DIRECTOR OF RELIGIOUS EDUCATION

 

DIRECTOR OF RELIGIOUS EDUCATION

DRE è il titolo che negli USA viene dato a uno specialista, generalmente con una formazione professionale, incaricato dei programmi di C. o di educazione religiosa nella Chiesa locale. I compiti del DRE variano notevolmente da una regione a un’altra. Normalmente ha tre incombenze: 1) organizzazione e amministrazione di programmi di C. e di educazione religiosa nella parrocchia; 2) formazione degli insegnanti; e 3) presentazione di mezzi didattici: libri di testo, audiovisivi, ecc. Nelle Chiese protestanti la posizione del DRE incominciò a delinearsi nell’epoca in cui fu fondata la → Religious Education Association (1903). Nelle parrocchie cattoliche la posizione del DRE prese contorni concreti negli anni dopo il Concilio Vaticano II, quando i laici incominciarono a svolgere una parte più attiva nel ministero pastorale.

Anche se protestanti e cattolici interpretano i compiti del DRE sostanzialmente alla stessa maniera, vi sono alcune denominazioni protestanti e alcune diocesi cattoliche che usano altri titoli per indicare questa figura. Molte Chiese protestanti lo chiamano “Director of Christian Education” (DCE) oppure, se si tratta di persona ordinata, “Minister​​ of Religious Education” (MRÉ). Tra i cattolici il titolo “Coordinator of Religious Education” è usato comunemente, specie nelle parrocchie che hanno una grande varietà di programmi di C. e di educazione religiosa Nelle diocesi cattoliche in cui si usa di preferenza il titolo MRE, esso si riferisce a persone non ordinate, contrariamente all’uso protestante.

Bibliografia

D.​​ J. Furnish,​​ DRE/DCE – The History of a​​ Profession,​​ Nashville, TN, Christian Educators​​ Fellowship,​​ 1976; M. Harris,​​ DREs in the U.S.: The First Twenty Years,​​ in «The​​ Living​​ Light” 17 (1980) 250-259; K. C. Murphy,​​ The DRE Today: A Personal History,​​ ibid., 260-269.

Berard L. Marthaler

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DIRECTOR OF RELIGIOUS EDUCATION

DIRETTORE

 

DIRETTORE

È la persona che ha l’incarico di promuovere, coordinare e guidare le strutture e gli atti operativi di un’istituzione educativa (​​ dirigente scolastico).

1. Il suo sistema di riferimento sono la natura dell’istituzione, gli operatori di varia forma e funzione, i programmi e gli altri mezzi, da far agire nelle condizioni migliori per attuare gli scopi e i fini educativi propri di ogni specifica istituzione educativa. Ordinariamente l’attenzione viene portata sul controllo e il buon uso dei mezzi. In realtà il fattore dominante sono i fini e gli obiettivi per avviare, promuovere e mantenere ogni fattore dell’intero sistema nella giusta «direzione» verso di essi. Un «principio di autorità» è inerente al sistema oggettivo di cui il d. è solo gestore. Anzi, la personalizzazione del principio, per sé necessaria, potrebbe avvenire con la partecipazione di pochi, di molti, di tutti, di un gruppo dirigente organico, dove il d. precisa la sua funzione in termini di «presidenza» o di «dirigenza» di un lavoro convergente e articolato di precise competenze responsabili e attive (​​ comunità educativa / scolastica). Un d. può essere a sua volta dipendente, con vari spazi di autonomia e iniziativa, oppure essere iniziatore e primo responsabile. Deve evitare inoltre di vedere sotto di sé solo esecutori e favorire l’iniziativa e la responsabilità, soprattutto riguardo ai modi ed alle strategie d’azione.

2. A chi dirige si chiede legittimità, competenza,​​ ​​ autorità; ma anche abilità nel saper raccogliere informazioni dal basso, elaborandole personalmente e collegialmente, condividendo con i propri collaboratori obiettivi e motivazioni. In caso di conflitti di ruolo o di problemi amministrativi o di altra natura, il d. deve fare ogni sforzo per mantenere i primi al centro come ispiratori e regolatori degli altri. Deve provvedere alla buona organizzazione dei fattori, alla buona​​ ​​ comunicazione, al coinvolgimento attivo, competente e responsabile di tutti in modo che ognuno trovi gratificazione delle proprie aspirazioni e soddisfazione nel conseguimento dei fini condivisi, nell’azione collaborante, nella istituzione sentita come propria. Forse c’è da andare oltre la buona direzione «tecnica». I diretti non chiedono di essere solo organizzati e comandati, ma anche maturati, istruiti e motivati. Fa parte dei doveri del d. l’innovazione e l’adattamento dell’istituzione, coinvolgendovi l’intero sistema.

Bibliografia

Peters R.,​​ Il nuovo volto dell’autorità,​​ Roma, Armando, 1975;​​ Melese J.,​​ La gestion par les systèmes,​​ Suresne, Hommes et Techniques,​​ 1976; Scurati C. - E. Damiano - M. Riboldi,​​ La funzione dirigente nella scuola,​​ Brescia, La Scuola, 1986; Armone A. - R. Visocchi,​​ La responsabilità del dirigente scolastico, Roma, Carocci, 2005.

P. Gianola

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DIRETTORE

DIRETTORI CATECHISTICI NAZIONALI

 

DIRETTORI CATECHISTICI NAZIONALI

1.​​ I DCN o Regionali sono documenti autorevoli (emanati generalmente dagli episcopati o da commissioni episcopali) che regolano, coordinano e stimolano l’attività cat. nelle diverse nazioni o regioni. Alcuni sono sorti già negli anni ’60, ma la maggior parte sono posteriori, stimolati anche dal Direttorio Cat. Generale (1971), che ne incoraggia la creazione (DCG introd.; 103) e ne precisa lo scopo, che è quello “di promuovere e coordinare l’azione cat. in una regione o nazione o anche in più nazioni appartenenti alla medesima area socioculturale” (DCG 117).

2.​​ La​​ natura e i compiti​​ dei DCN possono essere così riassunti:​​ orientare​​ la progettazione e realizzazione dell’attività cat. nelle rispettive nazioni o regioni unificando criteri operativi e creando o rinnovando mentalità;​​ coordinare​​ le diverse iniziative cat. in modo da evitare dispersione e contraddizioni;​​ stimolare​​ il lavoro cat. specialmente là dove più manca;​​ guidare,​​ con opportune indicazioni operative e organizzative, lo sviluppo generale dell’azione cat. In questo senso, è compito dei DCN favorire un ordinato sviluppo della C., nell’unità di un progetto omogeneo e aggiornato, pur senza compromettere il legittimo pluralismo e la varietà di espressioni della prassi cat.

3.​​ Ai DCN possono venire equiparati altri documenti che, pur con altro nome (come: “orientamenti”, “linee direttive”, e simili), ne svolgono praticamente la funzione (cf → Olanda, Cile, Spagna). Molto affini sono anche i cosiddetti “documenti di base” (cf → Italia, Francia), dove mancano soltanto le indicazioni operative e organizzative proprie di un Direttorio. Altri documenti, come lettere pastorali, programmi, “Syllabus”, “fondi obbligatori”, ecc., restano più lontani dai DCN, in quanto affrontano il tema della C. in forma più globale o in qualche suo aspetto particolare.

4.​​ Per ciò che riguarda lo​​ schema​​ e i​​ contenuti​​ dei diversi DCN, pur nella loro diversità, è possibile tracciare un canovaccio abbastanza comune. Spesso si aprono con una descrizione della​​ situazione​​ religiosa e cat. delle rispettive nazioni o regioni; si precisa la natura e significato della C. nel contesto​​ dell’azione pastorale​​ della Chiesa; si approfondiscono gli​​ aspetti​​ o​​ elementi fondamentali​​ della C. (finalità e obiettivi, fonti e contenuti, dimensioni, criteri metodologici di base); si specificano alcune caratteristiche e​​ linee metodologiche​​ della C. secondo le età e condizione dei destinatari; si aggiungono indicazioni di ordine​​ organizzativo e pratico​​ (formazione dei catechisti; ambienti e luoghi della C.; strutture organizzative; strumenti e sussidi, ecc.).

5.​​ Nella varietà dei DCN apparsi fino ad oggi, alcuni meritano menzione speciale, o per il loro valore intrinseco, o per il significato che hanno assunto nel processo globale del rinnovamento della C., anche al di là delle proprie nazioni o regioni.

1)​​ Apre la serie il​​ Direct aire de Pastorale Catéchétique à l’usage des diocèses de France​​ (1964; cf bibl.), che a suo tempo raccolse le conclusioni più mature del movimento cat.​​ francese,​​ offerse una visione rinnovata della C. nelle sue dimensioni pastorale, biblico-teologica e pedagogica, e contribuì in modo rilevante al rinnovamento cat. di molte regioni. In seguito, la Chiesa francese ha prodotto altri documenti cat. di notevole valore e significato, anche se non hanno l’ampiezza e significato di un vero e proprio direttorio (cf​​ Fonds obligatoire​​ [1967],​​ Document de base​​ [1969],​​ Texte de référence​​ [1980]).

2)​​ Degno di nota è anche il documento​​ olandese: Grondlijnen voor een vernieuwde schoolkatechese​​ (1964), espressivo della coraggiosa svolta conciliare della C. in Olanda, che troverà poco dopo nel “Nuovo Catechismo”, o catechismo olandese per gli adulti, la sua più famosa e significativa realizzazione. Il significato particolare di questo documento risiede, da una parte, nella concezione spiccatamente​​ antropologica​​ della C. come illuminazione dell’esistenza umana alla luce della parola di Dio, e dall’altra nell’accentuazione​​ dell’ aspetto educativo​​ della C., intesa come azione pastorale che punta alla maturità cristiana sulla base e nell’ambito della maturazione umana dei giovani.

3)​​ Nel 1970 appare il Documento di base​​ italiano: Il rinnovamento della catechesi,​​ che è chiamato a svolgere un ruolo di primo piano nel rinnovamento della mentalità cat. e come piattaforma teologico-pastorale di base per lo sviluppo di tutto il progetto cat. della Chiesa italiana. Frutto di larga consultazione e collaborazione, esso raccoglie le istanze conciliari riguardanti la C. e le indicazioni più assodate del movimento cat. contemporaneo. Tra le sue linee di forza possono essere ricordate: la concezione della C. come educazione della fede, in funzione della “mentalità di fede”; l’importanza dell’integrazione tra fede e vita; la vigorosa affermazione del cristocentrismo nel contenuto della C.; la centralità della Bibbia come “il libro della C.”; l’importanza dell’impostazione metodologica; il primato del catechista e della comunità ecclesiale nella realizzazione del compito cat., ecc. Il fatto che questo documento sia stato anche adottato dagli episcopati dell’Australia e dell’Inghilterra e Galles è indice espressivo del favore con cui è stato visto anche al di fuori delle frontiere italiane.

4)​​ Nell’ambito della celebrazione del Sinodo Generale delle​​ Diocesi Tedesche​​ (Würzburg​​ 1971-1975) sono da segnalare due importanti documenti: uno sull’insegnamento scolastico della religione (Der Religionsunterricht in der Schulé) e un altro sull’attività catechetica della Chiesa (Das katechetische​​ Wirken​​ der Kirche).​​ Il primo, molto noto anche fuori della Germania, consacra in qualche modo la distinzione tra C. e IR scolastico, precisando di quest’ultimo la natura e significato teologico-pedagogico nel contesto del progetto educativo della scuola moderna. Il secondo rappresenta una stimolante riflessione sull’identità e ruolo della C. nell’ambito dell’agire globale della Chiesa. Da segnalare la visione aperta e umanizzante della C. al servizio di una vita pienamente riuscita, la sua funzionalità per un progetto rinnovato di Chiesa e l’importanza centrale attribuita alla C. degli adulti.

5)​​ In​​ America Latina​​ sono sorti, nel periodo postconciliare, diversi DCN (cf Argentina [1967 e 1984], Messico [1971], Cile [1974], Ecuador [1981]). In un modo o nell’altro, le caratteristiche di base sono date spesso dalle grandi Assemblee Episcopali di Medellin (1968) e Puebla (1979), che hanno orientato per vie decisamente originali l’azione pastorale nel continente. Merita attenzione speciale il Direttorio, recentemente pubblicato, del​​ Brasile,​​ Catequese renovada​​ (1983) che, nella linea e nello spirito di Puebla, accentua in modo speciale la necessaria “interazione” tra fede e vita, nel concreto dell’esperienza e della storia, e stimola la crescita della fede nel seno di autentiche comunità cristiane, anche nella scia della promettente esperienza delle “comunità ecclesiali di base».

6)​​ Significativo appare anche il DCN degli​​ Stati Uniti, Sharing the Light of Faith​​ (1979), frutto di vastissima consultazione e collaborazione. Il documento si distingue per l’aderenza e fedeltà alla situazione americana, con i suoi contrasti e problemi, con la caratteristica presenza di diversi gruppi religiosi, etnici, culturali, ecc.

7)​​ Tra i DCN di recente pubblicazione, merita infine una speciale menzione il documento​​ spagnolo'. La​​ catcquesis​​ de la​​ comunidad​​ (1983). Elaborato in forma sostanziale e robusta, sottolinea in particolare l’orientamento ecclesiologico verso il progetto del Regno di Dio, la dimensione evangelizzatrice e “catecumenale” della C., il primato degli adulti e della comunità nel dinamismo della C. e la riaffermazione dell’identità cristiana.

6. Dopo aver ricordato la natura e finalità dei DCN e nominato alcune realizzazioni più importanti, un ultimo rilievo riguarda il​​ significato​​ dei DCN nello​​ sviluppo storico del rinnovamento della C.​​ Questi documenti non solo compiono la funzione che di per sé è loro propria, quella cioè di guidare, coordinare e stimolare l’attività cat. nei diversi paesi e regioni. Il loro apparire e affermarsi ad un dato momento della storia contemporanea, sotto la spinta del movimento cat. e del nuovo clima postconciliare, può essere valutato come una autentica e significativa svolta: essi consacrano in qualche modo la fine dell’”epoca del catechismo” e della concezione pedagogica che vi era connessa, così come si può dire che, in un certo senso, il → DCG, elaborato in ottemperanza alla richiesta di CD 44, rappresenta la risposta del Concilio alla vecchia domanda di un “catechismo universale”. I DCN, come documenti di base del rinnovamento cat., segnano l’inizio di un’azione cat. rinnovata nella sua concezione e più partecipata dal popolo cristiano, più pedagogica e comunitaria, più zelante del proverbiale criterio della doppia fedeltà, a Dio e all’uomo. C’è da augurarsi perciò che questi documenti, lungi dal rimanere pezzi retorici o lettera morta, possano davvero creare una mentalità rinnovata e aprire nuove vie allo sviluppo della C. nel mondo.

Bibliografia

Per una visione complessiva dei DCN, con indicazione di traduzioni e commenti, cf J. Gevaert,​​ Studiare catechetica,​​ Leumann-Torino, LDC, 1983, 49-61.​​ Argentina –​​ Conf. Episc. Argentina,​​ Directorio​​ de​​ catcquesis,​​ Buenos​​ Aires, Bonum, 1967; Id.,​​ Directorio de catcquesis,​​ in​​ “Actualidad Catequética” 18 (1984) 117/118, 9-69.

Austria​​ österreichische Kommission für Bildung und Erziehung des Sekretariats der Österreichischen Bischofskonferenz,​​ Österreichisches Katechetisches Direktorium für Kinder und Jugendarbeit,​​ Wien, Österreichische Kommission..., 1981.

Belgio –​​ Interdiocesane Catechetische Commissie voor het secondair onderwijs,​​ Schoolcatechese in het secondair onderwijs.​​ Basis-document in opdracht van het episcopaat..., Brussel, Nationaal Secretariaat voor het katholiek onderwijs, 1970.

Brasile​​ Catequese renovada. Orientações​​ e​​ conteúdo.​​ Documento aprovado pelos Bispos do Brasil na 21a​​ Assembleia Geral, 15 de abril de 1983, São Paulo,​​ Ed. Paulinas,​​ 1983.

Cile –​​ Oficina​​ Nacional​​ de​​ Catequesis,​​ Líneas generales​​ para la catequesis en​​ Chile,​​ Santiago,​​ Publicaciones​​ ONAC, 1974;​​ Comisión​​ Episcopal de Catequesis,​​ Líneas​​ y​​ orientaciones​​ para la catequesis,​​ Santiago, ONAC, 1984.

Ecuador –​​ Conf. Episc.​​ Ecuatoriana,​​ Directorio Nacional​​ de Catequesis,​​ Quito, Conf. Episc.​​ Ecuatoriana,​​ 1981.

Francia – Le Directoire de Pastorale Catéchétique à l’usage des diocèses de France,​​ in “Catéchèse” 4 (1964) n. 14, 15-81.​​ Ediz, separate:​​ Paris, CNER, Fleuras, Centurion. Trad. ital.:​​ Direttorio di Pastorale Catechistica ad​​ uso​​ delle​​ diócesi di Francia,​​ Leumann-Torino, LDC, 1965; 19682.

Assemblée Plénière de L’Épiscopat de France,​​ Fonds obligatoire à l’usage des auteurs d’adaptations.​​ Catéchisme français du cours moyen, Paris, Association Épiscopale Catéchistique, 1967; supplément de «Catéchèse» 7 (1967) n. 29, 160.

Assemblée Plénière de L’Épiscopat Français,​​ Eléments pour une pastorale des jeunes de sixième et cinquième et Document de base à l’intention des auteurs d’ouvrages catéchétiques pour les jeunes de sixième et cinquième,​​ Paris, CNER, 1969. Cf “Catéchèse” 10 (1970) n. 41, 389-434.

Conf. Episc. Française,​​ La catéchèse des enfants. Texte de référence,​​ Paris, Centurion, 1980. Trad. ital.:​​ Direttive​​ per​​ l'iniziazione​​ cristiana​​ dei​​ fanciulli​​ dagli 8 ai 12 anni.​​ Testo​​ base per gli autori di​​ pubblicazioni​​ cat. e i responsabili​​ della​​ pastorale, Leumann-Torino, LDC, 1981.

Germania​​ R.F. –​​ Gemeinsame​​ Synode​​ der Bistümer in der Bundesrepublik Deutschland,​​ Der Religionsunterricht in der Schule,​​ in​​ Gemeinsame Synode der Bistümer in der Bundesrepublik Deutschland. Beschlüsse der Vollversammlung. Offizielle Gesamtausgabe​​ I, Freiburg im Br., Herder, 1976, 123-152. Trad. ital.:​​ Scuola e insegnamento della religione.​​ Sínodo​​ nazionale delle​​ diócesi​​ della Germania​​ Fedérale,​​ Leumann-Torino, LDC, 1977.

Sachkommission der Gemeinsamen Synode der Bistümer in der Bundesrepublik Deutschland,​​ Das katechetische Wirken der Kirche. Ein Arbeitspapier,​​ in L. Bertsch et al. (ed.),​​ Gemeinsame Synode der Bistümer in der Bundesrepublik Deutschland. Offizielle Gesamtausgabe.​​ II. Ergänzungsband:​​ Arbeitspapiere der Sachkommission,​​ Freiburg, Herder, 1977, 37-97.

Gran Bretagna​​ ​​ The Bishops’ Conference of England and Wales,​​ Teaching the Faith. The New Way,​​ Slough, St. Paul Publ., 1973 (trad. del RdC​​ italiano);​​ Nichols​​ K.,​​ Guidelines​​ for Religions​​ Education.​​ Vol. I:​​ Cornerstone,​​ Middlegreen, Slough, St.​​ Paul Pubi.,​​ 1978.

Italia –​​ Conf. Episc.​​ Italiana,​​ Catechismo​​ per la​​ vita cristiana.​​ 1.​​ Il​​ rinnovamento​​ della​​ catechesi,​​ Roma, Ed. Conf. Episc.​​ Italiana,​​ 1970.

