DIALOGO
Bruno Giordani
1. Significato del dialogo
2. Risposta alle attese dei giovani
2.1. Porre la persona al centro del dialogo
2.1.1. Il processo di sviluppo
2.1.2. La tendenza attualizzante
2.2. Non dirigere il dialogo
2.3. Promuovere una sana autonomia
3. Doti e abilità per condurre il dialogo
3.1. Conoscere sé stesso
3.2. Essere autentico
3.3. Saper accettare e amare
3.4. Comprendere empaticamente
4. Indicazioni metodologiche
4.1. Come conoscere una persona
4.1.1. Il campo percettivo dell’interlocutore
4.1.2. La componente affettiva
4.2. Ostacoli alla comprensione
4.2.1. L’atteggiamento egocentrico
4.2.2. La direttività
4.2.3. La tendenza a giudicare
4.2.4. La rigidità mentale
4.3. Modalità nel rispondere
4.3.1. Rispondere ai contenuti
4.3.2. Rispondere allo stato d’animo
4.3.3. Promuovere il senso di responsabilità
4.3.4. Stimolare all’impegno
Il valore del dialogo nell’azione pastorale, e in particolare in quella condotta tra i giovani, ci viene confermato tanto dal confronto con altri settori educativi non religiosi in cui da tempo si è introdotto il metodo dialogico sia a livello individuale che di gruppo, quanto dall’accoglienza e dalla rapida espansione che il dialogo, ispirato a un metodo già collaudato in altri campi, ha trovato nella pastorale in vari Paesi.
Dobbiamo, purtroppo, riconoscere e lamentare che in Italia ci troviamo ancora agli inizi in questo settore. Si trovano iniziative sporadiche e condotte a lume di naso; pochi operatori pastorali sono dotati di una formazione organica al metodo dialogico; ancora scarsa è la letteratura e rare sono le iniziative atte a sensibilizzare e a introdurre efficacemente i volenterosi alla conoscenza di un metodo dialogico sicuro.
Queste pagine si propongono di informare sull’esistenza di un metodo clinico (quello «centrato-sulla-persona» di C. Rogers) applicato al campo pastorale, nell’intento di stimolare chi lavora, specialmente tra i giovani, a fare qualcosa per superare un empirismo che oggi non è più accettabile.
Dopo aver richiamato il significato e il valore del dialogo nella pastorale giovanile, verranno date alcune indicazioni pratiche per impostare gli incontri a scopo formativo. Riguardo alla persona dell’operatore pastorale verranno analizzate le doti e le abilità, richieste per una conduzione proficua del dialogo, che egli può coltivare e maturare in sé. Infine verranno richiamati alcuni principi operativi per aiutare chi guida il dialogo a conoscere sempre più a fondo la persona. Verrà pure presentato uno schema per illustrare il susseguirsi dei vari tipi di intervento orientati a promuovere nell’individuo una progressiva presa di coscienza del suo mondo interiore, l’assunzione delle proprie responsabilità e l’avvio di un impegno costante, capaci di fargli superare le difficoltà e di iniziare il processo di maturazione umana e spirituale.
La situazione che viene esplicitamente tenuta presente è quella del colloquio o dialogo a due. Gli stessi principi, però, sia quelli ispirazionali che quelli operativi, sono applicabili anche nel dialogo in gruppo, introducendo gli opportuni adattamenti che la situazione richiede.
1. Significato del dialogo
Per cogliere il valore e la configurazione che presenta l’incontro dialogico tra l’operatore pastorale e i giovani, è opportuno prendere coscienza della sensibilità e delle attese che i giovani presentano nella situazione di incontro fatto con qualche persona adulta allo scopo di chiarire problemi personali e in particolare quelli di natura religiosa. Si potrebbe dire che i giovani provano un profondo bisogno di incontrare una persona preparata e disponibile, con la quale potersi confrontare sui loro problemi esistenziali e spirituali. Tale attesa scaturisce, o viene acutizzata, sia da alcune situazioni ambientali, che da particolari esigenze molto vive nell’animo giovanile.
Una prima situazione sofferta da molte persone di ogni età e ceto, è costituita dalla crescente difficoltà di instaurare e maturare rapporti interpersonali stabili e profondi. Anche nell’ambito ecclesiale i credenti faticano a trovare qualcuno disposto ad ascoltare e capace di comprendere e di rispondere ai loro interrogativi. Questa carenza di interlocutori preparati e disponibili è lamentata specialmente dai giovani, desiderosi di chiarire e di superare le contraddizioni interne e gli ostacoli ambientali che intralciano il cammino, che intravedono come adatto a rispondere alle loro vaghe aspirazioni verso i valori trascendenti, capaci di dare un senso pieno all’esistenza.
