DIO

DIO

Carlo Molari

 

1. Introduzione: il problema

2. Vie di approccio a Dio

2.1. L'esperienza della creazione

2.2. Richiamo alla storia o alla tradizione

2.3. Esperienza vitale

3. Analisi della fede in Dio

3.1. Credenze

3.2. Creazione

3.3. Impegno di fedeltà

4. Limite del linguaggio umano

4.1. Fondamento di continuità e analogia

4.2. Ateismo e indifferenza

5. L'azione di Dio

5.1. Il modello panteista

5.2. Il modello predicamentale

5.3. Il modello magico

5.4. Il modello miracolistico

5.5. Il modello ereazionistico o trascendente

5.6. Incarnazione

5.7. Miracoli

6. Il Dio cristiano: la fede trinitaria

7. Educare alla fede in Dio, oggi

7.1. Cultura scientifica

7.2. Secolarizzazione

7.3. Moltiplicazione dei beni

7.4. La velocità dei processi storici

8. Compiti della pastorale giovanile

 

1. Introduzione: il problema

La pastorale giovanile in rapporto alla fede in Dio deve risolvere il problema di individuare i modi più efficaci per educare a leggere e a vivere l’esistenza nell’orizzonte della fede così da scoprirne il fondamento trascendente. Praticamente si tratta di indicare le vie attraverso cui una generazione può trasmettere a quella successiva la propria fede in Dio. La trasmissione di una fede non consiste nella semplice comunicazione di una interpretazione del mondo o di un complesso di dottrine, ma nella induzione di un atteggiamento vitale, che consenta la scoperta della vita, delle sue ricchezze e del suo fondamento.

La specifica caratteristica del problema in ambito giovanile consiste nel fatto che la fede in loro è ancora in formazione. 11 che significa che la scoperta di Dio non è ancora definitivamente personale, e richiede perciò una continua ed efficace testimonianza degli adulti. La pastorale giovanile, quindi, dovrà soprattutto ricercare i meccanismi di maturazione della fede in Dio e valorizzare le esperienze che consentono l’interiorizzazione delle testimonianze.

La testimonianza di Dio e conseguentemente la sua scoperta personale avviene per diverse vie e non è facile tracciare una indicazione valida per tutti. È possibile però individuare alcune piste più frequenti e le condizioni necessarie per seguirle, tenendo sempre presenti i limiti delle formule umane e l’inadeguatezza delle parole che si riferiscono a Dio.

 

2. Vie di approccio a Dio

Le vie che l’uomo abitualmente percorre per accostarsi al problema di Dio possono essere ricondotte a tre: la creazione, la tradizione storica e la esperienza vitale. Anche se diverse, esse non si escludono a vicenda, ma possono essere percorse simultaneamente. Nelle varie fasi dell’esistenza Luna o l’altra acquista maggiore importanza, secondo la sensibilità o le esperienze compiute. Ma tutte si prestano agli approfondimenti razionali o alle dinamiche della fede.

Alcuni pensano che le argomentazioni della ragione relative a Dio si differenzino radicalmente dalle dinamiche della fede. Ma in realtà la conoscenza umana ha modalità intrecciate e non è possibile delimitare in modo assoluto i suoi ambiti a scompartimenti stagno. 11 rapporto con la realtà, come l’uomo lo stabilisce e come si concretizza nella conoscenza intellettiva, ha una sua interna dinamica a trascendere gli oggetti immediati, una tensione a superare le cose che conosce. La ragione per questo si scopre insufficiente a esaurire tutti gli ambiti del sapere e anzi essa stessa riconosce e fonda la legittimità di altri ordini di conoscenza relativi alla medesima realtà, che, essendo complessa, può essere analizzata da prospettive diverse e illuminata da varie luci.

 

2.1. L’esperienza della creazione

La creazione costituisce uno spazio molto frequentato dalle riflessioni razionali su Dio. Le esperienze della creazione, infatti, alimentano spesso sensi di ammirazione e di stupore che conducono alla scoperta di Dio. Anche se le prime espressioni di riflessione cosmologica, che ci sono pervenute, si sviluppano nell’ambito dell’esperienza religiosa, caratteristica delle culture primitive e quindi implicano un esercizio acritico della fede, esse hanno introdotto e sviluppato la conoscenza razionale di Dio, che poi ha acquistato una sua autonomia e che ha dato largo spazio all’argomento cosmologico. La riflessione naturale su Dio si richiama ai diversi aspetti dei processi naturali: al finalismo delle cose create, specialmente dei viventi, che sembra richiedere un ordinatore supremo; alla contingenza, che sembra esigere un creatore trascendente; allo splendore del cosmo, che sembra rimandare a un paradigma supremo di bellezza.

Oggi nella crisi della metafisica classica, la teodicea, o teologia razionale, è molto discussa per il suo metodo ed è anche contestata per la presunzione che spesso la attraversa di definire la realtà divina. Di fatto non è raro che essa scada in antropomorfismi e presenti l’azione divina come una supplenza all’insufficienza delle creature o della loro azione. Ogni volta che la filosofia e la teologia si sono mosse in questo piano, hanno presentato un Dio stregone o taumaturgo e hanno cercato di supplire alla ignoranza umana nello spiegare i fenomeni della creazione o gli eventi della storia con presunti interventi di Dio. 11 vuoto così ha fatto pensare all’esigenza di una presenza fisica di Dio, il sorgere della vita all’immissione di una energia vitale nuova, l’origine dell’uomo all’adattamento delle forme animali precedenti e alla creazione immediata dell’anima individuale da parte di Dio. Questo modo di pensare all’azione divina pone Dio a livello delle creature e quindi la sua attività in ambito «predicamentale» o «categoriale», cioè sullo stesso piano operativo delle creature. Ma se Dio è trascendente e creatore, la sua azione non può situarsi a livello delle cause da noi conosciute: non produce le cose ma le crea, non le costruisce, ma fa che esse si costituiscano e diventino.

La via cosmologica o la riflessione teologica sulla creazione non è esclusiva della ragione. Anche la fede può e deve percorrere questi sentieri se vuole rintracciare tutte le espressioni della gloria divina. Anche nella tradizione biblica e quindi in quella cristiana la via della creazione è stata percorsa in modi spesso sublimi. La stessa iconografia quando è stata costretta a difendersi dall’accusa di idolatria, nella polemica iconoclasta, ha rintracciato le sue ragioni sulla possibilità di descrivere la gloria di Dio attraverso i simboli della creazione. Quanto alla legittimità di questi percorsi, il libro della Sapienza scrive: «Davvero stolti per natura tutti gli uomini che vivevano nell’ignoranza di Dio, e dai beni visibili non riconobbero colui che è, non riconobbero l’artefice, pur considerandone le opere... Difatti dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’autore» (Sap 13, 1,5). E san Paolo, scrivendo ai Romani, osserva: «Dalla creazione del mondo in poi, le perfezioni di Dio possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità» (Rm 1,20).

Questa contemplazione del creato permette al credente di cogliere la «gloria» divina, cioè la manifestazione creata della sua perfezione trascendente, e conduce alla preghiera di lode, cioè alla glorificazione del Creatore. Tutta la Bibbia è percorsa da questi atteggiamenti dell’uomo di fronte allo splendore e alla potenza della natura: «O Dio Signore nostro, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra, tu che espandi oltre i cieli la tua gloria» (Sal 8, 2.10); «Narrano i cieli la gloria di Dio, l’opera sua proclama il firmamento» (Sal 19, 2); «Quanto sono grandi, Signore, le tue opere! Tutto hai fatto con saggezza» (Sal 104, 24). Queste espressioni non sono semplici conclusioni della ragione, sono esercizio di fede, sguardo oltre la superficie delle cose per accogliere la rivelazione che esse realizzano.

