DIDACHÉ

 

DIDACHÉ

La​​ Didaché​​ (​​ —​​ insegnamento)​​ dei dodici apostoli​​ (ma il titolo originario sembra essere​​ insegnamento del Signore ai pagani per mezzo dei dodici apostoli)​​ ci si presenta come un piccolo manuale di legislazione ecclesiastica a tinta molto arcaica, in uso in una comunità probabilmente della Siria verso la fine del I secolo. Il contenuto, che sembra derivare da una pluralità di fonti giustapposte in modo piuttosto estrinseco, si può per comodità ripartire in due sezioni, la prima di carattere liturgico e la seconda di carattere disciplinare. La prima sezione comincia con norme per l’istruzione dei catecumeni: essa viene compendiata nella dottrina cosiddetta delle​​ Due vie,​​ che consiste nella descrizione della via della vita e della via della morte. Lo stesso tipo di C. si ritrova nella lettera dello Ps. Barnaba, ed ha corrispondenza nel​​ Manuale di disciplina​​ di Qumran. Ma non si dovrebbe trascurare che il motivo era anche classico (Ercole al bivio). Abbiamo poi norme relative all’amministrazione del battesimo, all’osservanza del digiuno, alle preghiere eucaristiche, ecc.

Sono importanti, dal punto di vista storico, le norme sugli apostoli e i profeti, cioè sui missionari itineranti (cc. 11-13). La norma secondo cui il missionario di passaggio nella comunità può essere da essa ospitato per un massimo di due giorni documenta la crisi della tradizionale missione itinerante a beneficio dell’azione missionaria esercitata​​ in loco​​ dalla comunità stessa. Le norme relative all’elezione di vescovi e diaconi attestano un’organizzazione ecclesiale ancora arcaica, anteriore all’instaurazione dell’episcopato monarchico. Il​​ cap.​​ finale, che esorta i fedeli ad essere vigilanti nell’attesa del ritorno del Signore, è espressione di una tensione escatologica ancora ben viva. In complesso la​​ Didaché​​ è documento di una comunità organizzata prevalentemente in senso giudeocristiano, e perciò ancora legata alle pratiche giudaiche (digiuno), che sembra del tutto estranea all’influsso della predicazione di Paolo.

Bibliografia

J. P. Audet,​​ La Didaché. Instruction des apôtres,​​ Paris, 1958; A.​​ Vööbus,​​ Liturgical​​ Tradition​​ in the​​ Didache,​​ Stockholm, 1968; S. Giet,​​ L’énigme de la Didaché,​​ Paris, 1970.

Mario Simonetti

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DIDACHÉ

DIDATTICA

 

DIDATTICA

1.​​ Il termine D. deriva dalla parola greca StSàcrxew, che significa “insegnare”. Nell’uso si sono progressivamente addensati attorno a questo termine diversi significati. Ugo di S. Vittore (t 1141) ha impiegato questo termine con forti connotazioni pedagogiche: “Insegnare vuol dire educare, ed educare significa insegnare”. Analoghe impostazioni si trovano in Comenio, J. F. Herbart e O. Willmann. Nel pensiero idealistico, soprattutto italiano, è stato sottolineato che la D., intesa come espressione della pienezza dello spirito, deriva dal possesso della conoscenza, più che da tecniche relative alla sua trasmissione; nel positivismo, invece, è stata riconosciuta l’importanza del metodo, derivato, in genere, da quello sperimentale proprio delle scienze fisiche. Nel primo caso si è assimilata la D. all’arte, nel secondo caso alla scienza. Occorre anche ricordare una tradizione che ricollega la parola arte al termine greco téxvt), e che fa riferimento a un saper fare di ordine pratico, o a un insieme di tecniche, giustificato da una riflessione critico-comparativa. Nel mondo germanico si distingue spesso tra metodica, scienza che regola l’azione di insegnamento, e D., scienza che studia sia i fini, che il contenuto, che il metodo dell’insegnamento. Recentemente si preferisce usare nel primo caso il termine → “metodo”, al singolare, o “metodi”, al plurale, anche per l’uso sempre più diffuso nel mondo anglosassone dell’espressione “methods” in sostituzione della più antica forma “theory and practice of education”.

Da un punto di vista più generale si può distinguere tra un senso attivo della D., quanto fa o sa fare un determinato insegnante, e un senso passivo, riflessione critico-comparativa sui modi e i risultati dell’insegnamento; e tra un senso tecnologico, studio sistematico delle condizioni di efficienza e di efficacia dell’azione di insegnamento, e uno scientifico, ricerca produttiva sull’azione, e l’interazione, di insegnamento in classe.

Una chiarificazione del rapporto che si può stabilire tra D. e C. dipende però, e in gran parte, dal senso che si dà a quest’ultima. Anche se, ricordando l’insistenza con cui nella tradizione si è collegata l’azione di insegnamento a quella educativa (J. F. Herbart, ad esempio, ha scritto: «Confesso [...] di non aver alcun concetto di educazione senza istruzione, come viceversa [...] non riconosco alcuna istruzione la quale non educhi”): non sembra difficile riconoscere una componente di insegnamento nella stessa proclamazione comunitaria della fede e nella sua educazione ecclesiale. Più specificatamente ciò sembra evidente nell’ → IR scolastico, a causa soprattutto dell’emergere con sempre maggior chiarezza del carattere unitario e specifico del progetto educativo scolastico, che va considerato in tutte le sue componenti e dimensioni.

2.​​ L’azione di → annuncio e di → educazione della fede può svolgersi in maniera occasionale o sistematica. In quest’ultimo caso essa ha bisogno di un supporto metodologico, che la renda non solo valida da un punto di vista contenutistico, ma ne assicuri anche, per quanto umanamente possibile, l’efficacia. La D. si presenta in questo caso come una scienza pratica che studia le condizioni soggettive e oggettive che rendono valida e produttiva l’azione di annuncio e di educazione della fede, considerata particolarmente nei suoi risvolti istruttivi. Va tuttavia ricordato come l’istruzione miri non solo all’acquisizione di conoscenze, ma anche allo sviluppo di atteggiamenti e di comportamenti coerenti e fecondi, e quindi abbia valenza sia cognitiva, sia affettiva, sia comportamentale.

Il carattere di sistematicità dell’azione cat. o di IR implica da una parte intenzionalità, cioè il perseguire finalità educative chiaramente delineate e comunicate da parte della comunità coinvolta, e dall’altra uno svolgersi dell’azione secondo piani accuratamente prefigurati in vista del raggiungimento di queste finalità.

La D. può fornire alla C. e all’IR elementi di conoscenza e di competenza in questa direzione in tre momenti specifici. Il primo momento è quello progettuale. Esso precede l’azione vera e propria, e in esso la comunità chiarisce a se stessa e ai destinatari le ragioni e gli intenti della sua azione, delinea un itinerario progressivo secondo il quale si svilupperà l’azione, sceglie le persone, i tempi e i modi di realizzazione. Il secondo momento è quello della conduzione concreta dell’azione, nel quale si esplicano concretamente le competenze educative e didattiche delle persone impegnate, e riguarda le forme e le modalità di comunicazione e di rapporto interpersonale. Il terzo momento si pone come raccordo o collegamento continuo tra progetto predisposto e concreta sua realizzazione. Esso riguarda cioè la valutazione dell’azione, e dei suoi risultati, via via che si svolge, in modo da avere non solo informazioni attendibili ma anche criteri di interpretazione, di giudizio e di decisione. Si potrà così adattare o trasformare il progetto iniziale sulla base dei nuovi elementi informativi, ovvero migliorare l’azione, perché o non coerente con il progetto o non valida nelle sue forme di esplicazione concreta.