Se il giovane non trova nella comunità ecclesiale la possibilità di dialogare e di confrontarsi, cercherà altrove (in gruppi di incontro, presso persone qualificate come psicologi, assistenti sociali, consulenti) le risposte ai propri interrogativi. Una riprova a questa osservazione è data dal crescente ricorso a tali persone, anche per risolvere difficoltà di natura religiosa, morale o vocazionale.
Si parla di uno spostamento dal direttore spirituale verso lo psicologo o il terapeuta, e di una «direzione spirituale laica». Si noti che tale inversione di rotta non sembra dovuta né a preconcetti nei confronti degli operatori pastorali, né a ciechi fanatismi per i cultori delle scienze umane, ma piuttosto al fatto che questi ultimi risultano meglio preparati per accogliere, ascoltare e comprendere le persone. Negli animatori pastorali possiamo trovare una notevole cultura religiosa e buona volontà, ma in genere manca nel loro curriculum formativo una specifica formazione al dialogo.
Un’esigenza particolarmente viva nei giovani d’oggi è costituita dal forte accento posto sull’autonomia e sul soggettivismo, vissuti anche nei confronti della fede e dei doveri religiosi. Tale sensibilità porta i giovani ad annettere poca importanza ai dettati oggettivi della fede e alla funzione normativa della morale, e a rifiutare ogni struttura di mediazione che si presenti impositiva e non dialogante. Il soggettivismo e l’autonomia nei rapporti col trascendente confermano quanto V. Frankl espresse in un’intervista: «... ci stiamo incamminando verso una religione personale, verso una religiosità personalizzata nel modo più profondo, una religiosità nella quale ognuno troverà il proprio modo di esprimersi».
Se teniamo presenti le attese che i giovani nu-
trono nei confronti degli adulti per loro significativi, e dell’insofferenza di schemi prefabbricati e imposti dall’esterno, sentiremo quanto importante sia impostare con loro un dialogo che rispetti e metta a frutto la loro sensibilità.
2. Risposta alle attese dei giovani
Un dialogo che voglia essere stimolante di un processo evolutivo e rispettoso della libertà altrui, si ispira ai seguenti principi: l’interlocutore è l’unico «esperto» del proprio vissuto e pertanto deve occupare una posizione centrale e privilegiata nello svolgimento del dialogo; è necessario stimolare le risorse presenti nella persona, rinviando a lei gli interrogativi, perché cerchi la risposta più adeguata; infine, si deve promuovere nell’individuo il senso di responsabilità nel prendere impegni e decisioni.
2.1. Porre la persona al centro del dialogo
Tale centralità, prima di essere un dettato metodologico nell’impostazione del dialogo, costituisce una naturale conseguenza del concetto positivo che dovremmo avere della persona umana. Tale concezione la possiamo maturare studiando la posizione che sull’argomento ha preso la psicologia umanistico-esistenziale, detta anche «Terza Forza». A tale Scuola dobbiamo l’approfondimento di una concezione nettamente positiva dello sviluppo della personalità e delle risorse dinamiche che la promuovono.
2.1.1. Il processo di sviluppo
Il concetto dinamico che dello sviluppo ci dà la psicologia umanistica risulta fortemente positivo sia considerando i fattori che lo promuovono, che analizzando la modalità con cui esso si attua.
I fattori principali sono costituiti dalle risorse energetiche presenti nello psichismo dell’uomo e orientate verso la piena realizzazione della persona, mentre il dato ereditario e le pressioni ambientali svolgono una funzione subordinata che, nei casi normali, può solo rappresentare il terreno, favorevole o sfavorevole, nel quale il processo di sviluppo si svolge.
Riguardo alla modalità con cui lo sviluppo avviene, la psicologia umanistica accentua l’aspetto del cambiamento e delle trasformazioni che caratterizzano l’evoluzione della persona.
Tale cambiamento è dovuto all’impegno personale più che a fattori esterni, come le strutture e le istituzioni sociali.
2.1.2. La tendenza attualizzante
Un motivo di fiducia nella capacità che ha ogni persona di realizzare i propri progetti, è data dalla presenza di una tendenza, intrinseca all’uomo, di lottare per la propria conservazione e piena realizzazione. Tale fiducia, che incide profondamente nella condizione del dialogo, non scaturisce dal postulato rousseauniano, secondo il quale l’uomo è naturalmente buono, ma dalla convinzione che l’uomo è capace di risolvere i propri problemi e di attuare il proprio piano di vita, perché ha in sé l’energia e il criterio di valutazione, sufficienti per attuare lo sviluppo di sé stesso. Su questa base si può anche parlare di libertà dell’uomo, in quanto il suo accrescimento dipende fondamentalmente da lui.
È vero, nessuno gode di una piena libertà, in quanto l’uomo è «spinto» da pulsioni e da istinti, da abitudini e da pressioni esterne; ma è pure vero che egli è anche «attirato» da valori, da traguardi, da significati e che ha in sé le risorse per riconoscere tali appelli e per camminare verso i valori.