 

2.2. Richiamo alla storia o alla tradizione

Un’altra via percorribile nella scoperta di Dio è quella che si richiama alla tradizione o alla storia come luogo di rivelazione. Molte tradizioni religiose hanno interpretato esperienze mistiche come rivelazione di Dio e hanno conservato la loro memoria nei libri sacri. Anche la tradizione ebraica è centrata sulla memoria di quegli eventi di rivelazione che hanno condotto alla scoperta di Dio o ne hanno rafforzato il riconoscimento fedele. La tradizione cristiana ha assunto la storia ebraica e alla sua luce ha letto l’esperienza di Gesù Cristo come compimento delle sue premesse. La sostanza della fede in Gesù come Messia e salvatore può essere riassunta nella definitiva rivelazione di Dio che si crede in lui realizzata. Credere in Cristo significa accogliere questa rivelazione e continuare nel tempo l’esercizio della sua fede in Dio.

La via della tradizione è stata percorsa soprattutto dalla fede religiosa, ma non sono mancati tentativi razionali di sviluppare questa modalità di conoscenza. Il «tradizionalismo» è stato, alla fine del secolo scorso, una espressione significativa di questa tendenza, che ha un fondamento plausibile nelle dinamiche stesse della cultura. Perché se la rivelazione viene concepita come una serie di eventi attraverso i quali l’uomo è condotto da Dio a scoprire il senso della propria esistenza e della realtà che lo avvolge, i suoi contenuti, una volta acquisiti, sono analizzabili anche con gli strumenti della ragione e sono quindi trasmissibili alle nuove generazioni come componenti della cultura, anche prescindendo da ogni riferimento a Dio come sua fonte originaria. In una cultura in cui il passato ha rilievo preminente, questo processo è facilmente realizzabile. Più difficile, invece, esso diventa in una cultura, come la nostra, in cui il futuro sta scalzando il passato nel ruolo di riferimento assoluto. Oggi i meccanismi della trasmissione della cultura e dei suoi valori non possono poggiare esclusivamente e neppure principalmente sulla forza della tradizione.

Per quanto riguarda l’ambito della fede religiosa, ricorrere alla rivelazione significa poggiare la credenza in Dio sulla testimonianza stessa di Dio quale ci viene dalla storia o dalla tradizione; significa, cioè, indurre la fede come risposta alla Parola di Dio così come i diversi popoli l’hanno colta negli eventi della loro storia. Certamente l’azione pastorale deve favorire una risposta personale di questo tipo. Occorre ricordare però che riconoscere Dio e riferirsi a lui nella propria azione in virtù della sua rivelazione suppone che la storia venga già interpretata come risonanza della Parola di Dio che si rivela, e quindi suppone già l’esercizio della fede che si vuole indurre. È precisamente questo esercizio di fede da parte di comunità, in cui i rapporti vitali sono intensi, a indurre la fede in Dio nelle nuove generazioni. Nella prima fase dell’esistenza è questo l’unico modo possibile per vivere la fede in Dio. Ma la vita stessa esige che almeno alcuni giungano alla scoperta personale di Dio, che può avvenire solo più tardi, non necessariamente attraverso sconfitte e delusioni, ma in virtù anche di esperienze positive, che facciano scoprire il fondamento della testimonianza accolta e della tradizione in cui si è inseriti.

 

2.3. Esperienza vitale

Un terzo modello di approccio a Dio è quello legato alle dinamiche della tensione vitale: Dio come risposta alla ricerca di vita propria dell’uomo, come senso ultimo della sua esistenza e come ragione di ogni sua tensione. L’uomo viene al mondo bisognoso di tutto, ma soprattutto non ancora stabilito nella sua identità. Egli non è ancora sé stesso e sente di doverlo diventare. Inizialmente egli si illude di avere in sé stesso gli elementi sufficienti per rispondere a questa tensione vitale. È l’illusione narcisista. Ben presto scopre di non avere in sé le ragioni e le forze sufficienti per compiere il cammino della propria identificazione e che solo attraverso i rapporti gli pervengono le energie necessarie per la propria realizzazione. Sorge allora l’illusione idolatrica, che esistano cioè cose, persone o situazioni che rispondano in modo definitivo alla tensione profonda che egli porta. Arriva infine il momento in cui si sperimenta Tillusorietà di questa attesa. A questo punto sono possibili due vie: o la scelta dell’assurdo o la scelta di Dio. La scelta dell’assurdo si esprime nella convinzione che l’uomo è un essere anomalo, desideroso di ciò che non esiste, portatore di speranze sproporzionate alle risposte possibili, soggetto quindi di illusioni continue. Giunto a questa convinzione, l’uomo o rifiuta la vita come un inganno o si adagia in forme di rassegnata e inerte passività. La scelta di Dio, invece, implica la convinzione che il Bene esiste già e sollecita l’uomo ad amare, che la Verità ricercata dall’uomo esiste già e spinge l’uomo a trovarla, che la Giustizia è già reale e sollecita l’uomo a introdurla in forme nuove nella sua storia, che la Bellezza esiste già e cerca spazi umani per rivelarsi, che la vita esiste già e sollecita l’uomo ad accoglierla. Ma la convinzione dell’esistenza di Dio non è sufficiente per esperienze personali di fede. È necessario che si colga all’interno della propria esistenza il significato che questo fatto ha. È necessario, cioè, che si sperimentino le incidenze vitali di questa scelta: quale gioia irrompe nella vita da questa decisione, quale solidità acquistano le nostre azioni, quale certezza caratterizza le nostre convinzioni, ecc. Allora il problema di Dio si pone in modo personale e la vita cambia segno, perché non sono più solamente le strutture comunitarie, le tradizioni religiose, le abitudini sociali a sostenere convinzioni e scelte vitali. La fede in Dio diventa orizzonte stabile di esistenza e rende ormai capaci di indurre in altri la fede in Dio, di esercitare la funzione di testimonianza.

Ma questi percorsi non sono necessari a tutti per giungere alla acquisizione di Dio. Vi possono essere acquisizioni vitali effettuate per testimonianze convergenti della comunità di appartenenza. Esse consentono di evitare esperienze negative, di scontrarsi con i limiti e con le insufficienze e di percorrere decisamente le vie positive cogliendone direttamente il valore e i significati. Questa possibilità è legata ai meccanismi di fede che si sviluppano all’interno di ogni comunità umana, soprattutto se alimentata da pratiche religiose e se percorsa da dinamiche ideali molto intense.

 

3. Analisi della fede in Dio

Ogni fede ha due componenti: l’atteggiamento di fiducioso abbandono e la interpretazione della vita che esso suscita. Mentre la prima componente si ritrova sostanzialmente identica in tutte le forme di fede, la seconda, che costituisce propriamente la credenza, varia notevolmente nei suoi contenuti conoscitivi. La fede in Dio è l’espressione liminare delle diverse forme esistenziali di fede, ne è l’ultima soglia. Essa quindi implica tutte le dinamiche quotidiane della fiducia che la vita esige per essere vissuta. Tutte le forme di fede, perciò, possono alimentare la fede in Dio, ma nessuna di esse ne copre totalmente le dinamiche.

 

3.1. Credenze

Le interpretazioni della realtà divina nelle varie religioni sono molto diverse, ma sostanzialmente possono essere ricondotte alla esistenza di un Bene assoluto e supremo, principio di vita e di benessere per l’uomo. In sostanza, credere in Dio significa ritenere che il Bene esiste prima dell’amore umano e ne è la ragione ultima, che il Vero esiste prima della ricerca umana e ne costituisce lo stimolo fondamentale, che il Giusto esiste prima delle esigenze umane ed è il motivo primo dei suoi progetti, che il Vivente esiste prima dell’esistenza umana, ed è il fondamento delle sue possibilità, che in un Presente, in definitiva, risiede già la pienezza e la ragione di tutto ciò che l’uomo è e cerca di diventare.

