FACILITATORE

 

FACILITATORE

Il f. può essere definito come un professionista «consulente di processo nelle organizzazioni e agente di benessere relazionale nei gruppi e nel sociale» (De Sario, 2005, 13).

1. Non può, pertanto, essere ridotto soltanto al ruolo di​​ tutor​​ o di mediatore di comunicazione e discussione in gruppi o riunioni. La figura professionale del f. si specifica per la sua capacità di organizzare e gestire risorse sociali e tecniche a un tavolo di lavoro (catalizzatore); di facilitare la comunicazione nel gruppo e nella riunione (mediatore); di gestore di conflitti tra persone e delle tensioni emotive delle singole persone (agente di aiuto), di sostenitore e motivatore di apprendimento nei singoli, nel gruppo, nella organizzazione (motivatore).​​ 

2. Tutto questo lo realizza in tre ambiti fondamentali: le organizzazioni, il sociale e il territorio; all’interno dei quali l’attenzione va agli adulti (uomini e donne), per renderli consapevoli e attori protagonisti e per fare da ponte per incentivare dinamismo e dialogo. Questo è il modo più semplice e completo di precisare ciò di cui si occupa, le sue competenze fondamentali, gli ambiti e le finalità di intervento. Vi è, tuttavia, anche un altro aspetto che non si deve trascurare.

3. In riferimento agli adulti e all’adultità da sviluppare e abilitare a nuove possibilità, il f. è anche formatore, un’azione che mette in atto per migliorare processi e percorsi di apprendimento come​​ self empowerment.​​ Questa azione si concretizza in una metodologia che attiva quattro fasi, ciascuna con attenzioni e obiettivi specifici: formazione «orientamento» (aiutare a pensarsi in modo positivo nel nuovo), formazione «competenza» (acquisizione di nuove metodologie e di uso di nuovi strumenti), formazione «elaborazione» (di resistenze e di preoccupazioni che impedirebbero di aprirsi al nuovo), formazione «azione» (verifica operativa del nuovo a partire da sperimentazioni fatte). Queste sono tutte attenzioni importanti per un intervento formativo efficace con gli adulti. Il f., sia come consulente di processi o agente di benessere sociale, che come f. di processi di apprendimento, trasmette conoscenza, è attento alle persone e ha cura del clima d’aula o di ambiente di formazione. In questo modo egli diventa anche «tessitore di reti» e protagonista di processi di innovazione nelle organizzazioni, nella formazione e nel sociale in generale.

Bibliografia

Bruscaglioni M.,​​ Per una formazione vitalizzante. Strumenti professionali, Milano, Angeli, 2005; De Sario P.,​​ Professione f. La competenze chiave del consulente alle riunioni di lavoro e ai forum partecipati, Ibid., 2005; Id.,​​ F. dei gruppi. Guida per la facilitazione esperta in azienda e nel sociale, Ibid., 2006; Rotondi M.,​​ Facilitare l’apprendere. Modi e percorsi per una formazione di qualità, Ibid., 2006.

V. Orlando

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FACILITATORE

FACOLTÀ DI SCIENZE DELL’EDUCAZIONE

 

FACOLTÀ DI SCIENZE​​ DELL’EDUCAZIONE​​ 

Istituto universitario di insegnamento, di studio e di ricerca nell’ambito delle scienze riguardanti la teoria pedagogica e i fatti educativi.

1.​​ Precedenti storici.​​ Le f.s.d.e. sono di recente creazione. Benché l’espressione si sia generalizzata nella seconda parte del sec. XX, all’interno di uno stesso Paese o contesto culturale vengono usati oggi nomi diversi. Allo scopo di collocare in una adeguata cornice gli inizi e lo sviluppo delle prime f.s.d.e. propriamente dette, si accenna ad alcuni precedenti e, in particolare, al posto che l’insegnamento della​​ ​​ pedagogia ha occupato progressivamente nell’ordinamento scolastico. Dalle notizie sui seminari creati nel sec. XVII da Ch. Demia e da G. B. de​​ ​​ La Salle «per la formazione dei maestri di scuola» si desume che lo scopo prefisso era fondamentalmente pratico. Lo stesso si deve dire del​​ Seminarium praeceptorum​​ fondato da​​ ​​ Francke nel sec. XVIII. Nel corso del sec. XIX, per rispondere all’istanza di preparazione pedagogica degli insegnanti, viene organizzata la​​ ​​ scuola normale, nel cui programma è sempre più presente lo studio della pedagogia. In Italia detta scuola fu preceduta dalle scuole provinciali e dalla scuola superiore di​​ ​​ metodo (1845); quest’ultima (presso l’Università di Torino) fu trasformata in «cattedra di pedagogia». Nel 1887 venne creata la cattedra di pedagogia alla Sorbona (sospesa tra il 1917 e il 1956). Riferendosi alle università francesi, Compayré scriveva alla fine del sec. XIX: si «insegna la pedagogia, sia in una cattedra magistrale come a Parigi, sia in corsi e conferenze come a Lione e a Tolosa»; e precisava che la pedagogia era chiamata ufficialmente «science de l’éducation». Negli Stati Uniti i​​ Departments of the Science and Art of Teaching​​ si erano diffusi notevolmente. In diverse università tedesche (Jena, Heidelberg, Halle, Lipsia), fin dal sec. XVIII i professori di filosofia erano tenuti a dettare un corso di pedagogia (Pädagogik).​​ Sono noti, in particolare, i testi delle lezioni di​​ ​​ Kant e di​​ ​​ Herbart.

2. Scuole e istituti di s.d.e.​​ Iniziative più organiche vengono attuate nei primi decenni del sec. XX. Nel 1912,​​ ​​ Claparède e Bovet fondano a Ginevra l’École des Sciences de l’Éducation​​ (Institut J. J. Rousseau),​​ intesa come centro di ricerca, d’informazione e di propaganda. Il suo motto (discat a puero magister)​​ ne esprime l’orientamento generale: portare gli educatori a una migliore conoscenza del bambino come presupposto per una educazione scientificamente valida. Precisando le origini dell’opera, Bovet scriveva:​​ «Je ne vis que le Tessin et l’Italie, où les​​ Scuole di Pedagogia​​ de Credaro inauguraient alors quelque chose d’analogue à ce que nous voulions créer» (Bovet,​​ 1932, 16). Nel 1929 l’Institut​​ fu affiliato alla f. di Lettere dell’università di Ginevra. Nello stesso anno il senato accademico approvò la risoluzione di​​ «étudier le plan d’une Faculté des Sciences de l’Éducation» (Bovet,​​ 1932, 131). Ma solo nel 1967 è creata in Francia una​​ licence​​ in s.d.e. Nel 1969 l’Istituto di psicologia e pedagogia di Lovanio venne trasformato in f. di psicologia e s.d.e. Nel 1937, a opera dei padri benedettini, era sorta in Brasile la Facultade Livre de Filosofia e Pedagogia, aggregata alla Università cattolica di São Paulo. Ma in nessuno di questi casi si trattava di una f.s.d.e. nel senso pieno del termine.

3.​​ La F.s.d.e. dell’Università Salesiana​​ (= FSE).​​ Nel 1941 erano iniziate invece a Roma, presso la Congregazione degli Studi, le pratiche per l’approvazione, «come f. di pedagogia», dell’Istituto fondato presso il Pontificio Ateneo Salesiano (= PAS) di Torino, da​​ ​​ Leôncio Da Silva (1887-1969), per iniziativa di P. Ricaldone, rettor maggiore dei​​ ​​ Salesiani e gran cancelliere del PAS. In un primo momento, le autorità vaticane ritengono che la pedagogia «non sia una scienza sufficientemente autonoma», constatando che non esistono istituti del genere «né nel campo ecclesiastico né in quello civile». Il parere favorevole di alcuni uomini di cultura (​​ Maritain, Garrigou-Lagrange, Paschini, Pende), la progressiva organizzazione dell’Istituto torinese e la serietà delle ricerche svolte e degli scritti pubblicati sulla rivista «Orientamenti Pedagogici» da P. Braido,​​ ​​ Calonghi, P. G. Grasso, R. Titone, spingono l’organismo vaticano ad accogliere la «novità», approvando nel 1956 l’Istituto Superiore di Pedagogia (= ISP). In momenti diversi collaborarono, nell’ISP / FSE,​​ ​​ Corallo, P. Gianola,​​ ​​ Sinistrero, G. Dho. L’approvazione sanzionava «il principio, secondo cui uno studio solido e rigoroso delle s.d.e. esige un tale complesso di ricerche teoriche, positive, storiche e tecniche, da giustificare l’organizzazione di un complesso​​ curriculum studiorum​​ altamente qualificato, a livello universitario» (Braido, 1956, 647). Nel dare la notizia ai lettori, un collaboratore di «Scuola Italiana Moderna» scriveva: «La prima f. di Pedagogia è sorta in Italia nel nome di don Bosco» (Giammancheri, 1957, 7-8). Di fatto il titolo di f.s.d.e. venne conferito ufficialmente nel 1973, quando il PAS diventò Università Pontificia Salesiana (= UPS), con sede a Roma. Sin dalla sua approvazione, l’ISP funzionò autonomamente come f. universitaria. Anzi, con la sua impostazione​​ teoretico-positiva​​ e la sua struttura scientifica​​ unitaria e complessa,​​ esso si configurò come un’istituzione originale nell’ambiente pedagogico degli anni ’60. Per l’attuazione dei compiti di ricerca e di docenza la FSE comprende oggi diversi istituti (teoria e storia, metodologia pedagogica, metodologia didattica e della comunicazione sociale, catechetica, psicologia, sociologia) e centri (consulenza psico-pedagogica, osservatorio della gioventù). I corsi si articolano nei seguenti curricoli di specializzazione: teoria-storia e metodologia dell’educazione, pedagogia sociale, pedagogia per la scuola e la formazione professionale, psicologia dell’educazione, pastorale giovanile e catechetica (in collaborazione con la f. di Teologia dell’UPS). All’interno della FSE funziona anche una scuola superiore di psicologia clinica. In stretto rapporto con l’ISP sorse a Torino l’Istituto Pedagogico delle​​ ​​ Figlie di Maria Ausiliatrice, trasferito a Roma ed elevato nel 1970 a Pontificia f.s.d.e. «Auxilium». Alle scelte teoriche e metodologiche della FSE si è ispirata l’impostazione di alcuni centri superiori, come la f. di Pedagogia dell’Università Pontificia di Salamanca (Spagna).

4.​​ F.s.d.e. e di scienze della formazione.​​ L’organizzazione degli studi pedagogici a livello universitario si presenta attualmente variegata e sono in corso profondi cambiamenti. A livello europeo sono in atto notevoli processi di innovazione e di coordinamento dell’università e dell’istruzione tecnico-superiore, in linea con quello che è stato detto il​​ ​​ processo di Bologna (1999). Le indicazioni europee e la domanda sociale di formazione, hanno portato in Italia a mutamenti anche nel settore educativo-scolastico. A livello universitario, già nel 1995, le f. di Magistero erano state soppresse e trasformate, per lo più, in f. di s. della formazione, al cui interno si collocava il corso di laurea in s.d.e., di quattro anni di durata, articolato in un biennio propedeutico e un successivo biennio con tre indirizzi (insegnanti di scienze umane, educatori professionali, esperti nei processi di formazione); anche nelle f. di lettere poteva essere attivato un corso di laurea in s.d.e. Ma queste stesse impostazioni, a seguito del processo di Bologna, sono state modificate, a cominciare dall’adozione di due cicli rispettivamente di tre anni (corso di laurea) e di due anni (corso di laurea Magistrale) a cui fa seguito il ciclo del dottorato (tre anni). Si sono avviati in molte sedi universitarie Master di specializzazione. Ma la situazione è ancora fluida e in processo, anche a seguito della riforma scolastica e della conseguente necessaria revisione del reclutamento e della formazione universitaria degli insegnanti, che a tutt’oggi (2007) non ha ancora avuto definitiva attuazione. In Spagna le​​ Escuelas Normales​​ si sono trasformate, nel 1970, in​​ Escuelas Universitarias de Formación del Profesorado;​​ esistono inoltre f. autonome di​​ Ciencias de la Educación.​​ Nelle università inglesi e nordamericane viene usato il nome di​​ School of Education;​​ e vi esistono​​ Teachers college​​ per la formazione degli insegnanti. In Germania hanno avuto una lunga tradizione le​​ Pädagogische Hochschulen;​​ negli anni ’70, dalla loro fusione con le​​ Fachhochschulen​​ o con le​​ Theologische Hochschulen​​ sono sorte le​​ Gesamt-hochschulen.​​ In America Latina la terminologia è varia. Al di là delle differenti modalità organizzative (​​ istruzione superiore,​​ ​​ organizzazione scolastica), è sempre più affermata oggi l’esigenza di un «sistema» di approcci scientifici diversi (storico, psico-sociologico, sperimentale, teorico, metodologico, tecnologico, didattico) alla realtà educativa.

Bibliografia

Bovet P.,​​ Vingt ans de vie.​​ L’Institut J.J. Rousseau de 1912 à 1932,​​ Neuchâtel / Paris, Delachaux & Niestlé, 1932; Braido P.,​​ Una scuola universitaria di pedagogia,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 3 (1956) 647-650; Giammancheri E.,​​ La prima f. di pedagogia è sorta in Italia nel nome di don Bosco,​​ in «Scuola Italiana Moderna» 66 (1957) 17, 7-8; Debesse G. M. - G. Mialaret,​​ Trattato delle scienze pedagogiche,​​ 1.​​ Introduzione,​​ Roma, Armando, 1971; Malizia G. - E. Alberich (Edd.),​​ A servizio dell’educazione. La FSE dell’UPS,​​ Roma, LAS, 1984; Prellezo J. M.,​​ Alle origini della FSE, in «Orientamenti Pedagogici» 48 (2001) 876-906; Galliani L. - E. Felisatti,​​ Maestri all’Università. Modello empirico e qualità della formazione iniziale degli insegnanti, Lecce, Pensa, 2002.

J. M. Prellezo

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FACOLTÀ DI SCIENZE DELL’EDUCAZIONE

FAMIGLIA

FAMIGLIA

Guido Gatti

 

1. La realtà della famiglia oggi

1.1. Famiglia e pastorale oggi

1.2. Scrutare i segni dei tempi

1.3. Il contesto socioculturale

1.4. La famiglia del passato

1.5. La «nuova famiglia»

1.6. Per una visione di fede

2. La famiglia nella storia della salvezza

2.1. La realtà profonda della famiglia

2.2. Una realtà creaturale, segnata dal peccato raggiunta dalla redenzione

2.3. Il sacramento del matrimonio, legge nuova delta coppia cristiana

3. La famiglia soggetto di pastorale

3.1. La famiglia soggetto di educazione della fede

3.2. L’educazione della fede in famiglia

4. La famiglia cristiana nella Chiesa

4.1. La famiglia educa in un contesto di Chiesa

4.2. La sollecitudine pastorale della Chiesa per la famiglia

4.3. La familiarità come stile di rapporti pastorali

4.4. I compiti missionari della famiglia

4.5. L ’impegno sociale della famiglia nella Chiesa

 

1. La realtà della famiglia oggi

 

1.1. Famiglia e pastorale oggi

La rilevanza pastorale della famiglia si pone oggi in un nuovo contesto socioculturale, contrassegnato da una crescente secolarizzazione e scristianizzazione di massa.