Nell’ambito del dialogo a finalità pastorale, è evidente che i valori, posti come meta al cammino, sono di ordine trascendentale. Su questo punto troviamo concezioni diverse tra gli psicologi umanisti: molti professano un chiaro immanentismo, in base al quale l’uomo si realizza perseguendo i valori che ha in sé, a livello umano (C. Rogers), altri sostengono che «caratteristica costitutiva dell’esistenza umana è l’autotrascendenza, il tendere a qualcosa fuori e diverso da sé stesso» (V. Frankl). È a questi ultimi che l’operatore pastorale dovrebbe ispirarsi nel dialogo coi giovani.
2.2. Non dirigere il dialogo
La «non-direttività» non è che la traduzione, a livello metodologico, della centralità della persona nel dialogo, di cui si è parlato ora. Si dice, giustamente, che l’interlocutore è «l’esperto» nel colloquio impostato su una situazione che scaturisce dal suo vissuto. Dato che il termine «non-direttività» viene spesso travisato, compromettendone anche la corretta applicazione in campo operativo, è necessario che l’operatore pastorale abbia un’idea precisa della natura di un dialogo condotto in forma «non-direttiva». È nondirettivo, o informante, quel dialogo nel quale l’operatore pastorale si limita ad aiutare la persona a prendere coscienza del proprio mondo percettivo, a riflettere sui vari aspetti della situazione esposta, a valutare il significato umano e morale del suo comportamento, a prendere decisioni assumendosene la responsabilità.
Conducendo il dialogo in modo non-direttivo si riesce a promuovere nella persona il processo di una presa di coscienza sempre più profonda, a stimolarla verso un impegno personale e a maturare in lei un forte e stabile senso di responsabilità.
Sul piano operativo la non-direttività viene attuata ricorrendo alla «riformulazione». L’operatore pastorale ha solo da verbalizzare con chiarezza ciò che è riuscito a cogliere dalla comunicazione verbale e non-verbale della persona. Il semplice «riflettere» all’interlocutore ciò che questi va esponendo, costituisce per costui un segno sicuro di essere attentamente ascoltato e compreso, rappresenta una prova della propria capacità ad esprimere stati d’animo che a volte risultano confusi per lui stesso, è uno stimolo permanente che lo invoglia a esplorare sempre più a fondo il proprio mondo interiore.
2.3. Promuovere una sana autonomia
Il tipo di dialogo che viene qui proposto agli operatori pastorali mira a tener presenti le istanze, particolarmente vive nei giovani, di vivere in modo sempre più personale il loro rapporto con Dio e di essere aiutati a prendere con responsabilità autonoma le loro decisioni, senza demandare ad altri questo diritto-dovere strettamente personale. In tal modo, l’operatore pastorale raggiungerà il traguardo di «aiutare la persona ad aiutare sé stessa», formula che esprime efficacemente la formazione a una sana autonomia.
In fondo, l’aiuto che possiamo dare a chi ci presenta difficoltà spirituali consiste essenzialmente nel promuovere un nuovo apprendimento a livello esistenziale. Apprendere significa modificare in senso migliorativo l’intero comportamento o qualche aspetto dello stesso. Quindi, aiutare qualcuno a fare un cammino spirituale significa stimolare in lui un processo che lo porterà a un graduale cambiamento nel suo modo di pensare, di sentire e di agire.
Tale processo di crescita trova le sue radici, fondamentalmente, nelle energie presenti nell’individuo stesso. L’operatore pastorale deve far leva su queste risorse, far appello alla capacità che ogni individuo ha in sé di prendere coscienza della propria situazione, di sentire il richiamo verso i valori trascendenti, di orientarsi verso il Bene e di perseguirlo con impegno personale convinto. Il dialogo, che pone la persona al centro dell’attenzione, mira proprio a ottenere il massimo di collaborazione e il potenziamento delle risorse presenti in ogni individuo, ma che rimangono spesso inoperose perché non stimolate.
In questo appello alle forze interiori, l’operatore pastorale cercherà di rivolgersi a tutte le funzioni psichiche e spirituali. Solo così egli potrà promuovere una crescita armonica della persona. Si trovano, invece, operatori pastorali che insistono unilateralmente su una sola funzione psichica: c’è chi punta tutte le carte sulla volontà; chi si illude di risolvere ogni problema a livello di corteccia cerebrale; chi vede unicamente l’onnipotenza dell’amore. Altri insistono sull’esercizio di una data virtù, o sulla condanna di un solo tipo di vizio, o nell’uso di determinate pratiche di devozione o di esercizi ascetici.
L’uomo è dotato di energie di varia natura ed è sensibile a stimoli diversi. È saggio colui che sa far appello a tutte le risorse dinamiche (fisiologiche, psichiche e spirituali) e sa usare tutta la tastiera dei mezzi atti a risvegliare o potenziare la sensibilità di ognuna.