 

3.2. Creazione

A questa convinzione si riconduce il concetto di creazione, sul quale sono facili gli equivoci. La ripresa della neoscolastica alla fine del secolo scorso ha avuto nel concetto di creazione uno dei capitoli più significativi. In particolare il teologo domenicano A. D. Sertillanges (1863-1948) lungo tutta la sua vita ha cercato di purificare il concetto di creazione da incrostazioni fantastiche e da deviazioni mitiche. Soprattutto nel commento alla Somma di teologia di san Tommaso (Éditions de la revue des jeunes, Desclée et Cie, Paris-Tournai-Rome 1927) e in un ottimo volume postumo (L’idée de création et ses retantìssements en philosophie,​​ Aubier, Paris 1945) ha cercato di chiarire con coerenza e rigore logico l’affermazione di san Tommaso: «La creazione non è un cambiamento. È la dipendenza stessa dell’essere creato in rapporto al suo principio»​​ (Contro Gentes​​ 2,18). Credere in Dio creatore, a rigor di termini, non significa di per sé pensare all’inizio del cosmo o ad interventi divini nei meccanismi della realtà. Il concetto di creazione non esige l’inizio nel tempo e può comporsi anche con l’eternità della materia o della stoffa primordiale da cui è derivata la molteplicità delle cose. Affermare la creazione significa sostenere il carattere contingente e radicalmente dipendente di tutte le cose da una Realtà suprema, che le costituisce nel loro essere e le sostiene nel loro divenire.

È facile cedere alla tentazione di ricorrere alle teorie scientifiche relative al Big bang o alla origine temporale del cosmo per introdurre l’idea di Dio come creatore. La via è però ambigua e pericolosa, perché favorisce una concezione inadeguata dell’azione di Dio in generale e dell’atto creativo in particolare.

 

3.3. Impegno di fedeltà

Esercitare la fede in Dio, oltre alla convinzione di un creatore, implica anche un impegno di fedeltà, atti compiuti per la esplicita fiducia nella sua azione: atti di amore motivati dal Bene, ricerche di verità, animati dalla fiducia nel Vero, progetti di fraternità, sostenuti dalla fiducia nel Giusto, scelte rischiose di vita, rese possibili dalla fiducia nel Vivente. Questi atti hanno caratteristiche diverse da quelli compiuti per altre motivazioni. La differenza tra i diversi tipi di fede sta appunto nell’oggetto di fiducia che la sostiene e la anima. La fede in Dio si esercita in rapporto ad un amore immenso che precede e fonda 1’esistenza umana, del quale però l’uomo è in grado di parlare solo in riferimento alla propria tensione vitale. Ma a ben riflettere, così impostato, il problema di Dio è centrato sul problema dell’uomo. Esso corrisponde alla domanda di senso della sua vita, alle ragioni di fondo delle sue scelte e delle sue decisioni. Dove va l’uomo? Perché la vita? Quale è la ragione delle sue decisioni?

 

4. Limite del linguaggio​​ umano

Nel formulare le sue risposte, la teologia, che si richiami alla ragione o alla fede, deve sempre tener conto dello statuto delle sue parole. Il discorso su Dio è discorso liminare, che riguarda cioè uno di quegli ambiti che si situano oltre ciò che l’uomo può descrivere e che quindi egli avverte come limite del suo discorso, confine invalicabile del suo conoscere diretto. Questo vale per ogni tipo di conoscenza umana e non solo per le parole relative a Dio. Ogni parola pronunciata dall’uomo ha significati precisi in quanto ha confini definiti. Ma i confini non escludono altri ambiti di significato. Ogni parola, infatti, ha aloni di significati, che si protendono oltre i suoi confini. Riguardo a questo carattere delle parole umane, non esistono sostanziali differenze tra i diversi settori delle conoscenze umane. Solo il punto di partenza e la natura dell’esperienza qualificano le diverse affermazioni e stabiliscono i diversi ambiti delle affermazioni umane. Per questo parlare del «totalmente altro» è possibile in ogni settore di esperienza, sia in quella religiosa che in quella profana. Le parole di fede possono appartenere perciò a tutte le sezioni del linguaggio umano.

 

4.1. Fondamento di continuità e analogia

Questo fatto costituisce il fondamento della continuità fra esperienza profana e religiosa, e la ragione della analogia tra l’ambito della ragione e l’ambito della fede, pur nella diversità di approcci e di esiti.

A questo proposito è frequente sentire parlare della fede in Dio come un dono soprannaturale in contrapposizione alla conoscenza razionale di Dio. Ma in realtà ogni conoscenza di Dio è espressione di un dono accolto, ed è quindi grazia. Nello stesso tempo ogni affermazione teologica si situa nel piano della natura, cioè della conoscenza umana, anche quando si riferisce alla rivelazione, dato che questa si svolge attraverso la creazione e gli eventi della storia.

 

4.2. Ateismo e indifferenza

Il limite del linguaggio umano è anche la ragione della possibilità dell’ateismo e di quel fenomeno culturale che negli anni sessanta si presentò come «morte di Dio». I suoi fautori partivano dalla constatata precarietà del linguaggio teologico e dalla insufficienza dei modelli umani relativi all’agire divino. Dio non abita nelle parole degli uomini come in casa propria, per cui è possibile costruire un discorso sensato sulla creazione e sulla storia che rifiuti Dio o almeno che non lo prenda mai in considerazione. La ragione di ciò sta nel fatto che la presenza divina nella creazione e la sua azione nella storia resta sempre creatrice e non emerge mai a livello di causalità creata, per cui tutto si svolge come se Dio non fosse o come se Dio non operasse. Molte ambiguità sul fenomeno dell’ateismo o della indifferenza nascono appunto da questa assenza di Dio a livello predicamentale, cioè delle cause create, essendo egli sempre e solo creatore.

 

5. L’azione di Dio

Il modo di presentare Dio e il suo problema è intimamente legato al modello utilizzato nell’interpretare l’azione di Dio. Gli errori più frequenti nella interpretazione delle formule di fede, e anche i guasti più gravi nella loro trasmissione, derivano spesso dalla inadeguata concezione dell’azione di Dio nella creazione e nella storia umana. Con una certa approssimazione, si possono individuare cinque modelli nel corso del cammino religioso e culturale degli uomini: modello panteista, modello predicamentale, modello magico, modello miracolistico e modello creazionista o trascendente.

 

5.1. Il modello panteista​​ 

concepisce tutta la realtà del cosmo penetrata da energie celesti e permeata* da potenze divine.

 

5.2. Il modello predieamentale​​ 

è quello comune a molte culture antiche, per cui la natura era considerata di per sé stessa passiva e inerte. Ogni movimento e cambiamento veniva ricondotto ad esseri trascendenti, buoni o cattivi. La pioggia, il fulmine, la nascita dei singoli viventi, il pensiero dell’uomo, i sogni, venivano attribuiti all’influsso di esseri celesti. Molte formule bibliche risentono di questa visione delle cose, che fa di Dio una componente fisica della creazione.

 

5.3. Il modello magico​​ 

attribuisce alle energie celesti o infernali una presenza particolare in alcuni oggetti, luoghi o persone, che acquistano perciò valore sacro e poteri straordinari.

 

5.4. Il modello miracolistico​​ 

concepisce Dio come un essere capace di modificare le situazioni umane, con interventi che aggiungono energia vitale, perfezionano l’azione degli uomini e suppliscono alle loro carenze.

 

5.5. Il modello creazionistico o trascendente,​​ 

infine, concepisce l’azione di Dio come fondante costantemente la realtà creata senza però mai sostituirsi ad essa.

La teologia attuale sta facendo proprio questo ultimo modello interpretativo. A tale acquisizione hanno contribuito diversi fattori convergenti. Oltre alla recente irruzione della coscienza storica, ha avuto un peso notevole il confronto con le scienze della natura e la secolarizzazione.