In un simile contesto si verificano due fatti paradossali: la Chiesa, tentata spesso di vedere nella famiglia l’ultima trincea di una «cristianità» ormai irrimediabilmente tramontata, le affida responsabilità sempre più grandi per la socializzazione religiosa delle nuove generazioni, non più attuata come in passato dalla società. D’altra parte, la famiglia, sempre più esautorata come soggetto educativo da altre agenzie di socializzazione, e sempre più segnata dal conflitto e dall’incomunicabilità delle generazioni, si scopre inadeguata a queste sue responsabilità e cerca affannosamente un aiuto e un sostegno nelle istituzioni ecclesiali, oppure abdica del tutto ai suoi compiti educativi, con tanto maggior senso di frustrazione quanto maggiormente la sua funzione educativa continua ad essere enfatizzata dalla pubblicistica religiosa.

La famiglia stessa si vede inoltre profondamente coinvolta nelle rapide e sconvolgenti trasformazioni socioculturali del nostro tempo che ne sconvolgono le strutture e gli equilibri interni tradizionali e la espongono senza difese a problemi troppo superiori alle sue capacità.

 

1.2. Scrutare i segni dei tempi

Ogni discorso sulla famiglia, sui suoi compiti nei confronti dell’educazione della fede dei suoi membri, e quindi sulla sua rilevanza come soggetto, contesto e oggetto di pastorale deve quindi cominciare con una analisi di queste trasformazioni.

È necessario perciò gettare anzitutto uno sguardo sulla realtà empirica della famiglia, cioè su quegli aspetti del suo essere che sono più profondamente condizionati dalla cultura e dalla società e che, come tali, sono oggetto proprio di studio della sociologia.

«È dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto»​​ (GS​​ 4).

Tra i segni dei tempi che più coinvolgono la famiglia e che più domandano una interpretazione alla luce del vangelo ci sono certamente le profonde trasformazioni di natura economica, giuridica, psicologica e sociale, che ha subito nel corso dell’ultimo secolo l’istituto del matrimonio e della famiglia. Non possiamo perciò esimerci dalPesaminarle, soprattutto se teniamo presente quanto dice a questo proposito la​​ Gaudium et Spes: «Le odierne condizioni economiche, sociopsicologiche e civili portano turbamenti non lievi nella vita familiare (...). Da tutto ciò sorgono difficoltà che angustiano le coscienze. Tuttavia il valore e la solidità dell’istituto familiare prendono risalto dal fatto che le profonde mutazioni dell’odierna società, nonostante le difficoltà che con violenza ne scaturiscono, molto spesso rendono manifesta in maniere diverse la vera natura dell’istituto stesso»​​ (GS​​ 47).

 

1.3. Il contesto socioculturale

La famiglia è sembrata per molto tempo uno scoglio immobile tra le tempeste di un mondo in trasformazione.

Oggi ci rendiamo conto che anch’essa partecipa profondamente del dinamismo storico di questo mondo, alle cui trasformazioni non può restare estranea.

In quanto fatto sociale, la famiglia è legata a tutti gli altri elementi della società nel contesto di una struttura, estesa quanto la società stessa e in cui ogni elemento non è definibile che attraverso i suoi rapporti con tutti gli altri elementi del sistema sociale.

Negli ultimi due secoli il mondo è passato da un’economia di sussistenza a un’economia di consumo, superando per la prima volta nella storia, la soglia dell’indipendenza dalla schiavitù della scarsità.

Questo è stato possibile attraverso lo sviluppo tecnologico e la rivoluzione industriale, con la divisione spinta del lavoro e l’accrescimento della dimensione delle unità produttive. All’economia chiusa e statica del passato è subentrata un’economia di mercato, aperta e estremamente dinamica, basata sullo scambio intenso dei prodotti e dei servizi, la contabilizzazione delle prestazioni reciproche e il ruolo dominante della moneta.

Sul piano politico, si è avuta la rivoluzione liberale, con raffermarsi dell’individualismo e la caduta dei modelli autoritari della società tradizionale, a favore di modelli democratici; si è venuto poi realizzando un tipo di stato, lo «stato sociale moderno», che assume direttamente molti dei compiti assistenziali e previdenziali in passato lasciati ai singoli e alle famiglie; questo ha portato naturalmente a un accentramento, complessificazione e crescente importanza dello stato a spese di tutte le comunità intermedie, prima tra tutte la famiglia.

 

1.4. La famiglia del passato

Per descrivere le trasformazioni sociali e culturali subite dalla famiglia in questo contesto, possiamo ricorrere a una certa contrapposizione semplificante, ma complessivamente non sviante, tra la famiglia del passato e la famiglia del presente.

La famiglia tradizionale era normalmente una famiglia allargata, costituita dall’insieme strettamente coordinato di diversi nuclei familiari conviventi sotto uno stesso tetto, attorno a uno stesso patrimonio e sotto la comune autorità del patriarca: era la cosiddetta «famiglia polinucleare» o molecolare o patriarcale, tipica di una cultura agricola e precittadina.

La famiglia patriarcale era a sua volta l’elemento portante di una società fondamentalmente familista.

La società era più una realtà interfamiliare che interpersonale, era vista più come un’unione di famiglie che come un’unione di persone. La famiglia era l’unica mediatrice tra l’individuo e la società.

Aveva una sua sufficienza culturale, educativa e perfino economica.

Il modello di rapporti interpersonali che vigeva all’interno della famiglia era quello comunitario: ogni singolo contribuiva come poteva al reddito comune e riceveva secondo i bisogni e le possibilità, in un regime solidaristico.

La forza coesiva della famiglia era l’autoritarismo; i ruoli all’interno della famiglia erano differenziati e ben definiti.

 

1.5. La «nuova famiglia»

Le modificazioni del rapporto tra l’uomo e la natura apportate dallo sviluppo tecnologico e il superamento dell’economia di sussistenza hanno liberato la famiglia dalle esigenze della lotta per la sopravvivenza e le hanno tolto una giustificazione e una forza di coesione notevole.

La dissoluzione della famiglia patriarcale come unità economica autonoma ed autosufficiente ha portato a unità familiari più piccole (famiglia nucleare) e quindi a nuove possibilità di intimità.

Invece che dalla natura, la famiglia è oggi largamente condizionata dalla società; ha perso la sua relativa indipendenza educativa, culturale, economica e ha sempre più bisogno di essere integrata dalla più ampia società civile. La famiglia non soddisfa più a funzioni «strumentali» ma a funzioni «espressive», di gratificazione affettiva. L’enfasi è posta ormai non più sulla solidarietà parentale, ma sulla spontaneità dell’unione e dell’amore (democratizzazione dell’ideale romantico dell’amore).

La perdita della funzionalità strumentale è così perdita di coesione ma anche occasione di una diversa autenticità.

L’aumento della socializzazione e l’integrazione dell’individuo in unità sociali più grandi, mentre emargina socialmente la famiglia e diminuisce l’influenza del modello familiare nella formazione degli individui, espone l’individuo stesso al pericolo della massificazione, da cui lo difendeva il familismo del passato.

D’altra parte, lo sganciamento progressivo dell’individuo dai rigidi legami della coesione familiare favorisce l’affermazione e la creatività della persona, facilitando l’assunzione di iniziative individuali (ad esempio la libertà di scelta del coniuge, della professione, dello stato di vita).

La fine del ruolo unificante del padre e della sua autorità assoluta ha portato alla parità dei sessi, a relazioni familiari basate su un piano di libertà e di accettazione reciproca; si dà una maggiore elasticità e permutabilità di ruoli e di funzioni. Il costituirsi e rinfittirsi di legami societari più vasti restringe l’ambito di quelli comunitari propri della famiglia; il lavoro dipendente, l’estraneità reciproca delle generazioni, l’assenza di legami stabili e indipendenti dalla volontà degli individui rischia di dissolvere la famiglia, riducendola a un fatto puramente soggettivo, privatistico e provvisorio.

Non manca oggi chi di fronte a questa progressiva dissoluzione dei legami e del ruolo sociale della famiglia, avanza la profezia di una sua totale scomparsa come cellula sociale.

In realtà, la famiglia sembra capace di ricuperare sempre nuovi spazi e nuove funzioni e, anche se il suo peso sociale è decisamente scemato, sembra restare una realtà di cui l’uomo ha ultimamente bisogno proprio per la promozione della sua umanità.

 

1.6. Per una visione di fede

Le trasformazioni in corso si rivelano quindi ambivalenti: esse comportano seri pericoli per la consistenza della famiglia e per la sua funzione personalizzatrice, ma ne svelano anche possibilità nuove e costruttività diverse. Esse rappresentano quindi per la famiglia una spogliazione che è anche una purificazione. La famiglia perde funzioni sociali, educative ed economiche, ma riscopre una sua funzione più autentica e un suo nuovo modo di essere, come luogo di rapporti interpersonali basati sull’amore e sulla libera scelta. Nella massificazione crescente essa resta una autentica persistenza del comunitario, luogo privilegiato del gratuito e del disinteressato; potremmo dire con Jeannière che, se l’amore ha nella civiltà industriale meno difese dietro cui riparare la propria debolezza, ha anche più occasioni e più libertà per affermare la sua vera natura.

Per il cristiano che legge i segni dei tempi nella luce della fede, lo sganciamento della coesione familiare da puntelli giuridici, economici e culturali, mentre impegna a edificare la famiglia sulla libera volontà di donazione e di amore, rivela la vera natura della famiglia stessa, come comunione di vita e di amore, riflesso della vita trinitaria e segno dell’unione tra Cristo e la Chiesa.

Senza rimpiangere romanticamente strutture e aspetti della vita familiare del passato, il cristiano si adopera quindi a creare condizioni sociali che favoriscano l’affermarsi della famiglia come comunità di amore, la difesa della sua importanza umanizzatrice e quindi anche della sua stabilità e della sua influenza nella vita sociale.

 

2. La famiglia nella storia della salvezza

 

2.1. La realtà profonda della famiglia

Ma una lettura, sia pure ispirata alla fede, delle modalità empiriche e contingenti con cui la famiglia si presenta nel nostro tempo, delle sue strutture sociologiche e delle dinamiche psicologiche dei rapporti interpersonali al suo interno non può esaurire il compito ricognitivo che la pastorale è chiamata a svolgere nei confronti della famiglia, per ricuperarla a un progetto realistico di pastorale organica.

È necessaria una lettura di fede, che affronti la realtà profonda della famiglia, quella realtà che trascende i dati empirici immediati e i condizionamenti storico-culturali, e scopra nella famiglia le linee essenziali e universali di un progetto di Dio.

Giovanni Paolo II ha scritto nella​​ Familiaris Consortio: «Famiglia, diventa ciò che sei!»; la famiglia è quindi anzitutto chiamata a diventare ciò che essa è in germe, a sviluppare tutte le possibilità di essere e di bene che essa porta già in sé per dono di Dio. Il progetto di Dio sulla famiglia è inciso nella realtà della famiglia stessa.

 

2.2. Una realtà creaturale, segnata​​ dal peccato e raggiunta dalla redenzione

Una indagine sulla realtà profonda della famiglia nella luce della fede rimanda anzitutto alla originaria bontà di tutto ciò che è stato creato da Dio. La coppia e la famiglia non sono state inventate dall’uomo nel corso della sua storia. Anche nella loro dimensione contingente e storicamente condizionata, esse sono il risultato dell’azione plasmatrice della cultura umana su un nucleo di tendenze insopprimibilmente legate alla natura stessa dell’uomo dall’azione creatrice di Dio.

In questo senso la famiglia può essere detta un dono di Dio; ma è un dono che chiede di essere sviluppato, un dono che si fa vocazione: la vocazione all’amore incisa nella realtà più profonda dell’uomo, in tutti gli strati del suo essere.

La fede ci dice che l’uomo è chiamato a un amore ancora più profondo e più grande di quello che si attua nella vita coniugale, fosse pure la più riuscita. È chiamato a una comunione di amore con Dio. Ma è un fatto che l’esperienza di amore che l’uomo e la donna fanno nella vita coniugale è normalmente una delle più intense ed illuminanti della vita; una di quelle che meglio rivelano la vocazione dell’uomo alla comunione con Dio.

Lo stesso si può dire dell’altro grande dono che Dio fa alla coppia: la fecondità. Anche questo dono si fa vocazione: la vocazione a diventare collaboratori di Dio nel trasmettere e nel promuovere la vita.

Ma la realtà profonda della famiglia non rivela soltanto l’originaria bontà creaturale di tutte le cose uscite dalle mani di Dio. In essa sono anche chiaramente visibili le ferite inferte al progetto di Dio da una lunga storia di peccato. Fin dall’inizio della sua storia, l’uomo non è stato all’altezza del dono-vocazione di Dio.

Matrimonio e famiglia sono stati coinvolti in questa storia di peccato; sono anzi una delle realtà in cui è più facile discernere la presenza del peccato nel mondo dell’uomo. Pensiamo all’egoismo che spesso si nasconde sotto l’apparenza dell’amore; pensiamo ai fallimenti coniugali e familiari, alle sofferenze che questi provocano, allo sconcerto educativo di cui restano vittime i figli e che li porteranno magari, da adulti, a fallimenti analoghi, in una tragica catena di ereditarietà e di solidarietà nel male, di cui non è facile valutare la portata. 11 desiderio sessuale, che dovrebbe essere al servizio dell’amore vero, diventa spesso un’energia ribelle ed autodistruttiva, che consuma la dignità dell’uomo e ne impedisce la felicità.

Questa dimensione di peccato che si rivela nella famiglia è una specie di no oggettivo al progetto di Dio; delude il suo amore e impedisce a questo amore di arrivare a noi. Questo amore tuttavia è più grande del nostro stesso rifiuto. Il peccato diventa addirittura l’occasione che permette a Dio di produrre il suo capolavoro, Cristo, ricupero della nostra possibilità di riuscita umana, riconciliazione col progetto d’amore di Dio e vittoria sulla forza negativa del peccato.

La famiglia è stata raggiunta in maniera determinante dalla redenzione di Cristo. Questa redenzione si fa visibile ed operante nella sua realtà profonda della famiglia. Così come la creazione e il peccato, anche la redenzione entra a costituire questa realtà, non tanto come una delle «epoche» della sua storia, quanto come uno «strato» o dimensione esistenziale del suo essere. In ogni momento della sua storia e della sua vita, operano insieme la grandezza del progetto originario di Dio, la miseria del peccato e le meraviglie della vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte.

 

2.3. Il sacramento del matrimonio, legge nuova della coppia cristiana

La redenzione di Cristo opera nel cuore degli uomini e nelle realtà umane che si aprono alla sua efficacia di salvezza, con una dialettica etico-sacramentale.

11 sacramento che sigla con la presenza di Cristo il matrimonio e la vita coniugale è il sacramento del matrimonio. Esso testimonia quanto profondamente il matrimonio e la famiglia siano coinvolti nella redenzione. Il sacramento del matrimonio è il segno e il luogo concreto di questa redenzione che restituisce alla vita coniugale e alla famiglia, rinnovato e arricchito, quanto il peccato aveva loro strappato.

Nel sacramento del matrimonio, l’amore umano che costituisce la coppia nella sua specificità, diventa immagine e partecipazione dell’amore di Dio per l’umanità e di Cristo per la sua Chiesa.

La salvezza cristiana rivela così una sua dimensione nuziale: l’amore di Dio per gli uomini può essere raffigurato dall’amore che unisce gli sposi tra di loro o dall’amore dei genitori verso i figli. Diventando immagine e riflesso dell’amore di Dio e di Cristo, l’amore coniugale e familiare diventa strumento di grazia e luogo di incontro tra Dio e l’uomo. Ma in tutto questo non c’è niente di magico: l’incontro con Dio che si realizza nel segno sacramentale ci restituisce alla capacità di un amore più vero, ma non ci esonera dai nostri compiti e dalle nostre responsabilità. Ancora una volta il dono si fa vocazione. «11 sacramento del matrimonio — hanno detto i vescovi italiani — effondendo il dono dello Spirito che trasforma l’amore sponsale, diventa la​​ legge nuova della coppia cristiana.​​ La grazia, mentre testimonia l’amore gratuito di Dio che si comunica agli sposi, sollecita la loro libera risposta di credenti mediante un’esistenza che sia conforme al dono ricevuto». (CEI,​​ Evangelizzazione e sacramento del matrimonio).