3. Doti e abilità per condurre il dialogo
Chi accetta di mettersi a servizio dei fratelli in difficoltà per aiutarli a fare un cammino di conversione e di purificazione, sente il bisogno non solo di acquisire una sufficiente base di conoscenza delle verità e dei valori cristiani, ma di maturare in sé certe qualità e abilità personali che fondamentalmente non sono frutto né di doti naturali, né di doni soprannaturali. Si tratta di qualità che ognuno può acquisire con l’impegno personale e continuamente perfezionare con l’esercizio.
Le principali qualità e abilità che l’operatore pastorale deve coltivare in sé per riuscire efficace nell’incontro coi fratelli, sono: la conoscenza e l’accettazione di sé stesso; l’autenticità di vita; la disposizione ad accogliere con bontà le persone; la capacità di ascoltare e di comprendere l’altro promuovendo in lui un processo di maturazione umana e spirituale.
3.1. Conoscere sé stesso
La conoscenza di sé rappresenta una condizione indispensabile per la propria formazione, per maturare in sé il processo di chiarimento e di purificazione umana e spirituale. In chi accetta la missione di aiutare gli altri, tale conoscenza si rivela necessaria per evitare di percepire in modo errato e distorto i loro problemi. È risaputo, infatti, che noi percepiamo la comunicazione dell’altro attraverso le strutture del nostro mondo interiore, col rischio di deformare il messaggio che ci giunge se non conosciamo a fondo la nostra sensibilità, le allergie, le preferenze, i preconcetti, gli schemi mentali che determinano le nostre reazioni di fronte agli stimoli esterni.
Un pericolo in cui possiamo incorrere nel processo di conoscenza di noi stessi è quello di non avere la forza e la libertà di accettare anche gli aspetti o i tratti negativi di noi stessi. In tali casi siamo naturalmente spinti a ricorrere a qualche meccanismo di difesa per negare o rifiutare queste «ombre» che intravediamo dentro di noi. Questo atteggiamento ci porta a ripiegarci su noi stessi, ad essere ipersensibili e difensivi, ad evitare di entrare in contatto profondo con gli altri fino ad essere incapaci di accettarli, specialmente se presentano tratti che ci richiamano le nostre carenze.
Oltre alla conoscenza e alla sincera accettazione di sé, fino ad essere contento della propria esistenza, è necessario che l’operatore pastorale nutra fiducia in sé stesso e nella missione che assolve nell’incontrare le persone. Tale fiducia si basa sia sulla concezione positiva della persona umana che sugli aiuti spirituali e soprannaturali che intervengono attivamente nello svolgimento del compito pastorale.
L’operatore pastorale proverà la stessa fiducia e gli stessi motivi nei confronti delle persone che ricorrono a lui. Tale convinzione lo porterà a nutrire e a dimostrare profondo rispetto verso tutti, nella certezza che le risorse interiori e la grazia di Dio promuovano un processo capace di aprire sempre più l’uomo ai valori trascendenti.
3.2. Essere autentico
La conoscenza e l’accettazione di noi stessi costituiscono la premessa per poter essere anche autentici, sia nei confronti di noi stessi (autenticità intrapersonale), che nel rapportarci agli altri (autenticità interpersonale). Siamo persone autentiche quando abbiamo conquistato la libertà di riconoscere e accettare come nostri i pensieri, i desideri, gli istinti, le tendenze, le carenze, ecc., che riscontriamo nel nostro mondo interiore, e di presentarci agli altri così come siamo.
Nei rapporti sociali è piuttosto raro incontrare persone pienamente autentiche. Ognuno di noi tende, più o meno consciamente, a presentarsi dietro una maschera, che varia a seconda delle circostanze esterne e dei motivi che ci animano. Finché ci ripariamo dietro la maschera, non saremo mai in grado di migliorare noi stessi né di aiutare gli altri. Chi ha pratica di incontri di aiuto sa che, a lungo andare, non produce alcun frutto il comportarsi come se si fosse diversi da come si è, mentre si riesce più incisivi ed efficaci quando possiamo ascoltarci, accettarci ed esprimerci per quello che siamo.
Se l’operatore pastorale è autentico riuscirà a instaurare con le persone un rapporto improntato alla fiducia e alla lealtà, evitando il fenomeno del doppio linguaggio. Questo consiste nell’inviare all’interlocutore contemporaneamente un duplice messaggio: uno attraverso il canale della verbalizzazione, l’altro attraverso il linguaggio non-verbale. La persona non autentica, quando non ha la libertà di esprimere ciò che pensa o sente, verbalizza ciò in cui non crede o di cui non è convinta, ma nello stesso tempo, e per via non verbale (tono della voce, sguardo, gesti, lapsus, reazioni cutanee, ecc.), comunica il suo vero stato d’animo, che è spesso contraddittorio a quello espresso a parole. La comunicazione non-verbale è spesso colta solo a livello inconscio dal ricevente, ma ciò non toglie che egli provi perplessità e disorientamento nei confronti del messaggio verbale. L’autenticità dell’operato pastorale rappresenta uno stimolo efficace per le persone a diventare sempre più sé stesse e le aiuta a dare spazio all’azione dello Spirito, che è Verità. La frase detta da Gesù ai Giudei: «... la verità vi farà liberi» (Gv 8,32) conserva tutto il suo valore, sia nel rapporto tra noi, che nell’incontro con Dio.
