E-LEARNING

 

E-LEARNING

Processo di apprendimento complesso che, attraverso la mediazione di un supporto basato su ICT, favorisce lo sviluppo di conoscenze, abilità e competenze della persona che partecipa all’esperienza.

1. La lettera «e» è da intendersi per molti l’abbreviazione di​​ electronic learning​​ (scritta in modi diversi: elearning, e-l., eLearning, «e»learning, ecc.). È un termine che secondo M. de Leeuwe è continuamente in evoluzione.​​ Per l’American Society for Training and Development (ASTD) il termine e. ricopre applicazioni e processi quali:​​ open distance learning​​ (ODL),​​ computer based training​​ (CBT),​​ web based training​​ (WBT),​​ supported on-line learning,​​ informal on-line learning, e molti altri ancora.

2. Con questo termine è possibile quindi designare approcci che vanno dall’erogazione di contenuti attraverso Internet o supporti Cd / Dvd, all’interazione dialogica mediata dalle ICT, alla simulazione di sistemi del mondo reale attraverso laboratori virtuali, alla produzione collaborativa di contenuti in Rete, alla conduzione dell’insegnante di attività in classe supportate dalle tecnologie infotelematiche (si veda la riflessione dal gruppo DELG, Distributed and Electronic Learning Group, per l’LSC, Learning and Skills Council, 2002).

3. La progettazione di un buon sistema di e-l. non può evitare di affrontare molti aspetti che secondo B. H. Khan sono in sintesi riconducibili alle seguenti dimensioni: pedagogica, tecnologica, istituzionale, etica, gestionale, valutativa, relativa alle risorse e al progetto dell’interfaccia. Un punto di partenza fondamentale è costituito dalle scelte pedagogiche e didattiche, le quali devono essere guidate dall’analisi dei contesti e dei destinatari della formazione. La sola selezione di tecnologie di supporto all’apprendimento (piattaforme LMS o ambienti di apprendimento personalizzati PLE) non è sufficiente a garantire il successo nell’apprendimento.

Bibliografia

Rossett A.,​​ The ASTD E-L. Handbook, New York, McGraw-Hill, 2002; Clark R. C. - R. E. Mayer,​​ E-l. and the science of instruction. Proven guidelines for consumers and designers of multimedia learners, San Francisco, CA, Pfeiffer, 2003; Trentin G.,​​ Apprendimento in rete e condivisione delle conoscenze, Milano, Angeli, 2004; Khan B. H.,​​ E-l.: progettazione e gestione, Trento, Erickson, 2004; Aldrich C.,​​ Simulations and the future of learning. An innovative (and perhaps revolutionary) approach to e-l., San Francisco, CA, Pfeiffer, 2004; Bruschi B. - M. L. Ercole,​​ Strategie per l’e-l.​​ Progettare e valutare la formazione on-line, Roma, Carocci, 2005; Associazione Nazionale dell’Editoria Elettronica (Anee),​​ Osservatorio ANEE / ASSINFORM e-l.,​​ Milano, Editori per la Finanza, 2006 (http: / / www.anee.it); Trinchero R.,​​ Valutare l’apprendimento nell’e-l., Trento, Erickson, 2006; Calvani A. (Ed.),​​ Rete,​​ comunità e conoscenza. Costruire e gestire dinamiche collaborative, Ibid., 2006.

M. Bay - R. Trinchero

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E-LEARNING

EBRAISMO

 

EBRAISMO

Per E. si intende il mondo di idee e di vita di quanti, specificamente dopo i tempi biblici, aderiscono alla religione ebraica, da cui tale mondo, anche per quanto riguarda l’educazione, è radicalmente segnato (​​ Bibbia). Si tenga presente che l’E. è un fenomeno storico-culturale di quasi due millenni, vissuto in aree diverse di tutti i continenti. Per cui occorre riconoscere differenze ed evoluzione nelle idee e nelle forme educative. Qui ci limitiamo a quelli che sono i principali aspetti condivisi.

1.​​ Presupposto e avvio​​ dell’educazione nell’E.​​ è la conoscenza e la pratica del volere divino​​ espresso dalla Bibbia, segnatamente dalla Torah (o Pentateuco) e dalla tradizione dei padri o antenati. Tutto ciò è raccolto anzitutto nel Talmud, ma viene sempre vivificato da una rilettura attuale, in particolare tramite le feste e i riti. La continuità di credo, i connotati di una intensa spiritualità (nell’E. liberale), l’affermata identità etnica e la fedeltà alla memoria donano all’educazione ebraica i tratti di una vincolante unità.

2. Il legame alla tradizione, orale e scritta, ha determinato, specie nel passato, una forte attenzione all’educazione come istruzione,​​ dunque al momento didattico, all’insegnamento dettagliato e minuzioso, quasi formale, per cui l’educazione riceve un’impronta scolastica, bilanciando così la soggettività personale e l’inevitabile influsso delle culture nelle varie epoche e mantenendo una adesione e comprensione amorosa di un’eredità ricevuta. La scuola nel mondo ebraico gode di una giusta fama da ormai due millenni, dalle elementari alle accademie rabbiniche (Jeshivot).

3. In profonda sintonia con la rivelazione biblica, anche in quelle correnti moderne dell’E. che si distaccano dalla forma ortodossa,​​ l’attenzione all’uomo,​​ alla sua persona, alla sua dignità, al suo mistero sta al centro dell’educazione ebraica.​​ ​​ M. Buber, A. Heschel, E. Lévinas, F. Rosenzweig ne sono noti testimoni. In tale prospettiva, nell’educazione giocano un peculiare ruolo – insieme alla scuola – diversi altri fattori: la famiglia, vero luogo vitale di ogni educazione; l’impegno etico per cui l’educazione viene intesa come lotta tra inclinazione cattiva e inclinazione buona, determinando così una concezione dello sviluppo umano in termini fortemente morali, con particolare riferimento alla tappa dell’adolescenza, quando l’ebreo diventa​​ bar mitzwah, «figlio della legge», capace di ubbidienza alla norma e dunque di responsabilità; la cura del perfezionamento di sé, grazie in particolare ad una permanente istruzione degli adulti.

4. Dal punto di vista della​​ storia dell’educazione,​​ si distinguono il periodo del Talmud (I-VII sec. d.C.), medievale o Gaonico (dal nome del rettore delle accademie ebraiche), moderno, comprensivo delle correnti ortodosse come i​​ chassidim​​ dell’Europa orientale (sec. XVIII) e liberali o riformato nell’area nord-atlantica.

5. Nell’educazione in generale, in quella cristiana in specie, l’E. diventa passaggio obbligato anzitutto per il suo originale umanesimo, oggi tanto ignorato, ma anche per contrastare ogni forma di​​ antisemitismo, ancora ben radicato. Con esso si intende un atteggiamento negativo di fronte agli ebrei pensati come razza inferiore e dannosa. La Shoah od Olocausto ne è testimonianza terribile. A questo scopo è importante liberare previamente dall’antigiudaismo, ossia da un’interpretazione antiebraica dei testi del NT. Il Vaticano II (Nostra Aetate, 4) e il successivo Magistero segnano nella Chiesa una svolta decisiva.

Bibliografia

Toaff E. e A.,​​ L’educazione presso gli ebrei, Milano, Vallardi, 1971; Cavalletti S., «L’educazione ebraica», in​​ Nuove questioni di storia della pedagogia,​​ vol. I, Brescia, La Scuola, 1977, 11-62; Meghnagi S., «Ebraica, educazione», in M. Laeng (Ed.),​​ Enciclopedia pedagogica,​​ vol. III, Brescia, La Scuola, 1989, 4153-4158; Pontificia Commissione Biblica,​​ Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, Roma, LEV, 2001.

C. Bissoli

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EBRAISMO

EBRAISMO – Catechesi nell

 

EBRAISMO (Catechesi nell’)

1.​​ Periodo biblico.​​ Al centro della spiritualità di Israele sta la Parola con cui Dio si fa conoscere e ci aiuta a interpretare la storia. Compito specifico quindi dell’ebreo è conoscere la Parola e trasmetterla alle nuove generazioni.

Dio parla attraverso “eventi e parole”, e quindi l’insegnamento è legato alla concretezza della storia: “Ricordati dei tempi antichi! Considera gli anni di tante generazioni! Domanda a tuo padre e te lo narrerà, ai tuoi anziani e te lo diranno” (Di 32,7; cf​​ Sai​​ 44,1; 78,3ss;​​ Es​​ 10,lss). Far conoscere la storia del popolo è iniziare nello stesso tempo al mistero del Dio che opera nella storia.

Luogo privilegiato dell’insegnamento è il culto, nella sua forma domestica e pubblica. Nella celebrazione familiare della pasqua, il padre è tenuto a spiegare il significato del rito che si sta compiendo: “In quel giorno spiegherai a tuo figlio, dicendo: si fa così per quello che fece a me il Signore, quando sono uscito dall’Egitto” (Er 13,8). L’interesse dei giovani è tenuto desto dagli elementi rituali su cui essi stessi interrogheranno i padri (Es​​ 12,26).

Il culto pubblico ha luogo nel Tempio, dove, oltre che per il culto sacrificale, il popolo — uomini, donne, bambini e anche forestieri — si raduna per ascoltare la Torah (= insegnamento) scritta da Mosè (Dt​​ 31,9;2​​ Re​​ 22,lss) e dove i sacerdoti aiutano anche i singoli nell’applicare alla vita quotidiana la Parola di Dio. Dopo l’esilio, predicatori e catechisti sono in particolare i leviti (Ne​​ 8,7), che formano anche gruppi itineranti (2​​ Cr​​ 17,7s).