Teilhard de Chardin (1881-1955), gesuita francese, paleontologo, ha riflettuto lungamente sulle categorie scolastiche dell’azione di Dio nel mondo e nella storia, spinto dalla esigenza di armonizzare il linguaggio della fede con le conquiste della scienza e con le sue diverse ipotesi. Chiarendo il concetto di creazione scriveva: «La creazione... non è una intrusione periodica della Causa prima: è un atto coestensivo a tutta la durata dell’universo» (Teilhard de Chardin,​​ La transformation creatrice​​ [inedito del 1917], in​​ Comment je crois,​​ Seuil, Paris 1969, p. 31). Perciò: «Là dove Dio opera, a noi è sempre possibile (restando a un certo livello) non cogliere se non l’opera della natura... La causa prima non si mescola agli effetti: egli opera sulle nature individuali e sul movimento d’insieme. Dio, propriamente parlando, non fa le cose, ma fa che le cose si facciano» (Id.,​​ Note sur les modes de l’action divine dans l’univers​​ [inedito del 1920], in​​ Comment je crois,​​ cit., p. 38). «Quando la causa prima opera, essa non si inserisce nel mezzo degli elementi di questo mondo, ma agisce direttamente sulle nature in modo che, si potrebbe dire, Dio «fa» meno le cose di quanto non operi in modo che esse si facciano» (Id.,​​ Comment se pose aujourd’hui la question du transformisme,​​ in

Études,​​ 5-12 juin 1921, ora in​​ La vision du passé,​​ Seuil, Paris 1957, p. 39).

K. Rahner, in un medesimo contesto culturale, ma con sensibilità maggiormente teologica, afferma: «Sembra che dovunque si riscontra nel mondo un effetto, se ne debba postulare la causa nel mondo stesso e la si possa e debba cercare, appunto perché Dio, rettamente concepito, opera tutto mediante le cause seconde... [altrimenti] ... l’agire divino viene a collocarsi nel mondo accanto a quello delle creature, invece di essere il fondamento trascendente di tutto l’agire delle creature» (K. Rahner,​​ Il problema dell’ominizzazione,​​ Morcelliana, Brescia 1969, p. 96). Dio perciò «non opera qualcosa non operata dalla creatura, né si affianca all’agire della creatura: rende solo possibile alla creatura superare e trascendere il proprio agire»​​ (ivi,​​ p. 99). Più chiaramente ancora: «Le vicende e gli eventi di un ente finito stanno continuamente sotto la pressione (se così possiamo dire) dell’essere divino. Tale pressione non rientra nei costitutivi essenziali di un esistente finito, però può farne sempre qualcosa di più di quanto essa sia in sé e farlo propriamente diventare quello che è» (Id.,​​ Scienze naturali e fede razionale,​​ in​​ Scienza e fede cristiana,​​ Paoline, Roma 1984, p. 58). Solo utilizzando modelli così purificati di azione divina è possibile evitare ambiguità nell’interpretare la provvidenza e il rapporto dell’impegno umano con l’azione divina. Secondo questo modello diventano inutili tutte le dispute che per secoli hanno diviso le scuole teologiche, senza che si potesse giungere mai ad un accordo sul cosiddetto concorso divino e sulla predestinazione. Il rapporto tra azione umana e concorso divino, come il rapporto fra grazia e libertà, ha una dinamica singolare, perché Dio non è a livello delle cause create, ma resta sempre e solo creatore. Non vi è quindi possibilità di conflitti e di contrapposizioni. La libertà di Dio fonda la libertà umana e la alimenta come creatore senza interferire mai a livello predicamentale nelle sue dinamiche.

 

5.6. Incarnazione

In questa luce appare il valore della incarnazione come paradigma dell’azione creatrice di Dio e quindi il significato del riferimento a Cristo per l’esercizio della fede in Dio. Il dono della vita è troppo grande per essere accolto in un solo istante. L’uomo può farlo suo solo progressivamente, a frammenti, attraverso eventi storici successivi. Ciò non significa che l’uomo, sviluppandosi nella storia, possa pervenire automaticamente alla sua pienezza.

Nessun passato, infatti, può contenere i principi sufficienti per il futuro dell’uomo. Ogni giorno l’offerta creatrice di Dio è necessaria, e può essere accolta in modo sempre più perfetto. Anche la capacità di accoglienza è dono, frutto cioè dell’azione creatrice e gratuita di Dio, che sollecita libertà.

L’azione dell’uomo non è solamente una risposta alle richieste della storia, ma anche epifania della perfezione di Dio, emergenza della sua azione creante, espressione del suo amore. La storia, in questa prospettiva, costituisce il luogo dell’offerta continua di cui l’uomo ha bisogno per diventare sé stesso, lo spazio di una perenne incarnazione.

 

5.7. Miracoli​​ 

In questo modello i miracoli, cioè quegli eventi straordinari attraverso i quali l’azione di Dio emerge in forme inedite, insospettate, e che perciò fanno pensare, acquistano un significato diverso da quello attribuitogli dalla apologetica degli ultimi secoli. Secondo il modello trascendete dell’azione divina, il miracolo non è un intervento predicamentale di Dio, ma è l’espressione straordinaria dell’accoglienza da parte dell’uomo della continua azione divina che lo sostiene o lo costituisce agente. Anche la preghiera non viene interpretata come la sollecitazione per un intervento divino, ma come il modo per accogliere in maniera più ricca e intensa l’azione creatrice di Dio, sempre presente con offerte maggiori di quelle che l’uomo sia capace abitualmente di accogliere.

 

6. Il Dio cristiano:​​ la fede trinitaria

La caratteristica fondamentale del monoteismo cristiano è la sua declinazione trinitaria. In realtà per il cristiano l’affermazione biblica dell’unità di Dio resta fondamentale. Ma la trascendenza di Dio, in cui crede, gli impedisce di ridurre a una sola parola e a un’unica modalità storica la sua azione. La formulazione trinitaria della storia salvifica è l’espressione concreta della trascendenza divina nel momento in cui l’uomo descrive l’azione divina e si decide a dire la sua esperienza di Dio.

Di fronte alla trascendenza divina ci sono due vie ugualmente percorribili: il silenzio adorante e la moltiplicazione delle formule. Il musulmano conosce 99 attributi divini che ripete continuamente nella preghiera. La tradizione ebraica ricorre alla personalizzazione della​​ Thorà, della Sapienza, della Parola di Dio per esprimere l’efficacia della sua azione creatrice e rispettarne la trascendenza. Il cristiano, per lo stesso motivo, utilizza formule trinitarie: Dio Principio o Padre, Parola o Figlio, Spirito Santo. Con queste parole il cristiano non ha la presunzione di descrivere e di dire la realtà di Dio in sé stessa: anche le formule trinitarie sono umane, legate all’esperienza di comunità ecclesiali e derivate dalla riflessione sull’azione salvifica di Dio. Alla molteplicità dell’azione divina nella storia salvifica corrisponde una realtà in Dio, ma come essa sia, l’uomo non lo sa e il cristiano non ha la presunzione di dirlo. La Trinità che i cristiani proclamano è una trinità economica (relativa cioè alla economia della salvezza) e solo in rapporto a questa essi parlano di Dio trascendente con formule trinitarie.

Il cristiano deve saper confrontare continuamente il suo monoteismo trinitario con quello ebraico e musulmano per non cadere nella idolatria delle proprie formule e perdere il senso dell’unità, che è il dato prioritario e supremo della fede in Dio. D’altra parte deve sapere offrire la propria esperienza di Dio ai fratelli musulmani ed ebrei, in modo che anch’essi non cadano nella idolatria delle proprie parole e scoprano la reale molteplicità storica delle manifestazioni divine.