3.3. Saper accettare e amare
Chi si rivolge all’operatore pastorale per avere un aiuto nel cammino verso Dio, ha bisogno di sentirsi pienamente accettato così come è, e amato profondamente. Non è facile accettare e amare chi presenta tratti negativi a vari livelli, mentalità distorta, atteggiamenti riprovevoli. In tali casi dobbiamo immergerci nel mondo soggettivo dell’altro e percepire, ponendoci nella sua ottica, gli aspetti negativi che emergono dal racconto. Solo così potremo comprendere che anche un comportamento oggettivamente condannabile può essere perfettamente coerente nel contesto in cui l’individuo lo vive. Solo mettendoci dalla parte dell’individuo potremo sentire come accettabile, da un punto di vista psicologico, anche ciò che non è oggettivamente approvabile da un punto di vista morale.
La pratica ci dice che la disposizione ad accettare con comprensione e con amore coloro che sono lontani dai nostri schemi mentali si incontra raramente negli ambienti ecclesiastici. Può darsi che un’educazione moralistica e un malinteso senso di responsabilità ci portino a giudicare la condotta altrui e a classificare le situazioni esistenziali sulla base di schemi fissi e indiscutibili, a criticare e a condannare tutto ciò che non si accorda con la nostra mentalità e sensibilità, a proporre subito soluzioni conformi a principi definiti e intoccabili, a impartire comandi e proibizioni, a imporre determinate condotte senza lasciare spazio a un libero confronto tra opinioni diverse.
L’accettazione piena, da parte nostra, nei confronti delle persone con le quali instauriamo un dialogo, rappresenta uno stimolo efficace nella promozione della presa di coscienza della propria situazione interiore e del cammino che le persone desiderano fare sulla via della conversione e dell’avvicinamento a Dio. Inoltre, la nostra accettazione e il nostro amore sono vissuti come simbolo della bontà e paternità di Dio verso tutti, a imitazione degli incontri di Gesù con Zaccheo, con la peccatrice pubblica, con la Samaritana, col buon ladrone, ecc.
L’efficacia di tale accettazione, o considerazione affettuosa, si rivela in vari campi. In particolare la persona viene aiutata:
— a esplorare il proprio mondo interiore e a conoscersi sempre più a fondo;
— a superare eventuali stati ansiosi, grazie al «contagio» benefico derivante dalla disposizione di benevolenza, serenità, sicurezza, gioia interiore che l’operatore pastorale vive in sé;
— ad accettare anche i propri lati negativi, in seguito alla graduale scoperta di quelli positivi evidenziati nel dialogo. Si ricordi che uno può nutrire stima e amore verso sé stesso solo quando si sente apprezzato e amato da una persona per lui significativa;
— a conquistare una sana autonomia nel prendere decisioni con senso di responsabilità e nel portare avanti gli impegni presi;
— a superare i momenti di crisi in cui «l’uomo vecchio» tenta di soffocare «l’uomo nuovo» che sta emergendo, anche dietro la spinta del dialogo. In questa lotta l’operatore pastorale non rimane spettatore passivo, ma si schiera come alleato dell’uomo nuovo contro quello vecchio, anche a rischio di entrare in urto con l’interlocutore.
3.4. Comprendere empaticamente
Il tipo di comprensione che si richiede per promuovere in una persona un processo di maturazione umana e spirituale, viene detto «empatia». Posso dire di comprendere empaticamente una persona quando riesco a vedere e a percepire la realtà come la percepisce l’altro, quando mi pongo dalla sua parte, dentro il suo campo percettivo. Applicando questa disposizione alla situazione di dialogo, l’empatia può essere indicata come una «sensibilità eterocentrica», e consiste nel percepire e nel comunicare il significato personale e globale che l’interlocutore annette al proprio discorso, anziché limitarsi alla formulazione letterale dello stesso. Ciò significa cogliere, attraverso il linguaggio verbale e non-verbale, sia il contenuto oggettivo della comunicazione, che lo stato d’animo con cui la persona vive quella situazione. Per giungere a tale comprensione dobbiamo prestare molta attenzione alla persona, sia ascoltando e ricordando ciò che va dicendo, sia osservando il suo modo di essere e di comportarsi.
Se nel dialogo sappiamo ascoltare con disposizione empatica ciò che la persona ci comunica, riusciremo a comprendere in modo sempre più «vero» il suo mondo interiore, in quanto potremo eliminare l’interferenza della nostra mentalità e sensibilità, che rappresentano fattori deviami nella percezione del vissuto altrui.