Alla casa e al Tempio si affianca poi — nel periodo post-esilico — la Sinagoga, quella istituzione che trova il suo perno nell’ascolto della Parola e nella risposta ad essa nella preghiera, e in cui si concretizza quella forma di spiritualità che, staccata dal culto cruento, ha dato modo a Israele di sopravvivere, quando il Tempio verrà distrutto nel 70 d.C. “Sinagoghe”, nel senso ampio di riunioni del popolo per l’ascolto della Parola, si saranno probabilmente tenute in Babilonia stessa, durante l’esilio; continuarono dopo il ritorno nella Terra dei padri (Ne​​ 8,1-8) e si tengono anche oggi. Edifici sinagogali si conoscono a partire dal II sec. a.C. nella Terra d’Israele e nella diaspora.

Nella Sinagoga emerge la figura dello scriba, cioè lo specialista della Torah, anche se ogni israelita è chiamato a leggere la Parola e a spiegarla (Lc​​ 4,14ss), perché tutto Israele è popolo sacerdotale.

Grandi educatori del popolo sono stati pure i profeti, che insegnano a Israele a percepire la presenza del Signore anche nei momenti bui della storia, e a guardare con speranza verso il compimento futuro del piano divino. I saggi, il cui insegnamento è conservato nella letteratura sapienziale, aiutano Israele a mettersi all’osservazione della vita quotidiana, per cercare di scoprirne le regole e quindi apprendere “l’arte del pilotaggio” (Prv​​ 1,5).

Occasioni per la proclamazione solenne della Parola sono le grandi festività (Di 31,9s), e anche eventi particolari come il ritrovamento del “Libro della Torah” nel Tempio, al tempo del re Giosia (628-608 a.C.) o la fine dell’esilio (Ne​​ 8,lss). Speciale importanza viene acquistando il sabato, in cui già nei tempi più antichi c’era l’abitudine di visitare un «uomo di Dio» (2​​ Re​​ 4,23), e che è il giorno in cui “si mangia, si beve, si benedice il Signore e non si lavora” (Giubilei 2,21). La liturgia sabatica è centrata sulla proclamazione della pericope settimanale della Scrittura, tratta dal Pentateuco e dai Profeti o dagli Agiografi. Si è venuta arricchendo lungo i secoli, con molti apporti della tradizione mistica.

2.​​ Periodo post-biblico.​​ Le fonti post-bibliche sono ricche di dettagli riguardo all’educazione. In Israele abbiamo forse il più antico esempio di istruzione obbligatoria, iniziativa dovuta a Shimon ben Shetah (I sec. a.C.), che si afferma con Joshua ben Gamia (I sec. d.C.).

L’inizio dell’età scolare oscilla tra i cinque e i sette anni, ma si dà grande importanza alla prima infanzia: “Presso chi si trova la crema (il meglio) della Torah? Presso chi spruzza su di essa il latte succhiato al seno di sua madre” (Berakoth 63 b), cioè eccelle nella conoscenza della Parola di Dio chi ha cominciato ad apprenderla quando era ancora nutrito al seno materno. L’educazione dei molto piccoli ha ragioni didattiche; si dice infatti che chi apprende la Torah da piccolo, le parole di essa “passano nel suo sangue ed escono in modo chiaro dalle sue labbra”. Ma ha pure un motivo religioso, perché il mondo si regge “sul respiro degli scolari”, e fintanto che in Israele le voci dei bambini continuano a “cinguettare nella scuola, tutto il mondo non potrà prevalere contro di loro”; Gerusalemme fu distrutta perché si trascurò di far studiare la Torah ai bambini.​​ A​​ cinque anni si inizia lo studio della Bibbia, a dieci quello della tradizione, contenuta nella Mishnah (corpus​​ di istituzioni religiose e civili, redatto nel II sec.), a quindici quella contenuta nel Talmud (sviluppo della tradizione codificata nella Mishnah). L’ebreo dovrebbe dividere ogni anno in tre parti, dedicandone una alla Bibbia, una alla Mishnah e una al Talmud; ma siccome non si conosce il corso della vita, si consiglia di applicare questo sistema a ogni giorno.

Il primo giorno di scuola è una data importante nella vita del bambino. In alcuni luoghi c’era l’abitudine che il padre lo accompagnasse, coprendolo con il manto di preghiera; si usava inoltre mettere un po’ di miele sul libro di testo, perché il bambino, come Ezechiele profeta (3,3), provasse come è dolce la Parola di Dio.

Metodologicamente si dà importanza alla ripetizione dei testi ad alta voce e alla memorizzazione; la Bibbia va cantilenata con un tono e la Mishnah con un altro. Si usava anche il dettato. Si consiglia lo studio comunitario, perché la Torah diventa possesso stabile solo se studiata in gruppo.

Il numero degli allievi di ogni classe è fissato a 25; se si arriva a 40, ci deve essere un assistente; se si arriva a 50, è necessario nominare un altro maestro. La sede della scuola è la sinagoga o più spesso un edificio annesso. Dato il carattere religioso dello studio, non solo non ci si interrompe di sabato, ma per andare a scuola è ammesso trascurare la norma sabatica che proibisce di correre.

3.​​ Periodo moderno. Finalità.​​ Lo studio è stato in ogni tempo uno dei valori fondamentali dell’ebraismo, valore che si avvicina a quello della preghiera e non si può differenziare da essa. Secondo una dichiarazione recente (1979) del ministro dell’istruzione, Z. Hammer, l’identità umana dell’ebreo è costituita dalla “memoria” e quindi dalla conoscenza della tradizione, dalla “azione” secondo le norme tradizionali, e dalla “anticipazione” del futuro, cioè dalla tensione messianica, che “deve influenzare la vita quotidiana, dando allo studente un atteggiamento critico nei confronti della realtà presente”.​​ Pappe.​​ Fermo restando quanto detto riguardo ai periodi precedenti, una tappa religiosa importante, dopo la circoncisione all’ottavo giorno dopo la nascita, è la “maggiore età religiosa”. Consiste in una celebrazione in cui i ragazzi di 13 anni sono chiamati a leggere la Torah, nel corso della liturgia, per indicare che sono membri a pieno diritto della comunità; secondo usi locali vari, i ragazzi fanno un discorso di soggetto religioso davanti alla comunità, o recitano una preghiera davanti all’Arca della Bibbia. La celebrazione è preceduta da una preparazione particolare, che per lo più si conclude con un esame di ebraico e sui fondamenti della religione ebraica. È indicata con il termine di​​ bar/bath miswah,​​ alla lettera: figlio/figlia del precetto, termine che indica chi è tenuto ad osservare i precetti, assumendone personalmente la responsabilità.

Si può forse vedere un uso del genere nella disputa di Gesù con i dottori nel Tempio (Lc​​ 2,41ss). L’estensione di tale uso alle ragazze che compiono 12 anni è recente, e non è accettata negli ambienti più conservatori.

Inoltre in Germania nel sec. XIX è nato l’uso della “confermazione”, che si è poi diffuso in altri paesi negli ambienti riformati; l’età oscilla tra i 16-17 anni, e si sostituisce o si aggiunge al​​ bar miswah.​​ Lo scopo è di prolungare il tempo della formazione religiosa; i confermandi sono chiamati a recitare vari passi della Scrittura e a dichiarare pubblicamente la loro devozione al giudaismo. La confermazione viene per lo più celebrata a Pentecoste.

L’immigrazione dall’Europa orientale negli Stati Uniti e da tutto il mondo in Israele ha sviluppato e diffuso l’educazione permanente, con l’organizzazione di corsi per adulti sulla Bibbia e sulla Tradizione.

Strutture.​​ La formazione religiosa è per lo più legata alla sinagoga, a cui si affianca il​​ beth ha-midrash​​ (scuola). Numerose sono anche le scuole religiose; in Israele ci sono scuole statali di orientamento religioso, e scuole religiose private sovvenzionate dallo Stato; esse accolgono circa 1/3 della popolazione scolastica. L’istruzione superiore è impartita nelle​​ jeshiboth​​ o accademie, molto numerose in Israele e nella diaspora.

Orientamenti.​​ Differiscono secondo le varie correnti dell’ebraismo; gli ortodossi vivono in un mondo protetto, in cui i valori dell’ebraismo sono fortemente e talvolta esclusivamente sentiti. Nell’ala opposta, fra i liberali, è molto profonda l’esigenza di integrare le conoscenze religiose alla vita, che si svolge in un mondo di scarsi valori religiosi. Nei programmi si avvertono due tendenze: una di modello americano, incline a moltiplicare gli argomenti anche di carattere non religioso; e un’altra attaccata alla corrente più tradizionale, che vuole attenersi al modello: testo,​​ midrash​​ (= interpretazione) e​​ halakah​​ (norme di vita).

Dagli anni ’60, in particolare in America, si sono diffuse le “comunità” (haburoth),​​ che si oppongono alle grandi sinagoghe impersonali; esse vogliono aiutare a vivere insieme una esperienza di vita religiosa, e a conoscere l’ebraismo in modo informale, con forte carica anche affettiva. Esistono “comunità” nelle sinagoghe stesse o indipendenti da esse; alcune si propongono scopi più sociali, altre più strettamente religiosi.