Così per il credente tutti compiti etici della vita coniugale e familiare si riassumono in quello di vivere come vocazione quello che gli è dato come dono.

Uno di questi compiti etici è appunto quello dell’educazione della fede nei confronti dei figli e in genere reciprocamente tra tutti i membri della famiglia; è proprio soprattutto a questo compito che è collegata, come si è visto, la rilevanza pastorale della famiglia cristiana.

 

3. La famiglia soggetto di pastorale

 

3.1. La famiglia soggetto di educazione della fede

La famiglia cristiana infatti interessa la pastorale anzitutto in quanto agenzia privilegiata di educazione della fede nei confronti dei suoi membri e in particolare dei figli.

Ed essa è una tale agenzia proprio in forza del particolarissimo influsso educativo che i genitori hanno nei confronti dei figli, anche solo su un piano puramente umano. Questo influsso è tanto profondo da potersi dire che con l’educazione i genitori li generano una seconda volta: li generano a ciò che è più propriamente umano, la vita dello spirito e il mondo della cultura.

Questo influsso è solo un caso privilegiato di un più universale mistero di solidarietà che lega ogni uomo a ogni altro uomo, nel bene come nel male, attraverso una catena di condizionamenti reciproci che costituiscono nel loro insieme la storia e la civiltà umana. Questa trama di condizionamenti reciproci raggiunge il suo livello massimo all’interno della famiglia, dove tocca le radici stesse dell’esistenza.

Ogni nuova vita porta impresso in sé, nel corpo e nello spirito, le prove di questo legame coi genitori, le tracce indelebili di questa sua dipendenza da quelle persone concrete che sono i suoi familiari. È la doppia eredità, biologica ed educazionale, che ognuno porta con sé per tutta la vita, e che è tanta parte della sua fisionomia concreta di persona umana. Ogni uomo è in parte rilevante il risultato di questa eredità.

Oggi si parla molto di una certa perdita di rilevanza della famiglia, per quello che riguarda la sua funzione educativa. E certamente essa è, oggi più che in passato, affiancata da altre agenzie educative. Ma proprio le scienze dell’uomo ci assicurano che l’influsso educativo della famiglia è ancora e sempre decisivo.

Esso è tanto più grande quanto più si risale nel corso dell’età evolutiva verso i primi anni e i primi mesi dello sviluppo della personalità.

Certe qualità di fondo, particolarmente decisive agli effetti della formazione e della maturazione della fede, come l’ottimismo o la rassegnazione, l’altruismo o l’egoismo, la serietà o il disimpegno morale, dipendono dall’influsso educativo della famiglia in questi primi periodi della vita più che da qualsiasi altro.

Quanto la famiglia sembra avere perso in estensione orizzontale a favore di altre agenzie educative, può essere ricuperato in profondità, attraverso una più consapevole preoccupazione di educare questi atteggiamenti di fondo nei confronti della vita.

I genitori formano questi atteggiamenti prima di tutto con l’esempio e particolarmente vivendo in maniera autentica il loro amore. Nessuna scienza pedagogica può sostituire la sapienza che viene da questo amore, disinteressato ma intelligente, sollecito ma non possessivo.

 

3.2. L’educazione della fede in famiglia

Ma il compito dei genitori non si limita alla formazione di questi atteggiamenti, che potremmo chiamare i «precursori etici» della fede o che, se si vuole, potremmo considerare come l’equivalente di una fede implicita e anonima, in assenza di una fede esplicita vera e propria.

I genitori sono chiamati a dare un nome alla fede che trasmettono con la vita, a esprimerla con parole, a insegnarla per renderla esplicita e consapevole; quindi a essere i primi evangelizzatori dei loro figli. Anche qui i genitori hanno verso i figli una responsabilità unica. Essi sono i primi catecheti dei figli, proprio in forza del sacramento del matrimonio: «La missione dell’educazione esige che i genitori cristiani propongano ai figli tutti quei contenuti che sono necessari per la graduale maturazione della loro personalità da un punto di vista cristiano» (FC 39).

Dio affida ai genitori il compito del primo annuncio del vangelo ai loro figli e li rende capaci di questo annuncio, qualunque sia la loro preparazione culturale, con il dono della partecipazione al suo amore, che essi ricevono appunto col sacramento del matrimonio.

Ma è proprio nell’ambito di questa missione evangelizzatrice e di educazione della fede che si rivela oggi in modo drammatico il fenomeno più generale della difficoltà di comunicazione esistente tra genitori e figli; è qui che esplode spesso il dramma dell’inefficacia e del fallimento degli sforzi educativi anche meglio intenzionati e illuminati.

In molte famiglie cristiane, i figli, giunti a una certa età, prendono le distanze dalle tradizioni religiose e morali dei genitori, compromettendo l’unità religiosa della famiglia e dando ai genitori l’impressione dolorosa di un fallimento della loro missione educativa.

I genitori sono così tentati di abbandonare del tutto l’impresa educativa, rassegnandosi al fallimento.

In una situazione del genere, è ancora più necessario di quanto fosse in passato un ripensamento insieme più realistico e più creativo del ruolo della famiglia e dei genitori come soggetto di educazione della fede.

La fede è l’accettazione del messaggio di Cristo nella propria vita come senso e ragione profonda di tutte le proprie esperienze e di tutte le proprie scelte. Essa si traduce in una serie di convinzioni precise, fondate sulla parola stessa di Dio. 1 genitori sono chiamati a essere i portatori di questo sapere della fede, con la loro parola, accompagnata dall’esempio che la rende più convincente e comprensibile.

Ma la fede è anche un atteggiamento profondo e globale di vita, una specie di fisionomia interiore della personalità.

Fanno parte di questa fisionomia morale un aprirsi agli altri e alla vita piena di ottimismo e di impegno, la capacità di continuare a sperare nonostante il male del mondo, la capacità di impegnarsi per il bene, per la verità, per gli uomini, nonostante le loro miserie. Questo atteggiamento è in intima connessione con le convinzioni di fede e la prova della loro autenticità. Ma esso non viene insegnato alla stessa maniera con cui si insegna una dottrina, cioè attraverso una qualche forma di indottrinamento; esso si comunica con un’educazione globale, attraverso il contagio della vita. Naturalmente occorre anche una vera e propria catechesi: la parola della fede spiega al bambino il significato della vita vissuta; e l’esempio rende comprensibile la parola insegnata.

Se la catechesi come insegnamento avrà, dopo una prima iniziazione abbozzata in famiglia, i suoi momenti più importanti nella comunità ecclesiale, l’educazione della fede come atteggiamento nei confronti della vita ha invece i suoi momenti più decisivi e insostituibili nella famiglia. Le vicende successive (scuola, lavoro) potranno in certi casi cancellare le convinzioni teoretiche della fede, portando a una crisi o a una perdita della dimensione cognitiva della fede. Ma se dietro questa dimensione cognitiva c’erano degli atteggiamenti di fondo autentici, la fede potrà smarrire la sua dimensione cognitiva senza perdersi del tutto. Rimangono nel profondo i tratti essenziali dell’atteggiamento di fede, sempre pronti a rigermogliare l’intera pianta al sole sempre luminoso della grazia.

 

4. La famiglia cristiana nella Chiesa

 

4.1. La famiglia educa in un contesto di Chiesa

D’altra parte la famiglia non educa alla fede operando in una specie di vuoto assoluto: essa è cellula di un tessuto vitale più ampio, che è a sua volta soggetto più completo e più pieno di evangelizzazione e di educazione della fede: la comunità ecclesiale particolare e la stessa Chiesa universale.

In quanto inserita nella Chiesa, la famiglia stessa diviene oggetto di azione pastorale. Essa viene continuamente educata alla fede dalla comunità ecclesiale di cui fa parte ed è solo, in quanto raggiunta da questo influsso educativo complesso e articolato (cioè adeguato all’età e alla condizione dei suoi membri) che essa può farsi a sua volta luogo privilegiato di azione pastorale. Nella famiglia si annuncia il vangelo soltanto facendo eco alla evangelizzazione della Chiesa da cui la famiglia stessa è stata raggiunta.

Nella famiglia si insegna a vivere la fede attraverso l’ascolto della Parola e la preghiera, perché la famiglia ascolta la Parola nella Chiesa e partecipa come famiglia alla preghiera liturgica della Chiesa.

Nella famiglia si vive e si pratica la carità cristiana, perché la famiglia è immersa nella vita di carità della Chiesa e partecipa alla carità attiva della comunità di fede.

 

4.2. La sollecitudine pastorale della Chiesa per la famiglia

Ma questo significa che la comunità ecclesiale ha delle precise responsabilità pastorali nei confronti della famiglia in quanto famiglia e non soltanto nei confronti dei suoi membri, presi singolarmente.

La cura pastorale che la comunità ecclesiale in tutte le sue articolazioni (Chiesa universale, particolare, comunità parrocchiale, «movimenti» e gruppi di Chiesa) ha nei confronti della famiglia costituisce la pastorale familiare, uno dei settori più importanti della prassi pastorale della Chiesa. Di essa esistono trattazioni specifiche cui dobbiamo necessariamente rimandare.

Qui vogliamo solo notare come ogni forma di pastorale familiare, per il fatto di essere rivolta alla famiglia che è di sua natura educatrice dei figli alla fede, ha un rapporto molto stretto con la pastorale giovanile, e quindi una ineliminabile dimensione di abilitazione pedagogica.

Curando la famiglia, la comunità ecclesiale forma gli educatori della fede delle nuove generazioni e questo deve diventare obiettivo consapevole e intenzionale nell’ambito delle preoccupazioni cui si ispira la pastorale familiare.

Promovendo la fedeltà e l’autenticità dell’amore dei coniugi, essa sa che questo amore è autentico solo se aperto alla vita e all’educazione integrale dei figli. In questo amore, essa promuove il presupposto e il contesto più efficace dell’educazione cristiana in famiglia. La stessa promozione di una specifica spiritualità familiare sarà inevitabilmente contrassegnata da questa dimensione educativa come da un suo elemento specifico: la spiritualità familiare è una spiritualità per educatori.

 

4.3. La familiarità come stile di rapporti pastorali

Ma la rilevanza pastorale della famiglia non è legata soltanto alla funzione educativa della famiglia nei confronti dei figli e a quella della Chiesa nei confronti della famiglia: essa dipende anche da quello che la famiglia, in quanto famiglia può offrire alla Chiesa, come suo contributo specifico a quel servizio di evangelizzazione e promozione umana che è compito specifico della Chiesa nei confronti del mondo.

Una cosa importante che la famiglia ha da offrire alla Chiesa ci sembra quel particolare modello o stile di rapporti interpersonali che è così caratteristico e specifico della famiglia da meritare il nome di «familiarità». La familiarità è proprio il segreto ultimo della efficacia educativa della famiglia. Essa consiste anzitutto in uno stile di accoglienza fondata su un amore che accetta incondizionatamente l’altro così com’è, proprio nella sua irripetibile unicità e ne vuole la pienezza di essere e di vita senza imporgli nessuna condizione.

La familiarità dà luogo a rapporti interpersonali contrassegnati dalla conoscenza personale reciproca, dalla spontaneità degli affetti, dalla cordialità e sincerità dei tratti, dalla partecipazione di tutti alla progettazione e all’attuazione della vita comunitaria.

Essa è quindi il contrario dell’autoritarismo e dell’impersonalità burocratica. Naturalmente familiarità non vuol dire familismo gretto e soffocante; così come paternità non significa paternalismo. L’accoglienza incondizionata non rinuncia alla proposizione leale dei valori in cui crede e la confidenza non viola i legittimi spazi di riservatezza delle persone singole e non solo di quelle adulte. Questo stile di rapporti la Chiesa deve imparare dalla famiglia.

 

4.4. I compiti missionari della famiglia

Una seconda cosa che la famiglia è chiamata a dare alla Chiesa è il suo contributo alla azione missionaria della Chiesa, attraverso una forma discreta, spesso solo occasionale, spontanea ma perciò molto più efficace, di evangelizzazione vera e propria soprattutto nei confronti dei lontani, cioè di quelle persone che la Chiesa spesso non può accostare se non per mezzo delle famiglie cristiane. La famiglia cristiana è inserita in una storia che va verso il Regno e deve contribuire alla sua edificazione, proprio in quanto famiglia, con la sua vita di famiglia ma anche assumendosi le responsabilità missionarie, che sono compatibili con le sue concrete possibilità, soprattutto nei confronti di coloro con cui viene a contatto in forza del vicinato. Viviamo in un mondo e in un paese che sta diventando sempre più un territorio di missione e la famiglia ha delle possibilità di dialogo e di incontro con i «lontani» che la Chiesa ufficiale non ha: «Il sacramento del matrimonio che riprende e ripropone il compito radicato nel battesimo e nella cresima, di difendere e diffondere la fede, costituisce i coniugi e i genitori cristiani testimoni di Cristo fino agli estremi confini della terra, veri e propri missionari dell’amore e della vita» (FC 54).

 

4.5. L'impegno sociale della famiglia nella Chiesa

Ma la Chiesa non ha soltanto la missione di annunciare al mondo la parola di Dio, ha anche il compito di rendere presente ed efficace questa parola di salvezza con un impegno serio e globale di promozione umana, soprattutto a livello culturale e socio-politico.

La famiglia è chiamata in quanto famiglia a partecipare anche a questa missione sociale della Chiesa: è il compito sociale della famiglia cristiana, compito che non va visto come disgiunto da- o soltanto parallelo a quello dell’evangelizzazione e dell’educazione della fede.

Questo compito si esplica anzitutto attraverso l’educazione alla giustizia, alla fraternità e alle responsabilità sociali.

Si dice che la famiglia è la cellula primaria e fondamentale della società. In nessun altro posto che nella famiglia può essere meglio sperimentata e capita la essenziale socialità dell’uomo. Nella famiglia tutto è comune e non per imposizione di legge ma per spontaneità di amore. In famiglia ognuno è accettato non per quello che rende ma per quello che è: una persona umana.

La famiglia educa quindi alla solidarietà e al senso sociale con facilità e spontaneità, attraverso la sua stessa vita, che è essenzialmente un vivere insieme.

Tuttavia la famiglia comporta da questo punto di vista anche qualche pericolo, rischiando di bloccare la solidarietà, cui pure educa sul gruppo ristretto dei familiari, escludendo una visione più larga delle responsabilità sociali. Essa può quindi educare al qualunquismo sociale o addirittura all’egoismo di gruppo: è il male del​​ familismo,​​ in linea con altre forme di comportamento asociale che affliggono il nostro paese.

L’impegno sociale della famiglia è d’altra parte diverso da quello dei suoi singoli membri; è quello cui la famiglia si impegna come famiglia.

Purtroppo lo stato moderno, il cosiddetto «stato sociale», tende continuamente a scavalcare la famiglia. Esso è continuamente tentato di rivolgersi sempre solo direttamente ai singoli individui «atomici», concedendo solo a loro una vera rilevanza sociale; le famiglie non hanno in questo stato un ruolo e una dignità propria; non contano. Così gli individui rischiano di essere ridotti a numeri o a massa informe. 11 rivolgersi a loro attraverso la mediazione delle società intermedie naturali come la famiglia non solo non è di ostacolo al riconoscimento della dignità e autonomia delle singole persone, ma rende meno anonima e più personalizzata e organica la società.