Messico –​​ Comisión​​ Episc. de​​ Evangelización y​​ Catequesis,​​ Directorio Nacional​​ para la Evangelización y Catequesis,​​ México,​​ Conf.​​ Episcopal,​​ 1971.​​ Olanda –​​ Hoger Katechetisch Instituut,​​ Grondlijnen voor​​ een​​ vernieuwde schoolkatechese,​​ Nijmegen,​​ Hoger Katechetisch Instituut, 1964. Trad. ital.:​​ Linee fondamentali per una nuova catechesi,​​ Leumann-Torino, LDC, 1969.

Spagna –​​ Comisión​​ Episc.​​ de​​ Enseñanza​​ y Catequesis,​​ La catequesis de la​​ comunidad.​​ Orientaciones pastorales​​ para la catequesis​​ en España, hoy,​​ Madrid, EDICE, 1983.

USA​​ ​​ United States Catholic Conference,​​ Sharing​​ the Light of Faith.​​ National Catechetical Directory for Catholics of the United States, Washington, United States Catholic Conference, Department of Education, 1979. Trad, ital.:​​ Condividere​​ la luce della​​ fede.​​ Direttorio​​ catechistico​​ nazionale​​ dei cattolici degli Stati Uniti, Leumann-Torino, LDC, 1981.

Emilio Alberich

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DIRETTORI CATECHISTICI NAZIONALI

DIRETTORIO CATECHISTICO GENERALE

 

DIRETTORIO CATECHISTICO GENERALE

Il DCG fu pubblicato dalla S. Congr. per il Clero (= SCC) l’11 aprile 1971. Si tratta di un testo ufficiale, alla cui origine sta una precisa raccomandazione del Concilio Vaticano II: “Si rediga ... un direttorio catechistico per la formazione del popolo cristiano...” (CD 44).

1.​​ Genesi.​​ La SCC, dopo aver interpellato in merito le Conferenze Episcopali mediante un questionario e averne diligentemente raccolto i pareri, incaricò nel 1968 una speciale Commissione di esperti, che ne curasse la redazione. Nei primi mesi del 1969 fu portato a termine dalla Commissione un primo abbozzo di Direttorio, che fu subito sottoposto all’esame di tutte le Conferenze Episcopali. Tenendo conto delle osservazioni ricevute, la Commissione degli esperti, nell’autunno del 1969,​​ poté​​ procedere alla redazione del testo definitivo. Questo però fu sottoposto ulteriormente a una speciale Commissione di teologi, che apportò varie correzioni al testo e vi aggiunse come appendice 1’”Addendum”. Il testo così corretto fu infine sottoposto all’esame e all’approvazione definitiva della S. Congregazione per la Dottrina della Fede. Alla redazione di questo documento, molto importante per la C., contribuirono dunque catecheti e teologi, con prevalenza dei secondi per quanto riguarda l’ultima redazione. Non deve meravigliare perciò se il testo definitivo presenta qualche discontinuità di impostazione e di stile, dovuta principalmente alle aggiunte e correzioni apportate nelle successive redazioni.

In appendice al DCG fu collocato un “Addendum” sulla “Iniziazione ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia”, il cui contenuto va considerato come qualcosa di distinto dal DCG, anche se la sua approvazione da parte della S. Sede avvenne contemporaneamente a quella del Direttorio.

2.​​ Natura, valore e finalità.​​ Il DCG non è un “catechismo universale”. L’idea di scrivere un “catechismo unico” per tutta la Chiesa fu scartata fin dall’inizio dei lavori della prima commissione. Il DCG è invece un complesso di principi e di norme, di natura teologica e metodologico-pastorale, ispirati al Concilio Vaticano II, con la funzione di orientare e coordinare, a livello di Chiesa universale, l’azione pastorale nel campo della C. Per quanto riguarda il valore normativo di tale documento, nella presentazione ufficiale di esso, fatta dalla SCC, si afferma chiaramente che non tutte le sue parti “hanno una uguale portata. Le parti che trattano della divina rivelazione, della natura della C., dei criteri di annuncio del messaggio cristiano e dei suoi più importanti contenuti, hanno valore per tutti”. Le altre parti invece, “siccome vengono in gran parte desunte dalle scienze umane... sono da accogliere piuttosto come indicazioni e suggerimenti” (p. 6 ed. ital.).

Destinatari principali del DCG sono i vescovi, le Conferenze Episcopali e quanti, sotto la loro guida, hanno responsabilità nel settore della C. Esso dovrebbe servire come quadro generale per la redazione dei → Direttori Catechistici particolari e dei → Catechismi.

3.​​ Contenuti principali.​​ Il DCG si divide in sei parti: I. Si mette in luce l’attualità del problema attraverso un’analisi della situazione del mondo contemporaneo e della Chiesa. II. Si cerca di spiegare la natura e le funzioni della C., situandola all’interno del ministero della Parola e formulandone la legge fondamentale: fedeltà a Dio e fedeltà all’uomo. III. Si stabiliscono i criteri che devono presiedere al reperimento e alla presentazione dei contenuti del messaggio cristiano nella C., definendone contemporaneamente gli elementi essenziali. IV. Si elencano senza pretese di completezza alcuni principi metodologici che devono presiedere alla C. V. Si descrivono i destinatari della C. secondo il criterio dell’età: fanciulli, preadolescenti, adolescenti, giovani e adulti. VI. Sotto il titolo di “La pastorale del ministero della Parola” si offrono orientamenti generali per la progettazione e l’organizzazione della pastorale catechistica.

4.​​ Valutazione.​​ Il DCG rappresenta un momento importante nella realizzazione delle istanze pastorali di rinnovamento, emerse nel Concilio Vaticano II, e viene incontro alle esigenze più vive della C. contemporanea, costituendo un tentativo coraggioso ed equilibrato di affrontare apertamente i problemi scottanti che la cultura pone oggi alla fede. Le parti più valide sembrano essere quelle che riguardano sia la natura e le funzioni della C. (nn. 17-35) che i criteri dei suoi contenuti (nn. 36-46). L’aver messo l’accento sulla dimensione evangelizzatrice di ogni C. (n. 18); il considerare la C. degli adulti come la forma principale della C. (n. 20); l’aver accettato l’istanza antropologica, propria della C. contemporanea (nn. 21, 34, 37, 38, 42, 46), e l’aver messo in luce la dimensione educativa di ogni autentica C. (n. 30), ecc., sono da considerarsi tra le intuizioni più significative del DCG.

Bibliografia

5.​​ Congregatio​​ pro​​ Clericis,​​ Directorium Catechisticum Generale,​​ Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 1971 (anche in AAS 64 [1972] 97-176).​​ Trad,​​ ital.:​​ Direttorio Catechistico Generale;​​ Leumann-Torino, LDC, 1971;​​ Directoire Catéchétique General.​​ Traduction​​ française​​ et commentaire du Directorium Catechisticum Generale, Paris,​​ Association​​ Episcopale Catéchétique, 1971; S. Goretti,​​ Para una​​ interpretación​​ del​​ Directorio,​​ in “Catcquesis​​ Latino-americana”​​ 5​​ (1973) 18, 29-44; B.​​ Marthaler,​​ Catechetics in​​ Context.​​ Notes​​ and Commentary on the​​ General​​ Catechetical​​ Directory,​​ Huntington,​​ Our Sunday​​ Visitor, 1972; J.-J. Rodrìguez-Medina,​​ El Directorio catequístico​​ General,​​ in “Sinite» 12 (1971) 387-396.

Giuseppe Groppo

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DIRETTORIO CATECHISTICO GENERALE

DIREZIONE SPIRITUALE

DIREZIONE SPIRITUALE

Antonio Martinelli

 

1. Problemi

1.1. Direzione: perché?

1.2. Direzione: verso dove?

1.3. Direzione: come?

1.4. I movimenti carismatici

2. Le prospettive

2.1. Pastorale giovanile e «direzione spirituale»

2.1.1. Il livello della personale vocazione

2.1.2. Il livello della spiritualità

2.2. Obiettivi della «direzione spirituale»

2.2.1. Dalla dispersione al centro esistenziale

2.2.2. Dal centro esistenziale al senso della realtà

2.2.3. Dal senso della realtà alla compagnia

2.2.4. Dalla compagnia alla trascendenza

3. Le dimensioni

3.1. La dimensione «spirituale»

3.1.1. Accompagnamento spirituale e integrità psichica

3.1.2. Accompagnamento spirituale e salute spirituale

3.1.3. Accompagnamento spirituale e vita nuova in Cristo

3.2. La dimensione di «direzione»

3.2.1. La fede in Dio non va più da sé

3.2.2. Necessità di orientamento alla vita cristiana

3.3. La dimensione «comunicativa»

3.3.1. Una comunicazione piena non vuota

3.3.2. Una comunicazione calda non teoretica

3.3.3. Modelli di comunicazione

3.3.4. Alcune esigenze della comunicazione

3.4. La dimensione «educativa»

3.4.1. 1 principi che reggono una relazione educativa

3.4.2. Accompagnamento spirituale e animazione culturale

3.5. La dimensione «ascetica»

3.5.1. La novità della preghiera

3.5.2. La novità della legge

3.5.3. La novità del sacramento

4. La pratica

4.1. Il «direttore spirituale»

4.1.1. Il suo volto interiore

4.1.2. Il suo volto esteriore

4.2. Il gruppo giovanile forma comunitaria di guida spirituale

 

1. Problemi

Alcuni fondamentali temi dell’esistenza cristiana ritornano puntualmente nella riflessione e nell’organizzazione della vita; particolarmente quando spira aria di crisi o di rinnovamento. Hanno bisogno di essere ripensati per una riformulazione che si adatti alle nuove esigenze.

Il ricupero della memoria si presenta portatrice di semi fecondi. La storia della «direzione spirituale» è ricca della vita delle comunità: momenti di splendore seguono a fasi di stanchezza. Ecco alcuni problemi.

 

1.1. Direzione: perché?

C’è un rifiuto per la riproduzione del rapporto padre-figlio sul piano religioso. Si tratta di manipolazione o di ricatto affettivo? Perché dare spazio a una struttura di autorità che privilegia l’obbedienza di fronte alla creatività? La sottomissione nei confronti della autodeterminazione? La crescita all’ombra di altri che poco spazio lasciano alla ricerca della propria identità?

La nostra generazione e la cultura attuale si trovano su altre sponde molto lontane. Nessuno può essere il frutto di un altro. Si ricerca un rapporto configurabile come da adulto ad adulto, in cui il rispetto e il sostegno vicendevoli rassicurano dell’esito positivo. Ogni forma di colonialismo e ogni specie di controllo non creano un rapporto «secondo lo Spirito».

La forte e suggestiva personalità di un uomo non può essere scambiata con la capacità di «direzione spirituale». Tanti uomini, chiamati carismatici e che pullulano in tutti gli ambienti, non solo religiosi, non vanno subito definiti «direttori spirituali».

 

1.2. Direzione: verso dove?

11 sospetto più grave oggi è rappresentato dall’abdicazione alla personale responsabilità. La ricerca della «volontà di Dio» non è un’operazione da narcisisti o da illusi. Una scorretta educazione fa parlare della volontà di Dio in termini poco evangelici. Tutto viene ricondotto a una volontà che sovrasta e richiede esecuzione cieca e immediata. Accettare le realtà più varie (dal cattivo tempo a una riuscita nella professione), fare proprie le situazioni più disparate (da un lutto a una gioia non programmata), eseguire senza reticenze e tentennamenti le indicazioni più diverse (dall’osservanza dei comandamenti di Dio ai desideri dei propri genitori), tutto viene incluso nella volontà di Dio, riducendo quest’ultima a un immenso e indefinito contenitore materiale.

Un modo di accostare la parola di Dio che privilegia la dimensione del dono senza il seguito dell’impegno operativo; un sentire il rapporto chiesa-mondo che è più vicino al collateralismo che al servizio; un vivere il momento dell’incontro con Dio nella preghiera come rassicurazione di fronte ai conflitti della vita quotidiana, sembrano avallare un atteggiamento di «fuga».

La «direzione spirituale» è funzionale se è collocata all’interno di un progetto comunitario che aiuta a crescere nella risposta a' dono ricevuto; altrimenti si carica di tanta ambiguità e perde la sua forza educativa.

 

1.3. Direzione: come?

Sono state elaborate due proposte operative per guidare nell’esperienza di fede un credente. La prima è centrata sul gruppo. La seconda è centrata sul dialogo interpersonale. Riconosciamo i limiti di una fiducia incondizionata nel gruppo. C’è un’affermazione di principio che trova favorevoli tutti gli operatori. La comunità è sempre dentro il discorso di fede, anche quando interessa un solo credente. L’appartenenza a un gruppo risulta la variabile più significativa ed efficace nella maturazione religiosa dei giovani. Accanto all’affermazione positiva c’è però da porre un rilievo critico e negativo. «Quando un gruppo fagocita la libertà e la decisionalità dei suoi membri, essi non sentono affatto l’esigenza di decentrarsi verso altre istituzioni: il gruppo è così rassicurante ed involvente, che si teme appassionatamente di uscirne. Il gruppo diventa totalizzante e autoescludente» (Tonelli R.,​​ Gruppi giovanili e esperienza di chiesa, Las, Roma 1983, p. 82). Non vanno dimenticati i limiti della fiducia nella «buon parola» a-tu-per-tu. La tentazione principale è quella del «guru». Non si tratta di concentrare le persone sulla mia persona, né di orientarle sul proprio intimo, perché assorbano quasi come spugna tutto ciò che viene indicato. Si tratta invece di rivolgere il comune sguardo, della persona che dirige e di colui che è diretto, verso il Signore della vita per entrambi.

 

1.4. I movimenti carismatici

La situazione ecclesiale odierna registra un fatto nuovo e inaspettato: i movimenti carismatici. Interessano direttamente il tema della «direzione spirituale».

Si manifesta in modo chiaro e insistente la ricerca di maestri di spiritualità. Si vogliono approfondire le esigenze che derivano dal dono del battesimo e dalla grazia dello Spirito. Si cerca di rispondere alle esigenze che emergono, prevalentemente, attraverso la costituzione dei gruppi di preghiera; il riferimento costante alla Parola di Dio; il dialogo spirituale; la presenza di chi, autorevole e riconosciuto maestro, a nome della chiesa offre una catechesi legata alla tradizione; la conversione del cuore; la riflessione e lo studio sistematico della Parola di Dio; la partecipazione a «seminari della vita nello Spirito», e molte altre iniziative sempre a sfondo religioso-spirituale.

Non mancano rischi e ambiguità. Il primo: l’elitismo. Il modo di parlare, il comportamento nei confronti degli altri credenti non immessi nel cammino del rinnovamento nello Spirito, alcune forme di accostamento ai problemi della salvezza rischiano di chiudere in ambiti ristretti gli appartenenti al movimento.

Il secondo: il fondamentalismo. La S. Scrittura è il luogo privilegiato del rinnovamento carismatico. Costituisce il punto di riferimento per la preghiera, per la riflessione, per l’azione evangelica. Il Concilio ha dato orientamenti precisi in questo senso. C’è il rischio che si assuma in maniera materiale con il rifiuto di ogni mediazione culturale l’indicazione biblica. Potrebbe così svanire la «direzione spirituale» che è insita nella Parola di Dio.

 

2. Le prospettive

 

2.1. Pastorale giovanile e «direzione spirituale»

L’educazione alla fede nella passione per la vita definisce l’obiettivo della pastorale giovanile e rappresenta il luogo in cui la compagnia spirituale ha modo di esprimersi su due livelli, ugualmente importanti e specifici: il piano della vocazione e il piano della spiritualità.

 

2.1.1. Il livello della personale vocazione

La «direzione spirituale» tende a formare l’uomo virtuoso e il credente virtuoso, anzitutto; orienta, in altre parole, alla decisione personale da credente. «Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me» (Gal 2,20). Paolo non descrive solo la sua eccezionale esistenza di mistico, ma la comune, sublime realtà cristiana. Smentisce che per non essere «mondani» sia necessario azzerare lo specifico umano. Il cristiano nel mondo non è né un anomalo né un anormale.

Decidere da credente è una ricca prospettiva. Ogni decisione vuole alcune condizioni indispensabili. Comporta cambi, da una parte, e consolidamenti, dall’altra. Ogni decisione porta con sé alcune esigenze. Decidere è far crescere la persona, è puntare sulla formazione della coscienza e della responsabilità, è rendere critici sulle decisioni che frequentemente vengono indotte, aiutare a ritrovare il senso e la forza della solitudine personale.

Ogni decisione procede verso orizzonti sempre più personali. Nella solitudine è possibile quel processo di personalizzazione e di interiorizzazione dei valori e delle proposte cristiane che devono diventare il riferimento continuo delle scelte.

Si noti, a partire dalle precedenti osservazioni, la differenza tra confessione e «direzione spirituale». È diverso, anzitutto, l’obiettivo. Nel sacramento si tratta di remissione dei peccati. Lo sguardo è rivolto al superamento del passato. Il servizio che si rende con la «direzione spirituale» cerca nella decisione il futuro che attende.

È diverso, poi, il senso globale dell’intervento. Il perdono sacramentale dei peccati è un evento oggettivo. Non dipende dalla sensibilità del confessore o della dirigibilità psicologica del penitente. Nella «direzione spirituale» entrano in gioco vari elementi legati a fattori umani che vanno presi in considerazione per il compimento del cammino vocazionale.

Infine sono diversi i soggetti interessati ai due processi.

In quello sacramentale, il sacerdote opera in persona di Cristo e con l’incarico avuto dalla chiesa. Nella «direzione spirituale», l’adulto nella fede opera perché scelto da un altro credente come suo compagno di cammino.

La diversità non significa l’incomunicabilità e la vicendevole non curanza. Sottolineare però la diversità comporta richiamare una caratteristica interessante della «direzione spirituale»; è una realtà «laica». Difendere quest’affermazione significa espandere la responsabilità all’intera comunità e non riservarla unicamente al sacerdote. C’è qui ampio spazio per valorizzare i doni degli educatori e di quanti hanno un carisma particolare di orientamento e di accompagnamento nella fede. Resta sempre vero che non ci si può inventare né guide spirituali di comunità, né «direttori spirituali» di singoli.

 

2.1.2. Il livello della spiritualità

È l’uomo nella sua totalità che viene preso in considerazione dalle scienze umane, e nella sua totalità appartiene al campo dello spirituale. Il fisico, lo psichico e lo spirituale si compenetrano: non va dimenticato nella pratica formativa.

Compito della «direzione spirituale» è sostenere il credente nel vivere la realtà di ogni giorno con senso religioso. La mistagogia è la spiritualità del quotidiano prima che la spiritualità nel quotidiano. Evidentemente richiede un lungo processo di educazione e di comprensione della realtà, incominciando dalla propria vita, da sé stessi. La «direzione spirituale» diventa così uno strumento e un’occasione per imparare a vivere la realtà di ogni giorno con senso religioso.

La spiritualità non è un piano costruito al di sopra e al di fuori della vita abituale, dell’esperienza quotidiana, della ricerca della propria identità. Costituisce invece il quadro portante di tutta l’esistenza. La spiritualità è nella vita. Staccarsi dalla vita è rigettare l’impegno spirituale. La vita spirituale costruisce l’ordito della trama di tutte le relazioni che ogni persona intesse.

Non sarà mai sottolineata abbastanza l’importanza dell’adulto in tutto questo processo. Il ruolo della sua persona e della sua vita, il peso dello stile e delle modalità che adotterà, avranno incidenza determinante nella storia che il giovane vive.

 

2.2. Obiettivi della «direzione spirituale»

Esprimo gli obiettivi attraverso quattro tappe.

 

2.2.1. Dalla dispersione al centro esistenziale

È il processo della riformulazione di sé. Interessa l’aspetto somatico, anzitutto.

È la riconquista del rapporto con il proprio corpo. Rientrano qui gli esercizi di respirazione, le tecniche delle varie posizioni del corpo, l’esperienza dell’ascolto e della percezione della musica, ecc.

È la riconquista del rapporto con la materia, con l’oggettivo esterno. Un testo, l’esperienza di un’altra persona, una comunicazione verbale vanno raggiunti in modo fedele, senza travisamenti e pregiudizi. È come incarnare lo spirituale nel corporeo.