Bibliografia

S. Cavalletti,​​ L’educazione religiosa,​​ in​​ Nuove questioni di storia della pedagogia,​​ vol. 1, Brescia, La Scuola, 1977, 11-61;​​ The Jewish Encyclopedia,​​ s.v.​​ Education,​​ Bar-miswah;​​ C. Kesslek,​​ Judaïsme et éducation religieuse,​​ in “Catéchèse” 21 (1981) 84, 59-70; M. Lubinsky,​​ Jewish​​ Education​​ in the​​ 80’s,​​ in «Religious​​ Education» 75 (1980) 654-658; D.​​ Zisenwine,​​ Jewish Education,​​ ibid., 558-562; E. Zolli,​​ L’educazione presso gli Ebrei,​​ Milano, 1952. → Antisemitismo.

Sofia Cavalletti

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EBRAISMO – Catechesi nell

ECONOMIA E EDUCAZIONE

 

ECONOMIA E EDUCAZIONE

Nelle moderne società complesse – caratterizzate da elevato tasso di sviluppo industriale, da innovazione tecnologica e da squilibri occupazionali – è sempre più ricorrente la trasposizione all’area educativo-formativa di lessemi terminologici, che hanno diretto riferimento alle discipline economiche: risorsa umana e investimento nell’educazione, domanda e offerta formativa, bisogno e fabbisogno educativo-formativo, produttività e indicatori di qualità educativo-formativa, valore aggiuntivo dell’educazione, managerialità nella conduzione delle istituzioni educative, e quant’altro.

1.​​ La prospettiva economica.​​ Fin dalle origini gli stessi economisti, nell’intento di contribuire a ricercare regole organiche intorno all’attività economica, non hanno trascurato di considerare l’incidenza della variabile educativo-formativa nell’elaborazione dei vari modelli interpretativi dei fattori economici. Così è accaduto che la prima sistemazione teorica dell’e. moderna, quale scienza che studia le scelte razionali ordinate all’impiego dei mezzi economici, abbia tenuto conto del contesto socioculturale inglese della seconda metà del sec. XVIII, perché in quell’epoca scrissero Smith, Ricardo e gli altri «padri» dell’e. cosiddetta «classica». In particolare Smith (1723-1790) riconduceva a tre principi le sue ipotesi di lavoro: la vita degli uomini è retta dall’ordine naturale e provvidenziale; la libertà economica è conseguenza della naturale libertà degli individui; la divisione del lavoro rende minimi i costi e produce la prosperità. Analogo procedimento metodologico, anche se in opposizione diretta ai presupposti del modello degli economisti classici, è stato adottato da un altro insigne economista inglese, J. M. Keynes (1883-1946), costretto a confrontarsi con le contraddizioni emergenti dalla grave crisi economica degli anni 1920-1930. Nel suo saggio​​ La fine del lasciar fare,​​ pubblicato nel 1926, Keynes esplicitava gli elementi fondanti del proprio modello di analisi economica: «Non è vero che gli individui dispongano per diritto di una libertà naturale nel loro operare economico; il mondo non è governato dall’alto in modo tale da far coincidere sempre l’interesse privato con quello sociale, né è amministrato quaggiù in modo tale che i due interessi coincidano in pratica; non è corretto dedurre dai principi dell’e. che un “illuminato” interesse particolare operi sempre nell’interesse pubblico; [...] Avanzo quindi l’ipotesi che il progresso consista nello sviluppo e nel riconoscimento di organismi semiautonomi all’interno dello Stato». I due riferimenti metodologici, risultano emblematici allorché si intenda individuare la qualità, la natura e l’estensione dei rapporti interattivi tra analisi socio-economica e azioni formativo-educative. La rilevanza della conoscenza del quadro di riferimento, a cui si ispirano i diversi modelli di analisi economica, è bene esplicitata dall’economista austriaco J. Schumpeter (1883-1950), che distingueva tre fasi principali nel lavoro dell’economista: la fase di «visione preanalitica», orientata a rilevare i problemi da studiare; la fase di «concettualizzazione», in cui si tenta di razionalizzare la complessità dei problemi emersi e si creano categorie mentali utili a dar rilievo agli aspetti più significativi; infine la fase della «teorizzazione» vera e propria, in cui si collegano in strutture logiche​​ ​​ in modelli​​ ​​ gli elementi emersi nella fase precedente. Tuttavia, «le differenze tra approcci economici diversi vengono spesso affrontate considerando solo l’ultima delle tre fasi di lavoro indicate da Schumpeter, cioè i modelli teorici» (Roncaglia-Sylos Labini, 1993), mentre l’educatore e il formatore dovrebbero essere maggiormente motivati a fondare i rapporti interattivi con le scienze economiche partendo prioritariamente dai procedimenti di astrazione-concettualizzazione per cogliere la concezione di uomo e di società, che vi è sottesa. Infatti, se «è necessario far emergere nell’opera educativa in modo vigoroso la dignità e la centralità della persona umana, l’importanza del suo agire critico in libertà e responsabilità», bisogna anche aggiungere che «il​​ ​​ processo educativo non approda a risultati significativi senza un preciso riferimento alle condizioni concrete di realizzazione di tali ideali in un dato contesto culturale e socio-economico» (CEI, 1994). In rapporto a tali esigenze, il processo di accumulazione scientifica della​​ ​​ sociologia dell’educazione ha proceduto secondo varie direzioni.

2.​​ La prospettiva della sociologia dell’educazione.​​ Una prima direttrice di indagine generale, rappresentata da​​ ​​ Durkheim, afferma una generica e, in un certo senso, astratta​​ dipendenza eufunzionale​​ del sistema educativo dall’intera società e dalla specifica situazione industriale. Un secondo orientamento, rappresentato da​​ ​​ Weber, assegna all’educazione una più stretta dipendenza rispetto alle esigenze della​​ struttura di potere​​ carismatica, tradizionale o legale, cui corrisponderà l’ideale educativo dell’uomo iniziato, dell’uomo colto o dello specialista. Una terza direttrice, derivata dall’analisi di Marx (​​ marxismo pedagogico), pone l’educazione, al pari di qualsiasi altro elemento o processo culturale, nell’ordine sovrastrutturale​​ e, come tale, derivante dall’ordine strutturale, più precisamente dai rapporti di produzione che evidenziano sempre la contrapposizione dicotomica tra due classi, quella degli sfruttatori e quella degli sfruttati. Una quarta tendenza, sostenuta principalmente da T. Parsons (1956), configura il rapporto educazione-e. secondo il principio dell’interdipendenza​​ tra sottosistema educativo e altri sottosistemi, tra cui quello economico, interagenti con il sistema sociale globale e generale di riferimento. In una prospettiva dinamica ed attuale, il rapporto di interdipendenza tra educazione ed e. si rende più complesso, instabile e problematico a causa di alcuni fenomeni strettamente connessi tra di loro: l’imporsi di un settore quaternario, centrato sulla ricerca e l’innovazione; il venir meno di una equilibrata corrispondenza fra​​ ​​ sistema formativo e sistema occupazionale; l’estendersi della disoccupazione tecnologica e della dequalificazione dei titoli di studio. Tali dinamiche costituiscono attualmente l’oggetto di un sempre più ampio dibattito, le cui posizioni possono essere ricondotte a due orientamenti fondamentali. Da una parte la posizione di chi, in modo più o meno consapevole, assegna all’istruzione-educazione un valore prevalentemente «strumentale», che può essere espresso secondo la ben nota relazione: quanto più un individuo studia, tanto più potrà accedere a posizioni occupazionali di prestigio e conseguire quindi redditi più elevati. Altri, pur non negando la presenza di una dimensione strumentale, privilegiano quella «espressiva» orientata, però, all’acquisizione di specifici «ruoli professionali» supportati da una crescente capacità critica «sull’intero ciclo produttivo, dalla politica degli investimenti alle scelte operative riguardanti la vendita del prodotto e, ancor più a monte, sull’intero sistema produttivo e sul significato che esso assume entro uno specifico sistema socio-politico-culturale» (Milanesi, 1979, 742). Dall’esito del confronto in atto, tra dimensione strumentale e dimensione espressiva arricchita dell’educazione in rapporto ai sistemi economici, dipenderà il destino e la configurazione del sistema formativo in generale e il ruolo specifico assegnato alla formazione nelle società ad alto sviluppo industriale.

Bibliografia

Durkheim É.,​​ Éducation et sociologie,​​ Paris, Alcan, 1922; Schumpeter J.,​​ Storia dell’analisi economica,​​ 4 voll., Torino, UTET, 1960; Morselli E. - G. Stefani,​​ E. politica,​​ Padova, Cedam, 1965; Ardigò A. (Ed.),​​ Sociologia dell’educazione: Questioni di sociologia,​​ 2 voll., Brescia, La Scuola, 1966; Keynes J. M.,​​ Esortazioni e profezie,​​ Milano, Mondadori, 1968; Cesareo V.,​​ Sociologia dell’educazione,​​ Milano, Hoepli, 1972; Gallino L., «E.», in​​ Dizionario di sociologia,​​ Torino, UTET, 1978; Milanesi G. C.,​​ Educazione e professionalità,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 26 (1979) 740-745; Frey L.,​​ Guida all’analisi economica dell’occupazione,​​ Roma, Lavoro, 1980; Roncaglia A. - P. Sylos Labini, «E.», in​​ Enciclopedia delle scienze sociali,​​ 3 voll., Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1993; CEI,​​ Democrazia economica,​​ sviluppo e bene comune,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1994.