La D., modernamente intesa, è quindi una scienza pratica che tende a fornire le conoscenze e le competenze necessarie a realizzare una mediazione feconda tra scienze dell’uomo e dell’educazione (psicologia, sociologia, antropologia, ecc.) e sapere tecnologico da una parte, e azione di annuncio e di educazione dall’altra. Mediazione nei due sensi, in quanto dalla scienza e dal sapere organizzato trova elementi per la prefigurazione di un’azione sistematica, e da quest’ultima derivano stimoli continui per trasformare, adattare e migliorare quanto progettato inizialmente.

3.​​ Certamente sia nella C., sia nell’IR, la → testimonianza personale e comunitaria sono condizioni indispensabili per creare una disponibilità di base alla fede e una qualche comprensione delle sue ragioni. Tuttavia tutte le volte che si vuole impostare un’azione educativa sistematica occorre tener conto di altre condizioni, che risultano parimenti necessarie, anche se certamente non sufficienti, in quanto l’azione della grazia divina e le scelte personali sono in questo contesto componenti essenziali e determinanti. Tali condizioni sono studiate ed esplicitate dalla didattica. L’acquisizione di una competenza didattica implica quindi in primo luogo una conoscenza adeguata dei suoi concetti e dei suoi principi metodologici. Tuttavia è bene ricordare come la conoscenza non sia sufficiente, occorre infatti l’acquisizione progressiva di capacità progettuali, comutative, di interazione e di valutazione, adeguatamente ricche e flessibili. Distinguere tra sapere didattico e competenza didattica significa anche accostare intimamente scienza e arte, incarnate in un’azione che è resa intensa e pregnante dalla ricchezza di sensibilità e di sapienza presenti nella persona dell’educatore.

Bibliografia

E. De Corte et al.,​​ Les fondamente de l’action​​ didactique,​​ Bruxelles, De Boeck, 1979; V. e G. De Landsheere,​​ Definire gli obiettivi dell’educazione,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1977; R. M. Gagné – L. J. Briggs,​​ Principies​​ of Instructional Design,​​ New York, Holt Rinehart & Winston, 1979; M.​​ Pellerey,​​ Progettazione didattica,​​ Torino, SEI, 1979.

Michele Pellerey

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DIDATTICA

Disciplina pedagogica che studia il processo di​​ ​​ insegnamento. La d. viene considerata in generale come una​​ ​​ scienza​​ pratico-prescrittiva,​​ cioè come una scienza diretta a dare fondamento e orientamento all’azione di insegnamento o​​ ​​ azione d. Dal gr.​​ didaskein​​ (insegnare). La d. viene anche definita come teoria che studia l’atto didattico (didassi). Se questo studio è basato su metodi di indagine sperimentali, si usa talora l’espressione​​ didassologia.​​ In ingl. è raro trovare l’equivalente​​ didactics.​​ Si preferisce usare l’espressione​​ theory and practice of education​​ oppure​​ methods in education.​​ In ted. oltre a​​ Didaktik​​ viene usato anche il termine​​ Methodik​​ (metodica). Il sostantivo d. viene utilizzato anche per indicare il modo di insegnare proprio di una persona. Si usa dire in questi casi ad es.: il tale professore ha una d. povera.

1.​​ Per una definizione più articolata.​​ Per giungere a una definizione più ricca e comprensiva della d. conviene considerare due suoi aspetti fondamentali, tradizionalmente raccolti nell’espressione «scienza e arte dell’insegnamento», e cioè: a) l’aspetto di sapere generale garantito da riscontri empirici, e che non dipende né dalla modalità con cui si agisce, né dall’inserimento dell’agire in un preciso contesto; b) l’aspetto di sapere pratico, soggettivo, che implica capacità di scelta e decisione in contesti specifici. Per esprimere il collegamento tra questi due aspetti, è stata proposta per la d. la formula «base scientifica dell’arte di insegnamento». Tuttavia, come giustamente fa notare​​ Blankertz, non è possibile impostare una d. senza tener conto di assunzioni generali riguardanti l’uomo, la sua crescita, il suo significato. D’altra parte, questo quadro di riferimento teoretico-filosofico, più che fornire principi dai quali si possano dedurre norme per l’azione d., indica dei confini, segnala delle incoerenze. Inoltre, occorre ricordare come ogni metodo didattico trovi il suo fondamento in assunzioni di natura teorico-filosofica, implicite o esplicite: in motivi, significati, valori che animano lo studioso o l’insegnante stesso.

2.​​ La pratica d.​​ Per esaminare più a fondo la natura della d. occorre definire meglio il concetto di pratica, e di pratica d. in particolare. Riprendendo e parafrasando la definizione di pratica data da A. MacIntyre (1988), si può giungere a identificarla in una forma coerente e complessa di attività umana che si sviluppa in modo collaborativo e che è socialmente stabilita. Nello svolgersi di questa attività si colgono e si realizzano i valori che la caratterizzano e che sono espressi da modelli di eccellenza. Tali modelli non solo sono radicati nella storia, e quindi soggetti a evoluzione nel tempo, ma possono anche essere oggetto di analisi critica teorico-filosofica, scientifica o tecnologica. Da questo punto di vista la d. può essere considerata come un insieme di conoscenze e di competenze che permettono di esercitare la pratica dell’insegnamento in maniera valida e feconda. Essa può essere quindi definita come nel senso tradizionale greco di insieme di competenze operative, sia ideative o progettuali, sia tecnico-pratiche o realizzative. Occorre tuttavia notare come l’azione d. non possa essere considerata come un’azione puramente guidata da regole e principi, anche se questi hanno un ruolo importante nell’esaminare i problemi posti dall’insegnamento e nell’individuare strategie di soluzione: esiste, infatti, una sua componente tacita o personale. M. Polanyi (1990, 139) osserva: «Un’arte non può essere specificata nei dettagli, non può essere trasmessa mediante prescrizioni [...] può essere trasmessa soltanto mediante l’esempio del maestro dell’apprendista». La crescita della conoscenza e della competenza professionale così, anche in campo didattico, è legata in gran parte allo sviluppo di una capacità di riflessione nell’azione, oltre che di riflessione prima e dopo di essa. Se questo tipo di conoscenze e competenze non sono descrivibili per mezzo di un sistema di regole, né possono svilupparsi solo sulla base dell’osservanza di regole espresse e formalmente descritte, come possono essere colte? In genere si risponde: osservando l’azione di persone competenti o esperte e attraverso le interpretazioni che queste ne danno sotto forma di narrazioni. Tali azioni sono caratterizzate in genere dalla capacità di inquadrare immediatamente in modo completo e articolato le varie situazioni e di portare a termine le decisioni conseguenti in modo fluido, appropriato e senza sforzo. Analoga osservazione viene avanzata, evidenziando il ruolo delle intenzioni e delle scelte personali, presenti nell’agire del docente. Pur tenendo conto di queste osservazioni, la pratica d. non solo può, ma deve essere riletta, criticata e sollecitata da vari punti di vista: quello dell’analisi ideale o filosofica (e in questo contesto si può ricollocare l’analisi storica), quello derivante dall’indagine scientifica, e quello proprio dell’approccio tecnologico. Da questi punti di vista la pratica dell’insegnamento diventa essa stessa oggetto di studio, più che di esperienza diretta, di riflessione e di costruzione di competenze personali.