4. Indicazioni metodologiche
Le quattro qualità o abilità illustrate ora, e che l’operatore pastorale dovrebbe coltivare per poter condurre con frutto un dialogo di aiuto, possono diventare operative se vengono tradotte in indicazioni pratiche, ispirate a un metodo già collaudato. Tale è lo scopo di quest’ultimo paragrafo, nel quale, adattando il metodo clinico di C. Rogers alla situazione pastorale, verranno anzitutto delineate alcune piste per facilitare il compito di giungere a conoscere empaticamente una persona; si metteranno poi in evidenza gli atteggiamenti che più frequentemente costituiscono un ostacolo alla conoscenza dell’altro; infine, verranno schematicamente presentati gli interventi più comuni coi quali l’operatore pastorale può promuovere nell’individuo il cammino verso la maturità spirituale.
4.1. Come conoscere una persona
La capacità di entrare empaticamente nel mondo altrui presuppone una speciale organizzazione psichica, che dipende in parte da doti naturali, e in parte è frutto di apprendimento. Si trovano persone particolarmente capaci di recepire lo stato d’animo dell’altro e di coglierne la tonalità positiva o negativa. La psicologia differenziale ci dice che la donna possiede una sensibilità molto più spiccata dell’uomo nel cogliere gli stati d’animo altrui. Si può parlare di una particolare sensibilità a direzione eterocentrica, che scaturisce da convinzioni, da bisogni e da interessi orientati verso gli altri. Rimane comunque vero che tale dote eterocentrica può essere coltivata e perfezionata con una serie di incontri, sia individuali che di gruppo, organizzati esplicitamente allo scopo di sensibilizzare alla comprensione dell’animo altrui.
Due sono gli aspetti dello psichismo umano che meritano particolare attenzione, in quanto ci permettono di comprendere l’individuo a livello empatico: la percezione che egli ha di sé e della realtà, la componente emotiva presente nel racconto.
4.1.1. Il campo percettivo dell’interlocutore
Per la psicologia umanistica, il termine «percezione» indica «il significato soggettivo che un individuo attribuisce a tutto ciò che avviene nel proprio mondo interiore e in quello fuori di lui» (Y. Saint-Arnaud). In questa definizione risulta evidente che il fattore soggettivo prevale su quello oggettivo nel cogliere il valore di un vissuto.
Per comprendere a livello empatico una persona è necessario giungere a cogliere come essa percepisce (cioè: quale significato ha per lei) la situazione che ci sta descrivendo. Per arrivare a questo traguardo dobbiamo mettere da parte le nostre strutture mentali e affettive e immergerci nel mondo dell’altro, senza pregiudizi e senza schemi già fatti. Per vivere questo atteggiamento ci si deve porre nella stessa angolatura dalla quale l’altro vede la realtà, ossia: vedere con i suoi occhi.
4.1.2. La componente affettiva
Nell’ascoltare una persona che ci parla di sé, l’attenzione viene comunemente puntata sul contenuto, ossia sulla situazione oggettiva che viene esposta. Nell’ascolto entra in funzione la comprensione intellettuale, il ragionamento, la valutazione logica. La componente affettiva rimane generalmente nell’ombra, o si rileva solo quando è esplicitamente verbalizzata o nei casi in cui essa si fa evidente attraverso il linguaggio non-verbale. Questa limitazione nell’ascolto, specialmente quando vengono esposti vissuti personali, impoverisce di molto il significato della comunicazione e permette una comprensione solo parziale e, a volte, erronea del mondo interiore dell’interlocutore. Solo se riusciamo a percepire lo stato d’animo con cui l’individuo vive ciò che espone, possiamo dire di comprenderlo a fondo.
4.2. Ostacoli alla comprensione
L’esperienza insegna che, dialogando con una persona, assumiamo facilmente atteggiamenti che ci impediscono, in modo più o meno determinante, di metterci nell’angolo visuale dell’interlocutore, di vedere la realtà come la vede lui. I più comuni atteggiamenti disturbanti sono: l’egocentrismo, la direttività nel condurre il dialogo, la tendenza a valutare e a giudicare, la rigidità mentale.
4.2.1. L’atteggiamento egocentrico
Se siamo tanto incentrati su noi stessi da metterci come punto di riferimento, di confronto e di valutazione di ogni situazione che ci venga esposta, non riusciremo mai a cogliere lo stato d’animo dell’altro e tanto meno penseremo a metterci dal suo punto di vista nel considerare la situazione da lui esposta. Saremo, invece, perpetuamente condizionati dai nostri pensieri e dalle reazioni che il racconto provoca in noi, e risponderemo all’interlocutore con valutazioni, pareri, giudizi, consigli, ricordi e confronti attinti ai nostri schemi mentali e affettivi, alla nostra formazione, alle nostre abitudini ed esperienze personali.