È la riconquista dell’ordine che libera. Una giornata di deserto e l’esperienza del deserto hanno una funzione legata all’esercizio pratico di imparare a ripartire il tempo e a organizzare le attività, facendo rientrare tutto ciò che è stato programmato, senza sacrificare al capriccio o al disordine elementi e aspetti di esperienza.

L’animazione può essere paragonata a un’azione che crea nello spazio caotico, illimitato e indifferenziato in cui si dice il desiderio e in cui risuonano gli istinti e le più paurose ferinità arcaiche, un microcosmo organizzato dotato di un centro nel quale il giovane può tanto conoscere e controllare i propri inferi (l’inconscio individuale e collettivo), quanto entrare in contatto con il cielo (i valori e la fede), rimanendo però ben radicato sulla terra (la coscienza, la razionalità umana e la dialettica).

È la riconquista del centro come determinazione della personale vocazione. Può essere infatti interessante rielaborare il simbolismo del centro in chiave educativa moderna, proponendolo non più come centro sacro, bensì come centro esistenziale, come luogo che consente alla persona una più approfondita ricerca di sé e del senso della propria esistenza. Attorno al centro si organizzano quindi tempo e spazio, la vita cioè, perché l’uomo visto nella sua concretezza è inserito in un determinato spazio non solo geografico ma anche culturale e in un tempo particolare non solo cronologico ma esistenziale. A partire dal centro l’uomo impara a controllare gli eventi in cui si trova coinvolto e dà loro di volta in volta un senso originale. Come un magnete dispone attorno a sé secondo un disegno di forze la polvere di ferro, così il centro lentamente costruisce in maniera organica le diverse istanze ed esperienze della vita. È la riconquista della spiritualità come sintesi esistenziale. La «direzione spirituale» consiste in gran parte nel far trovare all’altra persona l’orientamento più significativo dell’esperienza. Vanno collocati in questa linea i diversi strumenti da utilizzare nella riformulazione del sé: la preghiera, gli esercizi spirituali, i momenti di riflessione e di ricerca religiosa. Servono al superamento dell’illusione in vista di un reale altruismo; alla transazione da un io-infantile e da un iopaterno a un io-libero; all’integrazione dei vari aspetti della vita, in specie di eventuali traumi infantili e della sessualità.

Il lungo processo descritto riconosce che c’è un senso nelle cose e c’è un senso diffuso che ha bisogno di scoperta e di accoglienza. Il già dato e già presente vanno riconosciuti. Alcuni eventi personali e comunitari hanno maggior rilievo, in quanto in loro emerge con maggiore intensità e forza evocativa il senso complessivo della vita. Vanno meglio valorizzati perché più capaci di risvegliare la coscienza personale e di mettere in moto comportamenti e atteggiamenti espressivi della riformulazione di sé.

 

2.2.2. Dal centro esistenziale al senso della realtà

È il processo della riformulazione della fede. Il centro non va ridotto ad esperienza psicologica. Esso ha anzitutto rapporto con il senso della realtà. L’esperienza manifesta che rincontro con il proprio essere interiore ingenera, in un primo momento, una grande confusione: non si riesce a distinguere attorno a sé il perché e l’orientamento delle cose. C’è bisogno di luce e di chiarezza. Bisogna fornire ai giovani i mezzi perché entrino nelle proprie esperienze e trovino le nicchie in cui possa annidarsi la presenza di Dio.

La chiesa e la storia dell’umanità sono spesso simili a una donna incinta: è sformata, brutta, pesante: ma dentro vive e cresce il Cristo, l’uomo nuovo che fa nuova ogni cosa; perciò è nello stesso tempo splendida! In questo senso fede è appropriazione della vita. Il consolidamento del centro porta alla mistagogia, introduce cioè ai misteri della fede, come dice Cirillo di Alessandria. La mistagogia indica strade analoghe per mettere l’esperienza e l’attesa dell’uomo in sintonia con la verità e promessa divina. Attraverso la «direzione spirituale» deve crescere l’esperienza di muoversi in un grande edificio religioso, le cui singole colonne e quadri non devono né possono essere tutti chiari nel loro significato.

Qui il metodo della correlazione: lanciare ponti tra esperienza e rivelazione. La via mistagogica esigerà sempre due momenti: esperienza e superamento dell’esperienza, la gratificante esperienza della sicurezza e il rischio di fare un passo nell’ignoto.

La capacità contemplativa, come simpatia verso le cose e accoglienza del senso che si portano dentro, anche quando è povero e bisognoso di essere aiutato a crescere, rende la natura intera amichevole e nulla di ciò che è umano risulterà straniero: né la gioia, né il dolore, né il vivere, né il morire. La fede esige intensità ed espansione dell’essere. Non immiserisce l’uomo. La fede è radice perché sopra si sviluppi un albero ricco di fiori e di frutti.

Arrivare al senso della realtà comporta non lasciarsi assorbire dall’urgenza e dall’immediato, ma accordare alle cose un lungo e sereno sguardo interiore. Nascono allora una serie di domande.

Chi mi può svelare il significato del mondo e della vita? O anche soltanto dire che esiste un significato? Chi mi può annunciare che la vita è buona, e questa bontà può permeare i miei rapporti con tutto quanto mi circonda: uomini e cose, natura e storia, spazio e tempo? La domanda spinge alla riformulazione della fede.

 

2.2.3. Dal senso della realtà alla compagnia

È il processo della riformulazione della carità.

La carità è il concreto-ricco, la scoperta del dono che vive nelle cose e nelle persone. Una compagnia capace di dare rilevanza al tempo e allo spazio come dimensioni dell’uomo: ritrovando le radici comuni nella storia che si vive e insieme si costruisce, e riscoprendo i segni dell’amore di Dio, i simboli della sua presenza nello spazio che siamo chiamati a popolare.

La carità è la libertà personale che non pone condizionamenti a nessuno, anche se richiede a tutti le condizioni necessarie perché si realizzi una oblatività convinta e generosa. La carità è la pace con tutti, cioè una forma di ricomposizione voluta e ricercata, un saper attendere.

La compagnia è attesa, nella sua sostanza più profonda. Non c’è motivo di vivere se non c’è nessuno per cui vivere. L’attesa è alla base della speranza, della meraviglia, della novità, del desiderio, della vita. «Ti aspetto» va oltre la morte ed è la più profonda espressione del fatto che la fede e la speranza possono passare, mentre l’amore rimane per sempre. «Ti aspetto» è un’espressione di solidarietà che infrange le catene della morte. Nessuno può rimanere in vita se nessuno lo aspetta.

La carità è la giustizia che sa attribuire a ciascuno il suo. Non basta fare il giusto; bisogna essere giusti, con gioia e senza titubanza. La «direzione spirituale» per essere in sintonia con la riformulazione della carità deve mostrare quali e dove sono i luoghi ciechi e unilaterali nel giudizio. Può aiuare a capire motivazioni non pulite; attenuerà l’esuberanza e aiuterà a superare momenti di tiepidezza. La «direzione spirituale» può e deve sempre interpretare il ruolo del «sobrio» e dell’«oggettivo», ma capirà che non può mettersi al fianco di uno, se non è egli stesso impegnato nella vita spirituale. Da quando Dio si è fatto uomo, è l’uomo che ha il potere di guidare il fratello alla libertà, alla pace e alla giustizia.

 

2.2.4. Dalla compagnia alla trascendenza

È il processo della riformulazione della speranza.

La «direzione spirituale» coltiva il grano che cresce nel campo, non tiene i legumi sott’olio, in conserva. La speranza è Poltre. Il cammino iniziato tende a Dio. Non è da pensare che si possa fare a meno delle mediazioni umane sempre necessarie, dal momento in cui l’incarnazione ha indicato la via dell’incontro con Dio, l’unica via che a noi è data percorrere.

Nel servizio di «direzione spirituale» né la singola persona, né il gruppo che mediano l’incontro con Dio hanno il diritto di fermare il cammino nella compiaciuta soddisfazione del compito e dell’aiuto che danno. Pedagogicamente e teologicamente bisogna aiutare ad andare «oltre».

La conversione globale che sottostà al cammino della crescita e della risposta al dono non si esaurisce nelle prospettive terrene e immediate. Rimanda a una realtà che trascende la propria esistenza.

Il riconoscimento di Dio e della sua trascendenza, la ricerca continua di adeguamento al disegno del Padre, l’armonizzazione delle scelte che si aprono continuamente a orizzonti nuovi invocano una riformulazione della speranza.

Si scopre così la vocazione personale. Per questo ogni «direzione spirituale» deve coinvolgere questa dimensione.

Vocazione è la percezione della storia della salvezza che si compie nel contributo responsabile di tutti. Vocazione è la gioiosa scoperta del dono che Dio fa a ciascuno perché possa rispondere alla chiamata del Signore e dei fratelli.

Vocazione è sperimentare, nelle esigenze del prossimo e nelle attese dei fratelli, Dio che cerca cooperatori al suo intervento (cf 1 Cor 3,9; 1 Ts 3,2).

 

3. Le dimensioni

 

3.1. La dimensione «spirituale»

È da rileggere in modo nuovo il qualificativo «spirituale».

Proviamo a enucleare alcune fondamentali esigenze del termine attorno a un asserto fondamentale: una spiritualità della vita quotidiana.

La vita nuova o la vita nello Spirito non è più pensabile isolata dall’esistenza concreta dell’uomo. Non c’è una spiritualità disincarnata, cioè al di fuori dei contesti della quotidianità. «Quotidiano» qui significa riferirsi alla struttura psicologica e spirituale di una persona.

 

3.1.1. Accompagnamento spirituale e integrità psichica

La «direzione spirituale» è l’aiuto che viene dato in vista della costruzione della personalità che sappia fare sintesi in una spiritualità. L’uomo e il credente vivono bene insieme. L’ambito che immediatamente va curato e reso idoneo a ricevere la presenza e l’opera mediata dello Spirito è la sanità psichica. Lo Spirito Santo non si sostituisce allo psichismo dell’uomo. È vero anche, d’altra parte, che lo Spirito Santo opera in qualunque cuore e in tutte le situazioni di vita.

La riformulazione della fede e la convinzione che l’opera dello Spirito Santo si serve di questa prima mediazione, l’integrità psichica, spingeranno a creare un clima che libera dall’oppressione affettiva. Solo così si sprigioneranno le forze interiori, le energie originarie del giovane.

Un entusiasmo acritico, una fragilità psicologica, una ricerca di sicurezza deresponsabile nuocciono a ogni forma di spiritualità.

 

3.1.2. Accompagnamento spirituale e salute spirituale

Non si può parlare di spiritualità in un contesto di pessimismo e di nichilismo. Non si può fare «direzione spirituale» senza calarsi in modo sereno e costruttivo dentro la cultura che si vive. La sanità spirituale comprende molti versanti dell’esperienza.

Anzitutto, avere fiducia nella storia. La fede naturale dice lo star bene, a proprio agio, con un pizzico di soddisfazione, nella scoperta del bene che ognuno ha con sé: è l’accoglienza che allarga i confini oltre le persone per accettare gli esiti del lavoro dell’uomo. In secondo luogo, non perdere mai il coraggio d’andare avanti, nonostante le difficoltà. Un’opera necessaria va compiuta: aiutare a trasformare il «nonostante» in un «perché»; le motivazioni che si oppongono, in un punto di appoggio per sollevare la propria piccola storia. Mai fermarsi. Sempre riprendersi.

Una terza espressione di sanità è riconfermarsi di continuo nella certezza che nessuno sforzo è vano e nessuna via è radicalmente senza uscita. La sanità spirituale si nutre di pace nel cuore, di serenità di fronte all’avvenire, di credito accordato nelle possibilità di miglioramento. Nulla è mai completamente perduto. Tutto può evolvere al positivo, quando si riesca a creare le condizioni indispensabili. Un ulteriore quarto atteggiamento diventa significativo: la certezza che la vita ha un senso. L’esperienza quotidiana ci mette a contatto con realtà che risultano provvisorie e relative. Nulla manifesta i segni della continuità illimitata. Tutto sembra destinato a scomparire, perché insignificante. Dall’insignificanza alla mancanza di senso il passo è abbastanza breve. Se le cose non hanno senso, perché interessarsene con la «direzione spirituale»?

 

3.1.3. Accompagnamento spirituale e vita nuova in Cristo

Primo problema: adeguamento alla storia interiore di ciascuno nel cammino e nell’accoglienza del dono di Dio.

Prima dello sviluppo delle scienze umane l’aiuto spirituale era assai meno differenziato. Si offriva a tutti un cammino, un orientamento, una meta comuni.

Oggi non è concepibile agire per grandi linee. La differenziazione nell’aiuto e nell’orientamento, bisogna riconoscerlo, ha avuto l’innegabile merito di purificare, facendo chiarezza e specificità, il carattere «spirituale» della «direzione». La confusione degli ambiti e delle funzioni non reca vantaggio a nessuno.

D’altro canto, insieme alla differenziazione è da valorizzare la interdipendenza con l’unità tra i diversi ambiti della vita. Studiarsi di evitare la confusione, ma anche la separazione dualistica nell’esperienza del giovane è una meta indiscutibile. C’è da ricercare quindi una unità differenziata.

11 secondo problema: la preoccupazione della «direzione spirituale» non è rivolta unicamente alla vita «eterna», ma anche alla vita «presente». Le espressioni «direzione delle anime» e «salvezza dell’anima», o altre similari, non sembrano attente, non solo alle emergenze culturali contemporanee, ma neppure al dato biblico.

La rigida distinzione tra anima e corpo che ha dominato per tanto tempo non solo le formulazioni dottrinali della chiesa, ma ha orientato le sue scelte sul piano morale e spirituale, si trova in dissonanza con la sensibilità odierna. Il linguaggio ecclesiastico è debitore, per tanta parte, a un’antropologia di ispirazione platonica; ne è derivato uno spiritualismo disincarnato, la ricerca di una identità cristiana al di fuori del contesto di oggi. Così pure, per lungo tempo, sono stati usati come contraddittori due termini che invece non vanno opposti: temporale e spirituale. Invero «temporale» si oppone a eterno. «Spirituale» poi si oppone a materiale. L’accompagnamento spirituale si riferisce a cose temporali e spirituali, senza preclusioni e riduzioni, proprio perché cerca il riferimento alla vita dell’uomo. Le cose temporali sono materiali e spirituali. Le cose spirituali sono temporali ed eterne.

 

3.2. La dimensione di «direzione»

Nel contesto dell’incarnazione l’intervento salvifico ha sempre bisogno di una mediazione. È legge di vita. È certezza teologica fondata. È esperienza continua nel cammino e nella fondazione del Regno di Dio tra gli uomini. Come una lingua si perfeziona e si arricchisce attraverso la mediazione e l’aiuto di un insegnante; come la carità evangelica si apprende alla scuola di un testimone dell’amore evangelico; come la sensibilità artistica cerca un maestro d’arte alla cui scuola imparare i segreti del... mestiere, così la crescita cristiana ha bisogno di un educatore della e nella fede.

Da un punto di vista teologico è da richiamare continuamente la necessità delle mediazioni. Qui si colloca la «direzione spirituale». È una forma originale, accanto ad altre, per dare l’aiuto richiesto dalla realizzazione della vita teologale.

 

3.2.1. La fede in Dio non va più da sé

L’invasione dello scetticismo avvolge buona parte dell’esperienza umana. Si resta incerti di fronte alle proposte e alle realizzazioni molteplici che l’uomo va realizzando, perché il tempo che segue cancella e distrugge quanto sembrava ormai conquistato in modo sicuro. Non viviamo un tempo di sapere consolidato. 11 sospetto è diffuso ovunque. Non è esclusa la sfera della vita cristiana. La mediazione testimoniante si è resa indispensabile.

La paura è dietro l’angolo dell’esperienza. Nasce dalla frammentazione come dato soggettivo della vita del giovane e come risultato della pluralità indefinita di occasioni e di scelte. La responsabilità riduce il suo respiro e subisce l’affanno delle variazioni. Sorge insistente il bisogno di una compagnia che orienti e sostenga.

Su un versante completamente diverso, si sente e si vive l’illusione dell’onnipotenza. Le risorse aumentate a dismisura, le realizzazioni facilitate da strumenti raffinati ed efficaci, una progettualità che dà l’impressione di poter governare tutto e avere ogni cosa a portata di mano, creano un’attesa non sempre corrisposta dai fatti. All’illusione fa seguito la delusione.

L’esperienza ridimensiona i sogni illusori. Nella misura in cui l’impegno personale è maggiore e l’aiuto esterno è più qualificato anche lo sviluppo della fede si farà in modo più ricco e profondo.

 

3.2.2. Necessità di orientamento alla vita cristiana

L’integrazione tra fede e vita non risulta sempre facile a quanti vivono periodi di transizione nella vita, come succede ai giovani. La scelta del proprio genere di vita non è agevole per chi aprendosi alla storia e alla responsabilità sente il richiamo di mille voci e di numerosi desideri. Non può essere imposto un comportamento; può essere richiesto un aiuto. Qui si affianca il «direttore» spirituale, che con il dono del consiglio orienta e sostiene le scelte.

La «direzione» richiesta non può essere considerata che una direzione «a termine». Un aiuto ma solo fino al punto in cui il diretto è capace di assumere personalmente la direzione della propria vita.

La «direzione» spirituale come non crea una dipendenza, così non richiede una delega in bianco. Lavora per la crescita delle persone. Ogni maturazione è misurata da un doppio criterio: quello della libertà interiore e quello della responsabilità dei comportamenti. La «direzione» spirituale struttura interiormente la personalità. Aiuta ad assumere punti di riferimento che perdurano nei loro effetti anche a distanza di anni. Ha una funzione reale di accompagnamento per i dinamismi che suscita nelle relazioni che si intessono.

Il «direttore» spirituale in quanto invitato a inserirsi nel dialogo con il proprio Signore da parte di un giovane, e in quanto mediatore di un servizio qualificato e significativo, diventa, in un certo senso, la figura simbolica di Dio che è presente e nascosto nello stesso tempo. Orienta, sostenendo e accompagnando. Muove, illuminando le situazioni e rapportandole alla chiamata profonda iscritta nel cuore di ciascuno. Dirige, mettendo al servizio dell’altro la personale esperienza di Dio.

 

3.3. La dimensione «comunicativa»

Gli antichi consideravano la «direzione spirituale» come una «edoctio» e una «ductio». Le funzioni principali erano raccolte in una «illuminazione» e in una «conduzione per mano».

La «direzione spirituale» è sempre una relazione. Le immagini che vengono utilizzate abitualmente esprimono la profondità dalla comunicazione: paternità, amicizia spirituale, saggezza che forma inculcando criteri e riferimenti che orientino nel cammino.

La «direzione» che tocca l’intelligenza apre orizzonti di partecipazione e di condivisione tipici della comunicazione.

 

3.3.1. Una comunicazione piena, non vuota

Per comunicare non è sufficiente parlare. Non è questione di informazioni espresse. Non si esaurisce nel suono della voce. Parte sostanziale della comunicazione è la condivisione dei dati che vengono offerti. Il vero problema della comunicazione è il problema del messaggio.

Entriamo in un contesto diverso rispetto alla semplice informazione. Ci sono leggi particolari che regolano i messaggi.

La comunicazione è piena quando non è unidirezionale. Si trovano due poli che interagiscono. C’è un emittente, e c’è un ricevente. L’uno e l’altro non restano chiusi, ma aperti e disponibili, perché si incrementi non solo materialmente, ma qualitativamente la banca dati. Sembrerebbe un’operazione semplice e immediata, mentre richiede molti passaggi intermedi, definiti abitualmente «decodificazione e ricodificazione».

Perché l’informazione diventi comunicazione deve trasformarsi in messaggio. Il ricevente deve essere capace di decodificazione dell’informazione, saperla smontare nei suoi elementi, leggerla nelle cifre che offre, comprenderla nel messaggio che invia, ricomporla nel codice personale e trasmettere l’avvenuta recezione.