P. Ransenigo

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ECONOMIA E EDUCAZIONE

ECUMENISMO

 

ECUMENISMO

Tutti i battezzati che professano di credere nella Chiesa una sono chiamati, in forza dell’unico battesimo, a dare il proprio contributo di preghiera, di studio e di azione, secondo le proprie capacità e il proprio ruolo nella Chiesa, all’edificazione dell’unità di tutti i cristiani (cf UR 5). Tale partecipazione presuppone ed esige un’adeguata formazione ecumenica.

Giovanni Paolo II afferma esplicitamente: “La C. non può essere estranea a questa dimensione ecumenica” (CT 32). E ciò tanto per ragioni intrinseche alla stessa fede quanto per il nuovo contesto culturale, sociale e religioso in cui vivono oggi i cristiani. Il battesimo comune infatti “è ordinato all’integra professione della fede, all’integrale incorporazione nell’istituzione della salvezza, come lo stesso Cristo ha voluto, e infine alla piena inserzione nella comunione eucaristica” (UR 22). Inoltre il movimento ecumenico nei nostri giorni costituisce un avvenimento religioso di primo piano con una “serie impressionante di fatti e di iniziative” (contatti, dialoghi, cooperazione, confronto teologico, collaborazione pastorale interconfessionale) che non può essere ignorato da nessuno. D’altra parte la mobilità moderna per ragioni di lavoro, di studio, di turismo mette in contatto con le diverse confessioni cristiane nei diversi paesi. I mezzi di comunicazione, da parte loro, portano il mondo in casa con tutte le sue componenti e problematiche, ivi incluse quelle religiose. Infine il rinnovamento catechetico più recente non può non tener conto della presa di coscienza avvenuta nel Concilio Vaticano II della realtà ecclesiale delle altre comunità cristiane e del loro rapporto con la Chiesa di Cristo.

A questo scopo la CT, in due appositi paragrafi (32-33), impartisce disposizioni e orientamenti. Questi orientamenti si fondano su una esperienza a dimensione mondiale compiuta, in forme e intensità diverse, dal Concilio Vaticano II in poi. Allo spirito conciliare e alle indicazioni già date nel DCG (1971), si assommano i contenuti forniti dall’esperimentazione pratica. Nella CT vengono trattate due problematiche che hanno fondamenti, strumenti e realizzazioni proprie, pur avendo Io stesso scopo: includere nel processo cat. anche l’orientamento verso la ricomposizione della piena unità fra i cristiani. Tale orientamento comprende la dimensione ecumenica della C. cattolica e la collaborazione ecumenica nel campo della C. La prima investe la C. nell’intera Chiesa cattolica, la seconda si riferisce a situazioni particolari dove convivono cattolici e altri cristiani nello stesso territorio.

1.​​ La dimensione ecumenica della C. cattolica.​​ Applicando le decisioni del Concilio Vaticano II (particolarmente LG, UR, AG) il​​ Direttorio ecumenico​​ asserisce che “ciascun cristiano, anche se non vive in mezzo ai fratelli separati, sempre e dovunque, partecipa al movimento ecumenico conformando tutta la sua vita cristiana allo spirito del Vangelo ... non escludendo nulla del comune patrimonio cristiano” (Direttorio Ecumenico,​​ 21). Il DCG ne trae la conseguenza: “La catechesi pertanto deve collaborare a questa causa” (AAS 64 [1972] 115). Perché siano efficaci, la CT ha esplicitato questi asserti, pur non pretendendo di essere esauriente. Le sue indicazioni possono essere sistematizzate in tre articoli:

a)​​ Anzitutto​​ l'insegnamento della dottrina cattolica​​ deve essere​​ chiaro e integrale;​​ occorre evitare ogni riduzione, ogni facile irenismo e ogni minimalismo. Non si può quindi rinunciare ad insegnare che la pienezza delle verità rivelate e dei mezzi di salvezza si trova nella Chiesa cattolica. Questa stessa presentazione infatti ha un valore ecumenico in sé. Inoltre occorre fare ciò “con un sincero rispetto, nelle parole e nei fatti” verso gli altri cristiani (CT 32). Il DCG fa a questo proposito un riferimento estremamente utile. Richiama il n. 11 del Decreto conciliare sull’ecumenismo e applica nel campo della C. un orientamento dato per il dialogo teologico, il principio della gerarchia delle verità: “Nel mettere a confronto le dottrine si ricordi che esiste un ordine o gerarchia nelle verità della dottrina cattolica, in ragione del loro rapporto differente con il fondamento della fede cristiana” (UR 11). Questa applicazione è realistica. Infatti, da una parte, nel mondo cristiano di oggi avviene un dialogo più ampio di quello tecnico delle commissioni miste: la vita stessa di una Chiesa interpella le altre comunità cristiane; e dall’altra, hanno particolare importanza ecumenica il modo e il metodo di enunciare la fede cattolica.

b)​​ In questo spirito, nella C. cattolica “è di estrema importanza fare una​​ presentazione corretta e leale delle altre Chiese e Comunità ecclesiali,​​ delle quali lo Spirito Santo non rifiuta di servirsi come di mezzi di salvezza” (CT 32).

Tale presentazione, evitando le alterazioni fatte nel passato di polemica e controversia, implica diversi aspetti. Occorre anzitutto dire cosa le altre Chiese rappresentano nel mistero della salvezza, e cioè che lo Spirito Santo, nonostante alcune loro carenze, le usa come mezzi di salvezza (UR 3). È questo l’aspetto fondamentale di una descrizione obiettiva della realtà delle altre Chiese.

Questa obiettività tuttavia conduce a distinguere tra le varie Chiese non in piena comunione con la Chiesa cattolica. Gli elementi per i quali la Chiesa catt. sa di essere congiunta con esse non si trovano in tutte nello stesso grado (cf LG 15; UR 3 e 15). Infatti distinta e specifica è la configurazione delle Chiese ortodosse, della Comunione anglicana e di quelle provenienti dalla Riforma. Di conseguenza distinta e specifica è la problematica aperta con queste singole Chiese. In questo contesto vanno segnalate le nuove possibilità di communicatio in sacris (CIC, can. 844) e matrimoni misti (CIC, can.​​ 11241128).

Il terzo aspetto quindi da tenere presente nella descrizione leale e corretta delle altre Chiese è costituito dalla necessità di segnalare le divergenze dottrinali esistenti ancora fra la Chiesa cattolica e le altre Chiese cristiane. Infine non va ignorata una presentazione storica delle varie Chiese. Ciò farà comprendere l’origine della divisione e i fattori extrateologici che hanno contribuito alla configurazione delle singole Chiese e delle loro strutture organizzative.

c)​​ I nuovi rapporti con gli altri cristiani​​ costituiscono anche un elemento indispensabile per la dimensione ecumenica della C. I rapporti attuali fra i cattolici e gli altri cristiani non sono in una situazione storica. Il dialogo è aperto e fecondo. All’atteggiamento di estraneità e di polemica del passato è subentrata la ricerca paziente e perseverante della piena unità. Ciò va segnalato specificatamente.

Tale presentazione “aiuterà i cattolici, da una parte, ad approfondire la loro fede e, dall’altra, li metterà in condizioni di conoscere meglio e di stimare gli altri fratelli cristiani” (CT 32). Ne conseguirà un vero desiderio dell’unità, come fedeltà alla volontà di Cristo sulla sua Chiesa e un impegno pratico nella vita della Chiesa.

In tal modo la dimensione ecumenica nella C. ha uno scopo complesso: formare un nuovo tipo di cattolico, saldo nella propria fede, aperto agli altri fratelli cristiani, attivamente impegnato secondo il proprio ruolo e capacità nella ricerca dell’unità, disposto a dare la propria testimonianza nel nostro tempo, preoccupato di portare, in concordia con gli altri cristiani, l’annuncio dell’Evangelo a chi non lo conosce.

Ma per realizzare tali obiettivi sono necessari strumenti adeguati. Urgono così nuovi catechismi, e catechisti ben formati. Il rinnovamento della C. in corso nelle varie Chiese locali offre l’occasione propizia per inserirvi l’aspetto ecumenico, il quale, esso stesso, è occasione di rinnovamento nel senso di accresciuta fedeltà dei cristiani alla propria vocazione esaminata alla luce delle esigenze evangeliche.

2.​​ La collaborazione interconfessionale nel campo della C. È​​ un fenomeno crescente tra i cristiani e una conseguenza pratica dei nuovi rapporti instaurati fra i cattolici e gli altri cristiani. È tuttavia un fenomeno particolare. Esso trova il fondamento teologico, come ha segnalato la CT, negli “elementi comuni a tutti i cristiani” (Scrittura, battesimo, simboli di fede, decalogo, beatitudini, ecc.). “In situazioni di pluralità religiosa, i vescovi possono giudicare opportune e anche necessarie determinate esperienze di collaborazione nel campo della C. tra cattolici e altri cristiani ad integrazione della C. normale che i cattolici in ogni caso devono ricevere” (CT 33). Questa collaborazione può concretizzarsi nell’uso comune per la C. di sussidi, strumenti, locali e persone, e aver luogo in ambienti comuni come le scuole, le università, il mondo del lavoro, tra emigrati. Si può verificare quindi una vera e propria C. comune con cristiani di diverse confessioni.