3.​​ L’analisi teorico-filosofica della pratica d.​​ L’analisi ideale o teorico-filosofica della pratica d. ha una lunga storia. Essa si radica nella stessa storia della riflessione critico-propositiva sul modo di insegnare e di imparare, dal mondo assiro-babilonese ai giorni nostri. Basti qui ricordare il ruolo del docente identificato da​​ ​​ Socrate nella metafora della levatrice, o la funzione del dialogo particolarmente sottolineata da​​ ​​ Platone. In questo stesso autore si possono trovare le tracce di un’impostazione diversificata della pratica di insegnamento, una diretta ai comuni cittadini, l’altra a chi è orientato ad assumere funzioni direttive nella società, con conseguente rilievo della selezione. Nel sec. decimosesto si avvia più esplicitamente il discorso relativo ai metodi di insegnamento, di cui è significativa espressione la​​ Grande d.​​ di​​ ​​ Comenio. Possiamo dire che ogni grande corrente di pensiero filosofico e pedagogico ha espresso non solo una sua linea interpretativa della pratica d., ma ha presentato anche modelli di eccellenza per essa. Oggi molte impostazioni teorico-filosofiche del​​ ​​ curricolo, della gestione della classe e dell’azione d. si rifanno alla d. intesa in questo senso. Come esempio si possono citare gli approcci propri dell’​​ ​​ idealismo, del realismo, del​​ ​​ personalismo, del​​ ​​ pragmatismo, del positivismo, delle teorie critiche dell’insegnamento, ecc. La riflessione filosofica inoltre ha spesso criticato le impostazioni sia della d. come scienza, sia della d. come tecnologia. Ad es., è stata esaminata criticamente gran parte delle ricerche sperimentali sull’insegnamento degli anni settanta-ottanta, dirette a rilevare le relazioni esistenti tra le variabili caratterizzanti il comportamento docente e quelle riscontrabili nei risultati formativi raggiunti. Si è osservato come queste fossero poco sensibili all’importanza dell’intenzionalità del docente e degli allievi stessi nella pratica d. Di qui la necessità di estendere o trasformare teorie e metodi di ricerca in modo da includere questa componente della pratica.

4.​​ L’analisi scientifica della pratica d.​​ L’indagine scientifica ha una storia assai più breve. In essa si possono segnalare alcuni orientamenti diversi: ricerche di natura biologica e psicologica e indagini di tipo sociologico e antropologico, a cui si sono presto aggiunte prospettive giuridiche, politiche ed economiche. Si tratta delle cosiddette​​ ​​ scienze dell’educazione in quanto si sono occupate della pratica dell’insegnamento. Queste vanno intese come scienze applicate, nel senso di scienze che esaminano la pratica d. utilizzando apparati teorici e metodologici propri delle scienze di riferimento. Nel corso della seconda metà del sec. XX è stata però avviata un’indagine di natura scientifica relativa alla pratica d., che non assume come parametri concettuali e metodologici propri quelli di altre discipline. Si è costituita cioè una d. intesa come scienza autonoma, con un proprio apparato concettuale e teorico e peculiari metodi di indagine. Il quadro di riferimento spesso utilizzato è un triangolo, i cui vertici sono l’insegnante – l’allievo – i contenuti, considerato nel suo contesto istituzionale e sociale. Esso viene usato per identificare gli elementi costitutivi da esaminare e che formano l’essenza della pratica d. Si tratta, ovviamente di un​​ ​​ modello, cioè di una rappresentazione generale e astratta della pratica d., che intende non solo descrivere, ma anche fare da supporto per prevedere gli effetti dell’azione d., orientare le decisioni da prendere, controllare lo sviluppo dell’attività e i suoi risultati. Nel contesto francese il modello più diffuso e valorizzato è quello che descrive il processo di transizione, o trasposizione, della conoscenza dalle discipline di riferimento (quelle degli studiosi), alle discipline da insegnare nella scuola (quelle considerate nei programmi di insegnamento), a quelle effettivamente insegnate dai singoli docenti, a quelle apprese dai singoli allievi. Il gioco che si svolge a quest’ultimo livello, tra insegnanti e allievi, viene riletto assumendo come quadro teorico il concetto di contratto didattico. I metodi di ricerca tendono in questo caso a valorizzare una stretta collaborazione tra ricercatori e insegnanti, anche mediante forme di vera e propria ricerca-azione (​​ metodi di ricerca). Altri modelli elaborati recentemente più o meno nella stessa direzione derivano da metodi e disegni di ricerca sperimentali di tipo quantitativo, oppure da metodi di tipo qualitativo ed ermeneutico, ma si tratta sempre di modelli basati sull’analisi delle pratiche didattiche attivate in contesti scolastici. Recentemente sono stati avanzati anche modelli di tipo logico-erotetico e logico-assiologico, suscettibili di riscontri empirici. Nel primo caso l’insegnamento viene studiato dal punto di vista della congruenza fra domanda di apprendimento presente, anche implicitamente, negli alunni e risposta insegnante in ambiti formativi specifici. Nel secondo, si è elaborato un quadro di riferimento che, partendo dalle intenzioni o finalità educative generali dirette alla costituzione di disposizioni personali derivate da una concezione filosofica della persona educanda, procede verso la definizione degli obiettivi dell’azione d. nell’ordine dell’attuazione di tali intenzioni e, nell’ordine della causazione, verso l’organizzazione di situazioni didattiche atte a promuovere negli alunni le disposizioni intese.

5.​​ L’analisi tecnologica della pratica d.​​ Ancor più recente è l’analisi della pratica d. da un punto di vista tecnologico. In questo caso la tecnologia è intesa nel senso moderno di​​ engineering​​ ed è caratterizzata da un apparato specifico di concetti e rappresentazioni simboliche, metodi e tecniche di lavoro, che rendono possibile una vera e propria mediazione tra le scienze e le discipline di riferimento e l’azione d. Questo carattere implica non solo un lavoro di analisi e interpretazione del dato «scientifico» sotto il profilo operativo e la progettazione di un itinerario finalizzato e sistematico per l’azione, ma anche un influsso di ritorno, dall’azione realmente esplicata al progetto elaborato, alle stesse scienze dell’educazione. Nel campo dell’insegnamento le varie scienze dell’educazione, o la d. stessa intesa come scienza autonoma, tendono a prospettare informazioni organizzate circa le situazioni e le pratiche didattiche educative. L’attività tecnologica si svolge in senso inverso e consiste nel trasformare le informazioni strutturate sotto forma di rappresentazioni mentali in informazioni calate in forme organizzative e operative esterne. In altre parole, la tecnologia proietta le informazioni astratte e generali in contesti e situazioni concrete, che ricevono, attraverso queste proiezioni, una struttura organizzativa supplementare. Sotto questo profilo il processo scientifico si presenta come il reciproco di quello tecnologico. D’altra parte la tecnologia procede nell’ordine dell’azione secondo lo stesso modello adottato dalla ricerca scientifica nell’ordine della conoscenza: posizione di un problema, formulazione di ipotesi, loro messa alla prova, ritorno alla situazione iniziale, ma con una sua trasformazione nella direzione della risoluzione del problema o dell’emergenza di nuovi aspetti problematici. In conclusione, sembra che il ruolo della mediazione tecnologica nel caso della d. sia quello di una sorta di interfaccia, di nodo di raccordo, tra scienze e discipline di riferimento e l’azione formativa. Essa infatti si trova in stretta interazione con le prime e ha come compito specifico quello di dare consistenza e efficacia alla seconda. Non sembra infatti sufficiente, in un approccio moderno, utilizzare i contributi delle varie scienze e discipline di riferimento nella risoluzione dei problemi educativi, senza la mediazione di un valido sistema di progettazione, conduzione e valutazione dei piani di intervento concreto. Alla d. vista come tecnologia si ricollegano gran parte delle indicazioni metodologiche relative allo sviluppo del curricolo, agli strumenti e metodi di valutazione, alle tecniche di gestione della classe, alla produzione di testi scolastici, ecc.