C’è tanto di messaggio quanto c’è di sovrapposizione di cifra. Altrimenti la comunicazione resta vuota, perché manca la cifra che permette di entrare in comunicazione.

Molti discorsi, tanti dialoghi, numerose informazioni restano inutili e senza risultato, perché non hanno raggiunto la soglia soddisfacente di comprensione cifrata e cioè di messaggio.

 

3.3.2. Una comunicazione calda, non teoretica

L’incontro tra persone può svolgersi a livelli diversi: a livello di intelligenza e a livello di persona. La distinzione vuole mettere in evidenza che c’è una comunicazione settoriale e un’altra globale.

Quella settoriale si preoccupa di alcuni ambiti della vita dell’uomo, mentre quella globale pretende di investire l’esistenza intera. La prima guarda alla comprensione dei termini, la seconda s’interessa del cambiamento della persona.

La comunicazione calda richiede che ci si trovi inseriti in un clima e in ambiente: quello di un gruppo e di una comunità. È questa la dimostrazione più convincente che la salvezza opera nel corpo della chiesa, si fa progetto salvifico, considera suoi destinatari l’universalità degli uomini.

La comunicazione calda è tale per il riferimento alla vita concreta e quotidiana. La vita non è qualcosa che vive accanto all’impegno; non è qualcosa tangenzialmente toccata dall’opera salvifica; non è qualcosa in più tra gli argomenti della «direzione spirituale». La comunicazione calda, infine, prende in esame la prospettiva che si apre dinanzi alla vita. Per un credente, la prospettiva missionaria, sentirsi cioè impegnato e responsabile di fronte ai propri fratelli, è questione di sostanza cristiana. Non è fatto facoltativo, che uno assumerà se avrà tempo e voglia. È il cuore del vivere da cristiano. È quindi obiettivo della «direzione spirituale».

 

3.3.3. Modelli di comunicazione

Come comunicare l’esperienza cristiana personale? La prassi di ieri e di oggi può essere raccolta attorno a quattro modelli fondamentali: dogmatico, storico, liturgico, educativo.

 

1.​​ Il modello dogmatico.​​ Esso privilegia la dimensione dell’autorità. C’è un insieme di verità da cui si deducono, in modo logico e consequenziale, gli atteggiamenti, sia da parte di chi dà, sia da parte di chi riceve l’aiuto. La sequenza allora sarà questa: dalla verità all’intervento magisteriale che propone, spiega e collega i contenuti cognitivi e indica in modo chiaro l’itinerario da percorrere.

La comunicazione della fede si serve dell’autorità come canale di trasmissione e delle strutture di governo come strumenti privilegiati. Non resta spazio di manovra: di fronte a una comunicazione che giunge in forma razionale e in modalità deduttiva non resta altro che obbedire!

Il processo è a senso unico. C’è chi parla e chi ascolta. Chi propone e chi esegue. La relazione che si stabilisce è di dipendenza e di accettazione incondizionata. L’unica possibilità che resta è di ricercare il come adattarsi e adattare la propria vita ai principi da cui si è preso il via.

La preoccupazione veritativa è al di sopra di tutto.

 

2.​​ Il modello storico.​​ Questo secondo modello mitiga alquanto gli aspetti angolosi del precedente.

La parola di Dio e la storia del suo popolo hanno condensato nel tempo un’esperienza ricca. Essa ha in sé la capacità di dare risposte adeguate ai problemi e agli interrogativi che l’uomo incontra nel suo cammino. Attraverso una giusta interpretazione dell’itinerario spirituale del popolo eletto ci si può appropriare soggettivamente dei criteri salvifici oggettivi. Lo sforzo più impegnativo da compiere è quello di sapersi fermare, di saper approfondire, di interpretare in modo cosciente e riflesso i dati della rivelazione, della parola di Dio, della storia e dei segni dei tempi. Si tratta di una riflessione teologica e sapienziale della vita.

Al fondo dell’itinerario ci sarà la personale adesione. Interpellati dalla parola di Dio, espressa in vari modi, non si può restare indifferenti o delusi.

Si assumerà come propria la condotta dei padri della fede.

 

3.​​ Il modello liturgico.​​ Il terzo modello è qui denominato liturgico per i caratteri che presenta di iniziazione, istituzionalizzazione, di trasmissione per inserimento e partecipazione.

Si evidenzia l’aspetto di partecipazione vitale, in quanto ci si sente inseriti in modo diretto e personale nella storia della salvezza, che si esperimenta attraverso quelli che sono chiamati i «simboli della fede».

Sono gli avvenimenti salvifici, sono i segni sacramentali della grazia, sono le parole cariche di memoria del mistero di Cristo. La storia della salvezza è così di fronte a ciascun uomo. Parteciparvi comporta essere iniziati.

 

4.​​ Il modello educativo.​​ Romano Guardini ha elaborato un’utile terminologia. «Personalità» è ciò che irradia, davanti a cui si ha sentore di maturità e di profondità. «Persona», però, è qualcosa di più, è ciò che conta davanti a Dio, è il centro dell’uomo. La persona dell’uomo cresce dalla sua personalità. Nel caso della «direzione spirituale» si tratta in definitiva della persona che si pone di fronte a un’altra persona. Quando essa cerca di far evolvere la personalità di un uomo, è perché nella personalità deve destarsi la persona.

Nella «direzione spirituale» l’apice di ogni sforzo è l’uomo nella sua personale unicità.

Qui sta il criterio per dire se si tratta di «direzione spirituale» e non di manipolazione o simili. Qui è anche la soglia sulla quale si incontrano e al tempo stesso si distinguono teologia e psicologia.

11 processo che ne deriva è attento al dialogo continuo con le situazioni di vita, per stabilire in modo circolare i rapporti, l’orientamento e il sostegno vicendevoli.

Due elementi urgono la scelta del quarto modello: la convinzione dell’educabilità della fede e l’esigenza delle mediazioni nella storia cristiana del credente.

 

3.3.4. Alcune esigenze della comunicazione

La comunicazione dell’esperienza cristiana non passa solo attraverso la «direzione spirituale»: ciò significa tener conto di altre risorse presenti nella comunità. In concreto significa cogliere la «molteplicità» di soggetti, di momenti e di livelli interessati.

È necessaria anzitutto un’articolazione di forme di comunicazione nella comunità. Il soggetto ultimo responsabile è la comunità credente. I soggetti interessati non possono utilizzare criteri e proposte tra loro divergenti. Un semplice collage di interventi non è credibile e non è fruttuoso.

Si rendono indispensabili momenti personali individualizzati e momenti comunitari. È quasi un principio di comportamento pratico il seguente: dove mancano i momenti comunitari devono crescere quelli personali; dove abbondano quelli comunitari potranno essere ridotti gli interventi individuali.

Qui si presenta un altro problema: quali sono le strutture di comunicazione in una comunità credente? Non è esagerato affermare che uno dei motivi e, non ultimo, della languidezza di «direzione spirituale» oggi sia da ricercare nella mancata istituzionalizzazione di momenti comunicativi.

Una terza esigenza va segnalata: la molteplicità dei livelli nella comunicazione. Ciascuno entra con il proprio peso e con l’apporto di cui è capace, vivendo un particolare ruolo e privilegiando alcuni aspetti per lui più importanti ed efficaci in vista dell’obiettivo. Uno interverrà come maestro, offrendo contenuti e strumenti utili; un altro da evangelizzatore, richiamando il piano della storia salvifica in cui siamo tutti immersi; un altro ancora da fratello, accompagnando il più debole; un altro da riconciliatore assicurando

la presenza misericordiosa del Dio che vuole tutti salvi; chi ha il carisma del discernimento spirituale da «direttore di coscienza». Non si può comunicare tutto da tutti, utilizzando un’unica modalità. In un concerto di interventi, si colloca appunto la «direzione spirituale».

 

3.4. La dimensione «educativa»

 

3.4.1. I principi che reggono una relazione educativa

La dimensione educativa contiene, anzitutto, un aspetto di magisterialità, cioè di luce, insegnamento, proposta, stimolo che ha il compito di creare una certa dissonanza cognitiva accettabile dal soggetto, perché si senta sospinto a camminare e a non fermarsi lungo la strada.

C’è tra adulto e giovane una «asimmetria», che va riconosciuta dalle due persone interessate. Un’asimmetria che è relativa'sia ai contenuti della fede, sia agli atteggiamenti che li accompagnano. Non è segno di superiorità da una parte e di inferiorità dall’altra. E indice di differenza, di esperienza diversa. Va accettata fin dall’inizio e utilizzata per gli scopi specifici della «direzione spirituale». Non può essere ignorata, se si vuole compiere un servizio educativo per il giovane.

La dimensione educativa dice l’esigenza di non considerare a compartimenti stagno l’uomo, vivisezionandolo e puntando solo su parti singole per la sua educazione. Le scienze umane rendono ragione di un intervento che si indirizzi a tutto l’uomo. Non interessa l’uomo psichico distinto dall’uomo morale, e questo dall’uomo spirituale: interessa l’uomo, il giovane.

L’educativo non è solo uno sguardo, ma è anche una scelta di vita per l’educatore. Natura educativa esprime l’aspetto di «storicità» nel cammino delle persone.

L’itinerario è sempre capacità di adeguamento; è formulazione adatta al passo di ciascuno e soprattutto del più lento a muoversi; è attenzione alle situazioni esterne per imparare a leggerle non in maniera superficiale. Nasce qui l’interrogativo: chi occupa il posto centrale nella «direzione spirituale»: l’adulto? il giovane? oppure il servizio da rendere, l’aiuto da offrire? La risposta definitiva non sarà mai formulata con il sacrificio di uno dei tre elementi che entrano in gioco.

La dimensione educativa, fedele al compito, opererà nella concordia tra le esigenze e i valori di ciascun elemento.

L’educazione alla fede e la pedagogia soprannaturale rimandano agli operatori nell’accompagnamento spirituale: Dio, la persona del giovane, la comunità credente, l’adulto. Un educatore cosciente del ruolo che è chiamato a svolgere sa tenere abitualmente il suo posto.

 

3.4.2. Accompagnamento spirituale e animazione culturale

L’uomo è natura e corporeità, ma deve realizzarsi come libertà e spiritualità: è questo il compito primario dell’educazione. Mentre la natura tenderebbe a realizzare modelli in serie, quasi dei circuiti stampati e ripetitivi; mentre la corporeità indicherebbe come orizzonte la prospettiva chiusa su sé stessi, la libertà e la spiritualità, l’educazione cioè, cercano una personalizzazione dell’obbidienza della fede.

Rendere responsabili le singole persone, farle capaci di assumere in proprio la loro vita, non delegare nessuno per le decisioni fondamentali da cui dipende la felicità, è il sogno dell’educatore. È indispensabile una vera passione per la vita e per l’uomo, nella linea dell’incarnazione del Figlio di Dio. L’animazione potrà venire incontro e indicare alcuni obiettivi educativi, a partire dall’amore alla vita. Animazione e «direzione spirituale» non si identificano, pur avendo più di un punto in comune. Non si confondono, ma sono tra loro complementari, perché è da pensare a un’animazione che porta alla «direzione spirituale» e questa che rimanda continuamente all’animazione di gruppo e alla relazione educativa.

L’animazione certamente non può andare fino in fondo ai sentimenti intimi di un giovane e dell’impegno profondo e personale che può esprimere: si arresta alla soglia della decisione.

Aiutare il giovane a essere «uomo con» e «uomo per», e dunque a «radicarsi» per «partecipare», investe insieme gli impegni dell’animazione e della «direzione spirituale».

Le persone, i giovani in particolare, devono ritrovare il coraggio di vivere e la gioia di vivere: l’obiettivo è comune all’animazione e all’accompagnamento spirituale.

 

3.5. La dimensione «ascetica»

Ripensare e ricomprendere Gesù di Nazaret e la vita a partire dalla croce: ecco la dimensione ascetica dell’accompagnamento spirituale. Il modello per l’ascesi resta il Signore Gesù. Nel cristianesimo l’ascesi è la sequela di Cristo che si inserì nell’agire storicosociale, vivendovi il suo servizio ai fratelli: la sua rinuncia compiuta con la morte in croce. Ed è a Cristo risorto che il cristiano è esperienzialmente unito nella sua ascesi. Il suo è il cammino verso la Pasqua. Il Vangelo di Giovanni nei capitoli 2, 3, 4 offre a noi oggi i contenuti della conversione. Raccoglie in poche pagine di racconti, di parole, di situazioni le riflessioni che l’apostolo, a distanza di anni, con l’intuito e la forza dello Spirito, in una visione storica universale che collega Antico e Nuovo Testamento e in una capacità di lettura sapienziale che raggiunge i vertici della contemplazione, tramanda all’intera chiesa, come criteri di discernimento e obiettivi dell’accoglienza dell’annuncio salvifico. Gesù è il nuovo segno di Dio. Sostituisce l’antica alleanza con la sua persona e la sua opera. L’ascesi cristiana è lo spazio dato allo Spirito.

 

3.5.1. La novità della preghiera

Il primo cambiamento richiesto riguarda il rapporto con Dio e con la vita: la preghiera. La «direzione spirituale» ha qui un amplissimo campo di lavoro e di impegno. Domanda una non facile ascesi. L’obiettivo non può essere fallito.

Giovanni, in una maniera simbolica, esprime nel capitolo secondo del suo vangelo (cf 2,13-32) la sostituzione del tempio. Sarà la stessa persona del Salvatore il nuovo tempio, perché in lui abita in pienezza il Padre.

La persona di Gesù, la Parola-progetto fatto uomo, diventa il luogo della preghiera e del culto. «Agli antichi culti rituali succede il culto con Spirito e lealtà, l’unico che il Padre accetta e ricerca. Poiché Dio è Spirito, cioè forza d’amore che spinge all’attività, il culto che desidera è che l’uomo, vivificato dal suo Spirito, assecondi il suo impulso con l’attività dell’amore. Dar culto al Padre consiste pertanto nel diventare simili a lui con la pratica dell’amore leale, che comunica vita; si oppone al culto che dà morte ed è contrario alla verità» (Juan Mateos-Juan Barreto,​​ Dizionario teologico del Vangelo di Giovanni,​​ Cittadella editrice, voce «tempio», p. 305).

Dio abita nell’uomo, non in edifici. Finisce con la presenza di Gesù nel mondo l’era del Dio dei templi. È iniziato il tempo del Dio degli uomini. La stessa denominazione di «Padre» fa passare Dio e il rapporto con lui dalla sfera del sacro a quello della famiglia. Dio si mette in relazione con l’uomo donandogli la vita, non esigendo la morte. Non vi sono più due sfere, quella di Dio e quella della vita. La stessa esistenza, dedicata al bene degli altri, è il culto del Padre.

 

3.5.2. La novità della legge

La «direzione spirituale» è tutta orientata a far spazio allo Spirito e a raccogliere la nuova legge dell’amore. Non ha come compito primario la materiale osservanza di codici e di norme. Sospinge invece a costruirsi la legge interiore: lo Spirito è la nostra legge. L’esodo dà una norma consolidata dal tempo per lasciarsi guidare dallo Spirito che viene e va, senza poterlo imbrigliare e possedere, è un’indicazione che vuole essere seria ascesi.

Una figura tipica del vangelo di Giovanni è Nicodemo. È il simbolo dei molti che accostano il Signore senza riuscire a entrare nella novità da lui portata. Gesù afferma che l’uomo può giungere a ottenere pienezza e vita non tramite l’osservanza della legge, ma attraverso la capacità di amare. Solo con uomini capaci di amare fino alla morte si può costruire la vera società umana. L’uomo senza amore è un fallito. La società senza amore è un’utopia irraggiungibile, un sogno che s’infrange nella prima luce del mattino, un desiderio incompiuto. La civiltà dell’amore ha bisogno dell’ascesi dell’amore e della carità fraterna.

 

3.5.3. La novità del sacramento

L’accompagnamento spirituale spesso invita a scoprire le intenzioni profonde delle scelte, impegna a giocare tutta la propria vita per il Bene che ci ha tanto amati. Nell’esperienza di ogni uomo c’è posto per il conflitto tra il provvisorio e il definitivo, tra il segno e la realtà, tra l’immediato e il sostanziale profondo.

Nel suo vangelo Giovanni sgretola un po’ il mito di Mosè, riferendosi alle origini e al ruolo nei confronti suoi (cf Gv 3,31-36). Mosè non ha visto Dio (cf Gv 1,18), non fu lui a dare il pane dal cielo (cf Gv 6,32), e il suo esodo fallì poiché coloro che uscirono dall’Egitto non riuscirono a vedere la terra promessa (cf Gv 6,49-51).

Al Mosè assolutizzato si oppone, nel vangelo di Giovanni, il Figlio, in cui il Padre continua a parlare (cf Gv 12,49-50) e manifesta al mondo le vere esigenze del Regno: l’accoglienza dello Spirito e l’adesione alla volontà del Padre, espressa nel comandamento nuovo.

Ogni sacramento ha la funzione di riportare alla fonte.

Ogni mediatore non può dimenticare che il punto finale del cammino non termina alla sua persona.

 

4. La pratica

Il «direttore spirituale» è attivatore di processi interiori che portano alla valorizzazione del vissuto personale. È mediatore di comunità, perché si colloca come nodo e incrocio di una rete di rapporti da sviluppare e intensificare.

Da un punto di vista teologico e psicologico si può affermare che è sempre pericoloso, e spesso falso, edificare su un maestro isolato tutto l’edificio umano e cristiano. Non si è generalmente chiamati a vivere da eremiti la propria esperienza credente.

L’osservazione induce a concludere che per far risultare efficace un rapporto a dimensione «tu a tu» è indispensabile inserirlo tra molte altre forme di accompagnamento e di orientamento.

Non si dimentichi tra l’altro l’insistenza contenuta nella Regola di san Benedetto (c. 71): l’obbedienza nella vita cristiana è essenzialmente un legarsi insieme nella comunità, un obbedirsi vicendevolmente. Questo rende tutti fratelli, impegnati nello stesso cammino e alla ricerca del comune Signore che parla attraverso il sacramento che è l’uomo. Da qui alcune riflessioni attorno la figura del «direttore spirituale» e la funzione del «gruppo» nella direzione spirituale.

 

4.1. Il «direttore spirituale»

 

4.1.1. Il suo volto interiore

Alla scuola del Cristo autore e perfezionatore della fede (cf Eb 12,1-2) egli è chiamato a vivere intensamente l’esperienza teologale della fede, speranza e carità.

1.​​ Fede​​ è accettazione della vita. L’incontro spirituale tra due credenti è sotto il segno della vita. Il primo atteggiamento non può essere che l’accoglienza di ciò che lo Spirito opera, della vita che cerca le sue espressioni anche semplici e minuscole.

Fede è stupore di fronte alla vita. L’incapacità di meravigliarsi manifesta aridità interiore, comprensione inadeguata della storia e delle persone, senso di superiorità e di indifferenza. Siamo agli antipodi del servizio da rendere. Lo stupore fa parte del bagaglio della guida perché aiuta ad affrontare ciò che sta davanti con gli occhi pieni di attesa, e con la capacità di strappare il velo che ricopre il potenziale che altrimenti resterebbe nascosto. Fede è svelamento della vita. Dire sui tetti ciò che si è scoperto nel silenzio. Esprimere le ricchezze della propria esperienza, in una comunicazione che è partecipazione di Dio. (cf 1 Gv 1,2-3). La vita non è un dato statico e immobile. È un mistero che si rivela nell’incontro continuo tra l’uomo e il suo mondo. La «direzione spirituale» esige questa prima e fondamentale qualifica circa la fede: per il direttore e per il diretto. La vita ha bisogno che le si dia credito e fiducia.

2.​​ Speranza è​​ il valore della fede (cf 1 Cor 15,12-19). Fede e speranza sono le due facce della stessa medaglia della vita cristiana. Ma chi ci rassicura del valore genuino della medaglia? È costruita con materiale prezioso, oppure è una moneta falsa? Il criterio di verifica è la speranza che suscita. E la speranza cristiana non è vuota. È la certezza di ciò che si crede.