Le famiglie sono chiamate quindi a far sentire coraggiosamente la loro voce. Campo privilegiato di questo impegno può essere oggi la gestione sociale della scuola. Essa è un servizio offerto dallo Stato: non deve tramutarsi in una forma di prepotenza nei confronti dei diritti e dei compiti educativi della famiglia. Essa non va ridotta a monopolio dello Stato, e tanto meno della sua burocrazia o di gruppi ideologici e culturali che operano nella società per la conquista di una​​ egemonia,​​ che è il contrario della vera democrazia. La scuola appartiene anche alle famiglie ed esse hanno il diritto-dovere di collaborare a gestirla.

Lo stesso si può dire delle diverse forme di assistenza e previdenza sociale, come pure delLamministrazione degli «enti locali». Lo Stato non diventa più efficiente, per il solo fatto di assorbire tutte le attività sociali, ma piuttosto stimolando, sorreggendo e coordinando il volontariato e la partecipazione di tutti, ma soprattutto delle famiglie.

Le responsabilità sociali della famiglia le chiedono tra l’altro di opporsi al consumismo della nostra società, che comporta una concezione materialistica della vita, secondo la quale l’avere conta più dell’essere, il consumo più dei valori culturali e morali. In un mondo come il nostro, che viene scoprendo l’essenziale limitatezza delle sue risorse e in cui miliardi di persone vivono al di sotto dei livelli di sussistenza, tale consumismo è un grave disvalore etico. Alla famiglia è quindi richiesto un nuovo atteggiamento nei confronti dei beni economici e un nuovo modo di educare all’austerità e al risparmio, privilegiando l’attenzione all’uomo rispetto alle cose, all’essere invece che all’avere.

Essere famiglia nella Chiesa significa insomma farsi carico dì tutti i problemi del mondo, vivere la solidarietà universale tra gli uomini come una estensione dei confini della famiglia.

L’adempimento di questi suoi compiti e l’assunzione generosa di queste responsabilità costituiscono un momento privilegiato della vita di fede della famiglia, una specie di insostituibile liturgia della vita.

È così, nella fedeltà a tutti i suoi compiti e nella fruttificazione di tutti i doni che essa riceve dal Padre, che la famiglia mantiene viva la grazia sacramentale del matrimonio, ricelebrandolo ogni giorno con i fatti nel concreto della sua esistenza.

 

Bibliografia

Evangelizzazione e matrimonio,​​ D’Auria, Napoli 1978;​​ Famiglia e impegno politico: le coppie cristiane si interrogano,​​ LDC, Leumann 1975;​​ La famiglia oggi e domani,​​ Ancora, Milano 1980; Ferasin E.,​​ Il​​ matrimonio interpella la Chiesa,​​ LDC, Leumann 1983; Gatti G.,​​ Morale matrimoniale e familiare,​​ in: Goffi T. - Piana G. (edd.).​​ Corso di Morale,​​ Queriniana, vol III, Brescia 1984; Majdanski K.,​​ Comunità di vita e di amore.​​ Vita e Pensiero, Milano 1980;​​ Per una famiglia inizio di una nuova società,​​ Jaka Book, Milano 1972; Tettamanzi D.,​​ Matrimonio cristiano oggi,​​ Ancora, Milano 1975; Triacca A. M. - Pianazzi G. (a cura),​​ Realtà e valori del sacramento del matrimonio,​​ LAS, Roma 1976; Vella C. (a cura),​​ Un sinodo per la famiglia. Problemi e prospettive per gli anni ’80,​​ Libr. della famiglia, Milano 1980.

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FAMIGLIA

Il termine f. deriva dal latino​​ familia,​​ dove però, come si dice nel​​ Codice giustinianeo​​ (VI, 38, 5), comprendeva, oltre a genitori e figli, «parenti e beni, liberti e patroni non esclusi gli schiavi» (chiamati appunto anche​​ famuli).​​ Qui la f. è pensata quasi solo dal punto di vista pedagogico, in quanto luogo che facilita o ostacola la crescita personale.

1.​​ Contro e a favore della f. nella tradizione occidentale.​​ Potremmo, a mo’ di schema, far risalire a​​ ​​ Platone e ad​​ ​​ Aristotele la principale fonte ispiratrice delle accezioni prevalentemente negative o positive del termine f. Per Platone, che anche in ciò amava rifarsi al modello spartano, la f. non rappresentava un valido ambiente educativo, essendo l’uomo assorbito dalla vita pubblica e la donna più adatta all’allevamento (anatrophè)​​ che all’educazione dei figli (paidèia).​​ Molto più valida dal punto di vista educativo è la​​ paiderastìa,​​ sia pure nella forma sublimata (che da lui prese nome), nella quale la presenza degli atti sessuali (aphrodìsia)​​ è velata se non annullata, dato che nella coppia d’amanti (uno giovane e uno adulto, modello e guida del primo) viene a stabilirsi «una comunione molto più intima e una più salda amicizia di quella che lega i genitori ai figli» (Simposio,​​ 27, 209 c). A tale filone di pensiero «antifamilistico» si può riallacciare per l’epoca moderna​​ ​​ Rousseau, almeno parzialmente, e poi Marx ed Engels e, nel sec. ventesimo, ad es.,​​ ​​ Wyneken, per il quale «f. e educazione non hanno niente a che fare l’una con l’altra. La f. è un’istituzione che serve da un lato alla propagazione della specie e, dall’altro [...] all’organizzazione del consumo [...] .Se anche i genitori amano i loro figli, non amano la giovinezza che c’è in loro» (Schule und Jugendkultur,​​ Jena, Diederichs, 1919,13). Di poco posteriori e ben più note furono su questa stessa posizione alcune opere di Reich (La rivoluzione sessuale,​​ Milano, Feltrinelli, 1963) e di Horkheimer, Adorno e Marcuse come gli​​ Studi sull’autorità e la f.​​ (Torino, 1974). Questi Autori furono gli immediati precursori degli antifamilisti degli anni sessanta e settanta del sec. scorso, come gli psichiatri R. Laing e D. Cooper, la psicoanalista M. Mannoni, lo psicosociologo G. Mendel, per i quali la f. era il principale ostacolo alla formazione di individui disinibiti e psichicamente sani, capaci di dar vita ad un nuovo e più giusto ordine sociale. Si può dire che essi tendessero a vedere nella f. il fattore genetico di tutti gli egoismi (dal contadino al borghese) e di tutti gli autoritarismi, dal maschilista e patriarcale fino alle tragiche dittature europee del XX sec. Diverso il discorso di neofemministe come B. Friedan, che dopo aver denunciato «la mistica della femminilità» (così il titolo di un libro del 1963), giungeva a dire che la f. rappresenta in realtà una frontiera del femminismo, uno spazio effettivo di controllo del proprio destino. Per Aristotele invece la f. è cellula costitutiva della società, con il padre a rivestire una triplice autorità: di padrone verso gli schiavi, di re verso i figli e di «presidente» (árchon)​​ nei riguardi della moglie. Per lo Stagirita radicale importanza hanno i rapporti tra marito e moglie (carattere​​ sunduastikós,​​ «coniugale» dell’essere umano) e i rapporti tra genitori e figli, nei quali il padre e la madre riconoscono una parte di se stessi (cfr.​​ Politica,​​ I, 2, 1252a e​​ Etica Nicomachea,​​ VIII, 12, 1162). La posizione favorevole si accentuerà con gli Stoici, specie di età romana, attenti particolarmente al rapporto di coppia, fino a postulare con Musonio Rufo, Plutarco, Seneca o Quintiliano una perfetta reciprocità. Si può dire che la posizione favorevole alla f. sia stata ripresa negli ultimi due secoli da Kant,​​ ​​ Pestalozzi, Fröbel e soprattutto da Hegel. Quest’ultimo ha sottolineato la trasformazione, attraverso appunto la f., dell’«egoismo dei desideri» in «qualcosa di etico» e ha aiutato a cogliere l’intimo nesso che lega l’amore di coppia con l’amore per i figli, nel quale il primo si «oggettivizza», rendendo inseparabili le immagini dei coniugi (Lineamenti di filosofia del diritto,​​ Bari, 1971, 160). Innumerevoli sarebbero le citazioni che si potrebbero trarre dall’opera di Tocqueville, in parte anche da Spencer e Durkheim, fino alle rivalutazioni della sociologia americana del II dopoguerra, Burgess e Parsons in particolare e a quelle più recenti del noto etologo Lorenz e del suo allievo Eibl-Eibesfeldt o dei sociologi Brigitte e Peter Berger (1984, 239); e questo vale – almeno in parte – anche per una f. proletaria, come osserva un pedagogista marxista, G. Snyders, poiché almeno la f. «non è così direttamente, come la fabbrica, sotto la presa del padrone [...] è una possibilità per l’operaio di cominciare ad appartenersi, dunque di resistere meglio» (1985,131).

2.​​ La f. nella tradizione religiosa ebraico-cristiana.​​ Fin dal I libro della Bibbia (Gn​​ 1,27-28 e 2,18-24), l’unione coniugale è vista sia come​​ remedium concupiscentiae,​​ finalizzato alla procreazione («Siate fecondi e moltiplicatevi...»), sia come​​ remedium solitudinis​​ («Non è bene che l’uomo sia solo... abbandonerà suo padre e sua madre, si unirà alla sua donna e i due saranno una carne sola»). In quella tradizione l’essere maschio e femmina è detto «somiglianza ed immagine di Dio», di un Dio che nella rivelazione di Cristo apparirà sempre come «alleato» dell’uomo, la cui essenza viene definita dall’evangelista Giovanni come «amore». Specie alcuni Padri greci insisteranno sulla​​ omotimìa​​ (pari onore che si deve a marito e moglie) e prima ancora sulla​​ omónoia,​​ sull’intesa profonda fra i due. Diciamo allora che la riflessione cristiana rafforza sì il filone familistico, tanto per il rapporto di coppia quanto per quello genitori / figli (si ricordino le osservazioni sulla reciprocità fra marito e moglie o fra genitori e figli contenute nelle «tavole domestiche» di alcune lettere paoline), ma porta pure nuovi motivi a favore di quello antifamilistico, come apparirà chiaramente anche nella tendenza teologica e letteraria diffusasi, specie a partire dal Medioevo, che contrappone – secondo le indicazioni dell’opera di D. De Rougemont (L’Amore e l’Occidente, Milano, 1977) –​​ éros​​ e​​ agápe,​​ amore-passione per un altissimo, irraggiungibile ideale e amore coniugale, fondato su una concreta e quotidiana comunione di vita.

3.​​ Valori e problemi della f. moderna e contemporanea.​​ Tra i fattori che hanno portato al sorgere della f. moderna e contemporanea è certo da considerare la mutata organizzazione del lavoro, che ha finito per fare della f. un’unità di consumo più che di produzione, ma che ha anche portato ad un progressivo miglioramento delle condizioni igieniche, alimentari e sanitarie della popolazione e ad una sempre più generalizzata diminuzione della mortalità infantile. Si devono anche considerare fattori culturali, come la creazione della «nuova poesia d’amore», segnalata già a partire dal XII sec. nell’opera cit. del De Rougemont, o, ancor più, la rivoluzione culturale e spirituale, iniziata con la Riforma (cattolica e protestante), che stimolò, fra l’altro, a portare l’ascesi e la vita metodica fuori dai chiostri nella vita familiare e professionale, viste come occasione privilegiata di effusione della grazia divina. Il mutamento avvenuto nelle strutture, ma, più ancora, nelle relazioni familiari ha modificato le modalità di rapporto non solo fra i coniugi, ma anche fra genitori e figli, con un’interazione continua fra questi due tipi di rapporti, per cui le prime forme di controllo della fecondità portavano a modificazioni nell’atteggiamento verso i figli, ma presupponevano anche un cambiamento nei rapporti fra i coniugi e al tempo stesso rafforzavano questo cambiamento. Di qui il modificarsi dei livelli di tempo, energie, risorse da dedicare ai figli, il crescere del senso di responsabilità dei genitori e delle aspettative nei riguardi dei figli, la disponibilità anche a manifestare loro tenerezza ed affetto. I figli, almeno tendenzialmente, non sono più trattati come «cose» (pueri quasi res parentum​​ diceva l’antico diritto romano-barbarico), ma come soggetti, seguiti nei loro processi formativi dagli stessi genitori, senza troppi pregiudizi per il sesso o l’ordine di nascita. Non vengono, in genere, negati principi di riferimento etico, ma si tende a relegarli in uno sfondo sempre meno rilevante per la vita quotidiana. Così in Italia ci si sposa per circa il 70% ancora in chiesa, non ci si limita in genere a fare «convivenze», ci si separa e si divorzia in misura relativamente limitata (ma decisamente di più fra le coppie «giovani»), si tende ad avere figli «legittimi», ecc. È però altrettanto noto che in Italia si ha uno dei tassi di natalità più bassi del mondo e che è considerevole il tasso di abortività volontaria, analogo a quello dei cosiddetti Paesi più sviluppati (un terzo e più rispetto ai nati vivi negli ultimi anni). Si parla anche per l’Italia di puerocentrismo (valore enfatizzato dell’infanzia, desiderio intenso di un figlio, almeno adottato, ecc.), ma si tratta troppo spesso di un puerocentrismo «narcisistico», di proiezione dei propri desideri e aspettative, con investimenti affettivi di tipo compensatorio o captativo piuttosto che oblativo. È insomma un puerocentrismo diverso non solo da quello evangelico, per il quale il fanciullo rappresenta il modello della sequela cristiana (il Regno di Dio appartiene ai fanciulli e a quelli che sono come loro, «a mani vuote», in attesa di ricevere attenzione e aiuto, senza dar nulla in cambio), ma anche da quello della migliore tradizione pedagogica, almeno da​​ ​​ Comenio in poi, teso alla promozione della personalità del figlio / allievo. Più realisticamente bisogna parlare di f.​​ adult-center​​ e​​ child-free,​​ dove, per dirla con​​ ​​ Erikson (I cicli della vita, Roma, Armando, 1984, 52), «l’eccessiva preoccupazione per il proprio sé» è anche da attribuire alla «patogena soppressione del bisogno procreativo», al sottrarsi ad una connotazione fondamentale dell’adulto in quanto tale, la «generatività» e la «cura» o la loro sublimazione in atteggiamenti e comportamenti di produttività e creatività al servizio delle nuove generazioni. Sempre meno ci si preoccupa di instaurare nei primi anni di vita la «fiducia di base» di cui parla Erikson, come «esperienza dell’accordo tra le proprie esigenze e la previdenza materna» e sempre meno anche si mostra attenzione alle «differenze di stadio» dei propri figli, in contrasto con una funzione fondamentale d’ogni educatore, quella di custodire lo specifico di ogni età, impedendo che una fase si degradi fino ad essere solo funzionale a quella successiva. Si è passati «dall’era della protezione all’era dell’iniziazione», come ha mostrato M. Winn (Bambini senza infanzia, Roma, Armando, 1992, 17-95), mentre N. Postman (La scomparsa dell’infanzia, Roma, Armando, 1984, 115) ha sottolineato come la generalità dei bambini tenda oggi ad affidarsi non tanto all’autorità di genitori e maestri quanto a quella – divenuta di fatto sempre più incontrollabile – dei​​ ​​ mass-media, cioè sempre di adulti, ma che ben poco si fanno carico di preoccupazioni educative. Pur con le notevoli differenze rispetto agli altri «Paesi sviluppati» che ancora caratterizzano l’Italia, si può dire che anche la f. italiana attuale si avvii sempre più verso modelli di organizzazione lesivi di elementari diritti dei minori, quello anzitutto di avere una propria f., con un padre e una madre, non più f. o le cosiddette f. miste, formate da tronconi di precedenti f. fallite (patchwork families). Al modello della f. «moderna» come «cittadella del privato», carica di tensioni, ma «obbligatoriamente unita» (un guscio «vuoto», che pure non si rompe) sta affiancandosi anche in Italia la f. «postmoderna», dalla struttura instabile e imprevedibile nel tempo, fondata più sui diritti individuali degli sposi che sulle loro responsabilità di fronte alla compagine familiare, mentre la relazione amorosa, non più congelata nell’istituto matrimoniale, tende a sciogliersi nell’«amore liquido», di cui parla Z. Bauman. Tale nuova f. richiede di fatto ai figli uno sforzo di adattamento e di comprensione in genere superiore alle loro caratteristiche di sviluppo e alle loro capacità emotive.