6.​​ Articolazioni della d.​​ Dal momento che il campo della d. si è esteso verso il basso, includendo l’azione di insegnamento rivolta a soggetti minori di sei anni, e verso l’alto, tenendo conto delle attività formative a livello universitario, professionale, e in generale svolte lungo tutto l’arco della vita, la d. può essere a sua volta articolata tenendo conto sia dei contenuti considerati, sia dei destinatari, sia degli strumenti di comunicazione adottati. Tenendo conto delle discipline di insegnamento si hanno le varie d. disciplinari, talora incluse entro quelle che sono state denominate d. speciali e / o d. specifiche. Se si considera invece l’età degli studenti, e si ha la d. evolutiva e quella degli adulti. Se si è attenti alle differenze esistenti tra gli studenti, maschi e femmine, soggetti portatori di handicap e soggetti normali, soggetti disabili e soggetti particolarmente dotati, è questo il campo di studio della​​ ​​ d. differenziale. Naturalmente altre articolazioni riguardano il tipo di scuola e di ambiente considerato (d. della scuola materna, della scuola elementare, della scuola secondaria, universitaria, della formazione professionale; urbana, rurale, ecc.) oppure le tecnologie di comunicazione utilizzate (d. a distanza,​​ ​​ e-learning,​​ ecc.).

Bibliografia

Titone R.,​​ Metodologia d.,​​ Roma, LAS,​​ 31975; Bertoldi F.,​​ Trattato di d. 1° D. generale,​​ Bergamo, Minerva Italica, 1977; Blankertz H.,​​ Teorie e modelli della d.,​​ Roma, Armando, 1977; MacIntyre A.,​​ Dopo la virtù. Saggio di teoria morale,​​ Milano, Feltrinelli, 1988; Polanyi M.,​​ La conoscenza personale,​​ Milano, Rusconi, 1990; Gagné R. M. - L. J. Briggs,​​ Fondamenti di progettazione d.,​​ Torino, SEI, 1990; Borich G. D.,​​ Effective teaching methods,​​ New York, Macmillan,​​ 21992; Frabboni F.,​​ Manuale di d.,​​ Bari, Laterza, 1992;​​ Cornu L. - A. Vergioux,​​ La didactique en question,​​ Paris, Hachette,​​ 1992; Laneve C.,​​ Per una teoria della d. Modelli e linee di ricerca,​​ Brescia, La Scuola, 1993; Pellerey M.,​​ Progettazione d.,​​ Torino, SEI,​​ 21994; Laneve C.,​​ Il campo della d.,​​ Ibid., 1997; Id.,​​ Elementi di d. generale,​​ Ibid., 1998; Id.,​​ La d. tra teoria e pratica,​​ Ibid., 2003; Baldacci M.,​​ I modelli della d., Roma, Carocci, 2004; Damiano E.,​​ La Nuova Alleanza. Temi,​​ problemi,​​ prospettive della nuova ricerca d., Brescia, La Scuola, 2006.

M. Pellerey

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DIDATTICA

DIDATTICA BIBLICA

 

DIDATTICA BIBLICA

I. Per DB qui si intende quella parte della D. dell’IR o della C., scientificamente elaborata, che riguarda la C. o l’insegnamento della B. In senso più ristretto si comprende quel processo di insegnamento che ha per oggetto brani biblici o si occupa per altri versi con la B. (luoghi e tempi, generi letterari della B., ecc.). Poiché in generale ogni C., o direttamente o indirettamente, è biblica, una DB pone delle affermazioni che toccano anche la C. in genere. Di qui la necessità di esprimere quei fattori di contenuto e di metodo che rendano possibile la programmazione e l’analisi della C. e insegnamento biblici. Tutto ciò va sviluppato avendo presente la storia della C. biblica. Quanto viene affermato vale analogicamente anche per l’omelia biblica: vi si riscontrano infatti tratti didattici simili a quelli nella C.

1.​​ Quale primo rappresentante di una DB troviamo J. B. → Hirscher, che sviluppò una catechetica imperniata sul “regno di Dio”. Hirscher è insieme catecheta e teologo morale. L’accento sul potenziale etico dei racconti biblici viene posto già da Cl. Fleury: lo stile di un catechismo scolastico è “assai secco” e “stanca” i fanciulli. Nella B. invece essi trovano “la religione... conservata mediante racconti e storie”. La C. biblica “narra fatti”. La pedagogia dell’Illuminismo apprezza la C. biblica perché procura gioia ai piccoli ed esercita benefici influssi morali (J. I. von → Felbiger). Nell’area di lingua tedesca si sviluppa un peculiare insegnamento biblico nella scuola, cui possono partecipare anche laici, e occasionalmente viene impartito addirittura sovra-confessionalmente (Svizzera). Ha come proprio strumento la B. a passi scelti, o Storia biblica (→ Bibbia scolastica).

2.​​ Si potrebbero caratterizzare diversi periodi di questo secolo proprio in relazione alla didattica applicata alla B. Mentre fino alla svolta → kerygmatica si fa molta leva sui processi psicologici dell’apprendimento sia in Francia (→ M. Fargues, F. Derkenne...), sia in Italia (scuola → montessoriana, G. → Nosengo), dopo tale svolta che indirizza l’attenzione sui contenuti della B., verso gli anni ’60 crescono insieme (soprattutto in Germania) insegnamento di catechismo e della B. Si può parlare di una primavera biblica con peculiare attenzione a una didattica rispettosa del mondo del testo nelle sue formalità esegetiche ed ermeneutiche. Ma è breve questa fase a dominanza biblica (fin verso la fine degli anni ’60). Seguono una quindicina di anni di prolungata astinenza (a favore di un orientamento antropologico). Da qualche anno la B. nella scuola e nella comunità parrocchiale ritrova maggiore interesse. La tendenza attuale è di far convergere teologia (del Libro Sacro) e antropologia (del giovane) in una reciproca problematizzazione e (stimolo alla) risposta (→ correlazione). In Italia va segnalata la serie (per la media inferiore)​​ Progetto Uomo​​ (Leumann-Torino, LDC, 1975) come un interessante tentativo di tale correlazione fra B. e destinatario.

II.​​ Una didattica speciale riceve le sue informazioni di contenuto e di metodo sia dalle competenti scienze, sia dalla didattica generale. Questo grafico evidenzia la DB:

 

1.​​ L’esegesi dell’AT e NT come disciplina storico-critica influenzò anzitutto l’IR evangelico in Germania (M. Stallmann, G. Otto, K. Wegenast). Al seguito degli studi di B. Dreher (1963) sull’insegnamento biblico protestante, divenne chiaro che l’esegesi storico-critica poteva dare forma alla C. cattolica della B., e se ne esplicito il come (H. Halbfas, A. Höfer, G. Stachel a partire dal 1964). Nella misura che i risultati dell’esegesi scientifica non possono essere direttamente assunti nella C. (e il farlo sarebbe più noioso che dannoso) si pone il compito ermeneutico (cf sopra 1,1). Infatti l’esegesi storicocritica tende per sé a una comprensione unilaterale dei problemi (ad es. come ha veramente agito e parlato Gesù). Per questo R. Bultmann richiese l’interpretazione esistenziale (interpretazione attualizzante). I suoi allievi G. Ebeling ed E. Fuchs svilupparono il concetto di interpretazione come evento linguistico o accadimento della parola: non​​ noi​​ spieghiamo la Scrittura, ma la Scrittura spiega​​ noi.

Più recentemente è stata contestata la correttezza dell’approccio storico-critico e si è richiesta una esegesi psicoanalitica (W. Wink,​​ The Bible in Human Transformation,​​ Philadelphia, 1973). Vengono pure avanzate esegesi politiche, liberatrici, materialistiche, interazionali, femministe, ecc. (cf C. Bissoli,​​ La Bibbia nella scuola,​​ Queriniana, Brescia 1983; → letture attuali). Tramite la dimensione didattica, la catechetica vaglierà la consistenza di tutte queste forme, senza doverle riconoscere come discipline esegetiche. Tuttavia, approcci di tipo strutturalistico e di altra interpretazione linguistica sono anche esegeticamente rilevanti. I testi sono da prendere seriamente e da interpretare anzitutto e soprattutto come prodotto linguistico. Nell’indagine sul cosiddetto “Sitz im Leben” (ambiente vitale) convergono esegesi storica e linguistica.