Speranza è sapersi sganciare da ogni forma di possesso. Il legame tarpa le ali, taglia le gambe, appesantisce il passo, abbassa lo sguardo, distoglie il cuore, toglie l’entusiasmo. Ogni forma di possesso provoca questi dissesti: possesso di cose materiali, ma anche il possesso delle realtà spirituali. Vivere liberi è cercare la speranza.

Speranza è la forza dell’esodo. Ogni terreno ignoto ci diventa temibile e nemico. Solo la speranza di un esito al cammino che si inizia fa trovare la forza di continuare ancora. Nella «direzione spirituale» il camminare è all’ordine del giorno, è una parte integrante dell’esperienza. Un direttore disperato è una contraddizione. È come pensare a una guida alpina con le gambe amputate!

3.​​ Carità​​ è disponibilità incondizionata. Saranno in molti ad avere fiducia in colui che sa andare fino in fondo nell’esperienza delle persone che incontra. Se sa vivere l’ansia apostolica anche per uno solo, accompagnandosi fraternamente sulla sua strada e lasciandosi coinvolgere nella ricerca, sarà capace di non calcolare la fatica e l’impegno che deriveranno: li accetterà con gioia.

Carità è quindi sincero interessamento. Andare dietro la pecorella smarrita costituisce un servizio verso quelli che sono stati lasciati a sé stessi. Non è la solitudine il problema principale, quanto l’indifferenza degli altri e l’indifferenza verso gli altri.

Carità è cercare il volto di ciascuno. Ogni persona è un mondo, non solo ha un suo mondo. Entrarvi non è facile se non dimenticando i propri interessi e le vedute legate troppo alla realizzazione di sé.

Affermare che la «direzione spirituale» si nutre di carità è dire ancora poco. Nasce dalla carità e conduce verso l’amore più pieno. In questo senso è condizione previa e risultato dell’amore verso il proprio fratello.

 

4.1.2. Il suo volto esteriore

Alla sequela di Cristo mediatore della salvezza (1 Tm 2,5-6), il «direttore spirituale» realizza l’umiltà del credente al di là della risposta dell’esperto. Il rapporto che si crea tra l’umiltà e la qualificazione costituisce ciò che intendo il volto esteriore. Emergono tre caratteristiche.

1. È uno vicino-non catturato, dentro-ma marginale. È una persona concreta, con i piedi per terra, conoscitore delle reali possibilità di servizio. Un fatto è certo: il servizio di accompagnamento e di orientamento risulta necessario più di quanto non si creda. Una seconda certezza non può essere offuscata: il centro della vita, per ciascun credente, è posto al di fuori della propria stessa vita. Si gravita altrove. L’ago della bussola interiore è orientato verso le regioni di Dio. Concretezza e umiltà si realizzano nella maturità umana di chi serve un altro fratello. Per questo si sente vicino ed evangelicamente prossimo, ma sempre un po’ marginale. Il centro è occupato già da un’altra presenza da scoprire e manifestare. Partecipa cordialmente, ma sa che non può e non deve essere catturato da ciò che un altro vive in proprio e con piena responsabilità. Viene chiesta una difficile maturità.

2. È polivalente-non eroico, trascinatore-senza incantare. L’ardita composizione di forze può anche essere detta con altra formula: disposto a ricevere tutto come dono. La qualificazione di cui gode lo pone nella felice situazione di dare, con generosità. Non lo esime però dal ricevere. Incontrare un altro è sempre mettersi nella possibilità di ricevere un dono: se si è attenti e aperti. Sa le parole giuste per suscitare entusiasmo e gioia nella sequela. Ma non ha pretese. Non aspetta risposte ad ogni costo. Non si sente offeso quando manca il risultato sperato. Il servizio senza condizioni è l’espressione più matura dell’umiltà di chi dirige.

3. È qualificato-ospitale, professionista-non manipolatore. Chiunque lo avvicina trova in lui un amico. Non ci sono le barriere della psicologia, e neppure quelle della distanza culturale. L’ospitalità è il tratto più significativo. È per natura accogliente: per il servizio che deve rendere e per essere sacramento della misericordia di Dio. Non sfrutta ai fini di manipolazione la fiducia di cui è depositario. Non addormenta le coscienze in nome della sua capacità di aiuto e di soluzione dei problemi. È invece un suscitatore di responsabilità. La condivisione nel lavoro è la manifestazione più matura dell’umiltà del direttore spirituale.

 

4.2. Il gruppo giovanile​​ forma comunitaria di guida spirituale

Si rimanda il lettore desideroso di approfondire l’argomento a trattazioni specializzate. Le poche riflessioni qui raccolte servono unicamente per valorizzare il lavoro di gruppo come momento di guida spirituale.

II gruppo giovanile è il primo ambiente che è vissuto come guida comunitaria dai suoi componenti. La comunicazione che si stabilisce ha la funzione specifica di educare e di guidare nella crescita e nella maturazione. Si parla qui del gruppo educativo animato. «Un gruppo è animato quando i suoi processi sono arricchiti da una particolare qualità aggiunta, che trasforma tutto radicalmente dal di dentro. Si potrebbe sintetizzare questa qualità dicendo che il gruppo diventa protagonista principale dei processi che lo riguardano.

Viene assicurato da tre elementi tra loro interagenti:

— il gruppo viene considerato soggetto di formazione;

— viene utilizzato il metodo di gruppo nei processi formativi;

— un animatore, con funzione e compiti specifici, attiva all’interno del gruppo in itinerario caratteristico di crescita» (E. Maioli - J.E. Vecchi,​​ L ’animatore nel gruppo giovanile, una proposta salesiana,​​ LDC, pp. 61ss). Nel contesto specifico il gruppo non è visto in termini strumentali, ma è considerato soggetto a tutti gli effetti.

Sono però necessarie alcune condizioni previe, che sintetizzo in cinque caratteristiche. Prima: il gruppo è realmente soggetto quando è un organismo vivente, la cui vitalità trova il criterio di verifica nella capacità di elaborare cultura e di dar vita ad un preciso modo di educare.

Seconda: tutti nel gruppo devono sentirsi educatori, perché ciascuno ha qualcosa da scambiare con gli altri appartenenti al gruppo.

Terza: la presenza dell’animatore è legata alla funzione di interprete autorevole della volontà educativa del gruppo come insieme. Cioè, il gruppo stesso affida ad alcuni un compito specifico educativo in quanto rappresentativi e simbolo della sua volontà educativa. Quarta: l’animatore presente nel gruppo svolge un ruolo primario nei confronti della memoria storica e culturale, cui tutti si riferiranno nella formulazione della propria identità.

Quinta: l’animatore scatena all’interno del gruppo tutti quei processi che moltiplicano le forze reali educative presenti nel gruppo. In questo servizio il gruppo non usurpa a nessun’altra istituzione un compito che non gli spetta. Dona il suo apporto qualificato nell’insieme degli strumenti educativi di cui una comunità gode. Ma in qualche modo si presenta come il riformulatore generale di tutti gli altri strumenti a disposizione.

Al di dentro di questo clima e di questo ambiente si creano i momenti di guida spirituale per l’insieme e di «direzione spirituale» per il singolo.

 

Bibliografia

Ancilli​​ E., La direzione spirituale ieri e oggi,​​ in​​ Seminarium​​ (1977), pp. 1131-1147; Brocardo P.,​​ La direzione spirituale si rinnova,​​ in​​ Seminarium​​ 26 (1977), pp. 157-173; Hostie R.,​​ Caratteristiche del dialogo spirituale,​​ in​​ Civiltà Cattolica​​ 121 (1970), pp. 344-372; Gouvernaire, J.,​​ Note sur les problèmes actuels de la «direction spirituelle»,​​ in​​ Christus​​ 16 (1969), pp. 489-494; Louf A.,​​ L’accompagnement spirituel aujourd’hui,​​ in​​ Vie consacrée 52 (1980), pp. 323-335;​​ Bernard C.A.,​​ L’aiuto spirituale personale,​​ Roma 1968; Brocardo P.,​​ Direzione spirituale e rendiconto,​​ Las, Roma 1966; Laplace J.,​​ La direzione di coscienza o il dialogo spirituale,​​ Ed. Vita e Pensiero, Milano 1968; Schaller J.-P.,​​ Direction spirituel et temps modernes,​​ G. Beauchesne, Paris 1978.

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DIREZIONE SPIRITUALE

Lo scopo principale della d.s. consiste nel favorire la relazione tra l’uomo e Dio e nel vivere profondamente la dimensione interiore e religiosa della vita. Essa, quindi, rappresenta un aiuto specifico che alcuni cristiani si danno per crescere, individualmente e come comunità di fede, nella relazione con Dio, con gli altri, con il mondo, con la storia. Qui, per d.s. intendiamo la modalità che avviene sia al di fuori che all’interno del sacramento della riconciliazione, senza richiamare le questioni specifiche della d.s. istituzionalizzata e che ha luogo nelle situazioni di formazione alla vita consacrata o al sacerdozio. Il tema della d.s. si potrebbe facilmente allargare, per es., all’antichità classica, richiamando i nomi di Plotino, Epitteto, Plutarco, Cicerone, Seneca. Sappiamo pure che forme di aiuto ascetico-morale molto efficaci sono conosciute anche nell’ambito di altre religioni.

1.​​ L’uso del termine.​​ Nonostante alcuni tentativi fatti in questi ultimi decenni per sostituire nel linguaggio cristiano il termine d.s., e di conseguenza eliminare dall’uso anche il termine stesso di​​ ​​ direttore o padre spirituale, è maturata la convinzione che proprio questi vocaboli risultano i migliori. L’idea della sostituzione dei termini tradizionali è stata motivata da una documentabile esperienza di d.s. che, in qualche misura, si è trovata in contrasto con gli orientamenti offerti una volta dalla teologia ascetica e mistica e che oggi con maggiore competenza ancora offrono la pedagogia, la psicologia e la teologia spirituale. Non si può negare che molte volte un direttore spirituale sicuro più di sé che fiducioso di Dio, ricade in forme di dirigismo, di direttività, di paternalismo.

2.​​ Crisi e attualità della d.s.​​ Fino agli anni settanta, del sec. scorso, non si può parlare di crisi d’identità della d.s. Poi, è sembrato che il contributo che le scienze dell’uomo offrivano per la comprensione e la soluzione dei problemi della persona umana fosse talmente sufficiente da far considerare ormai superata la d.s. Si era così sicuri dell’esistenza di tante terapie di vario genere da considerare la d.s. non all’altezza, perché troppo settoriale, delle finalità per le quali aveva lavorato fino a quel momento. Inoltre, si era nel pieno di una cultura «senza padre», per cui sembrava che la parola «padre» o «direttore» potesse favorire la riproduzione simbolica e bloccante della figura paterna e compromettere la relazione padre-figlio. Questa sfiducia nei confronti della d.s. sembrava sostenuta dal fatto che anche la stessa teologia, essendosi liberata dal linguaggio di un un’antropologia dualista, aveva cominciato ad esprimersi con quello di un’antropologia integrale. In questo clima di critiche della d.s. è nata anche la proposta dell’animazione comunitaria, intesa come alternativa al tradizionale modo di attuare la d.s. Non si può ignorare l’attualità della d.s., né per il passato, né per il presente. Oggi, poi, vediamo che la ricerca di nuovi maestri si presenta, talvolta, perfino febbrile. Purtroppo, quasi sempre li si considera una specie di maghi, competenti sul piano spirituale, su quello delle tecniche e su quello dei metodi ascetici, così da dare una soluzione a qualsiasi problema.

3.​​ Il senso della d.s.​​ È necessario chiarire il peso che si dà sia al termine d.s. sia a quello di direttore spirituale. A favore di questi vocaboli non è solo una lunga tradizione, ma anzitutto il significato teologico e spirituale che essi esprimono. I termini d. e s. rappresentano due istanze di quell’aiuto che è indispensabile per un credente bisognoso nel suo cammino di fede. Tali istanze non si possono interpretare in modo arbitrario, attribuendo ad esse un significato immaginario, come per es., assegnando allo «spirituale» l’interesse per un’anima disincarnata secondo l’antropologia dualista di una volta e alla d. una volontà di padronanza sulle persone, e quindi un’autorizzazione ad assoggettarsi il diretto o addirittura a plagiarlo. È vero che nel passato, essendosi badato solo al senso del progresso spirituale visto nella luce del dato oggettivo, offerto dalla fede della rivelazione di Gesù Cristo, di solito veniva trascesa la corporeità del diretto. L’equilibrio di cui parla Th. Merton rimaneva sconosciuto: «Il direttore spirituale si interessa a​​ tutta la persona,​​ perché la vita spirituale non è semplicemente la vita della mente, o degli affetti, o della “sommità dell’anima”: è la vita di tutta la​​ persona.​​ Perché l’uomo spirituale (pneumatikós)​​ è colui la cui vita intera, in tutti i suoi aspetti, in tutte le sue attività, è stata spiritualizzata dall’azione dello Spirito santo, sia per mezzo dei sacramenti, sia dalle ispirazioni personali e interiori». La d.s. è molto più di un consiglio, di un dialogo, di un incoraggiamento. Essa si radica nell’opera dello Spirito santo che è il protagonista principale della nostra crescita spirituale. Il livello su cui si muove la d.s. è quello spirituale, mentre le competenze che offrono le scienze dell’uomo rimangono sul piano psicologico. Alla nostra attenzione non deve sfuggire che nella relazione della d.s. i protagonisti sono tre: lo Spirito santo, che è il vero direttore spirituale, il diretto, che è il vero soggetto nella d.s., e il direttore spirituale umano, che svolge l’opera di mediazione tra i due.

4.​​ D.s. e azione dello Spirito.​​ Per liberare la d.s. da un’immagine di vincolo che lega strettamente e in modo permanente, e per sottolineare il suo carattere transitorio, si dice che essa «è nata per finire». Questa sintesi mette in rilievo la finalità pedagogica della d.s.: aiutare la persona diretta a mettersi in piedi e a camminare da sola. Ecco il motivo per cui il diretto deve avere un pieno spazio di libertà nel suo cammino di ricerca e la coscienza che spetta a lui stesso il dovere di decidere. Perciò il direttore non è colui che si sostituisce alla persona diretta e tanto meno prende il posto dello Spirito santo. È «direttore spirituale» perché collabora con lo Spirito santo per il progresso spirituale della persona diretta. A questo proposito, l’Oriente cristiano, sottolineando l’importanza e il significato spirituale del ruolo che svolge il mediatore tra l’uomo e Dio, fin dai primi tempi parla di «padre spirituale» o, nel caso delle donne, di «madre spirituale» perché particolarmente in quel contesto di vita cristiana il padre spirituale esercita la sua funzione non in virtù di un’autorità ufficiale, ma dell’autorevolezza spirituale.

5.​​ L’itinerario spirituale e i compiti della d.s.​​ Per capire i motivi della perenne attualità della d.s. occorre sapere quali sono i suoi compiti. Adulti nella fede, santi e uomini spirituali, non si nasce, ma si diventa. La storia della spiritualità cristiana conosce il tema dell’itinerario spirituale: tappe o gradi che aprono su tappe successive di crescita spirituale. Il che esprime la convinzione che adulti nella fede, santi e uomini spirituali, si diventa in modo progressivo. L’idea dell’itinerario spirituale è quella che la vita spirituale, sviluppandosi nel tempo, ha le sue leggi proprie che un direttore spirituale deve conoscere per agire di conseguenza. Oggi, inoltre, si è convinti che il progresso spirituale avviene in modo non indipendente dalle leggi della crescita e dello sviluppo umano. Tra le numerose proposte di itinerario, la più corrispondente al realismo del progresso spirituale è quella che lo articola in principianti, proficienti e perfetti. In ogni proposta di itinerario spirituale importanti sono i contenuti delle rispettive tappe perché aiutano il soggetto a riorientare la propria vita verso i valori superiori di cui la carità è il centro. Risulta, anzitutto, urgente che nella d.s. si giunga all’essenziale senza perdere tempo soffermandosi più del necessario su un terreno antistante i veri problemi della persona diretta. Sono proprio i vantaggi che se ne ricavano a mantenere sempre attuale e utile la d.s. Essa, infatti, permette a chi la esercita di influire in maniera forte, significativa e talvolta determinante sul destino delle persone che gli sono state affidate da Dio. Ne sono l’esempio santi come Ambrogio, Agostino, Francesco di Sales, Giovanni​​ ​​ Bosco e tanti altri.

6.​​ La realtà del direttore spirituale.​​ Tra i diversi problemi pratici che la d.s. pone, il primo e il più difficile riguarda la scelta indovinata di un direttore spirituale. È emblematico il pensiero di s. Teresa d’Avila a proposito dell’utilità di avere un direttore spirituale capace: «Se io ho sofferto molto e ho perduto molto tempo, fu appunto per non sapere quello che dovevo fare» (Il​​ libro della Vita,​​ 14,7). S. Giovanni della Croce, a sua volta, in diversi momenti del suo insegnamento avverte che per incompetenza dei direttori spirituali si verificano numerosi danni spirituali.

Bibliografia

Merton Th.,​​ D.s.​​ e meditazione,​​ Milano, Garzanti, 1965; Besnard A. M. et al.,​​ Le maître spirituel,​​ Paris, Cerf, 1980; Serenthà L. - G. Moioli - R. Corti,​​ La d.s. oggi.​​ Atti della Quattro giorni Assistenti dell’A.C. di Milano, Milano, Ancora, 1982; Sudbrack J.,​​ D.s. La questione del maestro,​​ dell’accompagnatore spirituale e dello Spirito di Dio,​​ Roma, Paoline, 1985; Fossati G. et al.,​​ Per essere una guida spirituale,​​ Roma, Libreria Editrice Murialdo, 1987; Barry W. A. - W. J. Connolly,​​ Pratica della d.s.,​​ Milano, O. R., 1990; Mendizábal L. M.,​​ La d.s. Teoria e pratica,​​ Bologna, Dehoniane, 1990;​​ Vernette​​ J.,​​ Nuove spiritualità e nuove saggezze.​​ Le vie odierne dell’avventura spirituale, Padova, Edizioni Messaggero, 2001; Capello A. et al.,​​ Mistagogia e accompagnamento spirituale.​​ Atti e relazioni della 44a​​ Settimana di Spiritualità, Roma, Teresianum, 2003;​​ Goya​​ B.,​​ Luce e guida nel cammino.​​ Manuale di d.s., Bologna, Dehoniane, 2004;​​ Frattallone​​ R.,​​ D.s.​​ Un cammino verso la pienezza della vita di Cristo, Roma, LAS, 2006.

J. Struś

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DIREZIONE SPIRITUALE

DIRIGENTE SCOLASTICO

 

DIRIGENTE SCOLASTICO

Per chi è a capo di una scuola è ormai invalsa la dizione formale «capo d’istituto» laddove si usava dire «preside» per le scuole secondarie e «direttore didattico» per la scuola elementare. Rientrano nella nozione anche tutte le funzioni di sostituzione (vicepreside, vicario, facente funzione) e di coordinamento di settori disciplinari o comunque indicanti responsabilità particolari (middle management).​​ Un termine molto comprensivo, riferito anche alle funzioni di ordine gestionale-amministrativo, è quello di​​ school manager.​​ La dizione​​ school management​​ indica il campo degli studi sulla dirigenza scolastica.

1.​​ Posizione e accesso.​​ In linea di massima possiamo avere:

A - capo di istituto

Tipo di sistema

 

modalità

di accesso

Requisiti

 

A- centralizzato burocratico

 

concorso

pubblico

titoli culturali,

curricolo

professionale,

superamento di un esame

B- collettivistico

 

elezione

 

prestigio, consenso

 

C- decentralizzato autonomo

 

selezione

 

curricolo professionale: qualificazioni, esperienze

 

D- totalitario

 

designazione

 

appartenenza politica

 

 

B - responsabile intermedio

l’accesso avviene per designazione da parte del capo di istituto o per richiesta da parte dei colleghi o per incarico da parte dei gestori o dell’amministrazione della scuola.