Tuttavia, a causa delle permanenti divisioni, questa C. è limitata, e per i cattolici deve essere completata nella Chiesa cattolica. Anche e soprattutto per il fatto che la C. non consiste in un insegnamento soltanto teorico, “ma nell’iniziare a tutta la vita cristiana facendo partecipare pienamente ai sacramenti della Chiesa”. E per i cattolici, ciò avviene pienamente soltanto nella Chiesa cattolica. In alcuni paesi esiste anche una forma particolare di collaborazione: “l’insegnamento della religione cristiana nelle scuole — con i suoi manuali, orari di corso, ecc. — comuni ai cattolici e ai non-cattolici”. Questa forma, anche se non costituisce una vera C., ha pure un’importanza ecumenica quando presenta con lealtà la dottrina cristiana. La CT esorta: “Nel caso in cui le circostanze imponessero questo insegnamento, è importante che sia in altro modo assicurata, con tanta maggior cura, una catechesi specificamente cattolica» (CT 33).

La questione dell’ecumenismo nella C., in tutte le sue forme e possibilità, è di primaria importanza per la formazione ecumenica dell’intero popolo cristiano.

Bibliografia

1.​​ Documenti.​​ UR,​​ DCG, CT;​​ Direttorio ecumenico​​ I (AAS 1967, 574-592); Il (AAS 1970, 705-724).

2.​​ Studi.​​ M. Broking,​​ Das Thema​​ Ökumene”​​ im Religionsunterricht. Konzeption und Konkretion,​​ in “Religion Heute” 12 (1980) 4, 16-21; G. Capra,​​ Evangelizzazione ed ecumenismo,​​ in “Presenza​​ Pastorale” 45 (1975) 357-373;​​ Catholiques et​​ protestants,​​ in “Catéchèse”​​ 14 (1974) 54, 1-136;​​ L'ecumenismo una dimensione della catechesi?,​​ in “Via Verità e Vita” 31 (1982) 86, 1-80; R.​​ Füglister,​​ Interkonfessioneller Religionsunterricht​​ in​​ der Schweiz,​​ in “Christlich-pädagogische Blätter” 90 (1977) 375-381; G. Gianolio,​​ Formazione alla mentalità ecumenica,​​ in “Catechesi” 40 (1971) 54, 18-21;​​ Luther​​ im Religionsunterricht,​​ in “Religionsunterricht an höheren Schulen» 26 (1983) 257-300; R.​​ Marlé,​​ La signification permanente des​​ Églises​​ de​​ la Réforme​​ pour le Catholicisme.​​ A​​ travers une​​ déchirure découvrir​​ les voies de l'avenir,​​ in “Lumen Vitae” 27 (1972) 41-56; G. Pfister,​​ Religionsunterricht als indirekte Ökumene,​​ in “Katechetische Blätter” 98 (1973) 300-304; M. Phillips-Bell,​​ Justification and Multifaith Religious Education,​​ in “British Journal of Religious Education” 5 (1983) 2, 87-95.

Eleuterio​​ Fortino

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ECUMENISMO

Nel Concilio Vaticano II si afferma che «per “movimento ecumenico” si intendono le attività e le iniziative che, a seconda delle varie necessità della Chiesa e l’opportunità dei tempi, sono suscitate e ordinate a promuovere l’unità dei cristiani» (UR, n. 4).

1. L’unità, ritenuta dai padri conciliari «uno dei principali intenti del Sacro Concilio», è urgente perché la divisione tra i credenti contraddice apertamente la volontà di Cristo, è motivo di scandalo per il mondo e danneggia la predicazione del vangelo ad ogni creatura (UR, n. 1). In rapporto a questa esigenza la riflessione pedagogica è promossa ad almeno quattro livelli interdipendenti. Il primo è relativo all’educazione in sé. In un contesto di pluralismo confessionale, religioso e culturale sempre più complesso è opportuno ridefinire il dover-essere educativo, elaborando nuove e più adeguate teorie capaci di attuare un’aggiornata mediazione culturale tra le diverse concezioni. Il secondo livello di riflessione riguarda i contenuti di un’educazione ecumenica, costituiti dai nuclei centrali e generatori della rivelazione cristiana. Per questo si proporrà integralmente la figura di Cristo ed il suo mistero di salvezza, la dottrina della Chiesa Cattolica e, con rispetto e lealtà, quella delle altre Chiese e Comunità cristiane. Il terzo livello di studio riguarda gli atteggiamenti da formare nelle persone. Si promuoverà un vero desiderio interiore di unità, di rispetto nei confronti dei fratelli separati, di interesse e di stima per i valori cristiani che lo Spirito può suscitare in loro, di ascolto e di dialogo che superi pregiudizi storici, autocritica e conversione per quanto nel passato e nel presente può aver impedito il realizzarsi della preghiera di Gesù «perché tutti siano una sola cosa» (Gv 17,11). Il quarto livello di interesse è più immediatamente operativo, e concerne gli ambiti, le strutture, i metodi educativi usati per la ricerca e la promozione dell’unità. Le esortazioni ricorrenti, nella letteratura specializzata, sono per l’attenzione alle concrete situazioni delle persone, dei gruppi, delle loro sensibilità ed effettive possibilità di maturazione. Ambiti che oggi meritano particolare attenzione sono quelli della scuola e della famiglia. Nella scuola, dove possibile, è opportuno promuovere la collaborazione ecumenica nell’istruzione religiosa, presentando con obiettività, pacatezza e senza pregiudizi i punti comuni e le diversità. Allo stesso modo è auspicabile che si operi nell’educazione dei figli, nel caso di matrimoni misti interconfessionali o interreligiosi, evitando l’assunzione di linee educative di fatto agnostiche, neutrali o confuse, che non favoriscono certo l’educazione religiosa.

2. Nel promuovere iniziative e nel fissare e perseguire obiettivi di valenza ecumenica si è chiamati a duttilità, gradualità, e continuità. Prima di altri, strumenti di formazione ecumenica restano l’ascolto e lo studio della Parola di Dio, la predicazione, la​​ ​​ catechesi, la liturgia, la vita spirituale, la carità, capaci di introdurre nel cuore dell’esperienza di fede cristiana più autentica e comune.

Bibliografia

Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani,​​ Direttorio per l’applicazione dei principi e delle norme sull’e., in AAS​​ 85 (1993) 1039-1119; Pobee J. S., «Educazione e rinnovamento», in​​ Dizionario del movimento ecumenico, ediz. it. a cura di G. Cereti - A. Filippi - L. Sartori, Bologna, Dehoniane, 1994, 464-470; Kasper W.,​​ Vie dell’unità: prospettive per l’e., Brescia, Queriniana, 2006.

R. Rezzaghi

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ECUMENISMO

EDILIZIA SCOLASTICA

 

EDILIZIA SCOLASTICA

In senso largo, il complesso delle costruzioni abitabili e dei servizi annessi, comunque messo a disposizione della scuola. In senso stretto, quanto detto ma con destinazione​​ specifica​​ all’esclusivo uso scolastico, con servizi annessi (uffici, biblioteche, laboratori, palestre, piscine, infermeria, ecc.). Con la stessa locuzione si intende anche indicare una specializzazione all’interno delle discipline ingegneristiche e architettonico-urbanistiche, e una denominazione di capitoli di bilancio del Ministero della Pubblica Istruzione (​​ amministrazione scolastica).

1. Nel passato, la scuola dei primi gradi veniva ospitata dove era possibile, per lo più in stanzoni forniti di sgabelli e poco più; essendo essa affidata al clero, non di rado trovava spazio nei locali adiacenti alle chiese. Più tardi, estendendosi al mondo laico, trovò sede presso i municipi, ma talvolta anche in locali d’emergenza adattati, come magazzini, depositi e perfino stalle, vagoni ferroviari in disarmo. Molte scuole medie fino ai nostri giorni sono state provvisoriamente sistemate in appartamenti ordinari di case d’abitazione, civili ma angusti. L’esigenza di edifici appositi venne avvertita a partire dal risveglio scolastico della Riforma protestante e cattolica, quando furono erette le sedi di grandi ginnasi-licei, per lo più coesistenti con collegi-convitti (​​ collegio), molti dei quali ancora esistenti. Talvolta in essi erano ospitate anche le scuole di grado inferiore.

2. Con il sec. XIX la pubblica istruzione venne intesa come una funzione pubblica affidata agli enti locali (Comuni, Province) ed allo Stato, e furono allora costruite scuole per ogni livello. Per ultima venne una​​ legislazione​​ organica che fissava norme tassative di abitabilità e di funzionalità, e in molti casi i capitolati di appalto per i costruttori. Oggi i Comuni più attenti alle sorti delle scuole destinano ad esse complessi edilizi integrati immersi nel verde, che comprendono scuola materna, elementare e media, con alcune economie per l’unificazione di certi servizi.

3. Le aule devono avere una cubatura adeguata, con aerazione e riscaldamento, ampie finestre, sedili e tavoli (o banchi) ergonomici tali da non indurre a posture scorrette ed a paramorfismi e in alcuni casi (aule di fisica chimica e scienze e laboratori di istruzione professionale) le attrezzature necessarie. È anche opportuno che alle pareti si possano appendere carte e cartelloni, tavole di esposizione e scaffali per lavori in corso, bacheche, schermi per proiezioni.

4. L’insegnante deve poter disporre di una cattedra (in passato una specie di pulpito o almeno una scrivania su predella rialzata, oggi anche un semplice tavolo non necessariamente in posizione frontale o centrale) e di armadi e ripostigli, oltre che di mezzi di scrittura in grande formato. Servono a tale scopo una lavagna nera e / o di resina sintetica con gessetti o pennarelli, ovvero un maxi-blocco di fogli di carta su treppiede. Le scuole meglio attrezzate possono disporre di una​​ ​​ lavagna luminosa, registratore magnetico, un proiettore, un televisore e un computer, utilizzabili a turno, ovvero uno per aula (​​ mezzi didattici).

