CODICE

 

CODICE

È una regola, o un sistema di regole, che stabilisce equivalenze tra un sistema di significanti (piano dell’espressione) ed un sistema di significati (piano del contenuto).

1. Pensato in questi termini esso svolge due fondamentali funzioni: a) comunicativa, dato che senza l’apporto di un appropriato intervento di codifica (e di decodifica) non è possibile alcuna comunicazione (senza una grammatica ed una sintassi la parola rimane muta); b) espressiva, in quanto non esiste un uso standard del c., ma esso si declina in rapporto alle diverse sensibilità degli emittenti (si può fare un uso convenzionale o poetico della parola con risultati chiaramente molto diversi). Il c. non è mai sperimentabile fuori da un contesto: esso cioè non opera mai isolatamente, ma sempre contemporaneamente e in maniera organica rispetto alla varietà di tutti gli altri c. Questi sono articolabili secondo un doppio criterio: sono c. in senso​​ verticale​​ i c.​​ generali​​ (quelli in base ai quali possiamo dire che il cinema è cinema),​​ particolari​​ (un certo modo di pensare il cinema),​​ singolari​​ (sono istituiti​​ ex novo​​ e appartengono spesso a un singolo testo); sono c. in senso​​ orizzontale,​​ invece, i c.​​ narrativi​​ (che comprendono le strutture narrative del testo, le regole linguistiche e le modalità di discorso impiegate nella sua costruzione), i c.​​ percettivo-figurativi​​ (iconici, scenografici, prossemici, cinesico-gestuali), i c.​​ linguistici e sonori.

2. Dal punto di vista sociologico il ruolo giocato dal c. è particolarmente importante come distintivo di un determinato​​ ​​ gruppo sociale o di una certa​​ ​​ cultura: nel primo caso, più che di c. è opportuno parlare di lessici, cioè di sottocodici costituiti da frasi gergali, modi di dire, espressioni dotate di senso esclusivamente all’interno del contesto linguistico entro cui sono utilizzati (si pensi allo​​ slang​​ delle minoranze etniche nelle metropoli americane, o al linguaggio dei gruppi giovanili); nel secondo caso il c. è strumento di produzione e organizzazione del sapere che contraddistingue una certa società in una determinata epoca storica, in modo tale che dalla conoscenza del c. dipenda l’accesso al sapere che esso struttura (è il caso dell’aristotelismo per il​​ ​​ Medioevo o dell’allegoria per il Barocco).

3. Il carattere condizionale del c. ai fini della comunicazione e il suo rilievo in ordine alla definizione di sottosistemi sociali e universi culturali rendono ragione della sua importanza pedagogica. La si può indicare in diverse direzioni: a) per quanto riguarda il rapporto tra c. e comunicazione educativa nella padronanza dei c. della comunicazione va individuata una delle competenze fondamentali dell’insegnante. Grazie a tale competenza è possibile da una parte attivare un’adeguata comunicazione didattica (facendo ricorso alla voce, al gesto, alla prossemica, agli strumenti tecnologici), dall’altra riconoscere nei c. della comunicazione attivati dagli alunni nella classe le loro aspirazioni, le loro difficoltà, il loro eventuale disagio; b) in continuità con questo discorso va registrata la rilevanza pedagogica di una conoscenza dei rapporti che legano il c. (i c.) con particolari gruppi sociali o contesti culturali per potere attivare in relazione ad essi una mediazione pedagogica adeguata. Nei diversi ambiti (didattico, formativo, pastorale) la conoscenza dei c. attraverso i quali un sistema socio-culturale si costruisce è funzione della possibilità di intervenire con efficacia sui soggetti che a tale sistema appartengono; c) un ultimo aspetto di importanza dei c. in contesto educativo va infine ricondotto ai media, in particolare i media digitali (Internet, telefono cellulare, videogiochi) che particolare rilievo dimostrano di avere nella attuale cultura giovanile. In margine a questi media è facile riconoscere come il problema stia nella conoscenza dei loro linguaggi, ovvero di tipo alfabetico. Educare al corretto uso dei c. significa in quest’ottica educare alla possibilità di comunicare in maniera responsabile, che è poi il primo essenziale obiettivo dell’educazione linguistica (​​ linguaggio).

Bibliografia

Eco U.,​​ La struttura assente,​​ Milano, Bompiani, 19853; Segre C.,​​ Avviamento all’analisi del testo letterario,​​ Torino, Einaudi, 1985; Ardrizzo G. (Ed.),​​ L’esilio del tempo. Mondo giovanile e dilatazione del presente, Roma, Meltemi, 2003; Rivoltella P. C.,​​ Screen generation. Gli adolescenti e le prospettive dell’educazione nell’età dei media digitali, Milano, Vita e Pensiero, 2006.

P. C. Rivoltella

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CODICE

CODIGNOLA Ernesto

 

CODIGNOLA Ernesto

n. a Genova nel 1885 - m. a Firenze nel 1965, educatore e pedagogista italiano.