La caratteristica centrale del «capo di istituto» è di essere responsabile in senso globale della propria scuola e di rappresentarla a tutti gli effetti; le altre posizioni rispondono invece a compiti più delimitati e settoriali. In alcuni sistemi l’adempimento di tali compiti costituisce presupposto e titolo per l’accesso alla posizione di capo di istituto.

2. Contenuti.​​ Il d.s. viene considerato secondo tre fondamentali accezioni: a) funzionario; b) leader educativo; c) operatore dell’«educazionale». La prima configurazione – particolarmente presente nei sistemi scolastici europei continentali di derivazione napoleonica e prussiana – considera il d.s. come una figura completamente e compiutamente inclusa nella logica dell’amministrazione di natura burocratica, ultimo anello della catena gerarchica di disposizioni e poteri formali (uffici, programmi, circolari, ordinanze) che governano il funzionamento dell’apparato. Egli deve assicurare, quindi, il rispetto delle norme, vigilare sull’operato del personale, esaudire tutti gli adempimenti che gli vengono attribuiti allo scopo di promuovere l’istruzione e di perseguire gli obiettivi assegnati alla scuola. Il secondo profilo trova le sue radici nelle tradizioni basate sui principi della decentralizzazione e dell’appartenenza della scuola alla comunità, che vedono nel d.s. soprattutto il perno animatore di realtà educativamente significative. La sua attività, pertanto, è considerata rilevante non tanto dal punto di vista della correttezza formale quanto da quello della efficacia nei confronti delle finalità sostanziali della scuola e dei suoi agenti principali, vale a dire gli alunni e gli insegnanti. La funzione primaria del d.s., allora, è di contribuire alla «qualità» della propria scuola come luogo formativo. La terza indicazione rimanda alla identificazione dell’«educazionale» come campo intermedio fra il terreno dell’«educativo» e quello dell’«amministrativo» come tali, rispettivamente specifici dell’azione dell’​​ ​​ insegnante e di quella dell’amministratore vero e proprio. L’«educazionale» costituisce una sorta di nodo centrale di una linea che ha per oggetto le strutture funzionali della scuola e che, provenendo dall’amministrativo, finisce con l’attraversare il campo dell’educativo. La dirigenza scolastica, in quanto settore di attività professionale, si concretizza prevalentemente nell’ordine delle strutture funzionali, ma non è lontana in assoluto da quello dei rapporti; in questo senso, vengono ad emergere due principali componenti della professionalità dirigenziale, che hanno rispettivamente a che fare con l’​​ ​​ organizzazione scolastica e con la​​ ​​ relazione educativa. Spetta quindi al d.s. espletare compiti di garanzia, animazione, chiarificazione, facilitazione, controllo, innovazione, guida, sostegno, contatto, rassicurazione, protezione.

3.​​ Prospettive.​​ Gli sviluppi più rimarchevoli toccano due precisi settori di attenzione, costituiti dalla ristrutturazione del sistema secondo il principio dell’​​ ​​ autonomia delle scuole e dall’introduzione di forme specifiche di preparazione. Per quanto riguarda il primo punto, la figura del d.s. risulta fortemente modificata in senso manageriale nell’ipotesi che ad ogni istituzione scolastica vengano riconosciute delle possibilità di autonomia – vale a dire di autodecisione ed autodeterminazione progettuale – sul piano amministrativo, curricolare e didattico. Come conseguenza, il profilo del d.s. si andrebbe sempre più decisamente staccando dalle connotazioni burocratiche per accedere a valori e competenze di impresa, con un considerevole aumento dei poteri e delle responsabilità reali (es.: selezione del personale, gestione budgetaria, ecc.). La seconda questione si riferisce alla costituzione di forme apposite di preparazione alla professione di d.s., che è presente da tempo in alcuni Paesi (es.: Stati Uniti), si sta diffondendo con grande rapidità in molti altri (es.: Gran Bretagna, Olanda, Svezia) ed è ancora assente in Italia, dove si è invece assistito al fenomeno della diffusione su vasta scala della formazione in servizio. L’ipotesi di maggiore interesse è rappresentata dall’introduzione di gradi di studio universitario postlaurea (master) appositamente finalizzati.

Bibliografia

Bush T.,​​ Theories of educational management,​​ London, Routledge and Kegan, 1986; Sheive L. T. - M. B. Schonheit (Edd.),​​ Leadership. Examining the elusive,​​ Alexandria (Virg.), Association for Supervision and Curriculum Development, 1987; Smyth J. (Ed.),​​ Critical perspectives on educational leadership,​​ London, The Falmer Press, 1989; Dalle Fratte G. (Ed.),​​ Autonomia risorsa della scuola,​​ Milano, Angeli, 1991; Scurati C. - A. Ceriani,​​ La dirigenza scolastica.​​ Vicende sviluppi e prospettive,​​ Brescia, La Scuola, 1994; Romei P.,​​ Autonomia e progettualità, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1995; Susi F. (Ed.),​​ Il leader educativo, Roma, Armando, 2000; Sergiovanni T. J.,​​ Dirigere la scuola comunità che apprende, Roma, LAS, 2002; Artini A.,​​ I leader educativi, Milano, Angeli, 2004.

C. Scurati

DIRITTI DEI MINORI​​ ​​ Minori

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DIRIGENTE SCOLASTICO

DIRITTI UMANI

DIRITTI UMANI

Giuseppe Mattai

 

1. Crescente sensibilità nei confronti dei diritti umani

2. I diritti umani parametro storico della pace e verifica puntuale dell’autenticità dell’etica sociale

2.1. Diritto alla pace

2.2. Verifica della pace e dell’etica sociale

3. Il lungo cammino storico dei diritti dell’uomo e dei popoli

4. Fondazione e giustificazione dottrinale dei diritti dell'uomo e dei popoli

4.1. La fondazione individualistica

4.2. La fondazione solidaristica

5. L’apporto della Chiesa all’individuazione e promozione dei diritti umani

5.1. L’apporto conciliare

5.2. L’apporto di Giovanni Paolo II

6. Questioni aperte

7. Indicazioni pastorali

 

1. Crescente sensibilità nei confronti dei diritti umani

Sia per esperienze negative di contrasto a fronte delle gravissime violazioni dei diritti dell’uomo e dei popoli, che ancora al presente sussistono, sia a motivo di una crescente consapevolezza della propria dignità soggettiva, è un fatto che la percezione del valore e dell’intangibilità di tali diritti è oggi più chiara e diffusa che in altri tempi.

Lo ammette a tutte lettere l’enciclica​​ Sollicitudo rei socialis​​ di Giovanni Paolo II, il quale afferma che la​​ preoccupazione​​ per il rispetto dei diritti umani è dappertutto​​ più viva​​ e più deciso il rigetto delle loro violazioni (cf SRS 26). Come segno rivelatore di questa consapevolezza il Papa adduce il numero crescente delle istituzioni, alcune delle quali di portata mondiale, che s’impegnano a fondo nella denuncia delle violazioni dei diritti e per la loro promozione. Ciò, sempre secondo il pontefice, è dovuto anche all’influsso diffuso e pervasivo della Dichiarazione dell’ONU del 1948​​ (ivi).

Proprio in occasione della Giornata mondiale per i diritti umani (11 dicembre 1947), trentanovesimo anniversario della​​ Dichiarazione​​ dell’ONU, insieme alle celebrazioni, hanno avuto luogo manifestazioni di protesta e denunce che hanno visto come protagonisti soprattutto i giovani.

L’anniversario della​​ Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo​​ e la consapevolezza, largamente diffusa, delle molteplici violazioni, gravi e ripetute, dei principi fondamentali cui la Dichiarazione si ispira, alimentano tra i ceti più responsabili e nelle aliquote dei giovani associati in organizzazioni come​​ Amnesty international,​​ Gioventù Aclista, Mani Tese, e simili, l’esigenza dell’informazione oggettiva e di una resistenza attiva a tale stato di cose che compromette profondamente la pace mondiale.

Il fatto che la libertà d’informazione sia spesso violata e molti giornalisti siano feriti o uccisi, ostacolati o imprigionati in molti paesi, induce a moltiplicare lo sforzo della riflessione per meglio fondare i diritti e il relativo convincimento della loro inviolabilità, nonché a promuovere l’azione universale intesa a garantirli.

In tale direzione sembra che i giovani nel mondo svolgano un ruolo non certo trascurabile, in quanto rivelano forte sensibilità ai problemi etici sollevati da situazioni collettive e, in primis, della violazione al diritto di esprimersi liberamente; «Hanno la sensazione che le situazioni attuali richiedano una specie di conversione morale e che non si possano più affrontare con i mezzi dell’azione politica tradizionale. Ci troviamo dunque di fronte a un​​ enorme potenziale etico​​ presente nelle giovani generazioni. Bisognerebbe poterli aiutare ad orientare questa loro capacità verso vie costruttive». Le espressioni citate sono del Card. Poupard​​ (La morale cristiana nel mondo,​​ Ed. Piemme, Casale M. 1987, p. 123) e mi paiono molto significative; ancorché riguardino solo il Belgio, possono essere assunte come la conclusione di un amplissimo sondaggio, curato dal Segretariato per i non credenti, che si è avvalso dell’apporto estremamente ricco e differenziato di più di duecento corrispondenti diffusi in tutto il mondo.

Della nuova sensibilità giovanile relativa al diritto a dissentire sarà fatto ampio cenno nella voce​​ pace.​​ Nel nostro paese questo appello alla disobbedienza creativa, che dice no a certi dispositivi di legge e a determinate istituzioni per affermare valori più alti e ineludibili, ha preso corpo nella obiezione al servizio militare e in altre obiezioni che in genere raccolgono appoggi da parte di organizzazioni in cui i giovani sono presenti e operanti.

 

2. I diritti umani parametro storico della pace e verifica puntuale dell’autenticità dell’etica sociale

1 giovani non dimostrano molta preoccupazione nei confronti dell’approfondimento teorico della fondazione dei diritti umani e, pertanto, in questa direzione vanno aiutati sul piano culturale e pastorale. Per contro, rivelano sensibilità e peculiare attenzione al collegamento che intercorre tra diritti e pace, solidarietà e pace. Finché i diritti delle persone sono violati non è possibile parlare di pace vera e stabile. Le giovani generazioni dimostrano altresì di non fare gran conto delle istituzioni internazionali — che invece l’insegnamento della chiesa, compreso l’intervento di Giovanni Paolo II (SRS 43) ha da sempre privilegiato — per indurre all’osservanza dei diritti e spianare così il cammino alla pace. Mirano, al contrario, a rafforzare l’azione delle ONG (Istituzioni Non Governative) per quanto riguarda sia l’informazione oggettiva delle situazioni oppressive dei diritti che la promozione dei diritti umani.

In effetti è molto frustrante constatare che, in oltre quarant’anni dalla loro fondazione, le Nazioni Unite non siano riuscite a diffondere informazioni sui diritti umani, le loro violazioni e gli strumenti internazionali idonei a fronteggiarle.

Anziché isolarsi in un lavoro unilaterale, le ONG, che operano nel campo della difesa dei diritti umani, debbono premere sulle Nazioni Unite e sui governi (i quali sono i maggiori responsabili di questo stato di cose) perché a questo programma di informazione globale delle popolazioni del mondo venga data la dovuta priorità.

«È assolutamente necessario che le potenziali vittime di violazione dei diritti umani prendano coscienza del valore fondamentale di questi diritti: esse devono conoscere quali siano gli strumenti giuridici a disposizione, i mezzi amministrativi a livello nazionale ed internazionale per far valere la difesa dei diritti. Esse devono sapere che la mancanza di libertà di parola, di libertà di culto, la discriminazione in base all’origine etnica, al sesso, costituiscono violazione dei principi fondamentali della dignità umana» (F. Sciuto,​​ L’informazione pubblica nel campo dei diritti umani,​​ in​​ Pace diritti dell’uomo diritti dei popoli,​​ Liviana ed., Padova 1987, p. 88). Anche recenti indagini (come quelle di R. Mion) confermano che un buon numero di giovani del nostro paese connette l’idea di pace con la giustizia, il rispetto dei diritti umani e lo sviluppo dei più deboli ed emarginati. L’approfondimento teorico rivela che il sentire giovanile è tutt’altro che infondato. Il riferimento infatti alla concreta tutela e promozione dei diritti di tutto l’uomo e di tutti i popoli (per fare uso della plastica espressione che ricorre nella​​ Populorum progressìo​​ di Paolo VI) costituisce un parametro storico e un criterio fondamentale per verificare l’autenticità o meno della pace che si vuole istituire e promuovere. La pace vera è opera della giustizia e della solidarietà, come ha autorevolmente rimarcato l’enciclica del Papa (cf SRS 39); ma la giustizia non esiste di fatto se i diritti delle persone e dei popoli non sono effettivamente riconosciuti. Il riconoscimento e la garanzia dei diritti escludono le discriminazioni e le ingiuste diseguaglianze; del pari, rifiutano chiusure statiche e postulano una dinamica promozionale sempre aperta, che spinge a prendere atto dei diritti fondamentali come anche dei nuovi diritti emergenti, al di là di quanto le dichiarazioni scritte riescono a formulare. Come è noto, il diritto risulta sempre alquanto in ritardo sull’evoluzione storica e culturale.

 

2.1. Diritto alla pace

Ad esempio, il​​ diritto alla pace​​ e​​ il diritto allo sviluppo​​ (non soltanto economico-sociale, ma anche culturale e pienamente umano), che costituiscono oggetto privilegiato di riflessione e di azione all’interno delle ONG, tardano a trovare esplicito riconoscimento nelle istituzioni internazionali e nelle loro dichiarazioni.

Esiste, benché poco conosciuta, una Dichiarazione dell’Assemblea dell’ONU, adottata il 15 dicembre 1978, in cui si afferma che «ogni nazione e ogni essere umano... hanno il diritto fondamentale a vivere nella pace», e, ancora più decisamente, nella Dichiarazione del 12 novembre 1984 viene di nuovo sancito il «diritto dei popoli alla pace», definito «sacro diritto», cui si connette di conseguenza, l’obbligo fondamentale​​ di ogni Stato di adoprarsi per la «preservazione del diritto dei popoli alla pace e la promozione della sua attuazione».

Tuttavia così come oggi viene configurato, il diritto alla pace non entra ancora nella lista dei diritti umani fondamentali, in quella cioè dei diritti degli individui, non soltanto perché enunciato in una Dichiarazione (che resta «raccomandazione» e non un trattato o una convenzione) ma soprattutto perché riferito, quanto ai soggetti, ai «popoli». Il corrispettivo del «diritto» così enunciato è un onere di adempimento a carico degli Stati, dei singoli Stati, «non già anche l’esercizio di funzioni per così dire di iniziativa e di partecipazione da parte dei titolari del diritto medesimo» (A. Papisca,​​ La pace come diritto umano fondamentale,​​ nella rivista da lui diretta:​​ Pace diritti dell’uomo diritti dei popoli, cit.​​ 40-41).

 

2.2. Verifica della pace e dell’etica sociale

Fare riferimento ai diritti dell’uomo e dei popoli, anche limitandosi alle dichiarazioni storiche che hanno tentato di codificarli, costituisce un parametro storico prezioso per verificare se la pace che si persegue è autentica. È vero che il cristiano dispone anche di un referente più alto e ideale che è la «pace di Cristo», la «nobilissima pacis ratio» di cui parla la GS (n. 78). Ma trattasi di un ideale forse troppo alto che solo progressivamente, e sempre imperfettamente, viene calato nella storia: per la verifica concreta di una tale incarnazione oggi disponiamo della coscienza dei diritti e della loro promulgazione, anche sul piano positivo, che non possiamo disattendere.

Il riconoscimento e la garanzia dei diritti umani rappresentano altresì un parametro fondamentale di verifica dell’autenticità delle nostre elaborazioni dell’etica sociale, oltre che della prassi sociale. Se l’etica sociale, nelle sue diverse articolazioni — familiare, politica, economica, etica delle comunicazioni sociali, etica medica e bioetica — non confluisce nel riconoscimento e nella promozione dei​​ diritti di tutto l’uomo e di tutti i popoli,​​ ma tende a ignorarli e misconoscerli, in toto o in parte, rivela impianti dottrinali, presupposti e condizionamenti falsificabili e da riconcettualizzare.

La fondamentalità del tema della pace, storicizzata nei diritti dell’uomo e nella fraternità universale, che è l’operazione «forse più significativa, anche se meno rilevata, dell’enciclica​​ Pacem in terris»,​​ è stata recentemente assunta dal teologo moralista E. Chiavacci, il quale afferma che «è legittimo, e magisterialmente corretto, tradurre nel concetto sociale e giuridico dei diritti dell’uomo l’idea e l’annuncio cristiano di pace» (E. Chiavacci,​​ Teologia morale,​​ p. 142). Oltre ad essere corretta, l’operazione risponde anche a una nuova domanda, autentico segno dei tempi, espressa dalla lunga vicenda dell’affermazione dei diritti dell’uomo.

 

3. Il lungo cammino storico dei diritti dell’uomo e dei popoli

Già​​ ab antiquo,​​ di fronte alle frequenti manomissioni dei diritti fondamentali delle persone, si è venuta affermando l’esigenza di formularli chiaramente contro la strapotenza dei sovrani e delle strutture politiche oppressive. Tra i precedenti storici delle moderne dichiarazioni (ancorché ogni dichiarazione esiga una precisa contestualizzazione storico-culturale) generalmente vengono ricordate le concessioni delle libertà feudali, ottenute a forza dai feudatari inglesi ed espresse nella «magna charta libertatum» del 15 giugno 1215. Tra l’altro, veniva garantita la libertà della chiesa anglicana e della persona, il diritto alla procedura giudiziaria nei casi di reato, la protezione delle vedove e degli orfani, la difesa della proprietà e una limitazione delle prestazioni feudali imposte dal sovrano.

In successive dichiarazioni, fino al​​ Bill of Rights​​ del 1689, ispirato dal Locke, i diritti vengono estesi alla borghesia emergente. Trattasi sempre di​​ libertà da,​​ cioè di affermazioni delle libertà individuali che prendono corpo in tre diritti ritenuti fondamentali:​​ diritto alla vita, alla libertà, alla proprietà,​​ diritti che sottolineano la priorità dell’individuo contro la progressiva affermazione dello Stato moderno e mirano a salvaguardarlo da ogni possibile intrusione statuale.

Dal patto sottoscritto sulla nave Mayflower nel 1620 dagli emigrati puritani si sviluppano gradualmente le libertà tipiche della società americana. Nella dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti (4 luglio 1776) per la prima volta vengono menzionati i diritti inalienabili degli uomini, tra cui figurano in primo piano​​ la vita, la libertà e la ricerca del benessere.​​ Menzione questa che viene ripresa nelle costituzioni della maggioranza dei paesi dell’America Latina. La «ricerca della felicità» mitiga un poco l’individualismo illuminista, in quanto prelude all’indicazione di un compito da svolgere anche in direzione solidaristica.

Sul continente europeo i diritti degli uomini trovano la loro solenne formulazione nelle «Dichiarazioni universali dei diritti dell’uomo e del cittadino», votate in Francia nel 1789 e nel 1793, ispirate rispettivamente da Montesquieu e da Rousseau, in cui si oppone l’uomo al cittadino, considerato il primo come estraneo allo Stato e il secondo come fondamentalmente ad esso soggetto.

Nella​​ Déclaration​​ dell’89 si legge: «gli uomini nascono liberi ed eguali nei diritti e lo rimangono. Le differenze sociali possono essere motivate solo dall’utilità generale. Lo scopo di ogni associazione politica è la tutela dei diritti naturali e inalienabili dell’uomo. Questi diritti sono: libertà, proprietà, sicurezza e resistenza all’oppressione».

Negli altri articoli i diritti vengno così precisati: libertà religiosa, libertà di parola, di stampa, di associazione; inviolabilità della proprietà privata, proibizione di leggi penali retroattive, di arresti arbitrari, adeguamento delle pene al delitto commesso.