Bibliografia

Cicconcelli C.,​​ Scuole materne elementari secondarie,​​ Torino, 1958; Fagiolo M., «La casa della scuola», in L. Volpicelli (Ed.),​​ La pedagogia,​​ vol. IX, Milano, Vallardi, 1970, 507-567; Titone R. (Ed.),​​ Questioni di tecnologia didattica,​​ Brescia, La Scuola, 1974; Oreto P. (Ed.),​​ E.s., con CD-ROM, Palermo, Grafill, 2004.

M. Laeng

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EDILIZIA SCOLASTICA

EDITORIA SCOLASTICA

 

EDITORIA SCOLASTICA

La produzione libraria di una azienda editoriale di media grandezza viene solitamente raggruppata in aree. Fra queste ne elenchiamo alcune possibili: e.s., e. varia, e. di grandi opere e, a partire dagli anni Ottanta, e. multimediale. In tal senso per e.s. si intende la produzione editoriale destinata alla scuola e da questa adottata per la realizzazione di programmi didattici fissati dai Governi e voluti dai consigli dei docenti delle singole scuole (​​ programmazione educativa / scolastica).

1. La scuola ingloba nei suoi piani di studio discipline varie e poiché garantisce un mercato sicuro, il contesto editoriale scolastico si presenta affollato e piuttosto complesso. Si tratta di un settore di lavoro in cui non si può improvvisare: fra tutti i libri funzionali infatti, quelli scolastici sono i più studiati e tecnicamente curati in quanto maggiormente esposti al controllo sociale e familiare e ad una serrata concorrenza. La funzionalità di tale produzione è legata ad una attenta analisi dei programmi ministeriali e alla loro interpretazione alla luce delle più attuali tendenze pedagogico-didattiche. La progettazione di nuove opere, l’esame di proposte di pubblicazione e la ricerca di autori devono rispondere ad un indirizzo editoriale ben preciso. Una valida editrice scolastica poi non può prescindere da costanti contatti con università, centri didattici e consulenti. Se la stampa, sin dalla sua invenzione, ha avuto un riferimento costante con la cultura è a partire dall’Otto / Novecento che diventa possibile parlare di e.s. vera e propria. Il sapere ideologico-culturale, i grandi avvenimenti politici, i profondi mutamenti sociali, nonché il complesso sviluppo industriale e capitalistico, favoriscono innovazioni tecnologiche in grado di lanciare il libro verso le grandi battaglie contro l’analfabetismo e a favore di una istruzione scolastica generalizzata. In tal senso fanno uso delle nuove tecnologie informatiche (combinandosi con l’e. multimediale).

2. In Italia lo sviluppo del libro scolastico è anche legato ad alcune riforme legislative. Così con la legge Coppino del 1877 l’Italia fu impegnata a rendere operante l’obbligo scolastico e venne data più attenzione ai problemi dell’istruzione tecnica e professionale; mentre la legge Daneo-Credaro intervenne sullo stato giuridico dei docenti e delle scuole elementari. Sono questi gli anni che vedono nascere editrici come Loescher, Paravia, Le Monnier, Zanichelli, Salani e altri. I primi del Novecento vedono nascere La Scuola di Brescia (1904), la SEI di Torino (1908), la Mondadori e la Rizzoli che con Bompiani e Vallecchi sapranno utilizzare validamente ai fini della loro crescita editoriale la Riforma Gentile che tra l’altro porterà nel 1932 all’istituzione dell’Ente Nazionale per le Biblioteche Popolari e Scolastiche. L’impegno di ricostruzione civile seguito alla seconda guerra mondiale vede anche il sorgere di nuove editrici: nascono così Curcio nel 1954, gli Editori Riuniti nel 1953 e la Mursia nel 1952. L’e.s. italiana è stata fortemente attenta alle riforme avviate dai suoi governi repubblicani e attraverso l’Associazione Italiana Editori (AIE) partecipa allo speciale Osservatorio del libro istituito presso il Ministero della Pubblica Istruzione.

Bibliografia

Bouvaist J. M.,​​ Pratiques et métiers de l’édition,​​ Paris, Cercle de la Librairie, 1991; Silva F. - M. Gamboro - G. C. Bianco,​​ Indagine sull’e.,​​ Torino, Fondazione Agnelli, 1992; Huenefeld J.,​​ The Huenefeld guide to book publishing,​​ Bedford, Mills & Sanderson Publishers, 1993; Cusmano A.,​​ E. Guida per chi vuole pubblicare,​​ Bologna, Zanichelli, 1994; Santoro M.,​​ Storia del libro italiano,​​ Milano, Editrice Bibliografica, 1994; Cavalli S. P. - G. Fioretti,​​ Come si fa l’editore,​​ Ibid., 1995.

G. Costa

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EDITORIA SCOLASTICA

EDUCANDO

 

EDUCANDO

Il termine è oggi in crisi in quanto fa pensare al vecchio modello dell’​​ ​​ educatore che plasma e forma chi, per definizione, è da nutrire o da aiutare a tirar fuori le proprie potenzialità. In teoria il binomio educatore-e. resta utile semplificazione del discorso, ma è da superare sia evidenziando il ruolo attivo dei soggetti (al singolare e al plurale) da educare sia mettendo in conto la dimensione dinamica del​​ ​​ rapporto educativo. Il gerundio lat. (educandus,​​ «da educare») richiama la doverosità di una entità processuale che richiede un «prendersi cura» (si veda anche​​ ​​ soggetti dell’educazione).

1. La soggettività è una categoria centrale del pensiero moderno occidentale. La psicologia mostra molti volti dell’essere e del divenire della soggettività (ad es. dinamico, psichico, relazionale, comportamentale, etico, spirituale, ecc.). Per lo più il volto moderno del soggetto esalta la sua vitalità attiva già in possesso di strutture native latenti e di domande esplicite, di esigenze che vengono pedagogicamente assunte a norma di progetti e di interventi educativi. Da una concezione ricettiva e consenziente, si è passati a una concezione antropo-biologica che vede la partenza della​​ ​​ vita da patrimoni interiori genetici e generatori in interazione o in dialettica evolutiva e formativa con 1’​​ ​​ ambiente, con la cultura sociale, con la vita socio-politica. Secondo alcuni il risultato di tale interazione mostra fortemente i segni (se proprio non il risultato) del condizionamento ambientale e sociale. Ad evitare un pericoloso sbilanciamento che porterebbe alla negazione della libertà soggettiva, è pertanto necessario lungo il cammino educativo favorire la partecipazione attiva all’educazione, prima impegnando la tensione interiore al divenire, al crescere e al maturare in direzioni umanamente degne, poi stimolando ad assumere ruoli e funzioni di soggettività protagonista auto-educatrice e co-educatrice in dialogo con gli agenti esterni: non solo consentendo, ma esprimendo creativamente bisogni, interessi, desideri, motivi, ideali, prese di posizione, scelte, impegni, responsabilità solidali.

2. Queste affermazioni devono essere mantenute dentro un quadro realistico che vede il protagonismo di collaborazione o l’iniziativa del soggetto in condizioni di progressività, di difficoltà, di rischio e perfino di errore. Conseguono la necessità o l’opportunità di interventi di orientamento, di guida, di correzione, di stimolo, di chiarificazione; e, sempre e in ogni caso, amorevoli forme di accompagnamento. È bene osservare che l’equilibrio sinergico educatore-e. è e deve essere voluto e promosso decrescente nel primo termine e crescente nel secondo. L’educatore diventa lungo il processo d’educazione «progressivamente superfluo» (Pio XII). In ogni caso è da promuovere e sostenere l’equilibrio nei processi di​​ ​​ sviluppo personale, dove la spinta interiore gioca una funzione spontanea naturalmente maturante e formativa, ma richiede l’apporto di buone forme di cultura, in una sorta di ermeneutica vitale, traducibile concretamente in comprensione, ricostruzione intelligente, valutazione critica, reazione creatrice, originalità ideativa e comportamentale.

Bibliografia

Rogers C.,​​ Potere personale. La forza interiore e la sua forza rivoluzionaria,​​ Roma, Astrolabio, 1978; Rossi B.,​​ Identità e differenza. I compiti dell’educazione,​​ Brescia, La Scuola, 1994; Giussani L.,​​ Il rischio educativo, Milano, Rizzoli, 2005; Nosengo G.,​​ La persona umana e l’educazione, Brescia, La Scuola,​​ 22006.

P. Gianola

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EDUCANDO

EDUCATIVA DI STRADA

 

EDUCATIVA DI STRADA

Il lavoro educativo di strada rappresenta un notevole mutamento in ordine alle tradizionali logiche secondo le quali era possibile formare i soggetti in età evolutiva solamente all’interno degli appositi ambiti e luoghi istituzionali, come la scuola, l’oratorio, l’associazione, ecc. In questi ultimi anni, invece, si sta sempre più diffondendo e consolidando la possibilità di incontrare bambini, adolescenti, giovani, ed i loro gruppi, nei contesti informali dove questi trascorrono parte significativa del proprio quotidiano. Tutto ciò rappresenta una vera opportunità educativa nonostante le difficoltà da superare. In ambito civile il lavoro di strada avvia in Italia il suo percorso evolutivo all’inizio degli anni Ottanta in riferimento alle situazioni di disagio e di difficoltà sociale. Parallelamente a questo movimento, alla fine degli anni Novanta, anche in ambito ecclesiale gli operatori di pastorale giovanile, constatando l’allontanamento delle nuove generazioni dalla Chiesa, si domandano cosa poter fare per ristabilire un dialogo con i giovani. Sempre più esplicitamente si fa presente il bisogno di andare nei luoghi informali dove i giovani amano incontrarsi. Si apre così un tempo di sperimentazione anche a livello ecclesiale.