Però le indicazioni che provengono dalla “esegesi” scientifica non sono sufficienti per i bisogni della didattica speciale. Piuttosto dovrebbe essere fissato, almeno provvisoriamente, anche per l’esegesi, la “structure of the discipline” indicata da J. J. Schwab a proposito della fisica. E cioè, che il discorso biblico è sempre un discorso concreto. Non si tratta di significati “generalizzati”, ma di un avvenimento che assunto dall’uditore lo spinge all’azione, alla sequela “sulla traccia di Gesù” e naturalmente anche sulla traccia di Abramo, di Mose, di Geremia, ecc. La B. viene compresa nella misura in cui viene vissuta, cioè dal come viene biograficamente incontrata. La croce di Gesù rivela il suo significato soltanto se io stesso “sono crocifisso” (S. Weil,​​ En attente de Dieu,​​ 1950; K. Kadowaki,​​ Zen and the Bible,​​ 1977).

Da questo modo di intendere la struttura dell’esegesi biblica deriva necessariamente che l’interprete non può sparire dietro a una falsa obiettività: l’esegesi interpreta lui stesso. L’esegesi è in se stessa eminentemente didattica, cioè relativa all’uditore, giacché la B. stessa parla pienamente se riferita all’uditore. Già Kierkegaard scopre il problema di rendere “contemporanei” l’uditore di oggi e l’accaduto narrato nella parola della B.

2.​​ Il problema specificamente didattico compare quando ci si interroga sul “Sitz im Leben” di oggi. Un testo biblico che cosa può e deve stimolare, chiamare, mettere in moto presso bambini, giovani ed adulti? È quanto viene designato dalla ermeneutica di H. G. Gadamer (Wahrheit und Methode,​​ Tùbingen, Mohr, 1960; trad. ita!.: Milano, Bompiani, 1984) come messa in evidenza e chiarificazione della precomprensione o allargamento-fusione degli orizzonti. Invece P. Ricoeur mira a una “via più lunga” attraverso “les analyses du langage” e “l’élucidation sémantique” dell’interpretazione. Alla nuova ermeneutica sta a cuore far diventare la lettera (morta) di ieri una espressione viva e significativa per oggi, realizzare, cioè da un altro punto di vista, “une lecture du sens cache dans le texte du sens apparent” (P. Ricoeur,​​ Existence et herméneutique,​​ in H. Kuhn et al. (ed.),​​ Interpretation​​ der​​ Welt,​​ Wiirzburg, Echter, 1964, 49). Laddove si intersecano i piani della interpretazione (scientifica) e quelli della psicologia e sociologia didattica, ivi si compie la “contemporaneità” del testo con la comprensione (attuale). Questa contemporaneità è ovviamente in ogni caso da esprimere come correlazione fra → rivelazione ed esperienza, fra origine teologica e obiettivo antropologico, fra comprendere e agire, fra (antico) testo e uditore (moderno), fra primitivo “Sitz im Leben” e “Sitz im Leben” nella società attuale.

Anche nel processo di insegnamento e di apprendimento della B. si deve riflettere su​​ contenuti, obiettivi e metodi​​ (→ curricolo). Contenuti e obiettivi dell’istruzione biblica sono scelti secondo la loro rilevanza per la spiritualità e l’agire cristiani. La risposta alla domanda quali libri e brani biblici possono venir trattati in una determinata età (dalle elementari fino all’adolescenza) dipende da queste altre domande: quanto tempo c’è a disposizione per la C. biblica? Come si possono coordinare determinati libri e pericopi in maniera tale da apprenderli secondo una sequenza significativa? Come si costruisce in una età specifica su quello già imparato, in modo da evitare ripetizioni defatiganti e prevederne invece una comprensione più approfondita, rinnovata? L’apprendimento biblico va collegato con la C. tematica. Si deve evitare però una funzionalizzazione della B. (K. Sorger,​​ Zum​​ problem​​ der​​ Funktionalisierung​​ biblischer Texte,​​ in “Religionspädagogische Beiträge»​​ 1 [1978] 59-70). Così ad​​ es.​​ per ragazzi fra i 10-12 anni la trattazione di certe pericopi del libro dell’Esodo si può connettere con uno sviluppo approfondito della festa di Pasqua. È saggio far poi seguire brani degli Atti degli apostoli. Con Esodo e Atti si evidenzia il problema del “popolo di Dio”, cioè di Israele e la Chiesa, problema che potrà trovare risposta nella C. del Credo. Curricoli parziali dovrebbero essere assennatamente ordinati nel curricolo globale. Quali obiettivi e contenuti devono essere trattati e raggiunti alla fine del catecumenato infantile e giovanile in famiglia, parrocchia e scuola? Che cosa deve sapere e comprendere un giovane cristiano? Quali rappresentazioni e modelli di agire deve aver interiorizzato e su quali affermazioni di valore deve essersi esercitato? A quali forme di prassi cristiana (di preghiera e di agire) deve essere iniziato? È manifestamente noto che quasi ogni pericope sfocia nell’imperativo: “Va’ e fa’ anche tu lo stesso!”. Tu hai conosciuto e hai dato il tuo assenso, ora agisci di conseguenza!

3.​​ Contenuti e obiettivi sono interdipendenti con i metodi. Un brano biblico va anzitutto fatto conoscere. Questo accade per i bambini mediante la narrazione, nella misura che si tratta di testi narrativi, o mediante il rivestimento narrativo di quei testi che sono letti e ripetuti (partile di Gesù, dei profeti, comandamenti, salmi). Modo e specie del narrare biblico non sono a piacere. Il narrare va inteso piuttosto come una sorta di interpretazione esegetica. Presuppone un certo grado di conoscenza oggettiva (manuali di C. biblica, semplici commentari). Ancor più importante è che l’insegnante si senta coinvolto personalmente. Tale coinvolgimento sgorga da una prassi cristiana di vita e da una capacità spirituale di ascolto. Ormai la lettura di un testo della Scrittura esige una melodia linguistica adeguata, ritmo e accentuazione, che richiedono l’emotività del lettore, come pure la sua preparazione.

La realtà testificata dalla B. viene rappresentata mediante la relazione a faccia a faccia realizzata nella narrazione. L’epico deve restare epico; non vi devono essere significati astratti; non vi è da fare nessuna generalizzazione, né da impararla. La lingua deve essere semplice, né sacrale-patetica, né alla moda, né volgare. H. Schlier ha richiesto una “lingua dignitosa”. Nei confronti della teologia narrativa va dosata l’attualizzazione politica. Abbellimenti che fanno deviare dal senso originale, in particolare lo psicologizzare, devono essere evitati. Va pure sconsigliata la maniera soggettiva di narrare, proposta da W. Neidhart: “Il mio racconto non deve essere orientato dalla comprensione di fede del P(resbiterale) o di Lc, ma dalla mia personale comprensione”. Ma se la mia comprensione di fede si oppone a quella di Luca, allora c’è un errore ermeneutico di principio.

Alla narrazione del maestro fa seguito la ridizione dell’alunno. Tale ripetizione nell’età infantile è un primo passo importante verso l’identificazione con la B. e la sua prassi. Sui dodici anni al posto del racconto subentra​​ la lettura​​ di testi scritti. La narrazione di cornice rimane però ancora importante e legittima. Così la lettura del brano di “Gesù e l’adultera» (Gv​​ 8,3-11) con preadolescenti viene ottimamente preparata da un racconto, nel quale la concezione giudaica di adulterio, la corrispondente punizione e la sua esecuzione vengono chiarite non in modo discorsivo-concettuale, ma dentro il racconto. Dall’AT si può preleggere​​ Dt​​ 22,22-24. Anche la misericordia di Dio testimoniata dall’azione e parola di Gesù viene ricordata narrando. La lettura di​​ Gv​​ 8,3-11 ha una interruzione dopo il v. 6 e il v. 8: “Gesù si piegò e scrisse in terra”. A questo punto si può raccontare ciò che noi — come spettatori e uditori — vediamo e ascoltiamo: le moleste domande degli “scribi e farisei”; come se ne vanno uno dopo l’altro; e così si scioglie il cerchio che avevano formato intorno a Gesù e alla donna.