In questo ultimo dopoguerra registriamo due fatti molto significativi: le costituzioni di non pochi paesi (ad es. Italia e Germania occidentale) rivelano il passaggio dalla concezione individualistica dei diritti (libertà da)​​ a quella solidaristica (libertà per),​​ esse infatti cominciano a fare largo posto anche ai diritti economico-sociali dei cittadini, senza discriminazioni, consacrando la trasformazione dello​​ Stato liberale​​ in​​ Stato sociale​​ e garantista. Il secondo fatto è la già citata Dichiarazione dei diritti dell’uomo, sottoscritta dai paesi aderenti all’ONU, con 48 voti favorevoli e 8 astensioni, il 10 dicembre 1948, dopo lunghi studi preparatori.

Penso non sia inutile, anche ai fini di una più attenta riflessione teologico-pastorale, richiamare alcuni articoli di questa dichiarazione e della nostra Costituzione.

Art. 1.​​ — Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e​​ devono agire gli uni verso gli altri con spirito di fratellanza.​​ 

Art. 2.​​ —1) Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica e di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. — 2) Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del paese o del territorio sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità.

Art. 3​​ — Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona.

Seguono altri 27 articoli che enunciano i diritti degli individui.

Ed ora ecco alcuni articoli della nostra Costituzione, che documentano la sua forte ispirazione solidaristica.

Art. 2​​ — La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

Art. 3​​ — 2) È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Art. 4 —​​ 2) Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

 

Ulteriori passi in avanti.

A completamento della Dichiarazione del ’48, il 16 dicembre 1966 l’Assemblea Generale dell’ONU siglava un​​ Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali,​​ entrato in vigore il 3 gennaio 1976. Dai diritti degli individui passiamo, con più chiari accenti solidaristici, ai diritti dei popoli, come si evince già dai primi articoli.

Art. 1 —​​ Tutti i popoli hanno il diritto di autodeterminazione. In virtù di questo diritto essi decidono liberamente del loro statuto politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico sociale e culturale.

Art. 2 —​​ Ciascuno degli Stati, parti del presente Patto, si impegna ad operare, sia individualmente sia attraverso l’assistenza e la cooperazione internazionale, specialmente nel campo economico e tecnico, con il massimo delle risorse di cui dispone, al fine di assicurare progressivamente, con tutti i mezzi appropriati, compresa in particolare l’adozione di misure legislative, la piena attuazione dei diritti riconosciuti nel presente Patto.

Il Patto è articolato in sei parti per complessivi 53 articoli. Attualmente sono ancora in via di elaborazione definitiva la dichiarazione dei diritti dell’infanzia, del malato, dell’anziano, del lavoratore, e così via. L’espressione «diritti dell’uomo» sembra al presente significare una doppia serie di diritti:​​ diritti di libertà:​​ diritti dei singoli e anche dei popoli a non essere ostacolati da terzi;​​ diritti di solidarietà,​​ il diritto per il singolo e per le comunità in stato di bisogno ad essere aiutati dalla comunità nel suo insieme e il dovere corrispettivo da parte dei popoli e dei singoli di lavorare e sacrificarsi per il bene degli altri.

Si apre però, a questo punto, la questione, assai difficile e discussa, della giustificazione dei diritti che progressivamente sono stati consacrati in dichiarazioni e patti così solenni.

 

4. Fondazione e giustificazione dottrinale dei diritti dell’uomo e dei popoli

«Sui diritti dell’uomo si può andare d’accordo, a condizione che non si domandi perché» (Maritain). Visto tale disaccordo, N. Bobbio scrive che il problema non è più quello di giustificare i diritti, dal momento che essi sono divenuti «positivi», cioè riconosciuti e sanciti da quasi tutti gli Stati del mondo, quanto quello di promuoverli (cf​​ Il problema della guerra e le vie della pace,​​ p. 129). Eppure, poiché l’accordo non regna né sul piano teorico né su quello della prassi, come dimostrano le ripetute e diffuse violazioni dei diritti umani (attestate ad esempio puntualmente da​​ Amnesty International)​​ la giustificazione, facile o difficile che sia, è necessario tentarla. Da tale impegno non può sottrarsi l’educatore e l’operatore pastorale che deve non soltanto esortare per via parenetica ma anche convincere, spiegando il perché della inviolabilità dei diritti e motivando la loro gerarchia.

 

4.1. La fondazione individualistica​​ 

Le Dichiarazioni dei diritti di ispirazione illuminista partivano da una concezione individualistica dell’uomo e da una fondazione della società di tipo giusnaturalista. Lo Stato sovrano non doveva rendere conto a nessuno della sua gestione, se non attraverso autolimitazioni pattizie. La natura e il diritto naturale, di cui allora si parlava, facevano riferimento alla situazione «nativa» e «originaria» dell’uomo pensata ora in chiave pessimistica (Hobbes), ora ottimistica (Rousseau). Le libertà proclamate, come già abbiamo notato, erano intese come libertà dell’individuo rivendicate contro ogni intrusione da parte dello Stato (libertà quindi «negative», in opposizione all’assolutismo politico, amaramente sperimentato per lunghi periodi storici).

Il processo storico ha indotto mutazioni positive: dall’individualismo si è passati al solidarismo. Del pari, superate le prospettive giusnaturalistiche, rimane aperta un’altra concezione di «natura» che non fa appello alla situazione originaria, ma a quella finale (o teleologica), o comunque avanzata, sviluppata e matura.

«Intesa in tal modo, la natura non si oppone più alla cultura o alla storia, le quali del resto sono anch’esse opera dell’uomo e quindi sono perfettamente a lui “naturali”. In base a tal concetto la natura non è l’inizio, ma il compimento, il​​ telos​​ dell’uomo, cioè la sua perfezione, il suo pieno sviluppo, la piena realizzazione di tutte le sue facoltà e di tutte le sue dimensioni, sia fisiche che psichiche, sia animali che spirituali...» (E. Berti, in​​ Pace diritti dell’uomo diritti dei popoli,​​ p. 32). È precisamente questo nuovo concetto di natura, o meglio di persona umana, vista senza arbitrari riduttivismi, biologici, sociologici e filosofici, in tutte le sue dimensioni, verticali e orizzonali, diacroniche e sincroniche, che fonda i diritti umani che non sono soltanto negativi (libertà da) ma anche positivi e dinamici (libertà per). Così si intendono e si giustificano i diritti politici (diritto-dovere di partecipare responsabilmente all’esercizio del potere, diritti sociali come diritto al pieno sviluppo di sé nell’ambito della comunità di cui si fa parte, diritto alla salute, alla istruzione e all’informazione).

Ulteriori approfondimenti sono richiesti oggi per confrontarsi con 1​​ ’utilitarismo​​ che emerge anche in forme nobili, come nella trattazione di Rawls sulla giustizia, (cf​​ Una teoria della giustizia,​​ Feltrinelli, Milano 1983), l’intuizionismo e il decisionismo (sostenuto, in maniera peraltro acuta e vicina al tomismo, da E. Chiavacci, cf​​ Osservazioni sul significato dei diritti dell’uomo e sulla loro giustificazione)​​ e soprattutto con il pensiero debole e nichilista che attraversa e contagia aree giovanili. Tale confronto è necessario per superare obiezioni a carattere metafisico (inesistenza della «natura»), gnoseologico (inconoscibilità della natura) ed etico (insuperabilità dell’egoismo e indimostrabilità della necessità morale di aprirsi agli altri con amore oblativo).

Il vivere​​ con​​ e​​ per​​ gli altri, in altre parole il principio solidaristico che abbiamo visto emergere nel suo lento processo di maturazione storica, sta crescendo, dice ancora Chiavacci (art. cit., p. 17) nella coscienza dell’umanità. La sollecitudine verso gli altri per loro stessi e non per convenienza egoistica, per quanto non formulata con tutta chiarezza e ancora offuscata dal principio della sovranità degli Stati, tende a diffondersi e raccoglie consensi. «11 solo modo di giustificare i diritti umani — nella loro complessa concezione attuale — è di accettare come un assiomatico​​ primum ethicum​​ non i diritti soggettivi, ma un rapporto interumano oblativo... La sollecitudine per l’uomo — ogni uomo sulla terra, di oggi e di domani — non deve essere secondaria alla sollecitudine verso sé stessi: anzi deve diventare la realizzazione della propria vita»​​ (ivi,​​ p. 15).

 

4.1. La fondazione solidaristica​​ 

La fondazione della concezione solidaristica dei diritti affonda le sue radici nella visione antropologica della persona, il cui vivere è convivere, il cui essere è co-essere, entro l’orizzonte di un personalismo, che è di chiara ispirazione cristiana.

Rifarsi alla teleologia profonda dell’uomo (persona come fine da realizzare e tendenza verso una pienezza di rapporti) significa anche superare un’altra obiezione contemporanea: quella della «fallacia naturalistica», già denunciata da Hume e ricalcata dall’analitica contemporanea (cf ad es., G.E. Moore), secondo la quale proposizioni normative (come la regola aurea «non fare agli altri, ecc.») sarebbero indeducibili da proposizioni descrittive. La concezione personalistica fa riferimento alla persona come fine e non alla «natura» come insieme di fatti, collegato solo da leggi meccaniche, descrivibili solo mediante calcoli matematici, dalla quale ovviamente non si può ricavare alcun dovere, alcuna norma, alcun diritto (cf Berti,​​ art. cit.,​​ p. 34).

 

5. L’apporto della Chiesa all’individuazione e alla promozione dei diritti umani

Ancorando solidamente la dignità della persona​​ imago Dei​​ a un piano metafisico e teologico, l’insegnamento sociale della chiesa si è assunto il compito di rivendicare — contro ogni negazione teorica e pratica — i fondamentali diritti della persona, vista come espressione di una​​ lex naturalis​​ che esprime la legge eterna di Dio.

Contro i regimi totalitari del suo tempo nella​​ Divini Redemptoris​​ (1937) Pio XI, tra «le svariate e molteplici prerogative dell’uomo» ricordava «il diritto alla vita, all’integrità del corpo, ai mezzi necessari all’esistenza; il diritto di tendere al suo fine nella via tracciata da Dio, alla proprietà e all’uso della proprietà». In modo speciale Pio XII, esaltato per questa ragione come «defensor personae», rivendicò in numerosi radiomessaggi i diritti fondamentali dell’uomo, radicandoli sul diritto naturale e divino, considerandone la difesa e la pratica attuazione come lo scopo precipuo della convivenza organizzata e la condizione imprescindibile di una pace stabile (cf ad es. il Radiomessaggio del Natale 1942).

Per trovare un’organica formulazione dei diritti umani e una loro più precisa storicizzazione, bisogna giungere alla già ricordata enciclica di Giovanni XXIII​​ Pacem in terris.​​ In questo insigne e profetico documento vengono proclamati come diritti universali, inviolabili e inalienabili, il diritto all’esistenza e a un tenore di vita dignitoso, e tutta una serie di altri diritti, fondamentali e derivati, attinenti ai valori morali e culturali (tra cui emerge il diritto di onorare Dio secondo il dettame della «retta» coscienza e il diritto alla libertà nella scelta del proprio stato), diritti attinenti alla vita economica, il diritto di riunione e di associazione, di emigrazione e immigrazione, i diritti a contenuto politico. Questo complesso di diritti viene presentato nell’enciclica in termini non preclusivi, ma aperti e dinamici, come un blocco unitario, solidamente connesso e interdipendente, legato alla struttura oggettiva e storica della persona, finalisticamente considerata. L’accento viene posto sulla persona e non sull’individuo, i diritti vengono correlati ai doveri morali e si fa appello alla generale corresponsabilità perché l’elenco dei diritti non costituisca una retorica formulazione, ma — grazie alla dinamica della​​ solidarietà operante —​​ possa trovare effettiva garanzia e realizzazione nelle comunità umane, senza discriminazioni.

 

5.1. L’apporto conciliare

Il tema dei diritti umani attraversa i documenti conciliari e trova una sua singolare e contrastata affermazione nella Dichiarazione sulla libertà religiosa che rivendica per ogni persona umana il diritto a non essere né costretto né impedito nella sfera dei propri convincimenti religiosi.

Diritti e doveri delle persone e delle comunità politiche in campo educativo vengono rivendicati nella Dichiarazione​​ Gravissimum educationis.​​ Per quanto attiene ai doveri dell’uomo in genere, i diritti politici ed economici, i diritti dei popoli, è necessario rifarsi alla GS che resta aderente alle prospettive sia della​​ Mater et Magistra​​ che della​​ Pacem in terris.

La GS rileva (al n. 26) che oggi «cresce la coscienza della esimia dignità della persona, superiore a tutte le cose, e i cui diritti sono universali e inviolabili». Ne consegue che «tutte le cose che sono necessarie a condurre una vita veramente umana» devono essere rese accessibili a ogni persona umana.

Per quanto concerne lo sviluppo economico, il documento conciliare afferma che esso «non può essere abbandonato né al solo svolgersi quasi meccanico dell’attività economica dei singoli, né alla sola decisione della pubblica autorità» (GS 65). In ordine ai diritti politici, la GS rimarca il diritto dovere di partecipare responsabilmente alla vita della comunità politica, il diritto al voto libero e segreto (GS 75) e il diritto-dovere di «apportare alla cosa pubblica le prestazioni materiali personali richieste dal bene comune» (GS 75). Questo non va inteso chiudendosi nell’ambito della sovranità politica, ma aprendosi all’orizzonte internazionale e tenendo ben presente l’impegno etico di superare lo squilibrio Nord-Sud per la «costruzione di una vera comunità internazionale» (GS 83ss).

Al presente, in campo teologico, si stanno facendo riletture più attente della GS, alle quali rinviamo, che consentono di verificare meglio lo spessore dell’apporto conciliare alla tematica dei diritti umani e la sua attualità (cf ad es. N. Galantino, a cura di,​​ Il Concilio vent’anni dopo, vol. 3,​​ Il rapporto chiesamondo,​​ AVE, Roma 1986).

 

5.2. L’apporto di Giovanni Paolo II

Fin dall’inizio del suo pontificato, Giovanni Paolo II si è schierato decisamente dalla parte dell’uomo, «via alla chiesa», e ha assunto come suo compito specifico la difesa dei diritti delle persone, peculiarmente di quelle deboli e marginali. La​​ Laborem exercens​​ rappresenta un significativo documento per la rivendicazione, entro l’orizzonte etico della solidarietà, dei​​ diritti dei lavoratori​​ in un mondo attraversato dalle innovazioni tecnologiche che mettono in pericolo tanti posti di lavoro, determinando in unione ad altri fattori (concezione economicistica della produzione e dello sviluppo) inoccupazione giovanile e disoccupazione strutturale.

Nella concezione del Papa, il​​ diritto alla libertà religiosa,​​ concepito entro modalità ecumeniche (che oltrepassano il dettato conciliare, in quanto sembrano includere anche il diritto alla noncredenza), tiene una posizione di primato tra gli altri diritti e la sua presenza garantita o meno viene assunta come segno dell’esistenza o meno anche degli altri diritti.

«Fondamento e fine dell’ordine è la persona umana, come soggetto di diritti inalienabili che non riceve dall’esterno, ma che scaturiscono dalla sua stessa natura: nulla e nessuno può distruggerli, nessuna costrizione esterna può annientarli, poiché essi hanno radice in ciò che vi è di più profondamente umano...».

«Il diritto civile e sociale alla libertà religiosa, in quanto attinge la sfera più intima dello spirito, si rivela​​ punto di riferimento​​ e, in certo modo, diviene​​ misura degli altri diritti fondamentali.​​ Si tratta, infatti, di rispettare lo spazio più geloso dell’autonomia della persona, consentendole di agire secondo il dettame della sua coscienza, sia nelle scelte private che nella vita sociale. Lo Stato non può rivendicare una competenza, diretta o indiretta, sulle convinzioni religiose delle persone. Esso non può arrogarsi il diritto di imporre o di impedire la professione e la pratica pubblica della religione di una persona o di una comunità. In tale materia è dovere delle Autorità civili assicurare che i diritti dei singoli e delle comunità siano ugualmente rispettati e salvaguardare, in pari tempo, il giusto ordine pubblico...».

«... La libertà religiosa, in quanto attinge la sfera più intima dello spirito, sorregge ed è come​​ la ragion d’essere delle altre libertà (Messaggio​​ per la giornata mondiale della pace, 1987, in​​ Oss. Rom.​​ 16.12.1987). Nell’ultima enciclica (Sollicitudo rei socialis) che intende rivisitare la​​ Populorum progressio​​ vent’anni dopo (1967-1987), alla luce dei mutamenti intercorsi in quest’ultimo scorcio di tempo, Giovanni Paolo II sottolinea fortemente il diritto di tutti i popoli e nazioni al​​ pieno sviluppo.​​ Questo, pur implicando aspetti economico-sociali, a giudizio del Papa «deve comprendere pure la rispettiva​​ identità​​ culturale e l’apertura verso il trascendente. Nemmeno la necessità dello sviluppo può essere assunta come pretesto per imporre agli altri il proprio modo di vivere o la propria fede religiosa» (SRS 32).

Diritto quindi allo sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini e popoli. Sviluppo che è in stretta e​​ intrinseca connessione​​ con il rispetto e la promozione dei «diritti umani,​​ personali e sociali, economici e politici, inclusi i​​ diritti delle Nazioni e dei popoli»​​ (SRS 33). «Un vero sviluppo, continua l’enciclica, secondo le esigenze proprie dell’essere umano, uomo o donna, bambino, adulto o anziano, implica soprattutto da parte di quanti intervengono attivamente in questo processo e ne sono responsabili una viva​​ coscienza​​ del​​ valore​​ dei diritti di tutti e di ciascuno, nonché della necessità di rispettare il diritto di ognuno all’utilizzazione piena dei benefici offerti dalla scienza e dalla tecnica»​​ (ivi).

«Sul​​ piano interno​​ di ogni Nazione, assume grande importanza il rispetto di tutti i diritti, specialmente il diritto alla vita in ogni stadio dell’esistenza; i diritti della famiglia in quanto comunità sociale di base o “cellula della società”; la giustizia nei rapporti di lavoro; i diritti inerenti alla vita della comunità politica in quanto tale; i diritti basati sulla vocazione trascendente dell’essere umano, a cominciare dal diritto alla libertà di professare e di praticare il proprio credo religioso»​​ (ivi).

Mi sono permesso questa lunga citazione perché riassume bene la sfera dei diritti più cara al Pontefice e da lui fortemente richiamata. Del pari egli rimarca la rilevanza del diritto delle nazioni (espressione, mi sembra, preferita a quella di «popoli») al rispetto della loro identità, del diritto alla eguaglianza economico-sociale e all’iniziativa economica.​​ Questo ultimo diritto, a dire del papa, oggi viene spesso soffocato: «eppure si tratta di un diritto importante non solo per il singolo individuo, ma anche per il bene comune» (SRS 15). 11 suo misconoscimento distrugge la​​ soggettività creativa del cittadino,​​ provoca sensi di frustrazione e predispone al disimpegno dalla vita nazionale e favorisce forme di «emigrazione psicologica». La violazione di questo diritto ha ripercussioni negative anche nella sfera dei «diritti delle singole nazioni», in quanto le priva della legittima sovranità in campo economico-politico e socioculturale e tende ad oggettivarle​​ (ivi).

 

6. Questioni aperte

L’ultimo cenno fatto al diritto all’iniziativa economica apre un discorso relativo al diritto di proprietà: a partire da Locke e dal codice napoleonico se ne è rivendicata la sacralità e la inviolabilità. Purtroppo anche la manualistica etica è scesa a gravi compromessi con tali prospettive sulle cui basi è venuta articolandosi la normativa relativa al «non rubare». Progressivamente l’insegnamento sociale della chiesa ha sottolineato la funzione sociale della proprietà e la secondarietà di tale diritto rispetto al diritto alla vita e all’uso dei beni che consegue alla «destinazione universale di essi» a tutti gli uomini. Già la​​ Populorum progressio​​ conteneva importanti approfondimenti di tale questione (cf un mio scritto su​​ La proprietà privata nella «Populorum progressio»)​​ che sollecitano una più attenta elaborazione del​​ De ìustitia et iure​​ in chiave universalistica e solidaristica (cf E. Chiavacci,​​ Teologia morale e vita economica,​​ pp. 226ss). Altro diritto che oggi merita grande attenzione è il diritto aliavita, soprattutto alla luce delle innovazioni biotecniche che attingono il DNA e le «microcassette della musica della vita» (si veda in proposito il documento emesso il 22 febbraio 1987 dalla Congregazione per la dottrina della fede:​​ Istruzione su il rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione).