1.​​ I modelli del lavoro di strada. Come documentato da Maurizio (1999, 12-15), in questi anni sono andate diffondendosi varie tipologie di interventi che vanno, secondo un​​ continuum, da quelli atti a promuovere le risorse dei gruppi e dell’ambiente a quelli orientati alla riduzione del danno provocato da comportamenti devianti, passando attraverso quelli centrati sulle situazioni a rischio. Il primo modello dell’e.​​ territoriale​​ intende promuovere le competenze e le risorse presenti nella comunità per risolvere suoi specifici problemi in riferimento, per esempio, alla sicurezza, alla vivibilità, al senso di appartenenza e di partecipazione dei cittadini alla comunità. Il secondo modello propriamente detto​​ e.d.s.​​ o​​ animazione di strada​​ ha la finalità educativa di prevenire il disagio degli adolescenti e dei giovani affiancando il gruppo dei pari in modo da promuoverne le risorse e favorirne l’inserimento nella comunità. Il terzo modello relativo agli interventi di​​ riduzione del danno​​ ha lo scopo pragmatico di diminuire il rischio rispetto a specifiche e urgenti problematiche, come quella della trasmissione dell’Aids.

2.​​ L’obiettivo. L’e.s.​​ si propone di accompagnare gli adolescenti nella loro​​ ricerca​​ d’identità e di senso tramite degli educatori che sappiano porsi con discrezione al loro fianco e che, riconoscendo le loro attese e potenzialità, siano capaci di far emergere, nonostante le varie contraddizioni, quel desiderio di autenticità che è in ogni adolescente. La ricerca, infatti, perché sia incentivata deve essere riconosciuta nel dialogo. In particolar modo, è l’ascolto a riconoscere l’altro come portatore di significati ed ad offrirgli l’opportunità di capire meglio se stesso. Nel momento in cui si racconta, la persona è obbligata a prendere contatto con la propria interiorità e a chiarire anzitutto a se stesso ciò che desidera, ad oggettivare le proprie fantasie. La narrazione di sé in altre parole favorisce la presa di coscienza e la visibilizzazione della propria ricerca interiore offrendo ad essa parole e significati che la definiscano. È una ricerca che acquista sicurezza proprio perché riconosciuta dall’ascolto e dall’interesse di un adulto. Quando poi la narrazione si fa reciproca la ricerca ha l’opportunità di approfondirsi grazie al valore aggiunto portato dall’esperienza dell’altro, dalla sua storia e dalle sue idee.

3.​​ Il luogo d’incontro. Lo spazio per eccellenza scelto dagli adolescenti e dai giovani per stare insieme agli amici nel proprio tempo libero è la strada o la piazza. Secondo i risultati della ricerca​​ La gioventù negata​​ ben il 71% dei ragazzi e delle ragazze passa in questi luoghi una porzione significativa della propria vita di relazione e del proprio tempo libero (Fondazione Labos & Ministero dell’Interno, 1994). La strada è l’ambiente dove incontrarsi per parlare e confrontarsi, dove esprimere idee e passioni, dove raccontare sogni ed emozioni, dove poter stare vicini anche senza dirsi nulla. Qui si scherza, si conversa del più e del meno e si prendono decisioni importanti. La strada offre l’opportunità di condividere la propria storia con quella degli altri divenendo così un potenziale luogo di riflessione oltre che di distrazione. Gli adolescenti ed i giovani abitano la strada e la piazza portandovi il loro carico di speranza e di delusione. È qui che pongono domande e cercano risposte. Per questo l’incontro in questo luogo di quotidianità dei giovani, può rappresentare un evento di grande portata educativa.

4.​​ La strategia. Il percorso dell’e.d.s. prevede cinque tappe​​ (Cazzin, 1999). La​​ mappatura:​​ previamente all’intervento diretto su un gruppo gli educatori osservano le aggregazioni giovanili informali presenti sul territorio. Lo scopo è quello di individuarne le prime caratteristiche e per scegliere la compagnia con la quale tentare l’aggancio. L’aggancio: i due educatori si presentano al gruppo prescelto chiedendo di poterlo incontrare altre volte. Chiaramente questa tappa è assai delicata perché preclusiva a tutto il percorso. Il​​ consolidamento della relazione: superato positivamente l’aggancio c’è bisogno ora di un adeguato tempo perché gli educatori e gli adolescenti possano conoscersi ed aumentare la stima e la confidenza reciproca. In questa fase si sta col gruppo condividendo quanto i ragazzi fanno, ascoltando e dialogando con loro, aiutandoli ad approfondire le proprie domande. Questa fase è molto importante come tempo di approfondimento dei significati. La​​ progettualità: stando insieme educatori e adolescenti stabiliscono una relazione che abbia una certa valenza affettiva. A questo punto gli educatori divenendo un punto di riferimento per l’intero gruppo possono provocarlo nella realizzazione di un progetto che risponda ai suoi interessi ed alle sue capacità. Può nascere in tal senso un’azione in cui gli adolescenti siano i primi protagonisti, si pongano in interazione col proprio ambiente e sperimentino alcuni valori. Anche questa fase ha un valore a riguardo dei significati da elaborare oltre che innescare un processo di socializzazione fra il gruppo e la comunità allargata. È una fase importante anche perché il gruppo prende coscienza delle proprie potenzialità, che è possibile portare a termine i propri sogni o progetti. Il ruolo degli animatori in questa fase è solo quello di facilitare il gruppo nel proprio fare piuttosto che assumere un ruolo attivo di leadership. Il​​ distacco: durante la realizzazione ed alla fine del progetto è importante che gli animatori siano in grado di aiutare gli adolescenti a riflettere su quanto stanno facendo perché tutto ciò li aiuti a prendere consapevolezza di sé, della propria realtà e dei significati sottesi. A questa fase di verifica corrisponde l’elaborazione del distacco degli animatori dal gruppo. Passaggio delicato in cui i ragazzi e le ragazze prendendo consapevolezza delle proprie risorse si proiettano in avanti, verso ulteriori progetti ed interazioni, prendendo spunto e forza da quanto hanno realizzato in compagnia degli educatori.

Bibliografia

Fondazione Labos e Ministero dell’Interno,​​ La gioventù negata,​​ Roma, TER, 1994; Maurizio R.,​​ Il lavoro di strada in Italia: rassegna di eventi e temi,​​ in​​ In strada con i bambini e i ragazzi. Quaderni del Centro nazionale di documentazione ed analisi per l’infanzia e l’adolescenza,​​ n. 12, Firenze, Istituto degli innocenti, 1999; Cazzin A.,​​ Quattro fasi del lavoro di strada con gli adolescenti,​​ in «Animazione Sociale» (1999) 1, 58-63; Bertolino S. - G. Gocci - F. Ranieri,​​ Strada facendo,​​ Milano, Angeli, 2000; Gambini P.,​​ L’animazione di strada,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 2002; Regoliosi L.,​​ La strada come luogo educativo,​​ Milano, Unicopli, 2002.

P. Gambini

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EDUCATIVA DI STRADA

EDUCATORE

 

EDUCATORE

In termini ideali si potrebbe dire che è e. chi educa, vale a dire chi guida i processi di liberazione del potenziale vitale, di crescita e maturazione organica e funzionale, d’inserimento libero e attivo nella realtà della vita, di costruzione di sistemi personali di cultura. Con funzione di​​ ​​ formatore aiuta il soggetto (​​ educando e​​ ​​ soggetti dell’educazione) a dotarsi di buone forme d’essere, di sapere, di agire, di comportarsi, di fare, riferendosi all’esperienza e alla cultura.

1.​​ Tipi di e.​​ Possiamo distinguere diversi tipi di e. a) E.​​ per natura​​ sono i​​ ​​ genitori. Prolungano la generazione nell’educazione, gestendola in condizioni privilegiate affettive, morali, sociali e perciò anche pedagogiche, perché primarie ed esemplari, anche se con insufficienze inevitabili che richiedono l’integrazione esterna di istituzioni e di operatori esterni. Validità e efficacia dipendono dalla​​ ​​ maturità globale generativa consapevole e intenzionale a riguardo dei figli e in relazione al proprio dovere e compito. Dipendono inoltre dal possesso iniziale e progressivamente aggiornato dei requisiti per proseguirla. Oggi nell’educazione dei figli emergono impreparazioni, influssi culturali e sociali negativi, rapporti difficili con le integrazioni esterne. Si è fatto urgente per i genitori un grave compito di educazione preventiva, di accompagnamento, di integrazione. A padre e madre si aggiungono le altre figure familiari e parentali e in certo senso i gruppi di convivenza stretta, incominciando da una presenza quasi naturale dei coetanei, anche di diverso sesso. b) E.​​ per professione​​ voluti dalla società in rapporto alla complessificazione e differenziazione dei compiti sociali. I loro titoli sono l’esperienza e la loro competenza professionale. Nel loro caso i programmi e i metodi sono da costruire, i buoni rapporti e il consenso da meritare, sia quando sostengono, aiutano o integrano la famiglia, sia quando sviluppano impegni educativi autonomi di​​ ​​ scuola, animazione, consulenza e orientamento, formazione professionale, terapia e rieducazione (insegnanti, animatori, orientatori, e. professionali, formatori, terapeuti, ecc.).