4.2.2. La direttività
Diventiamo «direttivi» nel condurre il dialogo quando ci consideriamo gli «esperti» nel comprendere e nel dare soluzioni e riteniamo di essere efficienti offrendo qualcosa di nostro all’interlocutore. 1 motivi che frequentemente possono convincerci a metterci al centro del dialogo, sono: il desiderio di giungere in fretta alla conclusione, la convinzione di essere in grado di dare una sicura spiegazione al problema, lo zelo di «dare» il massimo della nostra saggezza e i frutti della nostra esperienza, un eccessivo senso di responsabilità applicato a un’indebita estensione del nostro ruolo, la richiesta esplicita e insistente che molte persone ci rivolgono per avere un «consiglio».
Possiamo renderci conto se assumiamo l’atteggiamento direttivo prestando attenzione al tipo di intervento che usiamo nel rispondere all’interlocutore. Ci troviamo sulla linea della direttività quando poniamo domande che orientano il discorso nella direzione da noi preferita; quando esprimiamo prematuramente il nostro parere sul problema, in modo da condizionare la persona nella valutazione di sé; quando offriamo linee di soluzione partendo dalla nostra mentalità; quando deviamo o blocchiamo un certo discorso che non ci interessa o che ci crea difficoltà o ansia; quando tendiamo a dare consigli o esortazioni e a imporre o a proibire; quando ci dilunghiamo in spiegazioni teoriche e in interpretazioni che generalizzano e spersonalizzano il problema posto; quando rispondiamo raccontando un caso più o meno simile a quello appena esposto, instaurando confronti e deducendo conclusioni operative che vengono proposte all’interlocutore come via di soluzione.
Questi modi di intervenire nel dialogo sgorgano da un ascolto molto superficiale, rivelano un atteggiamento egocentrico e uno scarso interesse per l’altro, non promuovono nell’interlocutore né la necessaria presa di coscienza della situazione in cui egli si trova, né il desiderio di assumersi la responsabilità di una decisione personale e di impegnarsi in modo convinto nel cammino che intendeva iniziare. Questo modo di condurre il dialogo non favorisce la formazione di una sana autonomia e rende la persona sempre più instabile e passiva.
4.2.3. La tendenza a giudicare
È molto facile che in noi domini la tendenza a vedere le persone secondo le categorie «bene-male». Tale disposizione emerge ancora più facilmente ascoltando le confidenze di una persona che desidera fare un cammino di conversione e di purificazione. Di qui la tendenza a classificare come «buono» o come «cattivo» il comportamento di cui la persona ci informa. Si deve notare che i modi per comunicare il giudizio all’interessato sono vari: la parola più o meno esplicita, il silenzio, i gesti anche se contenuti, l’espressione del viso, le variazioni nel contatto affettivo. Qualsiasi giudizio, sia negativo che positivo, esercita sull’interlocutore una notevole forza di pressione e di condizionamento, non solo nel valutare una situazione concreta, ma anche nel processo di maturazione che dovremmo invece promuovere.
Al contrario, la serena e piena accettazione di tutto il mondo interiore della persona produce effetti benefici, quali: il graduale abbandono delle difese e dei timori che potrebbero bloccare la comunicazione; la presa di coscienza della propria situazione, fatta con animo fiducioso; il desiderio di approfondire sempre più la comunicazione con noi. L’esperienza insegna che la libera comunicazione del proprio vissuto a una persona accogliente e comprensiva produce vantaggi rilevanti, quali: alleggerimento e soluzione di stati di tensione (effetto catartico), diminuzione della pressione esercitata dalle pulsioni istintuali (specialmente da quelle affettivo-sessuali e da quelle aggressive), riduzione di stati ansiosi indotti da un’educazione allarmistica o dalla formazione di un’immagine negativa di sé.
4.2.4. La rigidità mentale
Se, in seguito ad una formazione angusta e unilaterale, ci ritroviamo con una mentalità ristretta e rigidamente inquadrata entro schemi fissi, ci riuscirà molto diffide prendere in considerazione e vagliare senza pregiudizi le situazioni altrui, specialmente se si scostano dalle linee lungo le quali corre il nostro modo di pensare e di sentire.
È molto facile che, di fronte a situazioni che sono inconciliabili coi nostri schemi, noi siamo portati a reagire con la critica, con giudizi inappellabili, con il rifiuto e la condanna. Inevitabilmente tale atteggiamento non solo impedisce di ascoltare fino in fondo il racconto e di entrare nella visuale dell’interlocutore (comprensione empatica), ma ci espone a irrigidirci sulle nostre posizioni e a rifiutare e condannare sia il vissuto dell’altro che, assai spesso, la stessa persona.
Pur non rinunciando alle convinzioni a cui ispiriamo la nostra condotta personale, dobbiamo essere aperti per saper ascoltare e rispettare opinioni diverse dalle nostre. Solo nei casi di ignoranza o di concezioni errate in campo dogmatico o morale è nostro dovere annunciare all’interlocutore la verità che trascende le persone e aiutarlo ad accoglierla.