Del diritto alla pace abbiamo già fatto cenno, come anche del diritto delle persone e dei popoli a uno sviluppo pieno, che superi le angustie del materialismo economicista che lo riduce a crescita economica del PIL (Prodotto Interno Lordo).

Resta da mettere in evidenza il diritto dell’uomo a poter usufruire di un ambiente ecologicamente equilibrato e non inquinato e sconvolto. A tale diritto ovviamente fa riscontro il dovere di assumere, ciascuno per la propria parte, la responsabilità della creazione in maniera che il mondo risulti abitabile per gli uomini di oggi e di domani e non sia irreparabilmente compromessa la biosfera.

 

7. Indicazioni pastorali

Nello sforzo, urgente e grave, di appassionare i giovani alla vita, sembra quanto mai opportuno far leva sulla sensibilità che essi mostrano nei confronti dei diritti emergenti dalla dignità della persona: in particolare del diritto alla «qualità» della vita, alla «qualità» dell’ambiente, a una pace stabile e sicura, alla comunione partecipativa ai beni e alle risorse. In tali ambiti l’apporto dei gruppi e movimenti giovanili appare notevole e costituisce un’importante base sia per la riflessione teologico-pastorale che per una prassi pastorale sintonizzata alle esigenze più vive e profonde del mondo giovanile.

Sarà appena necessario notare che il richiamo alla natura o alla persona umana in ordine alla giustificazione razionale dei diritti e alla loro obbligatorietà, ha da essere fatto in chiave teleologica e non giusnaturalistica, evitando l’individualismo e le conseguenti chiusure alla solidarietà e fraternità universale.

Relativamente poi alla gerarchia dei diritti, sarà urgente sottolineare il primato del diritto alla vita, oggi messo in forse dalle prospettive di guerra, non escluse quelle nucleari, dalla prassi abortiva ed eutanasica. Quanto poi alla qualità della vita, è necessario verificare con i giovani quali siano i parametri di tale qualità e quando una vita valga veramente la pena di essere vissuta: vita​​ con​​ e vita​​ per.

Infine, non va dimenticata l’istanza avanzata da non pochi giovani nei confronti del diritto al dissenso e alla disobbedienza creativa: il​​ no​​ a certi obblighi positivi, ritenuti in contrasto con la propria coscienza, ultimo parametro dell’azione, vuol essere un​​ ​​ a valori più profondi e più alti per i quali acquista senso il nostro vivere e convivere.

 

Bibliografia

I diritti fondamentali del cristiano nella chiesa e nella società​​ (trad. it.), Giuffré, Milano 1981; Bobbio N.,​​ Sul fondamento dei diritti dell’uomo,​​ in​​ II problema della guerra e le vie della pace,​​ Il Mulino, Bologna 1979, pp. 119-130; Cassese A.,​​ I diritti umani nel mondo contemporaneo,​​ Laterza, Bari 1988; Chiavacci E.,​​ Osservazioni sul significato dei diritti dell’uomo e sulla loro giustificazione,​​ in «Rivista di Teologia Morale» 1979, n. 41, pp. 7-24; Id.,​​ Teologia morale e vita economica,​​ Cittadella, Assisi 1987;​​ Le dichiarazioni dei diritti dell'uomo.​​ ONU 1948-Helsinkj 1975, Simposio, in «Studia Patavina» XXV (1978) pp. 288-293; Mattai G.,​​ Il diritto alla proprietà privata nella «Populorum progressio»​​ in «Rivista di Teologia Morale», 1969, 2, pp. 13-62; Id.,​​ Nascere e morire oggi. Riflessioni di un teologo,​​ Augustinus, Palermo 1987 (sul diritto alla vita e al «morire in pace»); Id. ,​​ Diritti e doveri del cittadino,​​ in​​ Morale Politica,​​ Ed. Dehomiane, Bologna 1971, 192-204; Mengozzi P.,​​ Diritti dell'uomo,​​ in​​ Dizionario di Politica​​ (a cura di N. Bobbio e N. Matteucci), UTET, Torino 1976, 313-320;​​ Rivista internazionale dei diritti dell’uomo,​​ Vita e Pensiero, Milano 1987.

Per i testi citati delle Dichiarazioni dei diritti dell’uomo cf​​ Pace diritti dell’uomo diritti dei popoli.​​ Per il testo originale in inglese cf l’ottima raccolta di Brownlie 1.,​​ Documents in International law,​​ Oxford​​ 21972.

 

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DIRITTI UMANI

Indicano le​​ esigenze fondamentali della persona​​ che vanno soddisfatte per assicurare una realizzazione adeguata di ciascuno nella globalità delle sue dimensioni materiali e spirituali.

1.​​ Il fondamento e i contenuti.​​ I d.u. rappresentano un​​ dato ontico​​ che trova nella dignità della persona la fonte ultima: di conseguenza, essi precedono la legge scritta, che può soltanto riconoscerli e non invece crearli. Nella dottrina giuridica attuale, questa posizione giusnaturalista sembra sopravanzare sia l’interpretazione contrattualistica, che fonda i d.u. su un patto intervenuto tra i gruppi sociali e quindi destinato a cambiare in base ai rapporti di forza reciproci, sia la spiegazione positiva dell’autolimitazione dello Stato sovrano che, pertanto, concederebbe i d.u. e non li riconoscerebbe in quanto preesistenti. Il medesimo orientamento è adottato più o meno esplicitamente anche dalle​​ ​​ organizzazioni internazionali, tra cui vanno segnalate a livello mondiale le Nazioni Unite e sul piano regionale il Consiglio d’Europa. In seguito all’esperienza delle dittature e delle barbarie perpetrate soprattutto nell’ultimo conflitto mondiale, il processo di​​ internazionalizzazione​​ dei d.u. ha trovato un sbocco solenne con l’adozione, il 10 dicembre del 1948, della Dichiarazione universale ad opera dell’Assemblea generale dell’ONU. Il passaggio dalla condizione di pura raccomandazione a norma giuridica vincolante si è successivamente compiuto con l’entrata in vigore nel 1976 di due Convenzioni, o Patti internazionali, rispettivamente sui d. civili e politici e sui d. economici, sociali e culturali. Tra i d.​​ finora riconosciuti​​ a livello internazionale, una prima categoria è costituita da quelli civili e politici, i cosiddetti d.u. della «prima generazione». Sono stati infatti i primi ad essere sanciti sul piano interno a partire dalla seconda metà del sec. XVIII e sono denominati d. «negativi», in quanto fanno divieto all’autorità pubblica di ingerirsi nell’ambito di libertà della persona: si tratta dei d. alla vita, all’identità personale, alla riservatezza, alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, al voto libero e segreto, alla libertà associativa, alle garanzie processuali. La seconda categoria consiste nei d. economici, sociali e culturali o d.u. della «seconda generazione»: vengono anche chiamati d. positivi, in quanto l’autorità pubblica è tenuta a porre in essere interventi specifici per la loro realizzazione, e il loro riconoscimento sul piano statuale è iniziato nella seconda metà del sec. XIX. Di questo gruppo vanno ricordati in particolare i d. all’alimentazione, alla casa, all’educazione, al lavoro, alla salute, all’assistenza. A livello internazionale la prima categoria gode di una tutela più forte rispetto alla seconda. Recentemente si parla anche di d.u. della «terza generazione» o di solidarietà come il d. alla pace, a un ambiente sano, allo sviluppo: su questi il dibattito è ancora aperto, anche se si sta progredendo verso il loro riconoscimento internazionale.

2.​​ L’educazione ai d.u.​​ Sotto la spinta del processo di internazionalizzazione appena descritto ha preso​​ l’avvio​​ anche l’ educazione ai d.u. Infatti, «La comprensione e l’esperienza vissuta dei d. dell’uomo sono, per i giovani, un elemento importante della preparazione alla vita in una società democratica e pluralista» (Council of Europe, 1985, 2). L’elaborazione della disciplina sul piano curricolare ha portato a identificarne gli​​ obiettivi.​​ Tra l’altro, vengono indicati i seguenti: conoscenza degli sviluppi storici relativi ai d.u.; conoscenza delle dichiarazioni, convenzioni e patti contemporanei; conoscenza di alcune delle maggiori violazioni dei d.u.; comprensione della distinzione tra d. politici / legali e sociali / economici, dei concetti di base e delle relazioni tra individui, gruppi e d. nazionali; valutazione critica dei propri pregiudizi e sviluppo degli atteggiamenti di tolleranza; apprezzamento dei d. degli altri; simpatia per coloro a cui sono negati i d.; abilità intellettuali; abilità operative. Passando poi ai​​ contenuti,​​ va anzitutto richiamato un criterio organizzatore fondamentale: l’educazione ai d.u. andrà strutturata in modo da tener conto dell’età dell’allievo, delle sue condizioni e delle situazioni particolari delle scuole e del sistema educativo. Gli argomenti possono essere articolati in quattro gruppi: le principali categorie di d., doveri, obbligazioni e responsabilità dell’uomo; le diverse forme di ingiustizia, diseguaglianza e discriminazione; le personalità, i movimenti e i grandi eventi che nella storia hanno contrassegnato la lotta costante a favore dei d. dell’uomo; le principali dichiarazioni e convenzioni internazionali. La​​ didattica​​ di questa disciplina mantiene la lezione tradizionale, purché si ispiri alle migliori pratiche: essa deve riuscire a trasmettere le informazioni essenziali, a spiegare i concetti in modo comprensibile e a stimolare gli studenti a porre domande. Al tempo stesso bisognerà utilizzare altri metodi quali: la discussione di gruppo, i progetti di ricerca, la drammatizzazione e il «role-play», i giochi e le simulazioni e la partecipazione ad attività pratiche. Il coronamento di queste metodologie è costituito dalla realizzazione della «scuola dei d.u.», cioè di una scuola il cui clima sia propizio per l’apprendimento dei d.u. Nonostante gli sviluppi accennati, rimane il problema di trovare​​ una collocazione​​ per l’educazione ai d.u. all’interno del​​ ​​ curricolo. Infatti, i programmi d’insegnamento sono già sovraccarichi di contenuti e molte aree di nuove conoscenze, finora escluse dalla scuola, sono in lista di attesa. In generale si cerca di risolvere il problema con un compromesso: non una nuova materia separata, ma una dimensione dell’​​ ​​ educazione socio-politica, in particolare dell’educazione alla cittadinanza democratica. Altre difficoltà riguardano la delimitazione di un minimo di saperi ammessi da tutti, che è continuamente rimessa in discussione. Quanto ai metodi, si constata un’oscillazione continua tra la lezione di morale, la descrizione di organigrammi astratti dei processi politici e sociali e il ricorso alla ricerca. Riguardo poi alla valutazione, è certamente possibile introdurre esami e votazioni, ma la loro importanza è molto relativa per una disciplina che intende fornire conoscenze rilevanti per la vita. Da ultimo, lo scopo ricercato è quello di un influsso sull’agire delle persone, cioè sul modo di vivere con gli altri e con la società, ma una tale proposizione costituisce un problema per una parte notevole degli insegnanti che è legata a una concezione sbagliata della laicità della scuola, intesa come neutralità.

Bibliografia

Council of Europe,​​ Recommendation No. R (85) 7 of the Committee of Ministers to member States on teaching and learning about human rights in schools,​​ 14 May 1985; Papisca A., «D.u.», in E. Berti - G. Campanini (Edd.),​​ Dizionario delle idee politiche,​​ Roma, AVE, 1993, 189-199; Marino M.,​​ Per una pedagogia dei d.u., Roma, Anicia, 2003; Brander P. - R. Gomes - E. Keen,​​ Compass.​​ Manuale per l’educazione ai d.u. con i giovani, Roma, Sapere 2000, 2004; Di Pol Redi S.,​​ Educazione e d.u., Torino, Marco Valerio, 2004; Gramigna A. - M. Righetti,​​ D.u. Interventi formativi nel sociale, Pisa, ETS, 2005; Cassese A.,​​ I d.u. oggi, Bari, Laterza, 2006.

G. Malizia

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DIRITTI UMANI

DIRITTO ALL’EDUCAZIONE

 

DIRITTO ALL’EDUCAZIONE

In senso giuridico l’espressione d.a.e. definisce l’insieme delle prestazioni che assicurano il raggiungimento di un risultato, l’istruzione, mentre da un punto di vista​​ pedagogico​​ si riferisce al complesso delle misure rivolte a garantire l’educazione di ogni uomo, di tutto l’uomo, per tutta la vita.

1.​​ La riflessione pedagogica. Gli anni ’80 hanno segnato l’allargamento del d.a.e., caratterizzato fino ad allora prevalentemente dai tratti della quantità, dell’uniformità e dell’unicità; tale estensione ha portato a comprendere anche gli aspetti della qualità, della differenziazione e della personalizzazione. Pertanto non basta assicurare l’accesso di tutti alla scuola e l’eguaglianza dei risultati fra i vari strati sociali, ma è necessario garantire il​​ d. a un’educazione di qualità.​​ Nella stessa prospettiva si dovrà anche contemperare​​ eguaglianza e diversità,​​ tutela ed eccellenza. Un altro orientamento è consistito nel potenziare la​​ partecipazione alla gestione delle strutture​​ formative perché la riduzione e l’eliminazione delle diseguaglianze di opportunità non possono essere realizzate senza il coinvolgimento dei gruppi che soffrono direttamente dell’impatto delle disparità. Il concetto di d.a.e. mentre si è esteso e diversificato sul piano dei contenuti, ha dato vita in riferimento ai​​ soggetti​​ tutelati a principi autonomi. In proposito si possono ricordare quello dell’eguaglianza fra i due sessi;​​ l’​​ ​​ educazione interculturale che consiste nella messa in rapporto delle culture, nella comunicazione reciproca, nell’interfecondazione, mentre esclude l’assimilazione;​​ l’integrazione dei disabili​​ nella scuola ordinaria, che significa rispondere ai bisogni di tutti gli alunni e di ciascuno, dare risposte differenziate perché gli alunni sono diversi e fornirle all’interno della scuola ordinaria. Comunque, il cambiamento più profondo sul piano pedagogico consiste nell’accettazione mondiale della strategia dell’​​ ​​ educazione permanente​​ come idea madre delle politiche educative del futuro: essa significa garantire l’educazione di ogni uomo, di tutto l’uomo, per tutta la vita.

2.​​ I risvolti giuridici e politici.​​ L’assistenza scolastica è stata introdotta formalmente in Italia con la legge Daneo-Credaro del 1911, che stabilì l’obbligo di istituire in ogni comune un Patronato scolastico con il compito di assicurare l’iscrizione e la frequenza degli alunni nella scuola. Nel 1924 sono state create presso ogni istituto secondario le casse scolastiche per garantire l’assistenza a tale livello del sistema formativo. A sua volta, l’​​ ​​ obbligo d’istruzione era stato stabilito precedentemente con la legge Casati (1859), ma la normativa è rimasta ampiamente disattesa. Con la Costituzione repubblicana viene compiuto un​​ salto di qualità.​​ Infatti, l’art. 34 stabilisce l’apertura della scuola a tutti, l’obbligo di istruzione, la gratuità dell’istruzione, il d. dei capaci e dei meritevoli, anche se privi di mezzi, di raggiungere i gradi più alti di studi; soprattutto, la nostra Carta fondamentale concepisce la scuola come uno strumento di rinnovamento culturale e di eguaglianza sociale. In altre parole, la Costituzione ha sancito il d. all’istruzione come un vero e proprio​​ d. soggettivo pubblico​​ di prestazione che comporta per la pubblica amministrazione un obbligo positivo a fare. La Costituzione ha anche attribuito alle​​ Regioni​​ la competenza sull’assistenza scolastica. Il relativo trasferimento delle funzioni come anche il decentramento ai Comuni sono stati realizzati durante gli anni ’70. Lo sbocco finale è rappresentato dalla L. 53 / 03 che all’art. 2., co. 1, lettera c) assicura a tutti «il d. all’istruzione e alla formazione per almeno dodici anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica entro il diciottesimo anno di età» nel quadro della promozione dell’«apprendimento in tutto l’arco della vita» – art. 2., co. 1, lettera a). Il salto di qualità realizzato in materia dalla riforma Moratti ha trovato la sua attuazione concreta con l’approvazione del​​ D. Lgs. 76 / 05​​ che definisce la norme generali sul d.-dovere all’istruzione e alla formazione. Nel quadro dell’apprendimento per tutto l’arco della vita, esso ribadisce l’impegno a garantire a tutti eguali opportunità di conseguire livelli culturali elevati e di sviluppare capacità e competenze adeguate a una transizione soddisfacente nella società e in particolare nel mondo del lavoro. L’obbligo scolastico e l’obbligo formativo non vengono dimenticati, trascurati o indeboliti, ma trovano un loro inveramento più pieno nella nuova normativa, nel senso che vengono ridefiniti e ampliati come d. all’istruzione e alla formazione: in altre parole, la fruizione dell’offerta educativa viene a rappresentare per tutti, includendo anche i minori stranieri, sia un d. soggettivo sia un dovere sociale. I giovani incominciano a beneficiare concretamente del d.-dovere con l’iscrizione alla scuola primaria e nella secondaria di 1° grado tale tutela si traduce almeno nella organizzazione da parte delle scuole di iniziative di orientamento. Quanti poi ottengono il titolo del 1° ciclo si iscrivono ad un istituto del sistema dei licei o del sistema di istruzione e formazione professionale fino al conseguimento di un diploma liceale o di un titolo o di una qualifica professionale di durata almeno triennale sino al diciottesimo anno di età. Sul piano informativo, a sostegno dell’attuazione del d.-dovere, viene creato il sistema nazionale delle anagrafi degli studenti. Il nuovo governo di centro-sinistra ha deciso di innalzare di due anni l’obbligo di istruzione (cfr. comma 626 della L. 296 / 06) perché sarebbero necessari per rafforzare ed elevare le competenze di base e per effettuare le scelte di indirizzo e di percorso con una maggiore consapevolezza. Nonostante l’intenzione certamente positiva, nel confronto tra obbligo di istruzione e d.-dovere di istruzione e di formazione mi sembra che vada preferita senz’altro la seconda impostazione perché l’obbligo presuppone una concezione di cittadini come sudditi che uno Stato benevolo e lungimirante e sollecito degli interessi loro e dell’intera società costringe ad istruirsi, mentre il d.-dovere rinvia alla consapevolezza dei cittadini circa la loro capacità di assumere in prima persona il compito della propria formazione.

Bibliografia

Pototschnig U., «Istruzione (d. alla)», in​​ Enciclopedia del d.,​​ vol. XXIII, Milano, Giuffré, 1973, 96-116;​​ Rapporto del Gruppo Ristretto di Lavoro costituito con D. M. n. 672 del 18 luglio 2001, in «Annali dell’Istruzione» 47 (2001) 1 / 2, 3-176; Montemarano A.,​​ Dall’obbligo scolastico e formativo al d.-dovere all’istruzione e formazione, in «Rassegna CNOS» 21 (2005) 3, 110-116; Malizia G., «La legge 53 / 2003 nel quadro della storia della riforma scolastica in Italia», in R. Franchini - R. Cerri (Edd.),​​ Per​​ una istruzione e formazione professionale di eccellenza, Milano, Angeli, 2005, pp. 42-63;​​ Audizione del Ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni. VII Commissione Cultura,​​ Scienza e Istruzione​​ (29 giugno 2006), Roma, 2006; Romei P.,​​ D.-dovere all’istruzione e alla formazione: qualche considerazione, in «Dirigenti Scuola» 24 (2005) 4, 20-26.

G. Malizia

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DIRITTO ALL’EDUCAZIONE
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