4.​​ F. spazio educativo?​​ Affinché la f., oltre ad essere «centro di redditi e di consumi» o «punto di riferimento affettivo», riesca ad essere anche «spazio educativo», con capacità di orientamento etico per i figli e per gli stessi coniugi, occorre anzitutto che gli adulti accettino le loro responsabilità e non giochino ad essere perennemente giovani e che si rafforzi la tendenza ad una consistente comunicazione intrafamiliare, non ridotta a «negoziazioni strumentali» sul tempo trascorso fuori casa o su problemi economici o di lavoro, come alcune ricerche hanno evidenziato. «Non litigano più – osserva P. Donati (1997, 297) – perché parlano di cose banali […]. I genitori educano senza assumere, né chiedere ai figli che si assumano precise responsabilità etiche […]. Il conflitto diventa perciò latente e si sposta su un altro terreno, quello di convinzioni intime, che non sono oggetto di comunicazione». Difficoltà ulteriori derivano dalla restrizione della natalità che porta a ridurre sempre più la «società fraterna», capace di integrare, in misura talora determinante – sia pure non senza contraccolpi di aggressività negativa – l’azione educativa dei genitori, facendo sperimentare, nella quotidiana vita familiare, la radicale uguaglianza di ciascuno riguardo a bisogni, diritti e doveri. Meglio si superano così i diffusi atteggiamenti di permissivismo diseducativo o di immotivata alternanza di posizioni contrastanti, favorendo la progressiva acquisizione di un’autonoma coscienza morale, fondata sulla convinzione della necessità di principi e regole per la convivenza e sul rispetto reciproco, e superando il rischio del protezionismo d’un figlio sempre preceduto dai genitori nei suoi desideri e nella sua ricerca, raramente indotto a provare il senso dell’insicurezza e del confronto (Galli, 1988, 73-83). A differenza, però, di quanto avevano sostenuto i teorici della «morte della f.» degli anni ’60 e ’70, la f. rimane, almeno per i giovani, al vertice di ciò che conta nella vita, un luogo privilegiato di comunicazione interpersonale, come ripetono i Cinque​​ Rapporti Iard sulla condizione giovanile in Italia, dal 1984 al 2003. Rispetto agli anni della contestazione che colpì anche la f., i sociologi parlano di «f. pacificata», mentre sottolineano «l’erosione dell’autorità nella scuola», indicando differenze notevoli tra la prima e la seconda. «I rapporti genitori-figli – osserva L. Sciolla (2006, 21) – mostrano di mantenere una solida legittimazione e autorevolezza, rafforzata dal clima prevalente di dialogo e di reciprocità, tra genitori e figli […] e da un elevato grado di identificazione dei figli, nei modelli culturali trasmessi», mentre nella scuola prevalgono «modelli improntati ad una sorta di indifferenza reciproca». In questo stesso apprezzamento, però, c’è il rischio di una «fiducia eccessiva», che può contribuire a fare restare troppo a lungo i giovani nella f. d’origine, a scoraggiare in loro l’idea di f. come progetto di vita, ad accrescere la paura ad assumersi la responsabilità di farsi una f. propria, continuando a considerare quella di origine come un rifugio. È la realtà, specificamente italiana, della «f. lunga», per l’adolescenza prolungata dei nostri ragazzi, la maggiore scolarizzazione, una mancata politica di opportunità abitative e lavorative per i giovani, la diffusa tolleranza dei genitori «disposti – per dirla con il V Rapporto CISF (Donati, 1997, 256-257) – a concedere tutto il concedibile: dalle chiavi di casa alla relazione sessuale prematrimoniale», garantendo nello stesso tempo vari e consistenti vantaggi pratici, con la loro «presenza e disponibilità quotidiana», con «alti margini di libertà e bassi livelli di partecipazione», anche alle faccende di casa. La f. non si limita a rispecchiare i conflitti sociali ed è piuttosto – come ha scritto Snyders (1985, 140) – «un luogo di tenerezza agitata», con tensioni, dispute, lamentele, ma «controbilanciate dall’affetto» e con possibilità reali di arrivare a positive soluzioni. Non si tratta tanto di puntare nuovamente sul vecchio modello borghese della f. come trampolino di lancio del successo dei figli (una «pedagogia familiare» più che altro preoccupata di cosa «fare» dei figli o di cosa «far fare» loro), ma piuttosto su una nuova qualità della vita e della relazione interpersonale anche nell’ambito familiare. Primo presupposto per fare della f. uno spazio educativo è infatti proprio la capacità di dar vita a rapporti effettivi di dialogo, di reciprocità piena, dove si vuole davvero il bene dell’altro, «si risponde sempre all’altro» (o almeno ci si giustifica se non si risponde) e si sa che «non si userà contro l’altro ciò che è stato comunicato» (Donati, 1989, 44 e 134). Di fatto nella f. più che in altre forme di convivenza possono «dialetticamente» armonizzarsi libertà e responsabilità, autonomia e solidarietà, cura dei singoli e ricerca del bene comune, forza progettuale e disponibilità all’imprevisto, sollecitudine e discrezione, sana aggressività e capacità di perdono, disponibilità alla comunicazione, ma anche all’ascolto e al silenzio rispettoso, alla paziente attesa o all’impazienza non rinunciataria di chi non si arrende di fronte alle difficoltà. Sono tutti questi, fra l’altro, valori preziosissimi per preparare alla più ampia vita sociale e politica, nelle sue due dimensioni fondamentali di trasformazione dei rapporti di forza in rapporti regolati dal «diritto» e di condivisione dei problemi e delle responsabilità di una stessa convivenza umana, in nome della solidarietà. Proprio in un’esperienza concreta d’amore occorrerà trovare la forza di non rimanere legati ad essa, di comprendere nella propria attiva tenerezza gli altri uomini, specie i più piccoli e indifesi, la capacità anche di accedere al «nuovo ethos generativo» di cui ha parlato Erikson nel libro cit. (1984, 52 e 65), che porti ad «una più universale cura, centrata sul miglioramento delle condizioni di vita di tutti i bambini».

Bibliografia

Butturini E.,​​ Disagio giovanile e impegno educativo,​​ Brescia, La Scuola, 1984 e 1986; Barbagli M.,​​ Sotto lo stesso tetto,​​ Bologna, Il Mulino, 1984 e 2000; Berger B. - P. L. Berger,​​ In difesa della f. borghese,​​ Ibid., 1984; Buzzi C. - A. Cavalli - A. De Lillo et al. (Edd.),​​ Primo,​​ secondo,​​ terzo,​​ quarto e quinto rapporto Iard sulla condizione giovanile in Italia, Ibid., 1984-2003; Snyders G.,​​ Non è facile amare i propri figli,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1985; Galli N. (Ed.),​​ Vogliamo educare i nostri figli,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1985 e 1988; Scabini E. - P. Donati (Edd.),​​ La f. «lunga» del giovane adulto,​​ Ibid., 1988; Donati P. (Ed.),​​ Primo,​​ Secondo,​​ Terzo,​​ Quarto,​​ Quinto,​​ Sesto,​​ Settimo,​​ Ottavo e Nono Rapporto Cisf sulla f. in Italia,​​ Cinisello Balsamo (MI), Paoline, 1989-2005; Pati L.,​​ La politica familiare nella prospettiva dell’educazione,​​ Brescia, La Scuola, 1995; Donati P. - I. Colozzi (Edd.),​​ Giovani e generazioni, Bologna, Il Mulino, 1997; Cavallera H. A.,​​ Storia dell’idea di f. in Italia, 2 voll., Brescia, La Scuola, 2003-2006; Bauman Z.,​​ Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Roma / Bari, Laterza, 2004; Garelli F. - A. Palmonari - L. Sciolla,​​ La socializzazione flessibile. Identità e trasmissione dei valori tra i giovani, Bologna, Il Mulino, 2006; Butturini E.,​​ La f.: un vincolo che viene da lontano, in «Orientamenti Pedagogici» 54 (2007) 1, 29-49.

E. Butturini​​ 

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FAMIGLIA

FAMIGLIA – Catechesi familiare

FAMIGLIA (Catechesi familiare)

Con l’espressione Catechesi Familiare (CF) si designa il ministero educativo derivante dal matrimonio (cf FC 39), che i genitori svolgono nella F. “Chiesa domestica” (LG 11), per promuovere il risveglio e la crescita dei figli nella fede, in collaborazione con le altre agenzie educative, in particolare con l’istituzione cat., l’associazione, il movimento apostolico (cf ESM 59.69.103). È una funzione che, nei primi secoli, la Chiesa riconosce ai genitori, coadiuvati dai padrini, impostando fino al medioevo la → pastorale dei fanciulli come animazione fam. La tradizione patristica latina con Tertulliano, Cipriano, Agostino e quella greca con il Crisostomo sottolineano molto il ruolo cat. dei genitori, anche se ne accentuano in particolare la dimensione morale. Con il Concilio di Trento (1545-1563), osserva D. Boureau, “quando nasce la C. dei fanciulli, la sua organizzazione tende a misconoscere che da sempre i genitori hanno adempiuto, bene o male, un servizio ufficialmente instaurato da essa e che la maggior parte, senza alcun dubbio, continua ad adempierlo” (1970, 53). Storicamente incomincia così la graduale rinuncia dei genitori alla C. in F. fino al suo progressivo ricupero nella seconda metà del sec. XX, dovuto a diversi motivi: la riscoperta ecclesiale della corresponsabilità cat. di tutti i battezzati nella complementarità dei vari ministeri, in particolare in quello fam. (cf LG 11.35; GE 3; GS 48); la valorizzazione teologica del sacramento del → matrimonio come matrice non solo di doveri, ma di carismi e di doni (cf FC 19; ESM 104. 107); l’acquisizione del ruolo primario dell’iniziativa parentale nell’educazione dei figli alla fede (cf LG 11; AA 11), favorita anche dall’associazionismo fam.; la graduale partecipazione attiva dei genitori all’iniziazione sacramentale dei figli, sollecitata da una serie di pubblicazioni di vari autori: in Belgio P. Ranwez; in Francia → M. Fargues, A. Merlaud, F. Destang; in Germania M. Leist, J. Klink, e promossa in Italia dai nuovi catechismi, in particolare da​​ II catechismo dei bambini​​ (1973).

Se il Vaticano II​​ delinea​​ i principi su cui si fonda la CF, i vari documenti dell’Episc. italiano: MF (1969), RdC (1970), ESM (1975) e anche il Sinodo dei Vescovi con la FC (1981) suggeriscono la modalità di intervento.

I.​​ Modelli di intervento

La CF matura la propria identità nel confronto diretto con l’istituzione cat., con un distacco progressivo da questa che trova diverse remore nell’incapacità dei genitori. Emergono, pertanto, modelli di intervento che, lentamente, evolvono verso forme più precise e adeguate.'

1.​​ Modello sussidiario funzionale.​​ Il primo confronto tra la F. e l’istituzione cat. si verifica sul piano dell’agire, ed è sollecitato da un tipo di intervento che tende a sostenere l’opera dei catechisti: assicurare la frequenza dei figli, controllare il loro profitto, favorire le varie forme di attivismo, ecc. I genitori sono aiutati in questo da un’abbondante serie di album, fascicoli, quaderni, ecc. L’istituzione cat. conserva il suo ruolo primario, e utilizza la collaborazione manualistica della F. I genitori svolgono una funzione sussidiaria e funzionale ad essa, e adempiono un ruolo suppletivo, in rottura con una prassi completamente rinunciataria.

2.​​ Modello organizzativo fam.​​ La C. dei → fanciulli è organizzata in modo fam., cioè si stabiliscono gruppi ristretti che si riuniscono in una casa sotto la guida di una mamma catechista. Si cerca così di ricostruire materialmente la realtà fam. entro cui dovrebbe filtrare a questa età la proposta cristiana. In questi gruppi si può avere un contatto più diretto con i fanciulli, adottare un linguaggio più concreto, estendere meglio il rapporto alle F. e mediare, in modo esistenziale, l’incontro con la parrocchia attraverso alcuni momenti celebrativi. Pur suscitando la partecipazione dei genitori, non si riesce ancora ad esprimere tutta l’originalità del loro contributo educativo. Si verifica una semplice trasposizione dell’atto di C. dall’istituzione ad alcuni ambienti fam.

3.​​ Modello ministeriale.​​ I genitori educano i figli alla fede, sentendosi compartecipi di un unico progetto cristiano, perché la Chiesa è presente e opera nella F. attraverso la specificità del carisma dei suoi membri, e da qui si apre alla comunione con gli altri ministeri nella comunità. I genitori, nei confronti dei figli, sono detti “primi annunciatori della fede” (LG 11; cf AA 11), in forza del loro matrimonio (cf GE 3; LG 11.41; GS 50.61), con una terminologia che non restringe il loro servizio alla trasmissione cat., ma lo estende alla totalità della vita del fanciullo con lo stile specifico di un ministero, che è loro riconosciuto dalla comunità. L’istituzione cat. promuove il carisma educativo parentale, sente di non poter farne a meno, perciò non lo sostituisce mai. I catechisti si affiancano ai genitori, con interventi di versificati, per realizzare un comune progetto educativo nella comunione ministeriale (cf ESM 59.69.103). .

II.​​ La comunicazione cat. fam.

La novità della trasmissione cat. fam. risiede nell’origine sacramentale del loro ministero e nella modalità del loro intervento. La F. è un luogo dove si vive, si cresce, si lavora, si fatica, si soffre, si gioisce, e attraverso queste realtà emerge il messaggio cristiano che insieme si è invitati a cercare con lo sguardo di fede.

1.​​ Le funzioni cat. della F.​​ La F., chiesa domestica, attraverso la sua opera educativa esprime e realizza la triplice missione della Chiesa in quanto educa i figli a “percepire il senso di Dio” (missione profetica), a venerarlo (missione sacerdotale), ad amare il prossimo e a inserirsi nella comunità civile ed ecclesiale (missione regale;​​ ​​ GE 3). Adempie tale missione svolgendo alcune funzioni.

a)​​ Simbolico-rivelativa.​​ È legata all’essere stesso della F., che assurge a divenire simbolico e rivelativo della identità del cristiano nelle relazioni fondanti: rapporto di filiazione con Dio Padre, di fratellanza con Gesù Cristo, di comunione nello Spirito, di corresponsabilità nella Chiesa. “Nel matrimonio e nella F. si costituisce un complesso di relazioni interpersonali — nuzialità, paternità-maternità, filiazione, fraternità — mediante le quali ogni persona è introdotta nella “F. umana” e nella “F. di Dio”, che è la Chiesa” (FC 15).

b)​​ Interpretativo-esistenziale.​​ La proposta cristiana in F. emerge dalla pluralità delle situazioni di vita e ingloba la persona stessa dei figli e dei genitori. L’intervento fam., pertanto, si traduce in un’opera interpretativa e narrativa, a volte critica, dei fatti quotidiani, e si modella sul ritmo della ferialità, tendendo all’essenziale, alla concretezza e alla semplicità.

c)​​ Alfabetizzatrice-significante.​​ La F. adempie una funzione alfabetizzatrice cristiana, in quanto trasmette ai figli il linguaggio della fede, cioè il significato essenziale dei gesti, dei segni, delle realtà, dei misteri e dei comportamenti cristiani. In tal senso presuppone e si apre all’istituzione cat. per un discorso più elaborato, organico e sistematico della proposta cristiana.

d)​​ Avvalorativo-testimoniale.​​ In F. le opzioni cristiane sono avvalorate dall’esemplarità dei genitori, che, almeno inizialmente, conferiscono ad esse un credito affettivo, sul quale in seguito si elaborano scelte personali più responsabili. “I membri di una F. si aiutano vicendevolmente a crescere nella fede grazie alla loro testimonianza cristiana, spesso silenziosa, ma perseverante nel ritmo di una vita quotidiana vissuta secondo il Vangelo” (CT 68).