2.​​ Qualità dell’e.​​ Un quadro indicativo (che può valere come criterio di selezione e di reclutamento e che può essere utile per progettare la formazione o l’aggiornamento degli e.) include: – il possesso, proporzionato al compito, almeno sufficiente, della scienza e dell’arte dell’​​ ​​ educazione: – la capacità pedagogica di leggere e interpretare, nelle situazioni, i bisogni e le possibilità, di definirvi finalità e obiettivi a medio e breve termine, di progettare contenuti e processi per le varie dimensioni della​​ ​​ persona e della vita da educare. In passato si collegava l’immagine del buon e. con la sua capacità di vedere, valutare e aprirsi affettivamente e relazionalmente agli educandi. Oggi si bada anche alla personalità profonda dell’e. che, emergendo dal suo intimo cosciente o inconscio, condiziona la percezione dei giovani e la relazione con essi, tende a tradursi in peculiare clima interpersonale, relazionale ed ambientale. L’e., con il suo messaggio affettivo e dinamico caratteriale, di personalità globale, mette in gioco idee e mentalità, percezioni e convinzioni, identità e immagini di ruolo, desideri palesi e nascosti, soprattutto motivazioni del suo essere e agire come e. in generale e nella situazione concreta. W. Schraml parla di necessaria «igiene mentale dell’e.». Possiede esigenze ideali o le presume e quasi pretende? Si lascia guidare da esse o le impone? Sviluppa controtransfert, ansia, proiezioni, sublimazioni? Come supera i pericoli dei propri limiti, delle proprie vulnerabilità? Manifesta maturità adulta o residui di onnipotenza infantile o di instabilità adolescenziale? In positivo si desiderano 1’​​ ​​ accettazione profonda e incondizionata dei giovani nella loro realtà dinamica educazionale; l’attenzione alle persone; la capacità di​​ ​​ amicizia educante; il dono paziente e formativo di stima, fiducia, libertà, responsabilità, iniziativa; la capacità di comporre ascendente personale e concentrazione sui​​ ​​ valori proposti e sulla maturazione personale.

3.​​ Gli stili educativi dell’e.​​ A seconda degli stili educativi che assume, si possono distinguere diversi «volti» o «figure» di e. Nel concreto, si tratta per lo più non di estremizzazioni ideali, ma di accentuazioni variamente componibili. a) Il​​ trasmettitore:​​ riproduce tradizioni e sistemi, ripete direttive, è docile e fedele nel conservare. Non critica, non innova. Parla a memoria, chiede memoria. Esalta l’autorità, si propone con autorità. Interroga, non dialoga. b) L’​​ ​​ animatore:​​ libera forze intime vitali, facilita la crescita, guida la ricerca e la riflessione, impegna a scelte. Spesso è meno attento ai contenuti e più alle dinamiche relazionali, personalizza i rapporti e i messaggi. c) Il​​ mediatore:​​ sviluppa la vitalità e accentua la guida nel dialogo / confronto con le realtà esterne (natura, società, tecnica, cultura, fede) e nell’interazione dinamica di conoscenza, affettività, valutazione, operatività efficiente ed efficace. Forse è lo stile più completo. d) Il​​ manager:​​ organizza quadri, progetti, piani, programmi, istituzioni, esperienze. Spesso è meno attento alle persone e agli stessi valori. e) Lo​​ ​​ psicopedagogista:​​ si concentra sui processi formali; si preoccupa di sanità personale e di normali approcci mentali, affettivi, comportamentali; sblocca situazioni cliniche complicate. f) L’operatore sociale:​​ ama le situazioni ambientali, contestuali; considera le reti causali e solutive; condivide i problemi e cerca soluzioni comunitarie; tende a progetti e metodi socio-pedagogici, investendovi tecniche raffinate di ricerca e analisi dei bisogni e delle condizioni, preparando programmi adeguati di fattori agenti, strutture, mezzi, procedimenti. g) Il​​ carismatico:​​ ha fascino e ascendente di consenso e seguito. La sua personalità tende a diventare criterio di verità e valore. Parole, gesti, modi di pensare e fare diventano di tutti, fino a sembrare originali. h) L’accentratore personale:​​ fa tutto da sé e attorno a sé. i) Il​​ distributore comunitario organico:​​ preferisce la collaborazione a ogni livello. Ricordando con simpatia l’«e. nato» di​​ ​​ Spranger, si pensa oggi a superare figure parziali d’e., quali l’erudito, il moralista, lo psicologo, il sociologo, l’animatore, ricercando figure polivalenti o meglio capaci di operare in​​ ​​ reti educative.

4.​​ Soggetti-e.​​ Sono e.: a) I​​ ​​ giovani come autoeducatori o coeducatori.​​ I giovani sono veri soggetti attivi della propria educazione in quanto investono nei processi il proprio potenziale di vitalità fisica, psichica, mentale, affettiva, spirituale, di pensiero e amore, progetto e condotta. Lo sono quando possono partecipare in modo attivo e responsabile alla propria educazione e formazione; quando colgono senso e valore nei messaggi altrui, li interpretano con significati personali, li traducono in comportamenti fluidi e condotte quotidiane; quando operano con libertà impegnata e guidata le scelte che decidono della loro vita, identità, appartenenze e compartecipazioni. Questa​​ ​​ co-educazione, che passa alla autoeducazione, può crescere fino a rendere sempre meno necessario l’e. b) Le​​ comunità educatrici.​​ L’e. unico è una astrazione, dopo le figure patetiche dei pedagoghi di famiglia. Chi educa è in realtà un​​ sistema e.​​ di persone che convergono con ruoli e qualifiche molteplici e differenziati a un fine comune (famiglia, scuola, la comunità ecclesiale, la città e la società educante, il sistema della comunicazione sociale, del divertimento, dello sport, del lavoro, della politica). I​​ singoli e.​​ hanno personalità e attività ben individualizzata, ma il senso e il valore del loro agire sta nel coordinarsi organico e integrarsi in unità sempre maggiori di progetti e processi convergenti e divergenti, perfino risultando reciprocamente correttivi, comunicando però idealmente quadri organici di valori, giudizi, condotte e operando, come oggi si dice, in rete. La comunità educativa vede tutti i soggetti, adulti e giovani, interni e di contesto, impegnati in un progetto comune di lavoro, convergere in una intesa istituzionale esplicita di consenso, di partecipazione collettiva e differenziata nella unità plurale di progetto, programma, metodo. c) Oggi si diffonde la presenza sistematica di​​ ​​ esperti e consulenti​​ specializzati, non per i casi difficili, ma per la buona impostazione preventiva. Tutti, a proprio modo, collaborano al progetto, verificano e valutano per decidere se proseguire, correggere, migliorare l’intero sistema o qualche fattore di esso, provano miglioramenti ed eventuali sperimentazioni innovative.

5.​​ L’e. in azione.​​ L’e. non è solo una persona, ma un ruolo che svolge una specifica funzione nel processo formativo: a)​​ Informa.​​ La promozione della consapevolezza precede ogni altro sviluppo educativo. Dare coscienza e conoscenza è la prima funzione che impegna l’e. Si estende all’io e alla vita intima, agli universi di appartenenza, alle situazioni e accadimenti, ai contenuti di scienza e notizia. Non è semplice informazione. Punta a comprensione, interpretazione, giudizio di valutazione oggettiva, soggettiva, personale. Implica conseguenze di adesione e azione, ricerca di sintesi di quadri e sequenze, comparazioni, progetti. Richiede all’e., il dominio esperto di molti mezzi, opportunità e tecniche di informazione. b)​​ Motiva.​​ Ben al di là di premi e castighi, guida con autorevolezza la valutazione e la valorizzazione oggettiva, soggettiva, personale di ciò che va assunto, assimilato, condiviso, preferito, scartato. c)​​ Guida esperienze educanti.​​ Oggi, più che per la vita, educa la vita, nella vita. Sa intrecciare positivamente le esperienze spontanee quotidiane con i momenti critici e significativi, ne aggiunge altre capaci di completare l’arco formativo. d)​​ Anima.​​ Supera la​​ ​​ direttività del pensare, giudicare, decidere, scegliere e comportarsi, per farsi animatore esperto e promozionale degli stessi atti, aiutandone la personalizzazione intelligente, responsabile, libera.

6.​​ Formare gli e.​​ L’e. è un po’ la chiave di volta dell’intero sistema e processo formativo. Ne vengono di conseguenza l’urgenza e l’importanza di una sua preparazione e formazione (iniziale, in processo, in continuo aggiornamento). Tale opera di formazione è diretta all’intera personalità dell’e. quale «contesto» del suo ruolo. Ma certo meritano particolare attenzione il ruolo e la funzione per se stessi. Sono frutto di formazione adeguata le​​ competenze scientifiche​​ antropologiche sui giovani d’oggi: facilità e difficoltà, condizioni sociali, culturali, ideologiche e prammatiche del vivere quotidiano, situazioni di convergenza o divergenza con le offerte educative. Ma è pure necessaria la competenza di​​ ​​ metodologia pedagogica, per l’intervento nei vari campi di valori e problemi; il saper raccogliere informazioni e domande, il saper preparare progetti e programmi, piani di lavoro; il saper eseguire l’azione educante, verificare, valutare, migliorare. Oltre che la scienza e la strategia, occorrono anche l’arte e la tattica di agganciare, mettere in crisi negativa e positiva, sviluppare proposte, condurre dialettiche e dialoghi di transazione, ottenere consensi e adesioni, destrutturare e ristrutturare, percorrere lunghi cammini di ricerca e sviluppo.

Bibliografia

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P. Gianola

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