Al racconto e alla lettura si connette​​ il dialogo​​ con il gruppo degli alunni, da condurre aperto, senza domande ristrette. Gli alunni manifesteranno le loro impressioni; ciò che non è stato capito si farà interrogativo; consenso e rifiuto potranno evidenziarsi. Ogni dialogo sul testo viene riportato nell’orizzonte del presente. “La legge divina che proibisce l’adulterio vale dopo come prima. Ma poiché nessuno è senza colpa, a nessuno è lecito compiere la punizione”. Caso concreto: “Come agire con un compagno che vi ha derubato? Gli date ancora fiducia?”. Tali dialoghi possono condurre ad una azione concreta, occasionalmente possono determinare un progetto. Così con undicenni la trattazione della vigna di​​ Nabot​​ (1 Re​​ 21) si può collegare con una proposta di questo tipo: “Come possiamo esortare in nome di Dio i governi di El Salvador e Perù di cessare lo spogliamente e l’assassinio degli indios?”. In altri luoghi, ad es. in Germania, il compito potrà essere: “Il nostro gruppo impedirà che lo scolaro turco nell’ora di pausa venga percosso”. Per l’insegnamento e l’apprendimento c’è bisogno di una → Bibbia scolastica per allievi/catecumeni, o si distribuiscono traduzioni del'l’AT o NT.

4.​​ Praticamente sono necessari sussidi per la C. e TIR biblico esegeticamente informati e didatticamente ponderati. Vanno sviluppati curricoli biblici adeguati per tutte le età. Riflessioni didattiche ed ermeneutiche non sono da introdurre in appendice, ma da comunicare nel processo esegetico come suo specifico aspetto formale. La prassi non va vista come il momento applicativo (deficiente) della teologia scientifica, poiché la parola di Dio si rivolge all’uditore concreto per amore suo, e non per amore della teologia. In particolare la teologia (esegesi) biblica prende significato soltanto nell’orizzonte delle esegesi pratiche (= didattica). La DB e la sua prassi dovrebbero essere in grado di prendere conoscenza dei “sussidi” sopra accennati. Nella traduzione pratica è da evitare sia di restar impigliati nel “parenetico-ingenuo” (“edificazione” senza sapere e conoscere) come pure di lavorare sul testo e nell’area della introduzione scientifica con un procedimento scientista oberato di nozioni (cf Langer 1975). La figura base dell’insegnamento/apprendimento biblico è l’ascolto intenso della B., il sapersi interpellato, il coinvolgimento che conduce alla prassi. Perdita di linguaggio, carente percezione del simbolo (deficienza estetica), preferenza della teoria alla pratica (deficienza etica) sono sempre in agguato e vanno quindi corrette. La critica della burocratizzazione ecclesiale e del predominio istituzionale a favore di una comunità vivente come Chiesa, in liturgia e diakonia, sarebbero anche i frutti di questo sentirsi interpellati dalla Bibbia.

Bibliografia

Bibeldidaktik,​​ in “Religionspädagogische Beiträge”​​ 1 (1978) n. 1; C. Bissoli,​​ La Bibbia nella catechesi,​​ Leumann-Torino, LDC, 1985; B.​​ Dreher,​​ Die​​ biblische Unterweisung im katholischen und evangelischen Religionsunterricht,​​ Freiburg, Herder, 1963; H. Halbfas,​​ Psicologia e didattica nella nuova catechesi,​​ Leumann-Torino, LDC, 1969; A.​​ Höfer,​​ La linea biblica nella nuova catechesi,​​ ivi, 1969; W.​​ Langer,​​ Kerygma e catechesi,​​ Brescia, Queriniana, 1971; In.,​​ Praxis des Bibelunterrichts. Ziele – Gestaltungsformen – Entwürfe,​​ München, Kösel, 1975; G. Otto,​​ Handbuch des Religionsunterrichts,​​ Hamburg, Furche, 1965; C.​​ Skupién,​​ Biblische Erneuerung. Die bibeldidaktische Erneuerung im deutschen Religionsunterricht der 1960er Jahre und die bibelkatechetische Erneuerung in der polnischen Katechese der 1970er Jahre,​​ Frankfurt, Peter Lang, 1984; G. Stachel,​​ L'insegnamento biblico nella scuola,​​ Modena, Ed. Paoline, 1969; In.,​​ Heutige Schriftauslegung und Religionsunterricht,​​ in “Anima”, Heft 2, 1964; M. Stallmann,​​ Die biblische Geschichte im Unterricht,​​ Göttingen, Vandenhoeck, 1963; K. Wegenast,​​ Der biblische Unterricht zwischen Theologie und Didaktik,​​ Gütersloh, Gerd Mohn, 1965.

Günter Stachel

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DIDATTICA BIBLICA

didattica della MATEMATICA

 

MATEMATICA: didattica della

Disciplina che studia i processi di insegnamento e apprendimento della m. nel contesto scolastico e più in generale formativo (e concretamente il modo di intendere e di praticare tale insegnamento e apprendimento).

1.​​ Natura e sviluppi.​​ Tradizionalmente si coagulava sotto il titolo di​​ ​​ didattica un insieme di suggerimenti e di norme pratiche derivanti dall’esperienza pratica e dalla riflessione critica su di essa. Talora si includevano in essa anche derivazioni più o meno deduttive da principi e teorie di natura filosofica. Non si trattava tanto di una scienza autonoma, quanto di un condensato organizzato e ragionato di quanto di meglio era stato possibile trovare nel contesto dell’attività didattica, oppure di norme e orientamenti proposti come applicazione di concetti e principi di origine teorica. Spesso questi ultimi erano utilizzati per spiegare o legittimare esperienze ben riuscite. Recentemente il quadro è abbastanza mutato. Due tendenze sembrano emergenti: la prima di natura scientifica, l’altra tecnologica. L’approccio scientifico alla didattica della m. è stato propugnato soprattutto in Francia, dove un ruolo non indifferente in questa direzione è stato svolto da vari Centri di ricerca presenti in Istituti Universitari e in collaborazione con insegnanti di scuola primaria e secondaria. Si è voluta impostare tale disciplina come una scienza autonoma, con suoi peculiari oggetti di ricerca e specifiche metodologie di indagine. Il sistema concettuale o quadro teorico di riferimento non è così derivato da altre​​ ​​ discipline o campi di investigazione, ma è originale e, per dirla alla Feyerabend, incommensurabile con i quadri concettuali di discipline anche prossime, come la​​ ​​ psicologia dell’educazione o la​​ ​​ pedagogia istituzionale. Sono stati così sviluppati in modo originale apparati teorici di notevole interesse (Brousseau, 1986). La seconda tendenza vede la didattica della m., come del resto la didattica delle altre discipline, come un «engineering», cioè una mediazione tecnologica e sociale tra le scienze dell’educazione, la m. e le discipline a essa correlate (come la storia della m., l’epistemologia della m., ecc.), e l’azione concreta di insegnamento (Freudenthal, 1978). Il carattere di mediazione implica non solo un lavoro di analisi e interpretazione del dato «scientifico» sotto il profilo didattico, e la progettazione di un itinerario finalizzato e sistematico per l’azione, ma anche un influsso di ritorno, dall’azione realmente esplicata al progetto e alle stesse scienze sia dell’educazione, sia matematiche.