Molti equivoci diffusi a questo proposito derivano dal termine «persona», utilizzato tradizionalmente in ambito cristiano per indicare i soggetti della formula trinitaria. Si parla di Dio come persona e si dice che il Padre, il Figlio e lo Spirito sono tre persone in una unica natura. Occorre però ricordare che il termine​​ persona​​ traduce il termine greco​​ prósopon​​ (maschera teatrale, personaggio) e che nella attuale formula trinitaria corrisponde alla parola greca​​ ypóstasis,​​ che letteralmente significa sostanza o realtà soggiacente. Con il termine​​ persona​​ oggi indichiamo un soggetto cosciente e libero, mentre la parola greca​​ ypóstasis​​ non aveva queste connotazioni di interiorità e di soggettività. Nel senso attuale del termine, dicendo che in Dio vi sono tre persone si induce facilmente l’idea di tre soggetti autonomi e indipendenti, che è contraria alla dottrina della fede e corrisponde all’eresia del triteismo già condannata nel secolo terzo. È forse più utile tralasciare l’uso del termine persona e servirsi delle formule bibliche che parlano del Padre, per indicare il principio supremo e assoluto, della sua Parola espressa fin dall’eternità, detta anche Figlio, per esprimere la sua azione rivelatrice, e del suo Spirito per indicare la forza vitale che irrompe nel mondo.

 

7. Educare alla fede in Dio, oggi

Le condizioni di vita oggi comuni rendono inattuali formule in altri secoli efficaci e significative che privilegiano un particolare approccio al problema di Dio ed esigono perciò una specifica pastorale. La diffusione della cultura scientifica, che favorisce un approccio critico alla creazione, la accelerata velocità dei processi storici, che relativizza in poco tempo ideologie e miti, la diffusa secolarizzazione, che svuota molti modelli religiosi tradizionali, la facile ed estesa moltiplicazione dei beni, che rende frequente l’esperienza di insufficienza vitale, rendono obbligatoria una scelta pastorale diversa da quella di altri tempi.

 

7.1. Cultura scientifica

Lo sguardo che oggi i giovani hanno nei confronti della creazione è caratterizzato dai modelli diffusi dalla scienza. È improponibile un approccio a Dio che non tenga conto di questo fatto e che quindi supponga un’azione divina necessaria per spiegare qualche fenomeno della creazione, anche se straordinario. D’altra parte è da riconoscere la facile tentazione di valorizzare forme apologetiche dell’uso della scienza, oggi sempre precarie, date le conclusioni provvisorie della scienza e la sensibilità secolarizzata sempre più diffusa. Ciò non esclude che si utilizzi l’argomento cosmologico per chiarire le ragioni della affermazione di Dio da parte dell’uomo, ma il suo uso deve essere sempre accompagnato dalla consapevolezza della modestia delle conoscenze umane e della insufficienza delle sue interpretazioni.

 

7.2. Secolarizzazione

La progressiva scoperta delle leggi di natura e delle cause intrinseche alla creazione e alla storia ha reso sempre più rara l’attribuzione dei loro eventi ad agenti trascendenti, e ha favorito quindi la​​ desacralizzazione.​​ Per la stessa ragione nella società civile hanno avuto sempre minore incidenza le strutture e le agenzie religiose e si sono aperti spazi sempre maggiori a quelle civili o mondane Qecolarizzazioné).​​ Conseguentemente le persone incaricate di gestire il sacro sono state sempre più emarginate, mentre compiti sempre più decisivi hanno avuto le persone dedite alle professioni mondane (laicizzazione). Questo processo, che con un termine generico viene chiamato​​ secolarizzazione,​​ sembra caratterizzare in modo irreversibile le società industrializzate e, in ogni caso, costituisce la cornice nuova del problema di Dio e della esperienza religiosa.

 

7.3. Moltiplicazione dei beni

La disponibilità dei beni oltre alle strette necessità della sopravvivenza ha introdotto nelle società benestanti nuove abitudini e atteggiamenti inediti. Essa, da una parte ha favorito lo sviluppo dei desideri non più legati alle necessità di vita, ma al piacere del possesso, e d’altra parte ha reso sempre più facile e drammatica la scoperta della insufficienza delle cose e ha moltiplicato, quindi, il senso della precarietà. Queste esperienze conducono necessariamente a una radicale insoddisfazione della vita e alla ricerca affannosa di altri sbocchi, che ben presto si rivelano illusori e dannosi.

 

7.4. La velocità dei processi storici

Particolare incidenza nelle problematiche religiose ha la esperienza dei frequenti cambiamenti che per la velocità dei processi storici si realizzano nella visione del mondo e nella sua interpretazione. 1 cambiamenti scientifici, tecnici e culturali favoriscono la caduta degli idoli, la difficile resistenza delle ideologie. Il fatto in sé stesso è positivo, perché ogni idolatria è ingannevole. Ma quando la caduta degli idoli è troppo precoce e senza corrispondenti testimonianze di vita, può provocare il crollo di ogni ideale e la sconfitta della speranza.

 

8. Compiti della pastorale giovanile

Nelle condizioni attuali della cultura e della società la pastorale preoccupata di una educazione solida alla fede deve soprattutto indurre esperienze di vita autentica, e offrire ambiti di riflessione. Non deve favorire scelte religiose motivate da sfiducia nelle vie della ragione, o semplicemente dalle sconfitte delle proprie speranze, ma dalle certezze maturate nelle esperienze di vita compiute in un orizzonte di fede.

In particolare la pastorale giovanile deve valorizzare le possibilità reali della ragione, ma deve educare a pensare a Dio come causa fondante e creatrice e non come supplente le deficienze delle creature. Per questo deve evitare la tentazione di rincorrere continuamente l’ignoranza umana per inserire il riferimento a Dio quando non si sanno spiegare eventi della creazione. Deve saper utilizzare i dati della scienza per condurre i giovani alla contemplazione della creazione, ma senza operare il cortocircuito di chi supplisce l’ignoranza umana con l’azione divina. Soprattutto con le generazioni che hanno assorbito il clima della cultura scientifica è necessario essere molto rigorosi nella proposta razionale di Dio e nella riflessione sulla sua azione. Nei paesi industrializzati, la pastorale giovanile deve necessariamente acquisire metodi e forme che tengano conto della secolarizzazione. Da una parte deve creare ambienti nei quali sia facile vivere tutte le situazioni nella fede in Dio e vivere i rapporti in riferimento al Vangelo di Cristo, dall’altra deve educare a leggere la storia quotidiana e a vivere ogni situazione in maniera salvifica, cioè capace di accogliere doni di vita, che, secondo la legge della incarnazione, sono a disposizione dell’uomo in virtù dell’azione creatrice di Dio. In tale modo la fede in Dio viene a costituire un quadro di sicurezze assolute, non per mezzo di semplici teorie o di dottrine, ma attraverso il riferimento vitale a Cristo e al Dio che egli ha rivelato.

Solo così è possibile scoprire a quale gioia conduce la fede vissuta, a quale oblatività dell’amore, a quale capacità di perdono, a quale forza nella sofferenza, a quale sicurezza di vita.

Per questo la pastorale giovanile deve presentare continuamente ambiti di esperienze assolute: di amicizia, di gioia, di solidarietà in modo da trovare risposte personali alle sfide della droga, della violenza, delle facili alienazioni del possesso, del piacere e del potere. Deve quindi guidare lentamente a individuare le ragioni autentiche delle scelte quotidiane, a passare dalle spinte idolatriche e superficiali, fatalmente presenti nei moti istintivi della prima fase dell’esistenza, a quelle profonde del bene, del vero, del giusto, del bello, che riflettono la chiamata di Dio alla vita. Secondo questo modello la pastorale giovanile dovrebbe proporsi di creare occasioni continue per le verifiche vitali di Dio, ambiti di esperienza religiosa che consentano la scoperta di Dio come fondamento e principio presente della nostra realtà.