Tali funzioni sono diversificate in rapporto all’arco evolutivo: il bambino è più attirato dal simbolo, il fanciullo dalla componente interpretativa, il preadolescente dall’apporto avvalorativo-testimoniale.

2.​​ La modalità di trasmissione.​​ Componente non irrilevante della CF è lo stile, cioè la forma con cui viene offerta la proposta cristiana. Appellandosi a realtà e a situazioni-segno, la trasmissione adotta una metodologia che si affida all’intuizione, alla capacità creativa dei genitori e, in particolare, all’intensità della loro fede. “La CF trova la sua originalità e la sua efficacia nel carattere

occasionale e nella immediatezza dei suoi insegnamenti, espressi anzitutto nel comportamento stesso dei genitori​​ e​​ nella esperienza spirituale di ognuno” (RdC 152).

a)​​ L’occasionalità.​​ “La stessa vita di F. diventa un itinerario di fede e in qualche modo iniziazione cristiana e scuola della sequela di Cristo” (FC 39). I genitori sono chiamati ad essere pronti e vigilanti nel recepire le situazioni educative della convivenza fam., da cui far emergere l’interpretazione di fede, provocando, a volte, le domande implicite dei figli. Il susseguirsi degli avvenimenti nella loro imprevedibilità costituisce la trama della CF.

b)​​ La spontaneità.​​ Il discorso religioso in F. si apre alla fiducia reciproca, al dialogo, allo scambio vicendevole, e pertanto scaturisce in modo spontaneo. Anzi “i genitori stessi, annunciando ascoltano, insegnando imparano” (RdC 152). Diventa momento educativo “la vita stessa della F., che in tutte le sue diverse circostanze viene interpretata come vocazione di Dio e attuata come risposta filiale al suo appello: gioie e dolori, speranze e tristezze, nascite e compleanni, anniversari delle nozze dei genitori, partenze, lontananze e ritorni, scelte importanti e decisive, la morte di persone care, ecc., segnano l’intervento dell’amore di Dio nella storia della famiglia” (FC 59).

In tal modo si favorisce l’interiorizzazione dei valori cristiani per l’intensità emotiva e relazionale che unisce i genitori e i figli in un’unica esperienza di fede fam., che conosce momenti di ascolto della Parola di Dio, di condivisione interpretativa, di celebrazione tramite la liturgia domestica, di preghiera coniugale e fam. e di impegno apostolico. Spontaneità non è sinonimo di casualità, ma richiede ai genitori una sapienza educativa che sa trovare momenti di incontro con il Signore nelle occasioni più opportune e vitali “per interpretare una difficoltà ed insegnare a superarla, per aprire alla coerenza spirituale, per ringraziare Dio dei suoi doni...” (RdC 152).

Concludendo, la CF è una componente irrinunciabile della crescita di fede dei figli. Nell’infanzia precede il servizio della istituzione cat.; durante la fanciullezza lo accompagna, in particolare in occasione della iniziazione sacramentale; nella adolescenza lo avvalora e lo apre ad un’interiorizzazione personale delle scelte cristiane, con la specificità di un apporto educativo che deriva ai genitori dall’adempiere nella Chiesa un “vero ministero” (FC 39).

Bibliografia

D. Boureau,​​ La mission des parenti.​​ Perspectives​​ conciliaires, Paris, Ceri, 1970;​​ L'educazione religiosa in famiglia,​​ Brescia, La Scuola, 1975; M. Fakgues,​​ I nostri bambini davanti al Signore,​​ Milano, Ancora, 1961; G. Gatti,​​ Il ministero catechistico della famiglia nella Chiesa,​​ Bologna, EDB, 1978; Id.,​​ Genitori educatori alla fede nella Chiesa oggi,​​ Leumann-Torino, LDC, 1978; J. L. Klink,​​ Il bambino e la fede,​​ Milano, Ed. Paoline, 1972; Id.,​​ Il bambino e la vita,​​ ivi, 1974; Id.,​​ Il bambino sulla terra,​​ ivi, 1975; L. Kockerols,​​ L’educazione religiosa in famiglia,​​ Torino, Boria, 1975; M. Leist,​​ I nostri figli a colloquio con Dio,​​ ivi, 1970; A. Merlavo,​​ Il bambino, la famiglia e i suoi educatori,​​ ivi, 1967; P. Ranwez,​​ L’alba della vita cristiana,​​ Leumann-Torino, LDC, 1968;​​ Risveglio religioso dei bambini.​​ Catechesi familiare per bambini e genitori, Assisi, Cittadella, 1974; W. Saris,​​ Dove nasce la Chiesa.​​ Catechesi familiare, Leumann-Torino, LDC, 1978.

Gaetano Gatti

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FAMIGLIA – Catechesi familiare

FANCIULLI – Catechesi dei

 

FANCIULLI (Catechesi dei)

1.​​ Premessa terminologica.​​ Occorre anzitutto precisare la distinzione concettuale tra le due espressioni CdF e C. ai F.

Con C. ai F. si indica la prassi ecclesiale immediatamente ordinata a educare questi soggetti alla vita di fede mediante la comunicazione del messaggio cristiano fatta in modo organico e sistematico all’interno del processo educativo globale. Si tratta di sostenere la crescita umana e di illuminarla con la Parola di Dio per far acquisire l’identità cristiana al fine di educare i fanciulli non solo a conoscere i contenuti della fede, ma a vivere la fede da testimoni di Cristo nel loro ambiente di vita con quella particolare modalità che è propria della loro età (cf RdC 136; DCG 79; CT 37).

Con l’espressione CdF ci si riferisce ai principi teorici che orientano la prassi cat. e che trovano nell’elaborazione metodologica la loro organizzazione. La CdF si interessa pertanto dei → metodi (teorie) riguardanti l’arco di età 6-11 anni, ed elabora modelli di intervento nel rispetto della fedeltà al soggetto e al messaggio cristiano (cf DCG 34; RdC 160). A tal fine ricupera le istanze poste dalle scienze umane (ambito psico-socio-pedagogico), da quelle teologiche (ambito biblico-liturgico-dottrinale), nonché da quelle didattiche (ambito didattico). Questo per le imprescindibili implicanze che tali scienze presentano in ordine all’atto di fede che, nella sua dimensione umano-divina, lascia intravedere nella valenza pedagogica e in quella teologica i due poli che orientano la prassi cat.

2.​​ La CdF alla luce del rapporto C.-educazione.​​ In continuità con l’apertura al senso di Dio realizzata nell’infanzia, la CdF si esprime in una​​ prima → iniziazione cristiana,​​ che verrà completata e perfezionata nelle età successive. Si è ormai concordi, infatti, nel ritenere la fanciullezza uno dei tempi scanditi nel cammino della sequela Christi, e che questo tempo si qualifichi e si integri con le altre età della vita. Approfondire il senso dell’iniziazione cristiana — secondo il pensiero di molti catecheti contemporanei — significa pertanto cogliere la peculiarità dell’annuncio da proporre ai fanciulli nel rispetto della loro crescita. Significa, più concretamente, trovare la via per una fondazione psicologica degli obiettivi, consapevoli del peculiare valore dell’esistenza del fanciullo quale “luogo” umano in cui si radica la vita in quanto risposta di fede in Gesù Cristo. La fanciullezza è infatti l’età della prima strutturazione della personalità, e poiché ogni annuncio di fede deve integrarsi nella vita, la formazione del fanciullo cristiano esige l’elaborazione di un processo cat. che non può ignorare i particolari dinamismi che le funzioni dell’io assumono nello sviluppo umano (-► età evolutiva) del soggetto di questa età, il cui processo di crescita pone le basi per la formazione dell’atteggiamento religioso.

In questo senso l’impostazione metodologica della C. articola l’intervento educativo tenendo presenti i caratteri propri della crescita del soggetto, quali la sua incipiente attività razionale (logica concreta), l’acquisizione dell’immagine di sé raggiunta attraverso il modo con cui egli sente di essere percepito dagli adulti, la capacità di autocoinvolgersi al di là dei propri interessi immediati, la valorizzazione dell’io come graduale presa di coscienza delle proprie capacità, l’emergenza dei valori in rapporto al processo di identificazione realizzato con adulti significativi i quali gli mediano l’immagine della paternità di Dio. Da ciò deriva la correlazione sviluppo umano-obiettivi, nel senso che gli obiettivi cat. dovranno adeguare le attese educative alle reali possibilità dei soggetti, per cui saranno tali da favorire nel fanciullo la conoscenza esperienziale del messaggio cristiano, la consapevolezza della propria realtà di figlio di​​ Dio​​ esperita mediante il rapporto con i genitori e gli educatori, la percezione della propria appartenenza alla Chiesa mediante la partecipazione attiva nella comunità cristiana, l’assunzione del proprio ruolo di protagonista per rendere migliore l’ambiente in cui vive. Tutto questo in ordine a un primo orientamento dell’agire del fanciullo in Cristo da figlio di Dio nel quotidiano della sua esistenza.

Si tratta di linee di tendenza emergenti dall’attuale movimento cat. per realizzare una C. sempre più integrata nella totalità del processo educativo, dove appunto crescita umana e crescita cristiana si sviluppano​​ sincrónicamente,​​ trovando nel momento celebrativo dei sacramenti dell’iniziazione cristiana il proprio punto culminante. È allora evidente che la C. di questa età, qualificata come inizio dell’apprendistato al divenire cristiano, si scandisce al ritmo di tre momenti fondamentali: promozione umana (dimensione pedagogica), evangelizzazione (dimensione kerygmatica), celebrazione (dimensione sacramentale). Come auspicato dalla CT (cf n. 17), si può allora cogliere nelle istanze del movimento cat. post-conciliare un allargamento del concetto stesso di C. Questa, diretta al fanciullo in situazione, mentre gli annuncia il messaggio di Cristo, suscita un contesto educativo portatore di quei valori umani senza di cui non si forma una natura sana aperta alla crescita nella fede.

3.​​ I modelli della C. dal post-Concilio a oggi.​​ I principi che connotano la natura stessa della C. ai F. sono individuabili, in misura diversa, nei testi cat. rinnovati nella linea delle istanze poste dal Concilio Vaticano II. Nel corso di questo ventennio l’attività cat. delle diverse Chiese locali è stata infatti molto feconda nell’intento di individuare vie sempre più adeguate perché la Parola di Dio raggiunga il fanciullo nella sua situazione concreta di crescita, particolarmente segnata tra l’altro dal cambio culturale che caratterizza la nostra epoca. In questa ottica pertanto vanno letti i numerosi tentativi che si esprimono nella varietà di metodi e di modelli. Segnaliamo anzitutto il​​ modello storico-dottrinale​​ che ha superato il catechismo-formulario e si è connotato per una trasmissione oggettiva dei contenuti della fede dove il protagonista è Dio, ma in un processo educativo in cui il fanciullo non è coinvolto attivamente. Come reazione a questa tendenza è sorto il​​ modello esistenziale,​​ che ricorre all’esperienza e privilegia metodi non direttivi, spesso sottovaluta la Tradizione e le formule della fede, rischiando così di cadere nel soggettivismo e nel riduzionismo. Hanno poi fatto seguito il​​ modello antropologico-kerygmatico​​ e quello​​ comunitario-catecumenale,​​ nei quali prevale l’aspetto dell’interazione tra contenuto di fede ed esperienza umana nel rispetto della natura stessa della C., e dove emerge una sempre maggiore attenzione a educare il fanciullo alla vita di fede nella comunità cristiana.

I poli attorno ai quali il​​ modello antropologico-kerygmatico​​ organizza l’intervento cat. sono Cristo, il cui mistero di salvezza viene considerato nella triplice dimensione biblica, liturgica, dottrinale, e il fanciullo, raggiunto nella sua situazione concreta di crescita e di esperienza di vita. In questa prospettiva, il modello propone una C. che si avvale di un procedimento didattico il quale, partendo appunto dalla vita, coinvolge attivamente il fanciullo e assume il carattere di un annuncio che imprime significato cristiano all’esistenza, nonché il carattere dell’esattezza contenutistica al di là di ogni forma di nozionismo, di sentimentalismo, di infantilismo. Un tale modello, perché raggiunga il suo fine — quello di evangelizzare la vita —, esige il coinvolgimento dell’azione dei vari luoghi educativi, diventando così pure stimolo di evangelizzazione della comunità cristiana. Tipici di questo orientamento sono alcuni testi nazionali, tra i quali particolarmente significativi sono quelli del Canada (1964-1980), dell’Italia (1974-1976), della Spagna (1980-), dell’Austria (1981), ecc.

Il​​ modello comunitario-catecumenale​​ nasce dalla convinzione che l’educazione alla fede dei fanciulli non può attuarsi senza che allo stesso tempo vengano evangelizzati gli adulti. Si tratta pertanto di un modello che suscita un’azione pastorale organizzata, la quale si rivolge direttamente agli adulti per raggiungere, attraverso questi, i fanciulli, nella consapevolezza che la C., coinvolgendo tutta la comunità-Chiesa, trae origine dalla sua professione di fede (traditio) e conduce a una rinnovata professione di fede (redditio).​​ È questa una modalità pastorale che vuole realizzare un nuovo tipo di catecumenato nell’attuale società scristianizzata, segnando così una rottura con schemi e strutture ritenuti non più adeguati alle sfide lanciate dagli odierni cambi culturali. In questo senso, il primato della struttura parrocchiale della C. si arricchisce dei → “luoghi cat.” e della “C. familiare” (Documenti del Cile, del Perù, della Bolivia, dell’Ecuador, ecc.). Si tratta di rivalutare una pedagogia cat. che, pur non essendo nuova nella storia della C., viene oggi riproposta in termini di “relazione” quale via per arrivare a vivere la fede come relazione personale con Dio all’interno dei singoli gruppi che vogliono esprimere la propria appartenenza comunitaria alla Chiesa di Cristo.

Le opzioni metodologico-didattiche sottese a questi modelli esprimono l’attenzione al graduale sviluppo del soggetto e quindi privilegiano i metodi induttivo, attivo, ciclico-progressivo, il metodo della ricerca e dell’approccio ai documenti e ai segni.

4.​​ Prospettive di studio e di ricerca.​​ Gli sforzi del rinnovamento in atto rimangono aperti al superamento di una proposta che talvolta rischia di essere troppo preoccupata di una trasmissione quantitativa dei contenuti della fede, così che permane in molti casi riduzionista, nel senso che si ferma alla nozione risultando inadeguata a maturare personalità cristiane convinte. Una tale inadeguatezza è particolarmente grave oggi per l’incidenza che l’ambiente scristianizzato ha sui fanciulli, per cui risulta ineludibile l’impegno di abilitarli a dare una risposta vitalizzante agli interrogativi esistenziali che il contesto socioculturale di oggi suscita anche in essi. Per tutti questi motivi, l’impegno di rinnovamento avviato continua a essere urgente e sempre più bisognoso di seri studi scientifici che, accogliendo gli apporti delle scienze dell’educazione, applichino in favore dell’educazione della fede quanto di meglio il progresso scientifico ha offerto nell’ambito pedagogico, sempre tuttavia nel rispetto della fondamentale originalità del metodo cat. (cf CT 58; RdC 161).

