Regensburg. Tutta questa attività era accompagnata, fin dai primordi della Compagnia, dalla predicazione al popolo e dagli​​ Esercizi spirituali​​ dati alle singole persone.​​ Salmerón si distinse per i suoi sermoni, Favre guadagnò la simpatia di molti in Italia, in Germania e in Spagna, e scrisse un​​ Memoriale​​ che i g. considerano come emblematico. Nel sec. XVI si consolidò il metodo d’insegnamento fino alla formazione della​​ ​​ Ratio studiorum,​​ che servirà da guida ai g. nell’educazione ispirata all’umanesimo cristiano. Agli inizi del Seicento, essendo preposito generale il p. Acquaviva, si realizzò la definitiva separazione fra i centri di formazione dediti esclusivamente ai g. e gli altri centri (collegi e università) indirizzati ai non g. La Compagnia trovò difficoltà nel suo apostolato a causa del regime assolutista degli Stati, opposto alla centralizzazione romana rappresentata dai g. Si svilupparono, però le​​ missioni popolari​​ e gli​​ Esercizi.​​ La Compagnia fu espulsa da alcuni Stati monarchici sotto l’influsso di ministri «filosofi» (Pombal nel Portogallo, Choiseul in Francia, Tanucci a Napoli, Aranda in Spagna); in seguito, Clemente XIV firmò il breve​​ Dominus ac Redemptor​​ (1773) mediante il quale la Compagnia era soppressa in tutta la Chiesa. Una delle ragioni per cui i g. furono sistematicamente perseguitati dai membri della cultura laicista ed illuminista (enciclopedisti e massoni inclusi) fu l’universale rilevanza che aveva acquistato il modello pedagogico gesuitico, che rendeva la Compagnia decisiva per la cultura religiosa e la civiltà cattolica. Pio VII, tramite la bolla​​ Sollicitudo omnium ecclesiarum​​ (1814) ripristinò la Compagnia, mirando particolarmente al servizio reso dai g. nel campo dell’insegnamento. La​​ nuova​​ Compagnia, nell’Ottocento, diede alcuni segni di intransigenza, conseguenza delle persecuzioni precedenti, e del desiderio di consolidare le sue radici. I 600 g. del 1814 giunsero, nel 1960, a 36.038, e crebbero soprattutto durante i generalati dei pp. Ledóchowski (1915-42) e Janssens (1946-64). Nel 2007 erano 19.554, e preparavano la Congregazione Generale per gennaio 2008, in cui, tramite permesso esplicito del Papa, sarebbe stato scelto il nuovo Generale, dopo le dimissioni di P. Kolvenbach. Durante il sec. XIX i collegi e le università dei g. negli U.S.A. raggiunsero notevole sviluppo, influendo (assieme all’attività di molti altri istituti religiosi dediti all’insegnamento) sulla crescita del numero dei cattolici nell’America del Nord. Tra i più noti studenti dei g. sono da ricordare s. Giovanni della Croce, Cartesio, s. Francesco di Sales, ecc.

Bibliografia

García Villoslada R.,​​ Manual de historia de la Compañía de Jesús,​​ Madrid, Aldecoa, 1941; Martini A.,​​ La Compagnia di Gesù e la sua storia,​​ Chieri, La Civiltà Cattolica, 1951; Thomas J.,​​ Il segreto dei g.: Gli Esercizi spirituali,​​ Casale Monferrato (AL), Piemme,​​ 21988; Bangert W. V.,​​ Storia della Compagnia di Gesù,​​ Roma, Marietti, 1990; Guibert J. de,​​ La spiritualità della Compagnia di Gesù. Saggio storico,​​ Roma, Città Nuova, 1992; De​​ Rosa G.,​​ I​​ G., Leumann (TO), Elle Di Ci / La Civiltà Cattolica, 2006.

F.-J. de Lasala

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