 

Bibliografia

Auer A.,​​ Il mistero di Dio, Cittadella, Assisi 1982; Dawkins R.,​​ Orologiaio cieco. Creazione o evoluzione?,​​ Rizzoli, Milano 1988; Evdokimov P.,​​ La conoscenza di Dio secondo la tradizione orientale,​​ Paoline, Roma 1969; Finkenzeller J.,​​ li problema di Dio,​​ Il primo capitolo della teologia cristiana, Paoline, Cinisello Balsamo 1986; Forte B.,​​ Gesù di Nazaret, storia di Dio, Dio della storia,​​ Paoline, Roma 19844; Id.,​​ Trinità come storia.​​ Saggio sul Dio cristiano, Paoline, Cinisello Balsamo 1985; Hawking St.,​​ Dal Big Bang ai buchi neri.​​ Breve storia del tempo, Rizzoli, Milano 1988; Jungel Eberard,​​ Dio, mistero del mondo,​​ Queriniana, Brescia 1982; Kasper W.,​​ Il Dio di Gesù Cristo,​​ Queriniana, Brescia 1984; Molari C.,​​ Il linguaggio della catechesi,​​ Paoline, Roma 1986; Moltmann J.,​​ Trinità e regno di Dio,​​ Queriniana, Brescia 1983; Ogletree T.,​​ La controversia sulla morte di Dio,​​ Queriniana, Brescia 1968; Pesch O. H.,​​ Conoscere Dio oggi,​​ Queriniana, Brescia 1985; Porro C.,​​ Il mistero di Dio,​​ Marietti, Torino 1976.

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DIO

DIO PADRE

 

DIO PADRE

Le indicazioni che seguono riguardano l’origine e il fine ultimo dell’uomo, quale oggi è riconosciuto da tutti i teisti, e che abitualmente viene caratterizzato come “Dio”. Ma riguardano anche la comprensione specificamente cristiana di questo Dio, che Gesù e il NT hanno espresso con la parola “Padre” o “Dio, nostro Padre”. I due significati vanno distinti, ma anche considerati come unità.

1.​​ Quando la Bibbia parla di “Dio” o di “Dio-Padre” non scivola mai nel discorso disimpegnato di un dotto trattato su Dio, ma rimane sempre nella forma impegnata ed esperienziale della preghiera, della benedizione, della professione e dell’appello.

Per l’AT Dio è soprattutto Iahvè, “Io-ci-sono” (Es​​ 3,14): di lui si fa l’esperienza nell’ascolto disponibile, timoroso e fiducioso. Questo non significa soltanto un sapere, ma un rapporto e una partecipazione “con tutto il cuore, con tutta l’anima, e con tutte le forze”, come conviene soltanto a Dio, 1’”unico”, “colui che vive”, “il santo”, “non paragonabile con nessuno degli dèi”. Nell’AT credere in Dio significa praticamente essere afferrati da ciò che e da colui che “ci riguarda incondizionatamente” (P.​​ Tillich),​​ nel ringraziamento, nella fiducia, nella responsabilità, nell’adorazione. Significa essere ricollegati con l’Ultimo e l’Altissimo, vivere nel “Patto” che egli per mezzo di Abramo, Isacco e Giacobbe ha sigillato con tutte le generazioni del suo popolo. Il credente di Israele se lo ricorda nella preghiera quotidiana: “Ascolta, Israele” (Di​​ 6,4ss). Nel NT Gesù conferma questa professione (Mc​​ 12,30), esplicitandola però nella propria direzione: Dio va visto soprattutto come “Padre” che vuol rendere vicino a noi il “Regno di Dio”. Il discorso di Gesù su Dio come “Padre” è essenzialmente legato al lieto annuncio della vicinanza del → “Regno di Dio”.

Dio come «Padre» (il NT lo chiama 250 volte in questo modo) evoca un nuovo, più profondo legame (“nuovo patto”): partecipazione al rapporto che Gesù aveva con colui che egli — con una fiducia e intimità che l’ebraismo non aveva mai osato — invocava come “Abbà”, come “caro Padre” (Mc​​ 14,36; cf J.​​ Jeremias).​​ Si tratta di un rapporto molto diverso da quello attuale, ampiamente diffuso, fatto di ansia nei confronti di “padri” e altre autorità simili. Un rapporto che è precisamente il contrario di mancanza di libertà, incapacità di gestirsi da solo, infantilità. Un rapporto che è​​ fiducia​​ nel proprio valore di fronte a Dio, nella sua provvidenza, nel suo amore, nel suo perdono (Mi​​ 6,26; 7,11;​​ Lc​​ 15;​​ Rm​​ 8,14-17;​​ Gal​​ 4,37).​​ Un rapporto che è​​ conformità​​ con la volontà di questo “Padre”, e significa essergli riconoscente, sentirsi sostenuti da lui, lavorare come Dio e in unione con lui (Mt​​ 5,45. 48; 6,4.14).

2.​​ Perciò​​ l’idea-guida​​ del discorso su Dio e su Dio-Padre deve consistere nella preoccupazione di trasmettere, nella linea di ciò che il messaggio biblico ha già tracciato, la fede in Dio riferita nel modo più concreto possibile all’esperienza, e come rilevante per la totalità dell’esistenza, per la volontà (affettiva), per il pensiero (cognitivo) e per il comportamento. Il grande pericolo è che il nostro parlare di Dio si riduca alla trasmissione di sole formule e affermazioni astratte: i fanciulli e i giovani capiscono che appartengono alla tradizione cristiana, ma non vedono come con esse potrebbero interpretare e strutturare le loro esperienze personali e sociali come una storia con Dio (“patto”). La loro conoscenza di Dio si riduce allora a una vuota formula, a un rimasuglio dell’infanzia, un fenomeno marginale: non è certo un parlare e agire con Dio, che matura insieme con la loro personalità e le loro esperienze.

3.​​ Già la Bibbia afferma che una fede in Dio radicata nell’esperienza ha bisogno di un lungo processo di maturazione: deve superare le resistenze (Rm​​ 1,21; 2,17-24) e “crescere in forza​​ e​​ robustezza” (Ef​​ 3,16-21), in «comprensione e sensibilità» (FU​​ 1,9). Nel clima secolarizzato in cui oggi vive la maggior parte delle famiglie, questo processo di maturazione viene reso difficile da alcuni aspetti tipici del nostro tempo:

a)​​ La fede in Dio non è più una cosa che va da sé, ma appare discutibile e non rilevante ai fini della nostra società produttrice. — Occorre renderla nuovamente plausibile attraverso una prassi cristiana nelle famiglie, nelle parrocchie e nei gruppi cat.

b)​​ Di fronte alle scienze naturali che sembrano poter spiegare tutte le cose, la fede in Dio appare antiquata e insostenibile. — Occorre far vedere che le scienze naturali non fanno altro che descrivere connessioni operative, mentre il problema della causa ultima, che rende possibile il tutto, è lasciata alla teologia, e che una interpretazione globale del mondo deve comprendere ambedue gli approcci.

c)​​ Il problema di Dio è spesso visto in contrasto con la ricerca di libertà, autonomia ed emancipazione. — Occorre far vedere che fede non significa sottomissione a ima autorità esteriore all’uomo (eteronomia), ma è al contrario una fonte che conferma il valore della persona e la sua autonomia nei confronti delle tendenze che vogliono manipolare e strumentalizzare l’uomo.