In tale ottica, i catechismi nazionali dovrebbero essere fatti oggetto di verifica a livello ecclesiale, non solo per essere in grado di offrire una sempre più idonea risposta alle sfide culturali, ma anche come occasione per maturare una mentalità convergente nell’opera evangelizzatrice della Chiesa in modo che la C. coinvolga di fatto tutta la comunità ecclesiale. A questo fine potrà concorrere l’individuazione dello specifico proprio della comunicazione religiosa nei diversi ambienti di vita, così che venga rispettato il carattere proprio del “luogo” educativo in cui questa viene attuata evitando di identificare C. parrocchiale e → IR nella scuola, come di fatto attualmente ancora si verifica nelle scuole cattoliche di numerosi paesi, quali ad es. l’Austria, il Belgio, il Canada, l’Olanda, ecc.

Bibliografia

G. Adler – G. Vogeleisen,​​ Un siede de catechèsi en Franca 1893-1980. Histoire-Déplacements-Enieux,​​ Paris, Beauchesne, 1981; D. Borobio,​​ Proyecto de iniciación cristiana. Como se hace un cristiano. Como se renueva una comunidad,​​ Bilbao, Desclée de Brouwer, 1980;​​ La catéchèse des enfants,​​ in «Catéchèse» 20 (1980) 79, 9-89; J. Colomb,​​ Al servizio della fede,​​ 2 vol., Leumann-Torino, LDC, 1969-1970; B. Dreher – A. Exeler – K. Tilmann,​​ La sterilità della catechesi infantile,​​ Modena, Ed. Paoline, 1969; G. Gatti,​​ Panorama degli attuali orientamenti della catechesi ai fanciulli,​​ in “Orientamenti Pedagogici» 18 (1971) 1312-1367; In.,​​ La catechesi dei fanciulli,​​ Leumann-Torino, LDC, 1975; M. L. Mazzarello,​​ Catechesi dei fanciulli-, prospettive educative,​​ Leumann-Torino, LDC, 1986; ,T. Nieuwenhuis,​​ Terwijl de hoer slaapt. Opvoeding van kleine gelovigen,​​ Baarn, Ambo, 1976; D. J. O’Leary – T. Sallnow,​​ Love and Meaning in Religione Education,​​ Oxford, Oxford Univ. Press, 1982; S. Riva,​​ L’educazione religiosa del fanciullo,​​ Bologna, EDB, 1977.

Maria Luisa Mazzarello

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FANCIULLI – Catechesi dei

FANCIULLI – Pastorale dei

 

FANCIULLI (Pastorale dei)

Comprende il complesso degli interventi educativi con cui la Chiesa, adempiendo una funzione materna, provvede al divenire cristiano delle nuove generazioni, promuovendo la maturazione della fede battesimale e il pieno inserimento nella comunità. È una volontà educativa che si adegua ai diversi tempi storici e si esprime mediante vari modelli pastorali di apprendistato cristiano.

Il​​ catecumenato familiare.​​ Fino al medioevo l’educazione dei figli alla fede è affidata ai genitori che provvedono alla loro iniziazione nella comunità.

Il​​ catecumenato parrocchiale.​​ Dal sec. XVI con la Riforma si configura un intervento specifico per i fanciulli da parte dell’istituzione catechistica, che dispone di manuali destinati alle varie età.

Il​​ catecumenato scolastico.​​ Nel sec. XIX, con il diffondersi dell’obbligo scolastico, la Chiesa trova nella → scuola, anche se in modo non esclusivo, la possibilità di educare alla fede, avvalendosi dei procedimenti tipici dell’insegnamento scolastico.

Queste varie forme di apprendistato cristiano nel periodo post-conciliare subiscono un profondo cambiamento dovuto al rinnovamento ecclesiale e al nuovo contesto socioculturale. La revisione pastorale, con la molteplicità delle sue iniziative, può essere ricondotta all’interno delle componenti di base del divenire cristiano che, secondo il​​ Messaggio del Sinodo 1977,​​ n. 11, si articola attorno alla conoscenza della Parola, alla celebrazione della fede, alla testimonianza della vita cristiana.

1.​​ L’educazione alla fede.​​ La PdF riceve un impulso decisivo dalla animazione cat. promossa dai documenti pubblicati dai vari episcopati: in Olanda:​​ Linee fondamentali per una nuova catechesi​​ (1969); in Francia:​​ Direttorio di pastorale catechistica​​ (1964);​​ L’educazione cristiana dei fanciulli​​ (1975);​​ Direttive per l’iniziazione cristiana dei fanciulli​​ (1979); in Spagna:​​ Documentos colectivos​​ del​​ Episcopado Español sobre formación religiosa y educación,​​ 1969-1980;​​ in​​ Austria:​​ Österreichisches​​ Katechetisches​​ Direktorium für​​ Kinder-und​​ Jugendarbeit​​ (1981);​​ in​​ Italia: RdC (1970).​​ Ai documenti fa seguito l’adozione dei nuovi catechismi per​​ i​​ F. in Italia (1974-1976), in Spagna (1980), in Francia (1980). Tali iniziative non promuovono un semplice aggiornamento dottrinale o metodologico dei testi, ma un rinnovamento della PdF, in quanto i nuovi manuali sono indirizzati prevalentemente alla comunità e coinvolgono in modo particolare la famiglia e l’ambiente di vita. Si supera così l’isolamento tra l’educazione dei F. alla fede, l’intera comunità, la responsabilità familiare e i contesti sociali, richiamando la funzione profetica degli adulti e dei genitori.

2.​​ L’iniziazione alla liturgia.​​ Il rinnovamento cat. si associa negli anni ’70 ad una particolare attenzione liturgica, rivolta a rendere il linguaggio, i riti e i gesti delle celebrazioni più accessibili ai fanciulli. Il principio della SC n. 21, che aveva interessato gli adulti, si rivolge ai fanciulli perché possano partecipare in modo più cosciente e attivo all’azione liturgica con interventi e parole adeguati alla loro età e comprensione. Si colloca in questa prospettiva il​​ Direttorio per le Messe con la partecipazione dei F.​​ (1973), la cui applicazione nei suoi diversi adattamenti è demandata ai vari Episcopati. Segue, in Italia, la pubblicazione dell’istruzione​​ La partecipazione dei F. alla Messa​​ (1975) e del​​ Legionario per la Messa dei F.​​ (1976). L’iniziazione dei F. è intesa come un’introduzione alla vita dell’intera comunità, cui è strettamente collegata la testimonianza degli adulti. Adattamenti per​​ i​​ F. sono previsti nel​​ Rito della Penitenza​​ (1974) con una celebrazione penitenziale specifica, e nel RICA (1978; → Iniziazione cristiana degli adulti) dove al​​ cap.​​ V si propone il​​ Rito dell’iniziazione cristiana dei F. nell’età del catechismo,​​ sviluppando una forma di itinerario catecumenale.

Si evidenzia in tal modo il ruolo educativo della comunità celebrante nei confronti dei F. e l’impegno di assicurare la loro accoglienza, adempiendo la propria funzione sacerdotale.

3.​​ L’introduzione all’esperienza ecclesiale.​​ La graduale ecclesializzazione dei F. nell’attuale contesto sociale esige un profondo inserimento nel mondo degli adulti, a contatto diretto con la loro testimonianza. Si attua cioè, tramite una varietà di interazioni cristiane, capaci di trasformarsi in autentiche matrici di fede e di evangelizzare, l’appartenenza dei F. alla Chiesa, per favorire la loro integrazione cristiana. Tutto ciò obbliga a ripensare la prassi pastorale tradizionale in rapporto al modo, al luogo e al tempo del divenire cristiano delle nuove generazioni. In una società secolarizzata l’identità cristiana è mediata da realtà e da situazioni che esigono una pastorale d’insieme capace di far convergere l’apporto educativo di ogni ambiente di vita: famiglia, parrocchia, gruppo, associazione, movimento, nel rispetto della loro specificità. Si invoca, pertanto, la ministerialità educativa dell’intera comunità, perché diventi luogo di accoglienza e di servizio della fede dei F. In una società pluralista, pur non disattendendo le agenzie istituzionali dell’educazione alla fede, l’azione pastorale ricerca luoghi riferenziali, che sappiano riproporre nuove forme di aggregazione cristiana, in cui F. e adulti condividono un unico cammino di fede. In Francia si tende a costituire i luoghi cat. (→ lieu catéchétique). “È un luogo in cui la testimonianza di coloro che vi si riuniscono — animatori, genitori e F. — permette che la fede venga realmente vissuta insieme” (Direttive...,​​ 54). L’istituzione cat. è chiamata a divenire centro propulsore di una molteplicità di luoghi riferenziali cristiani nella parrocchia, nel quartiere, nel condominio, ecc.

In una società conflittuale in continua evoluzione la crescita cristiana ricupera il senso della progettualità, si colloca cioè contemporaneamente in rapporto alla specificità del momento evolutivo e in rapporto all’educazione permanente della persona. La PdF ricerca nuovi ritmi e si sviluppa lungo una traiettoria cat. che prevede itinerari differenziati, in cui sono presenti tempi di iniziazione, di crescita e di maturazione, senza precocismi o ritardi deleteri. Infatti, ritenendo troppo presto cristiani adulti i bambini, si rischia di avere sempre di più adulti ancora bambini nella fede. Ciò comporta il superamento di alcune scadenze artificiali dell’iniziazione sacramentale, legata all’età cronologica, al grado scolastico, ma disgiunte dal processo di maturazione cristiana.

L’azione pastorale si impegna ad assicurare ai F. non tanto nuovi catechismi, ma una comunità ministeriale evangelizzante, che professa, celebra e vive la fede e si presenta loro come segno, testimonianza e invito a condividere la scelta cristiana.

Bibliografia

AGESCI,​​ Progetto unitario di catechesi,​​ Milano, Ancora, 1983; Conf. Episc. Francese,​​ Direttive per l’iniziazione cristiana dei fanciulli,​​ Leumann-Torino, LDC, 1981; B. Dreher – A. Exeler – K.​​ Tilmann,​​ La sterilità della catechesi infantile,​​ Modena, Ed. Paoline, 1969; G. Gatti,​​ La catechesi dei fanciulli,​​ Leumann-Torino, LDC, 1975; J. M. Kijm,​​ Educazione alla fede,​​ ivi, 1969;​​ Linee fondamentali per una nuova catechesi,​​ ivi, 1969; S. Riva,​​ L’educazione religiosa del fanciullo,​​ Bologna, EDB, 1977; UCN,​​ La iniziazione cristiana dei fanciulli. Sussidio di pastorale catechistica,​​ Leumann-Torino, LDC, 1977.

Gaetano Gatti

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FANCIULLI – Pastorale dei

FANCIULLO

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FANCIULLO

Con questo termine, spesso considerato come sinonimo di «bambino» ed oggi poco usato perché ritenuto legato ad una concezione romantica della fanciullezza, si indica l’essere umano che vive la fase di crescita compresa tra l’infanzia e l’inizio dell’adolescenza.

1. Nella storia della pedagogia la «scoperta del f.» ha coinciso con la cultura attivistica con la quale le intuizioni di​​ ​​ Comenio e di​​ ​​ Rousseau hanno incominciato a tradursi nella pratica educativa e particolarmente in quella scolastica. In seguito alla cosiddetta «rivoluzione copernicana» infatti alla centralità dell’educatore e / o del maestro si sostituisce la centralità del f., considerato il protagonista della sua educazione.

2. La «scoperta del f.» è collegata all’interesse delle scienze umane (pedagogia, psicologia, psicanalisi, antropologia culturale, sociologia) per la conoscenza della fanciullezza e in particolare delle sue potenzialità educative ed ha favorito lo sviluppo di questi settori di ricerca.

3. La psicologia dello sviluppo nel corso del Novecento ha studiato le modificazioni fisiche, emotive, cognitive e comportamentali ed ha esplorato in estensione e in profondità le funzioni che interagiscono nella personalità del f. (motricità, percezione, pensiero, linguaggio, affettività). Questi studi hanno rilevato che nella fanciullezza, grazie anche all’educazione formale realizzata nella scuola, possono avvenire significativi consolidamenti sul piano cognitivo ed intellettuale e su quello morale per quanto riguarda il senso della giustizia, della solidarietà e della responsabilità.

Bibliografia

Piaget J.,​​ La rappresentazione del mondo del f., trad.it., Torino, Boringhieri, 1973; Tagliaferri F. et al.,​​ F. e società, Vicenza, Del Rezzara, 1980; Gutiérrez J. G., «L’interesse superiore del f.» in prospettiva pedagogica. Riflessioni e proposte, in «Prospettiva EP» 29 (2006) 1, 77-104.

S. S. Macchietti

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FANCIULLO

FANTASIA

 

FANTASIA

La f. è l’attività mentale per mezzo della quale il soggetto conserva, riproduce e crea immagini che possono o meno corrispondere alla realtà. Essa emerge alla coscienza psicologica spesso spontaneamente ed i suoi contenuti si riferiscono ai ricordi, agli stati emotivi del passato come anche alle speranze del futuro. La f., pur lavorando sui contenuti reali, si distingue radicalmente dalla realtà. Essa «produce» il non esistente e spesso distorce la realtà stessa; la sua funzione nella vita umana è molteplice.

1. Prima di tutto la f. rappresenta una fase preparatoria allo sviluppo cognitivo del​​ ​​ bambino. Nella fase psicomotoria egli esplora l’ambiente, progressivamente si rende conto della sua individualità e incomincia a percepire la realtà. Essa assume un importante ruolo nei suoi giochi ed è anche un notevole fattore del suo sviluppo affettivo. Ai soggetti di tutte le età, la f. offre un’alternativa alla realtà e in tal modo contribuisce al ripristino delle forze e al mantenimento dell’equilibrio psichico. L’evasione nel mondo della f. può aiutare a sopravvivere in situazioni disperate come dimostrano le esperienze di alcuni soggetti nei campi di sterminio oppure nei bagni penali; la f. alimenta anche la fiducia in un possibile cambiamento.

2. Il rifugiarsi nella f. può consentire al soggetto di soddisfare dei desideri negati dalla realtà ed anche la possibilità di compensare l’insuccesso con il successo in un altro settore. Il soggetto, inoltre, può servirsi della f. per mettere in moto alcuni​​ ​​ meccanismi di difesa, come la proiezione e la razionalizzazione, che sono delle valvole di sicurezza della vita psichica. In alcuni casi il soggetto può essere assorbito dalla f. in modo tale da non rispondere alle domande dell’ambiente; la f., in questi casi, sostituisce la realtà e diventa patologica, sfociando in allucinazioni oppure in paranoia. Quando è di minore intensità, il soggetto può realizzare in essa le sue tendenze narcisistiche di grandezza inesistente.

3. La f., durante le varie fasi della vita umana, può assumere dei contenuti morbosi, come la paura della​​ ​​ morte nell’infanzia, nell’adolescenza e nella vecchiaia. La morte, come via d’uscita da una situazione disperata, viene presa in considerazione talvolta da alcune coppie di fidanzati (Romeo e Giulietta). La f. ha un ruolo importante nelle​​ ​​ tecniche proiettive in quanto può rivelare i desideri repressi del soggetto. Inoltre si presta ad interventi terapeutici di vario tipo tanto con soggetti in tenera età (terapia del gioco) come con adulti (terapia sessuale).