2.​​ La concezione della m.​​ È stato spesso evidenziato il ruolo che ha nell’impostazione dell’azione di insegnamento della m. la concezione che di questa hanno sia il docente che lo studente. È stato elaborato da Pellerey (1983) un quadro di riferimento a due dimensioni che consente di esplorare e descrivere tali concezioni. La prima dimensione contrappone una concezione formale a una sostanziale dei vari concetti e procedimenti. La seconda, considera su polarità opposte una concezione descrittiva e una costruttiva delle differenti conoscenze. Ne derivano quattro quadranti. Il primo riguarda una concezione formale e descrittiva: la m. è vista come una scienza già formata e caratterizzata dai suoi aspetti formali. Nel secondo quadrante la m. è concepita come una scienza che ognuno deve ricostruire personalmente approfondendo i significati dei suoi vari elementi costitutivi. Il terzo quadrante si riferisce a processi costruttivi di abilità solo formali mediante esercizi graduati ed esecuzione accurata di algoritmi. Nel quarto quadrante la m. esiste già fuori di noi ben ordinata nella sua organizzazione concettuale, a noi basta scoprirne le varie componenti e i differenti significati.

3.​​ Gli ostacoli epistemologici.​​ Uno dei concetti introdotti dalla scuola francese che ha avuto un buon riscontro empirico è quello di ostacolo epistemologico. G. Bachelard ha introdotto tale concetto definendolo come una pre-comprensione che impedisce l’accesso delle conoscenze a uno status scientifico. Un campo di ricerca, secondo tale filosofo, diviene scienza solo dopo che siano stati superati tutti i suoi ostacoli epistemologici. Per Bachelard la m. per sua natura è priva di questi ostacoli, ma se si riconosce a questa disciplina uno statuto più empirico, allora occorre tenerne conto. È questa la tendenza sviluppatasi a partire dalle indicazioni epistemologiche di I. Lakatos (1976), che considerava la m. come una scienza quasi-empirica. Nell’ambito didattico un ostacolo epistemologico può quindi essere concepito come un complesso di difficoltà concettuali connesse con una teorizzazione non adeguata. Gli errori ripetuti sistematicamente ne possono essere un segnale, in quanto sono il risultato del sistema concettuale dello studente, delle sue intuizioni, dei modi di affrontare i problemi in genere o in particolari ambiti di studio. Il compito dell’insegnante sta nell’aiutare lo studente a prender coscienza delle sue concezioni inadeguate, a scoprirne le inconsistenze o le conseguenze errate e, quindi, a superarle. Diventano perciò necessari interventi didattici mirati e convenientemente strutturati, pena la permanenza di concezioni inadeguate e conseguenti incomprensioni ed errori.

4.​​ La costruzione delle conoscenze matematiche.​​ Si è abbastanza concordi oggi nel sostenere che le conoscenze matematiche possono essere acquisite in maniera significativa, stabile e fruibile solo se il soggetto viene impegnato attivamente nel costruirne i significati concettuali e le abilità procedurali. Le differenze di posizione riguardano i contesti in cui tale costruzione si svolge. Il costruttivismo radicale, detto anche endogeno, che deriva in ultima analisi dalle teorie piagetiane, afferma che ciascuno costruisce il proprio sapere interagendo con l’ambiente e il risultato di questa costruzione ha caratteri pronunciati di soggettività. Il costruttivismo esogeno si appoggia al concetto di apprendistato cognitivo e valorizza il ruolo di un modello che esplicita i processi implicati nell’apprendimento e nel pensiero matematico e guida poi l’acquisizione di tali processi mediante un esercizio prima seguito e corretto da vicino, poi sempre più autonomo. Il costruttivismo dialettico o sociale punta invece sul ruolo della discussione e del confronto interpersonale nello sviluppo di significati e di metodi di lavoro. I tre citati approcci al costruttivismo (endogeno, esogeno e dialettico) possono essere opportunamente valorizzati al fine di garantire la significatività e la stabilità degli apprendimenti.

5.​​ L’atteggiamento verso la m.​​ La m. costituisce tradizionalmente per molti allievi una sorgente di ansia e di paura. Un atteggiamento negativo verso la m. può emergere abbastanza presto nel corso dell’esperienza scolastica. Varie ricerche hanno messo in risalto come già in terza elementare emergano segni di tensione. Le esperienze cognitive ed emozionali connesse con l’incomprensione e con l’insuccesso stabiliscono a poco a poco una percezione di sé negativa sia per quanto riguarda la propria capacità, sia per quanto concerne le attese future. Ne consegue una caduta motivazionale e un conseguente minor impegno nello studio, cosa che a sua volta rinforza non solo la paura dell’insuccesso, ma anche il suo verificarsi. Si spiega così come tutte le indagini sia nazionali, sia internazionali abbiano evidenziato un progressivo calo di interesse e di atteggiamento positivo fino a raggiungere per una elevata percentuale di soggetti un vero e proprio rifiuto psicologico. Ne consegue la necessità di impostare progetti didattici che tengano maggiormente in conto questa dimensione dell’apprendimento matematico.

Bibliografia

Lakatos L,​​ Proofs and refutations,​​ the logic of mathematical discovery,​​ Cambridge, Cambridge University Press, 1976; Freudenthal H.,​​ Weeding and sowing. Preface to a science of mathematical education,​​ Dordrecht, Reidel, 1978;​​ Pellerey M.,​​ Per un insegnamento della m. dal volto umano,​​ Torino, SEI, 1983; Id.,​​ Esplorazioni di m.,​​ Milano, Mursia,​​ 1985; Id., «Mathematics instruction», in T. Husen - T. N. Postlethwaite,​​ International encyclopedia of education,​​ Oxford, Pergamon, 1985, 3246-3257;​​ Brousseau G.,​​ Fondements et méthodes de la didactique des mathématiques,​​ in «Recherches en Didactique des Mathématiques»​​ 7 (1986) 2, 33-115;​​ Pellerey M., «Didattica della m. e acquisizione delle conoscenze e delle competenze matematiche», in M. Laeng et al.,​​ Atlante della pedagogia,​​ vol.​​ 2.​​ Le didattiche,​​ Napoli, Tecnodid, 1991, 205-232; Resnick L. B. - W. W. Ford,​​ Psicologia della m. e apprendimento scolastico,​​ Torino, SEI, 1991; Artigue M. et al.​​ (Edd.),​​ Vingt ans de didactique des mathématiques en France,​​ Grenoble, La Pensée Sauvage, 1994;​​ D’Amore B.,​​ Didattica della m., Bologna, Pitagora, 2001; Id.,​​ Didattica della m. e processi di apprendimento, Ibid., 2004; Zan R.,​​ Difficoltà in m., Milano, Springer, 2007.

M. Pellerey

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didattica della MATEMATICA

DIDATTICA DIFFERENZIALE

 

DIDATTICA DIFFERENZIALE

La ricerca di procedure e di programmi organici di insegnamento / apprendimento che intendono affrontare le situazioni di «diversità» individuale all’interno della classe è oggetto della d.d., indicata in altri contesti come «insegnamento individualizzato» (individualized instruction)​​ o «adattamento dell’insegnamento alle differenze degli studenti» o «insegnamento in una classe eterogenea» o «insegnamento con presenza di portatori di​​ ​​ handicap nelle classi regolari» o «educazione speciale» nel caso in cui si pensa ad un trattamento speciale per situazioni specifiche.