4.​​ A che cosa stare particolarmente attenti quando si tratta dello → sviluppo di fanciulli e giovani? Forse a questo, che il principio “trasmettere la fede in Dio in riferimento all’esperienza” implica in primo luogo parlare di Dio tenendo conto delle fasi dello sviluppo.

a) Secondo una concezione oggettivo-teologica (→ kerygmatica), difesa tuttora da una minoranza agguerrita, prendere in considerazione le fasi dell’età significherebbe soltanto esprimere le affermazioni bibliche e teologiche su Dio in un → linguaggio più semplice per i fanciulli più piccoli. — Questo però non è sufficiente. Se non viene fatto qualcosa di più per fondare una precomprensione, è inevitabile che anche il linguaggio semplice su “Creatore” e “Padre” per molto tempo o non sarà compreso o sarà compreso in modo sbagliato dai fanciulli.

b) Un indirizzo simbolico, appoggiandosi liberamente sulla teoria degli archetipi di C. G. Jung, richiede di sviluppare sistematicamente nel fanciullo la capacità di cogliere i → simboli biblici di Dio (Re, Luce, Padre) e giungere in tal modo a una fede fortemente radicata nell’esperienza. — Questo indirizzo però non ha mai chiarito secondo quale successione occorre procedere e da quali esperienze previe bisogna partire.

c) Una concezione prevalentemente cognitiva è rappresentata da J. W. Fowler e F. Oser, in collegamento con le teorie di J. Piaget e di L. Kohlberg sullo sviluppo cognitivo e morale. Secondo questa concezione il soggetto in sviluppo può percorrere sei livelli nella costruzione di modelli di comprensione (strutture del giudizio religioso), in cui il rapporto con Dio è visto sempre meno come rapporto di sottomissione e sempre più come rapporto di collaborazione. £ compito dell’istruzione religiosa promuovere attivamente questo sviluppo, per es. per mezzo di storie problematiche e domande che mirano a favorire il passaggio verso la fase immediatamente successiva. — Questo approccio non sembra vedere sufficientemente quale sia la rilevanza delle “esperienze-chiave” per la comprensione religiosa; non vede come in esse l’esperienza e il pensiero siano strettamente connessi; infine non sembra vedere come il fanciullo costruisca strutture parziali di diversa natura piuttosto che modelli globali del pensiero religioso.

5.​​ Sotto l’angolatura prevalentemente affettiva​​ è probabile che sia l’educazione come l’istruzione religiosa possano appoggiarsi sulle seguenti esperienze fondamentali, approfondendole fino a farle diventare una fede in Dio con radici nell’esperienza:

— La ricerca dei giovani di essere apprezzati nel loro valore personale (“Fiducia fondamentale” secondo E. H. Erikson). Essa può maturare diventando la certezza che Dio, Padre di Gesù Cristo, dice sì alla sua vita. — La disponibilità verso un atteggiamento positivo di fronte alla vita. Essa può diventare​​ consenso riconoscente​​ alla vita e al suo Creatore e Signore.

— La sensibilità sociale, la compassione nel dolore e partecipazione nella gioia degli altri. Essa può svilupparsi diventando, nell’impegno sociale, una​​ partecipazione all’amore di Dio,​​ Padre di tutti.

Stimoli verso questo triplice sviluppo dovrebbero darsi a tutte le età, a partire dal terzo anno di vita, in situazioni però che siano vissute come significative dal soggetto interessato. In questo modo — nella misura in cui il fanciullo acconsente e partecipa liberamente — dovrebbe potersi sviluppare una fede in Dio che, partendo dai primi stimoli sentimentali, ancora fortemente dipendenti dall’ambiente, labili e ristretti al piccolo mondo del fanciullo, diventa gradualmente più costante, decisa e determinante per le esperienze a livello dell’adulto. In sostanza, sul piano pratico, questo potrebbe realizzarsi nel seguente modo:

1)​​ Fede in Dio come sapersi accettato.

a)​​ Il compito è di rendere coscienti di questo problema: occorre vincere continuamente la mancanza di stima, l’angoscia, la depressione; occorre lottare sempre per stimare il valore della nostra persona e per avere il coraggio di vivere. Dopo aver creato un clima favorevole o per mezzo di un racconto o di una immagine, si potrebbe far riflettere in quali occasioni facciamo esperienze negative e come ci comportiamo in questo caso. Per mettersi nel contesto si potrebbe anche ricorrere a un esercizio di pedagogia di → gruppo (esprimere apprezzamenti positivi, potersi appoggiare sulla premura di un partner o di un gruppo) per sperimentare in che senso occorre superare l’ansia e la mancanza di stima.

b)​​ Cercare di dire che cosa ci aiuta in simili circostanze (eventualmente, per i più grandi, offrire informazioni psicologiche).

c)​​ La testimonianza del catecheta e (per fanciulli più grandi) l’esempio di Abramo, di Gesù o di un altro cristiano esemplare, un testo, un’immagine o un canto possono illustrare in che modo la fede in Dio, il quale ci conferma per ciò che siamo e non ci abbandona mai, può dare all’uomo maggiore fiducia in sé, sostegno e coraggio, anche se non lo libera dalla necessità di lottare contro il bisogno e la delusione. Si possono far esercizi e discutere come sia possibile pregare in quei momenti, senza fissarsi in attese magico-materiali; come si possa essere disponibili a lasciarsi incoraggiare: “Mio Dio, io credo che tu mi ami più di quanto io ami me stesso” (J. H. Newman).

2)​​ Fede in Dio come consenso riconoscente.

a)​​ Rendersi consapevoli, esprimendolo nel disegno o per iscritto, di quanto ci causa gioia e ci dà spontaneamente la sensazione che è bello vivere (esperienze con la natura, con il prossimo, con le nostre abilità).

b)​​ Parlare sul modo di fare queste esperienze positive e sviluppare la nostra capacità di vivere nella gioia.

c)​​ Richiamare l’attenzione su un testo biblico (per es. salmo di ringraziamento), su un cristiano significativo (per es. san Francesco), su un canto religioso moderno, per far vedere in che senso nella gratitudine spontanea si percepisce in qualche modo che non siamo noi a fare noi stessi, la vita, il mondo, ma lo dobbiamo a qualcuno che è più grande e ci dona tutto ciò. Si possono fare esercizi per richiamare all’attenzione tali esperienze positive, guardando indietro sulla giornata, ed esprimere “come godere nel ringraziamento” (1 Tm​​ 4,4) in una preghiera (o celebrazione liturgica).

3)​​ Fede in Dio come partecipazione socialmente impegnata all’amore di Dio.

a)​​ Servirsi di un esercizio di pedagogia di gruppo per cercare di realizzare un comportamento sociale (cooperazione, stima, correttezza nel tratto) oppure per rendersi consapevoli di tali esperienze sociali già presenti nel quotidiano.

b)​​ Discutere sul fatto che possiamo essere trascinati verso l’egoismo e la mancanza di rispetto, come pure verso la giustizia e la disponibilità a dare aiuto. Valendo sviluppare il nostro comportamento sociale, ci troviamo continuamente confrontati con il significato che ha per noi il prossimo, e per quale motivo dobbiamo cercare di essere sociali.

c)​​ A questo punto è possibile intravedere che il prossimo ha valore per quello che è, proprio secondo il giudizio di Colui che vuole noi uomini: Dio. Con Dio, come disse Gesù, noi dobbiamo sostenere il prossimo, “amarlo”, poiché siamo sorelle e fratelli di un comune Padre. Questo è il motivo per cui, per Gesù e per molti cristiani (per es. madre Teresa), la giustizia e la volontà di portare aiuto sono assolutamente importanti, e realizzano l’uomo.

Se invece si preferisce procedere più “teologicamente” partendo da un determinato testo biblico, o da un tema quale → creazione, → speranza, → preghiera di domanda, ecc., è sempre possibile servirsi dei tre approcci di cui sopra per realizzare una precomprensione degli enunciati centrali. È chiaro che queste indicazioni riguardanti un Dio che ci conferma incondizionatamente, ci gratifica e ci vincola, avranno valore convincente soltanto se il catechista farà anche il possibile per creare nel suo gruppo un clima di rispetto, di fraternità e di gioia.

b)​​ Nell’ottica prevalentemente cognitiva​​ e tenendo conto dello sviluppo da un’intelligenza prevalentemente intuitiva verso una “intelligenza operativa” (J. Piaget), la capacità di riconoscere meglio l’azione e l’essere di Dio può essere promossa nel seguente modo: non più — come nelle prime intuizioni religiose verso 4-6 anni — come qualcuno che è comunque “più grande dei genitori”, ma più chiaramente come “altro”, sovrumano, trascendente, non legato alla corporeità, al tempo, ai cambiamenti di voce, ecc. Anche le espressioni metaforiche della Bibbia quali “padre”, “signore”, “creatore”, “ci ascolta”, “abita nel cielo”, ecc., dovrebbero diventare più comprensibili nel loro significato simbolico e analogico, distinto dal linguaggio corrente. Cosa significano tali espressioni, quando parliamo di esseri umani? Che cosa è diverso quando le applichiamo a Dio?