4. La f. svolge un ruolo primario nella produzione creativa sia artistica che scientifica, perché per mezzo di essa vengono prodotte opere originali. La f. in questo caso assume la denominazione di fluidità ideativa e rappresenta il culmine della maturità intellettiva del soggetto creativo (Poláček, 1994). La f. è sviluppata nell’età prescolare e poi nell’istruzione primaria dal personale delle due istituzioni per mezzo dei giochi, del disegno, delle forme e dei colori e per mezzo di brevi racconti, della drammatizzazione delle fiabe e delle canzoncine. Sono disponibili anche attraenti pubblicazioni che suggeriscono ai genitori di non mortificare la f. dei figli (Buzyn, 2007). Ma la f. deve essere stimolata e guidata anche nelle fasi successive della vita dei preadolescenti e degli adolescenti nel suo duplice compito educativo in modo che il soggetto possa servirsene per raggiungere il suo equilibrio psichico e per potenziare la sua​​ ​​ creatività e nello stesso tempo controllarla perché non sfoci in forme di disadattamento (​​ narcisismo e senso dell’onnipotenza).

Bibliografia

Singer J. L. - K. S. Pope (Edd.),​​ The power of human imagination: new methods in psychotherapy,​​ New York, Plenum Press, 1978; Shorr J. E. et al. (Edd.),​​ Imagery: current perspectives,​​ Ibid., 1989;​​ Roskos-Ewoldsen B. - M. J. Intons-Peterson - R. E. Anderson (Edd.),​​ Imagery,​​ creativity,​​ and discovery: a cognitive perspective,​​ Amsterdam, North-Holland, 1993; Poláček K.,​​ In che cosa consiste la maturità intellettuale?,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 41 (1994) 207-218; Buzyn E.,​​ Mamma,​​ papà,​​ lasciatemi il tempo di sognare.​​ Gioco,​​ f. e creatività nello sviluppo del bambino,​​ Milano, De Vecchi, 2007.

K. Poláček

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FANTASIA

FARGUES Marie

 

FARGUES Marie

Nata a Parigi il 15-5-1884, ricevette un’educazione artistica e musicale particolarmente curata e fece studi di disegno in vista dell’insegnamento. Rimasta vedova nel 1909 dopo due anni di matrimonio, si dedicò agli studi pedagogici, fondò nel 1916 una casa per orfani di guerra, divenne “maestra d’infanzia” e insegnò all’École des Roches. Qui conobbe i suoi ispiratori: la scuola →​​ Montessori​​ (e attraverso di essa Fróbel), Decroly, Dewey, Cousinet. Dopo un periodo trascorso a Rouen (1926-28), in cui si occupò del lavoro e della sperimentazione nei catechismi parrocchiali, ritornò alla medesima scuola come insegnante della 3a​​ e 4a​​ elementare, continuando nello stesso tempo a fare il catechismo. Lasciata la scuola nel 1931 e stabilitasi a Parigi, si specializzò sempre più nei problemi dell’educazione religiosa dei fanciulli, con l’azione, gli scritti e la parola. Nel 1939 fondò una scuola per la formazione dei catechisti, all’interno dell’Oeuvre des​​ catéchismes;​​ dal 1945 collaborò con J. Colomb e rimase sulla breccia, scrivendo una trentina di libri e molti articoli, fino alla morte avvenuta il 10-8-1973.

Scrisse il suo primo articolo nella “Revue des Jeunes” del 10-11-1919 su richiesta del​​ P. Sertillanges, O.P.​​ Era intitolato:​​ Le problème de la première formation religieuse.​​ Lo stesso avvenne per il suo primo libro:​​ Choses divines​​ et​​ petits enfants​​ (Ed. de la “Revue des Jeunes”, Paris, 1922). Articolo e libro contengono in germe le idee centrali che l’autrice svilupperà in seguito. Nel 1936 il suo metodo viene pubblicato con il titolo:​​ Introduction des enfants​​ de​​ neuf ans au catéchisme​​ (Tournai, Desclée de Brouwer).​​ Nuove edizioni vedranno questo libro estendersi ai fanciulli di 10 e più anni e a quattro volumi, fino all’edizione finale del 1955, che porta un lieve ma significativo cambiamento del titolo:​​ Introduction des enfants au mystère chrétien.​​ Altre opere lo avevano preceduto:​​ Les​​ tendences​​ actuelles en éducation​​ (Dijon, Lumière, 1929),​​ che è una raccolta di articoli scritti fin dal 1924;​​ L’éveil du sentiment religieux​​ (Paris, Mariage et famille, 1931);​​ L’éducation religieuse des petits enfants​​ (Paris, Labergerie, 1933);​​ Pour travailler avec le Bon Dieu​​ (Juvisy, Cerf, 1934);​​ Les méthodes actives dans l’enseignement religieux​​ (Paris, Cerf, 1934);​​ La formation des enfants du peuple en milieu déchristianisé​​ (Paris, Spes, 1935).

La Fargues​​ è orientata​​ verso​​ l’adattamento dell’insegnamento e dell’educazione religiosa al fanciullo, fatto ispirandosi alla psicologia e pedagogia profana, ma è al tempo stesso opposta aU’antiintellettualismo a cui inclina l’educazione contemporanea. Tuttavia, “l’ordine delle nozioni da presentare, nella pedagogia cat., è stabilito non dalla logica adulta, bensì dalla successione dei “periodi sensibili”“. Contrariamente al Quinet che, dopo aver fissato inizialmente gli elementi costitutivi del suo metodo, vi è rimasto sostanzialmente fedele in modo piuttosto statico, la F. è sempre in ricerca. Essa continua a pubblicare libri su libri dopo la fine della guerra:​​ Le​​ Bon Dieu​​ et​​ ses Enfants,​​ un volume per il catechista e uno per l’allievo, per il 1° anno di catechismo​​ (Tours,​​ Mame,​​ 1947);​​ Dieu​​ aime​​ les hommes,​​ idem per il 2° anno​​ (Tours,​​ Mame,​​ 1949);​​ Tests collectifs de Catéchisme​​ (due​​ volumi che costituiscono uno dei primi tentativi di introdurre le prove oggettive nell’insegnamento religioso) (Paris,​​ Cerf,​​ 1945 e 1951);​​ La Eoi​​ des Petits Enfants​​ (Paris, Bloud et Gay, 1950);​​ Catéchisme pour notre temps​​ (Paris, Spes, 1951).​​ Gli ultimi​​ due​​ volumi presentano​​ le​​ idee della​​ F.​​ e in particolare quella dei “periodi sensibili”, attinta a M. Montessori. Ispirandosi appunto alla Montessori e alla propria esperienza cat. nella periferia di Parigi, i punti su cui la F. insiste sono:

1.​​ Centralità del fanciullo e importanza pedagogica dei “periodi sensibili”. È questa la ragione profonda del “metodo attivo”, che pose la F. in contrasto diretto con il metodo tradizionale di insegnamento del catechismo, basato sulla memorizzazione. Questo non interessava il fanciullo, e non lo portava ad aderire alle verità che apprendeva. La F. sostenne l’iniziazione più che l’indottrinamento, in un delicato equilibrio tra approfondimento e interesse.

2.​​ Il ruolo dell’attività nell’esperienza di apprendimento. Essa sostituiva la docilità e la ripetizione, e si avvaleva dei linguaggi non verbali, soprattutto del gesto e dell’espressione corporale.

3.​​ L’importanza dell’ambiente e della persona dell’insegnante. L’ambiente deve essere piacevole, privo di ostacoli per l’apprendimento e l’attività del fanciullo. Il catechismo istituzione è artificiale, ma necessario per contrastare l’ambiente scristianizzato. Importante è il senso del bello, come pure il rispetto dei ritmi di crescita e, da parte del catechista, la sensibilità ai bisogni del fanciullo.

Non mancarono alla F. critiche e opposizioni: accuse teoriche di rousseauismo e pratiche di anarchia nelle sue classi di catechismo; critiche per aver sacrificato alcuni punti dottrinali o esagerato nell’applicazione del principio dei “periodi sensibili” (anche se, come nota il Boyer, lo fece nei libri teorici e per il catechista, smentendo se stessa in quelli diretti ai fanciulli).

In ogni caso, la sua influenza sul movimento cat. francese risultò benefica, attraverso l’adesione convinta alla necessità di far attenzione al bambino, di impiegare i “metodi attivi”, di badare alla liturgia, ai simboli, a molte finezze insegnate dalla pedagogia.

Di lei affermò nel 1963 l’allora vescovo coadiutore di Strasburgo A. Elchinger: “Senza sacrificare per nulla l’aspetto intellettuale e didattico del catechismo, essa ha, con una rara forza di persuasione, rivendicato i diritti del “soggetto” accanto ai diritti dell’“oggetto”. Non ha mai cessato di lottare con umiltà e perseveranza perché si tenesse maggior conto, nell’insegnamento religioso, delle capacità psicologiche reali del fanciullo e dell’influsso del suo ambiente. Penso che​​ La Foi des Petits Enfants​​ sia un piccolo capolavoro di pedagogia religiosa”.

Bibliografia

1.​​ Opere.​​ Oltre a quelle già citate, ricordiamo due libri del 1931:​​ La​​ rédaction chez les petits​​ (Paris, Cerf) e​​ Questions actuelles de pédagogie​​ (Juvisy, Cerf), le​​ pubblicazioni di argomento biblico:​​ Jésus​​ est​​ venu​​ (Tours,​​ Marne,​​ 1951);​​ Histoire Sainte I: L'ancienne Alliance​​ (Paris, Marne, 1953);​​ Histoire Sainte H: Jésus-Christ​​ (Paris, Marne, 1957) e quelle​​ degli ultimi anni:​​ Nos Enfants devant le Seigneur​​ (Paris, Marne, 1959),​​ sulla preparazione​​ alla prima​​ comunione​​ prima​​ del catechismo ufficiale;​​ L’Enfant devant le mystère de la mort​​ (Paris, Fleurus, 1963);​​ D’hier à demain, le catéchisme​​ (Paris, Fayard, 1964);​​ Le Dieu des chrétiens,​​ sul contenuto della​​ C.,​​ per​​ le catéchiste (Paris, Centurion, 1964), e​​ Le troisième âge​​ (Paris, Marne, 1967).

2.​​ Studi.​​ G. Adler – G. Vogeleisen,​​ Un siècle de catéchèse en France 0893-1980),​​ Paris, Beauchesne, 1981,​​ 167175;​​ A. Boyer,​​ Pédagogie chrétienne,​​ Paris, Lethielleux, 1947, 261-268; Id.,​​ Un demi-siècle au sein du mouvement catéchistique français,​​ Paris, L’École, 1966, 75-76 e 231-235; P. Calderhead,​​ Marie Fargues and the Active Method,​​ in “The Living Light” 21 (1984-1985) 2, 114-127; M. Coke,​​ Madame Marie Fargues. Grand​​ old​​ Lady of the French Catechetical Movement,​​ in “New Review” 2 (1984) 3, 12-13; P. Ranwez,​​ Aspects contemporains de la pastorale de l’enfance,​​ Paris, Vitrail, 1950, 17, 18, 139, 160, 176-177, 191, 220, 231, 260; P. Vernhet,​​ Dimensions nouvelles du catéchisme,​​ Toulouse, Privât, 1957, 221-223.

Ubaldo Gianetto

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FARGUES Marie

FASCISMO

 

FASCISMO

Movimento politico italiano (ma esportato anche altrove) fondato da B. Mussolini nel 1919, divenuto partito nel 1921, e con la «Marcia su Roma» del 28 ottobre 1922 giunto al governo e poi divenuto regime a carattere autoritario, antiliberale, antidemocratico e antisocialista e a ispirazione nazionalista durato sino al 25 luglio 1943. Un tentativo di rilanciarlo con l’appoggio dell’esercito tedesco, in chiave repubblicana e vagamente socializzante, ebbe luogo con la Repubblica di Salò (13 settembre 1943 - 25 aprile 1945), ma con ben scarso prestigio e seguito, e fu stroncato dalla vittoria degli eserciti alleati, appoggiati dalla Resistenza.

1. Il f. al potere puntò con forza a condizionare l’educazione, dalla Riforma​​ ​​ Gentile del 1923 alla Carta della Scuola di Bottai del 1939, con la sua ispirazione classista, autoritaria, statalista, tendenzialmente totalitaria, mirando a «fascistizzare» la scuola sempre più, sia nell’amministrazione che nello spirito, affiancandola con proprie specifiche organizzazioni giovanili ginnico-sportive e paramilitari (l’Opera Nazionale Balilla dal 1926, poi Gioventù Italiana del Littorio dal 1937). In particolare la riforma della scuola promossa dal filosofo Gentile come ministro della pubblica istruzione nel 1923, e giudicata allora da Mussolini la più fascista delle riforme, si avvalse anche di concetti maturati nei precedenti decenni liberali, ma diede all’istruzione un ordinamento e un governo gerarchici e coattivi e approfondì lo stacco tra l’istruzione dei ceti subalterni e quella dei ceti dirigenti e privilegiati. Ciò tra l’altro abolendo la scuola tecnica e la sezione fisico-matematica dell’istituto tecnico, che aveva prima consentito con l’accesso all’università una possibilità di ascesa sociale. Margini di spirito liberale,​​ ​​ Lombardo Radice, pedagogista, allora direttore generale dell’istruzione elementare, riservò alla scuola elementare, introducendovi la considerazione del dialetto e delle tradizioni popolari, valorizzando espressione e spontaneità. Ma tutto ciò fu presto logorato e stravolto. Simbolica in tal senso l’introduzione nelle elementari con legge del 1929 del libro di testo unico di Stato, strumento di condizionamento e di propaganda. Il Ministero della Pubblica Istruzione divenne nel 1929 dell’Educazione Nazionale e nel 1931 anche i professori universitari dovettero giurare fedeltà al regime fascista. Il culmine della «fascistizzazione» di tipo rozzo e impositivo si ebbe nel 1935-36 col ministro C. M. De Vecchi, «quadrumviro» della rivoluzione fascista.

2. Il condizionamento più abile e organico dell’istruzione sul piano politico del f., «dell’Impero e delle Corporazioni», si ebbe con la Carta della Scuola del ministro G. Bottai, che aveva saputo unire all’imposizione la seduzione della gioventù e della cultura. Con coperture demagogiche (come l’«umanesimo del lavoro»), fu però qui confermata la vecchia separazione rigida tra popolo e borghesia, tra attività manuali e attività intellettuali, prospettando una marcata saldatura eterodiretta, al servizio dello Stato e non dell’individuo, tra «servizio scolastico» e successivo «servizio del lavoro». La II guerra mondiale impedì di attuare le indicazioni della Carta. Una delle poche realizzazioni riguardò nel 1940 la scuola media unica, triennale con lat., che apriva agli studi successivi. Ma unica in realtà non era perché aveva accanto la scuola d’avviamento professionale senza sbocchi. E vastissima era la schiera dei bambini che non andavano a scuola oltre le elementari, o non completavano i corsi di queste, se pure erano mai andati a scuola (gli analfabeti in Italia nel 1931 erano stati ancora il 21% della popolazione, e il 24% di quella femminile).

Bibliografia

Borghi L.,​​ Educazione e autorità nell’Italia moderna,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1951; Tomasi T.,​​ La scuola italiana dalla dittatura alla repubblica,​​ Roma, Editori Riuniti, 1971; Tranfaglia N., «F. il regime», in F. Levi - U. Levra - N. Tranfaglia (Edd.),​​ Storia d’Italia​​ -​​ 1,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1978, 405-417; Bellucci M. - M. Ciliberto,​​ La scuola e la pedagogia del f.,​​ Torino, Loescher, 1978; Mazzatosta T. M.,​​ Il​​ regime fascista tra educazione e propaganda,​​ Bologna, Cappelli, 1978; Ostenc M.,​​ La scuola italiana durante il f., Bari, Laterza, 1981; Gaudio A.,​​ Scuola,​​ Chiesa e f.,​​ Brescia, La Scuola, 1995; Charnitzky J.,​​ F. e scuola. La politica scolastica del regime (1922-1943), Firenze, La Nuova Italia, 1997.

G. Cives

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