4.3. Modalità nel rispondere
La graduale comprensione che riusciamo a maturare riguardo alla persona dell’interlocutore la dobbiamo comunicare a lui, per aiutarlo a prendere coscienza della situazione in cui si trova e promuovere il cammino di conversione o di purificazione che egli intende intraprendere. In tale comunicazione si dovrà procedere per gradi, che rispecchiano il normale «iter» che si segue nel conoscere l’animo di una persona.
Quattro sono i passi che normalmente una persona deve fare per esplorarsi, conoscersi, vedere ed accettare la propria responsabilità e impegnarsi in un’azione costruttiva. Altrettanti sono i tipi di intervento che promuovono e sostengono il cammino lungo questi gradini o stadi.
Possiamo indicare col termine «rispondere» gli interventi che facciamo per accompagnare la persona lungo questo cammino.
Si parla, allora, di rispondere ai contenuti oggettivi (cioè: alla situazione come risulta dal racconto dell’interlocutore), agli stati d’animo o sentimenti, al senso di responsabilità e al dovere di impegnarsi.
4.3.1. Rispondere ai contenuti
Con tale intervento riflettiamo alla persona, in forma concisa, ciò che questa ci ha comunicato. Con questa semplice «riformulazione» dimostriamo concretamente la nostra partecipazione al racconto e l’interesse che abbiamo per la persona. Ciò dà fiducia e sicurezza all’interlocutore, e a noi offre la possibilità di verificare se e fino a che punto abbiamo percepito fedelmente ciò che ci viene esposto.
4.3.2. Rispondere allo stato d’animo
La componente affettiva da cui la persona è animata nel raccontare il suo vissuto, traspare generalmente dal linguaggio non-verbale. È quindi necessario che ci sensibilizziamo per cogliere tali messaggi, di cui talvolta la stessa persona non ha chiara coscienza.
Questo intervento, delicato e talvolta anche rischioso, ha generalmente un forte impatto sulla persona e risulta molto stimolante nel processo della presa di coscienza che l’interlocutore sta iniziando. Ancora più efficace risulta il riflesso del sentimento, quando riusciamo a cogliere la causa che lo alimenta e la comunichiamo con chiarezza alla persona.
4.3.3. Promuovere il senso di responsabilità
Dopo che la persona ha preso coscienza dei propri stati d’animo in relazione alla situazione in cui si trova, viene stimolata a cercare quale parte ha avuto (o ha ancora adesso) nella genesi e nello sviluppo della situazione. Inoltre, dobbiamo aiutare la persona a prendere atto della distanza che esiste tra il comportamento che ha assunto finora e ciò che ritiene di dover realizzare per essere coerente coi suoi impegni. Per giungere a questa presa di coscienza è necessario che la persona si renda chiaramente conto di ciò che le manca, di ciò che dovrebbe fare e non fa, degli atteggiamenti dei quali deve assumersi la responsabilità.
Anche questo è un intervento delicato, per cui deve essere preparato con numerosi interventi di «risposta» che approfondiscono la presa di coscienza. Nel far presente il grado di responsabilità che la persona può avere, dobbiamo rimanere sul piano operativo (condotta oggettiva, azioni verificabili, interventi, omissioni, ecc.) evitando ogni riferimento alle intenzioni o alle motivazioni da cui la persona potrebbe essere animata. Inoltre, se la persona si difende e non ha la forza o la libertà di riconoscere e di accettare la propria responsabilità, non dobbiamo insistere, ma accettare come valida la difesa e riprendere il cammino dallo stadio precedente. L’esperienza insegna che quando la persona giunge a riconoscere la propria responsabilità, esprime spontaneamente il desiderio di fare qualcosa per uscire dalla situazione. È questo il momento in cui possiamo portare la persona a salire l’ultimo gradino: quello dell’impegno concreto per realizzare l’ideale a cui aspira.
4.3.4. Stimolare all’impegno
La presentazione della meta verso cui la persona intende orientarsi e dell’impegno che questa richiede non va fatta in termini astratti e generici, ma formulata in termini operativi di azioni e di comportamenti. Se abbiamo a che fare con persone sufficientemente mature e attive, il piano di azione viene elaborato in collaborazione. Se, invece, si tratta di individui troppo giovani, di scarsa iniziativa o ancora bisognosi di appoggi esterni, possiamo proporre direttamente alcuni impegni concreti, cercando di suggerire anche motivi adeguati per sostenere la volontà. Quest’ultima fase del cammino non si esaurisce nella presentazione e nell’accettazione, costituisce l’avvio di una salita che sarà lunga quanto la vita e che, specialmente all’inizio, va portata avanti col sostegno di una persona che sappia comprendere le nuove difficoltà e sostenere colui che sta faticosamente apprendendo a camminare.
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