1. La preoccupazione di adattare le procedure di​​ ​​ insegnamento alle difficoltà e alle esigenze individuali era già presente nell’antico oriente e in diversi momenti della storia della scuola. Tuttavia una ricerca del 1989 condotta in 8 nazioni rilevava che solo 1 insegnante su 20 ricorreva molto spesso durante l’anno ad una istruzione individualizzata (​​ individualizzazione). L’idea di accomodare la pratica didattica alle peculiari esigenze di ogni studente ha assunto oggi una tale rilevanza da essere ritenuta da molti insegnanti una delle principali risorse a disposizione della scuola per affrontare un duplice problema: elevare lo​​ standard​​ dell’apprendimento in risposta agli alti livelli di sviluppo della società e fornire a tutti uguali opportunità di formazione e istruzione Vari fattori hanno concorso a rendere attuale l’idea fra gli studiosi delle scienze dell’educazione: l’apprendimento delle conoscenze sulle diversità individuali di intelligenza, di capacità, di stili cognitivi e di livelli motivazionali con i quali gli studenti affrontano l’apprendimento, l’espansione del fenomeno della «multiculturalità» nella maggior parte delle società occidentali, la crescente diffusione di scelte di ordine culturale e politico a favore della piena inclusione nelle classi regolari di individui con particolari deficit di apprendimento, ma anche l’attenzione, seppure limitata, a coloro che mostrano speciali qualità. Tutti questi fattori e il loro intrecciarsi hanno dato origine a categorizzazioni esemplari di studenti: superdotati, normodotati, con ritardo mentale leggero, con ritardo mentale grave o portatori di handicap, ansiosi, con un basso / alto concetto di sé, demotivati, con una incapacità appresa, con motivazione intrinseca / estrinseca, a rischio, aggressivi o violenti, integrati o no con i loro compagni, con un rendimento sotto le reali possibilità (under achievement),​​ ecc.

2. La presenza di una grande varietà di tipologie di studenti nella stessa classe (o scuola) ha portato molti a cercare una risposta adeguata. Le soluzioni sono state diverse. Corno e Snow (1986) categorizzano le risposte a due livelli: macro-adattamenti e micro-adattamenti dell’insegnamento. Nei primi possono essere compresi programmi vasti e complessi come il​​ ​​ mastery learning,​​ l’IGE (Individually Guided Education)​​ e l’ALEM (Adaptive Learning Environment Model).​​ Nei secondi rientrano strategie che intendono venire incontro a particolari difficoltà o problemi da parte degli insegnanti (formazione di gruppi secondo i livelli di abilità, assegnazione di compiti diversificati, strutturazione dell’aula e dell’insegnamento compatibile con diversi stili cognitivi, adattamento agli interessi e motivazioni degli studenti attraverso contratti stabiliti tra studenti e insegnanti, attenzione al ritmo di apprendimento di ciascuno, uso di programmi computerizzati). Corno e Snow, oltre ad indicare le diverse strategie possibili per affrontare le differenti esigenze, sottolineano anche l’utilità di alcuni criteri valutativi per verificare l’efficacia di qualsiasi soluzione venga intrapresa per affrontare il problema: a) con le strategie e i programmi che vengono utilizzati sono raggiunti gli scopi dell’istruzione con particolare riferimento a quelli che sono in maggior difficoltà? b) le soluzioni intraprese mantengono o producono differenze per quanto riguarda acquisizione, transfer e arricchimento nell’apprendimento? c) vi sono studenti che si trovano a disagio per i programmi che vengono attuati?

Bibliografia

Corno L. - R. E. Snow, «Adapting teaching to individual differences among learners», in M. C. Wittrock (Ed.),​​ Handbook of research on teaching,​​ New York, Macmillan,​​ 31986, 605-629; Wittrock M. C. (Ed.),​​ Handbook of teaching research,​​ New York, Macmillan,​​ 31986, 630-647; Masters L. F. - B. A. Mori - A. A. Mori,​​ Teaching secondary students with mild learning and behavior problems. Methods,​​ materials,​​ strategies,​​ Austin, Pro-Ed.,​​ 21993; Dunn R. et al.,​​ A meta-analytic validation of the Dunn and Dunn model of learning-style preferences,​​ in «Journal of Educational Research» 88 (1995) 353-362; Villa R. A. - J. S. Thousand,​​ Creating an inclusive school,​​ Alexandria, Association for Supervision and Curriculum Development, 1995.

M. Comoglio

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DIDATTICA DIFFERENZIALE

DIDATTICA SPECIALE

 

DIDATTICA SPECIALE

Processo attraverso il quale l’itinerario formativo definito per rispondere ai bisogni, alle potenzialità, alle peculiarità dei soggetti in situazione di​​ ​​ handicap e di grave svantaggio socio-culturale trova attuazione concreta in specifiche sequenze di apprendimento.

1. L’evoluzione storica del concetto di d.s. è strettamente connessa a quella dell’​​ ​​ educazione speciale. All’approccio sensista di Itard segue la visione più mirata allo sviluppo intellettuale di Séguin. Soltanto con​​ ​​ Montessori viene superata la concezione medico-assistenzialistica e si giunge alla centralità di un alunno da educare attraverso un itinerario didattico rispondente ad uno sviluppo mentale che procede per fasi (anticipazione dei concetti di assimilazione e accomodamento che saranno successivamente sperimentati e teorizzati da​​ ​​ Piaget). L’alunno handicappato, proprio in quanto presenta un’evoluzione in cui determinati stadi assumono carattere patologico o non sono ancora presenti e / o superati, necessita di un approccio didattico specialistico. Tali teorie intorno all’handicap trovano piena attuazione in una struttura scolastica che si configura come scuola speciale e classe differenziale in cui «alla diversità» viene data una specifica risposta didattica. Questa concezione della d.s., presente all’inizio del sec. XX nei laboratori protetti e nelle scuole ad indirizzo didattico differenziato, si può tuttora riscontrare nei sistemi scolastici di molti Paesi dove la scolarizzazione avviene in condizioni di completa o parziale separatezza.

2. In Italia l’inserimento degli alunni normali nella scuola comune, disposto dalla L. 517 del 4 agosto 1977, è pienamente consolidato nella scuola dell’infanzia e in quella dell’obbligo. Più complesso appare il processo d’integrazione nella scuola secondaria superiore, dove i percorsi didattici e l’organizzazione della struttura scolastica assumono configurazioni molto differenti rispetto alla scuola di base. In stretto riferimento con la pedagogia della differenza, la d. non si riferisce a percorsi standard da utilizzare in base alle tipologie dell’handicap, ma assume il carattere della risposta concreta ad un diritto allo studio che diviene diritto all’apprendimento, vale a dire diritto a ricevere la prestazione didattica più rispondente ai propri bisogni personali. Conseguentemente la prestazione didattica è connotata dalla flessibilità e dalla modularità e si situa in un contesto progettuale intenzionale e scientificamente valutabile. Con la L. 104 del 5 febbraio 1992 il processo di integrazione, inteso secondo questa prospettiva, raggiunge piena significazione in quanto appare ben chiaramente delineata la struttura organizzativa che si presta ad accogliere, inserire, integrare gli alunni handicappati. I percorsi didattici, pertanto, poggiano su una base razionale che pone i suoi punti di forza nel profilo dinamico funzionale (lettura dei requisiti d’ingresso e delle potenzialità residue) e nel piano educativo individualizzato (sottosistema progettuale nel sistema progettuale della scuola e della classe).

3. In tale contesto la d.s. non è percorso di semplice socializzazione «in presenza», non è percorso di omologazione, è percorso di «normalizzazione», intesa come potenziamento delle «aree sane» per compensare i deficit e le compromissioni. Progettazione ed attuazione di questi percorsi didattici non costituiscono competenza esclusiva dell’insegnante di sostegno, ma sono prerogativa di un intero gruppo docente, dove le conoscenze e le capacità specialistiche sono al servizio di un’intera comunità scolastica in cui vanno sempre più emergendo nuove «diversità» generate dal carattere complesso e conflittuale della società contemporanea.

Bibliografia

Canevaro A.,​​ Handicap e scuola,​​ Roma, NIS, 1983; Cancrini L.,​​ Bambini diversi a scuola,​​ Torino, Bollati Boringhieri, 1991; Trisciuzzi L.,​​ Manuale di d. per l’handicap,​​ Bari, Laterza, 1993; Vico G.,​​ Handicap,​​ diversità,​​ scuola,​​ Brescia, La Scuola, 1994.

A. Augenti

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DIDATTICA SPECIALE
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