In particolare, per ciò che riguarda ragazzi e ragazze di 6-12 anni, andrebbero chiarite le seguenti idee:

a)​​ La “creazione” da parte di Dio non va pensata come una​​ attività artificiale​​ nella linea dell’attività manuale, della produzione tecnica o della fabbricazione umana. Essa consiste nel rendere continuamente possibili tutti i materiali e le forze con cui noi lavoriamo.

b)​​ La provvidenza, l’aiuto, il premio e il castigo​​ da parte di Dio non devono essere pensati secondo il modello​​ animistico,​​ cioè come rimunerazione materiale che si esprime nel successo o nel fallimento. Il “premio” da parte di Dio consiste soprattutto nel dono di un legame interiore più accentuato e in un maggiore sostegno; il suo “castigo” è nella separazione interiore da Dio, in cui l’uomo malvagio vive, anche se magari sta bene sul piano materiale.

c)​​ L’essere​​ di Dio non va pensato in forma​​ materializzante,​​ come un essere umano, corporeo e visibile, che vive in qualche parte nello spazio. Dio è piuttosto nella linea del nostro Io, che non possiamo vedere e localizzare, invisibile ma quanto mai reale: ne possiamo fare l’esperienza nel colloquio raccolto del nostro Io invisibile con il Tu di Dio.

Bibliografia

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Bernhard Grom

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DIO PADRE

DIOCESI

 

DIOCESI

La diocesi o Chiesa particolare è il “popolo di Dio” che vive in un particolare territorio. Essa è formata da uomini uniti da comuni legami di lingua, di storia, di costumi e di tradizioni (cf ÈN 62). È il luogo dove si incarna e si manifesta concretamente la Chiesa universale. In essa si attua pienamente il mistero della salvezza (RdC 142), perché “qui attorno al vescovo, successore degli apostoli, attraverso il Vangelo e l’Eucaristia, il corpo di Cristo si compagina in tutte le sue connessioni” (CdA 295) è si rende presente e operante la Chiesa di Cristo, una santa cattolica e apostolica (cf CD 11). Grazie all’inserimento nella Chiesa particolare, i fedeli appartengono alla Chiesa unica e universale (CeC 39).

La vita della Chiesa particolare si esprime nell’ascolto e nell’obbedienza all’unica parola di Dio, nella celebrazione dell’unico sacrificio di Cristo e nella pratica della carità fraterna (cf CD 11-12). Ma all’inizio di ogni attività pastorale c’è l’annuncio del Vangelo: dalla parola di Dio la Chiesa viene adunata e​​ i​​ suoi figli rigenerati (cf LG 9). La Chiesa dipende dalla parola di Dio.

1.​​ Il servizio profetico della Chiesa particolare.​​ La Chiesa particolare, attraverso il ministero del vescovo, garantisce l’autenticità del servizio della parola di Dio e offre a tutti gli uomini, “anche a quelli che, a motivo delle loro condizioni di vita, non possono godere dell’ordinario ministero dei parroci o sono privi di qualsiasi assistenza” (CD 18), la possibilità di ascoltare l’annuncio del Vangelo e di progredire nella vita di fede e di carità.

Essendo essa amalgamata con le aspirazioni, le ricchezze, i limiti, la cultura dell’ambiente in cui vive e opera, ha la possibilità e il dovere di riesprimere il Vangelo nel linguaggio proprio del suo contesto culturale. Questo processo di inculturazione della fede e questo adattamento del linguaggio sono due compiti fondamentali per l’efficacia della predicazione, a cui la diocesi non può sottrarsi (cf EN 63).

L’inculturazione del messaggio cristiano però esige che la Chiesa particolare si conservi profondamente aperta alla Chiesa universale. Quanto più essa è unita con solidi legami di comunione alla Chiesa universale, tanto più sarà in grado di tradurre il tesoro della fede nella legittima varietà di espressioni della professione di fede, della preghiera e del culto, della vita del popolo in cui è inserita (cf EN 64).

La Chiesa particolare, infine, pur promuovendo l’adattamento della pastorale cat. alle diverse situazioni locali, è chiamata a dare alle comunità parrocchiali, alle associazioni e movimenti ecclesiali alcune linee pastorali comuni per quanto riguarda l’annuncio del Vangelo e l’educazione della vita di fede, “di modo che attorno al Vescovo tutte le iniziative di carattere cat., missionario, caritativo, sociale, familiare, scolastico, ed ogni altro lavoro mirante ai fini pastorali, tendano ad un’azione concorde, dalla quale sia resa ancora più palese l’unità della diocesi” (CD 17).

2.​​ Le scelte cat. della Chiesa particolare.​​ Per adempiere il suo compito profetico, la Chiesa particolare ha bisogno anzitutto di mettersi in costante ascolto della Parola di Dio e in conversione. Essa infatti “fa C. principalmente per quello che è, in progressiva anche se imperfetta coerenza con quello che dice” (RdC 145).

In secondo luogo, essendo stato affidato il compito profetico, attraverso la Chiesa, a tutti i suoi membri, la diocesi deve promuovere in tutti i battezzati la corresponsabilità nei confronti della C. e deve stimolarli ad assumere le loro responsabilità nella Chiesa (RdC 143). La Chiesa locale ha il dovere di stimolare anche le varie istituzioni — parrocchie, famiglie, associazioni, scuole cristiane e altre strutture educative — a svolgere il loro servizio specifico per la crescita umana e cristiana delle persone; ha il compito di coordinare i loro interventi educativi, per assicurare la formazione armonica e integrale delle persone ed evitare disarmonie, equivoci, squilibri e contraddizioni in questo servizio educativo.

Per adempiere questo compito la diocesi deve rilevare le condizioni sociali e spirituali dei fedeli, prendendo in esame, in particolare, i fenomeni che caratterizzano la vita moderna. “La Chiesa locale li può avvertire nelle giuste proporzioni, non per catalogare dei dati statistici, ma per trovare le vie della carità. Da questa sensibilità derivano la scelta e l’adattamento dei programmi della C.” (RdC 146). Una volta rilevata la situazione sociale, culturale ed ecclesiale diocesana, la Chiesa particolare è chiamata a delineare un progetto cat. che offra alle parrocchie, alle associazioni e alle altre strutture educative le linee di fondo in base alle quali svolgere una concorde e articolata azione evangelizzatrice.

3.​​ Le strutture diocesane della pastorale cat.​​ Per promuovere l’evangelizzazione e la C. la Chiesa particolare si avvale di diverse strutture. Essa, di solito, affida il compito della programmazione e del coordinamento cat. ai vari organismi di partecipazione ecclesiale, quali i Consigli Presbiterale e Pastorale diocesani, e a un centro apposito: l’Ufficio Cat. A quest’ultimo nell’attuazione del programma cat. si affiancano spesso altre istituzioni diocesane, quali l’Istituto Teologico e i vari Centri pastorali. L’attività cat. raggiunge il suo scopo quanto più è sorretta dalla solidarietà con il vescovo e dall’attività degli organi diocesani, purché questi ultimi siano in grado di offrire un servizio autorevole e qualificato.

Bibliografia

Evangelizzazione e comunità,​​ Roma, AVE, 1978, 143-164; G. Medica,​​ Chiesa locale, comunità catechistica formatrice di catechisti,​​ nel vol.​​ Dal documento di base ai nuovi catechismi alla catechesi viva,​​ Leumann-Torino, LDC, 1973, 315-354; L. Sartori,​​ Introduzione generale,​​ in V. Bo et al. (ed.),​​ Dizionario di pastorale della comunità cristiana,​​ Assisi, Cittadella, 1980.

Lucio Soravito

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