1. Allievo dell’hegeliano Jaja, laureatosi in filosofia a Pisa nel 1910, dopo aver insegnato nelle scuole secondarie, divenne professore universitario di pedagogia, dal 1918 incaricato a Pisa, dal 1925 ordinario al Magistero di Firenze. Di orientamento idealista, vivamente partecipe nei dibattiti e nelle iniziative per l’innovazione scolastica, collaborò con​​ ​​ Gentile per la sua Riforma della scuola, specie per quanto riguarda il nuovo Istituto Magistrale. Fondò e diresse l’Ente nazionale di Cultura con sede in Firenze, che dal 1923 al 1934 ebbe la «delega» per la gestione di scuole elementari rurali «non classificate» in Toscana e in Emilia. Fondò e diresse importanti riviste scolastiche, pedagogiche e culturali: «Levana» (1922-1928), «La Nuova Scuola Italiana» (1923-1938), «Civiltà Moderna» (1929-1943): «forse la testimonianza più bella di quegli anni difficili» (Garin, 1974, 167), «Scuola e Città» (dal 1950). Con apertura anche alla cultura straniera (con lancio di​​ ​​ Dewey dopo la II guerra mondiale), diresse negli anni ’20 prestigiose collane presso l’editore Vallecchi, e, da lui fondata nel 1926, La Nuova Italia. Fu il fondatore e direttore dal 1944 della Scuola-città Pestalozzi di Firenze, ispirata a principi educativi di attivismo, cooperazione democratica, autogoverno. Scrisse numerose opere pedagogiche teoriche e di politica scolastica.

2. Devoto e Garin hanno distinto per C. tre periodi (Garin, 1974): uno di preparazione e attuazione della Riforma Gentile; uno, nella forte delusione per i cedimenti statali del Concordato del 1929, di dominante organizzazione e promozione culturale e editoriale; uno infine, con la Liberazione, di polemica laica per la difesa della scuola statale. La storia culturale di C., ha osservato Borghi, è segnata dalla costante attribuzione della «funzione primaria alla azione educativa», finalizzata alla promozione dell’«autonomia del pensiero e della volontà dell’individuo», in un’azione «liberatrice» esaltata prima a livello di coscienza e di cultura, poi in chiave attivistica e democratica, con un’opera concreta di emancipazione degli uomini impegnati e partecipi nel comune contesto di tutti. Un’«evoluzione paradigmatica» e storicamente esemplare e stimolante nella sua tensione e autorevole serietà.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ E. C.,​​ La riforma della cultura magistrale,​​ Catania, Battiato, 1917;​​ Il problema educativo,​​ 3 voll., Firenze, La Nuova Italia, 1935-36;​​ Educazione liberatrice,​​ Ibid., 1949;​​ La nostra scuola,​​ a cura di D. Izzo, Ibid., 1970. b)​​ Studi:​​ Izzo D. et al.,​​ Prospettive storiche e problemi attuali dell’educazione: studi in onore di E.C.,​​ Ibid., 1960; Garin E.,​​ Intellettuali italiani del XX secolo,​​ Roma, Editori Riuniti, 1974; Cambi F.,​​ La «scuola di Firenze»​​ (da C. a Laporta,​​ 1950-1975), Napoli, Liguori, 1982.

G. Cives

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CODIGNOLA Ernesto

COEDUCAZIONE

COEDUCAZIONE

Lorenzo Macario

 

1. La pedagogia di fronte alla promiscuità dei giovani

2. Alcuni principi da cui non si può prescindere

2.1. La visione cristiana dell’uomo

2.2. Un’educazione adeguata alle personali esigenze

2.3. La centralità della persona

2.4. Una persona sessuata

2.5. La natura evolutiva della sessualità

3. Le direzioni dell’impegno educativo e pastorale

4. Dalla consapevolezza maschile-femminile alla interiorizzazione del valore uomo-donna

4.1. Le convinzioni del soggetto

4.2. La presenza dell’educatore

4.3. I​​ tempi del processo

4.4. Motivazioni e comportamenti

5. Le originarie motivazioni della coeducazione

 

1. La pedagogia di fronte alla promiscuità dei giovani

È forse opportuno iniziare con l’evidenziare gli equivoci e i danni educativi, derivati da una riduttiva concezione della coeducazione. Limitando la coeducazione alla promiscuità, ai suoi aspetti fisiologici, psicologici e sociali, l’educazione conseguente diventa iniziazione alla reciproca conoscenza e incontro, all’esperienza dei vari aspetti di questo incontro.

Per quanto si riferisce alla coeducazione, inoltre, non è possibile trovare accordi e consensi unanimi: sono forti e numerosi sia i sostenitori, che gli avversari. Gli uni e gli altri portano ragioni che ritengono più che valide. I sostenitori adducono ragioni che tengono conto del ripensamento e dell’evoluzione di questi ultimi tempi. Favoriti in questo dalla riflessione scientifica e dai progressi nel settore educativo. Gli avversari per sostenere la loro tesi ricorrono a motivi psicosociologici ben noti: la disparità dei ritmi evolutivi giovanili e le incidenze che essi hanno sullo sviluppo; la dissomiglianza della personalità psicosociale maschile e femminile, per cui il ragazzo deve sviluppare ed esaltare la mascolinità, l’espressione delle sue capacità, l’ardore del suo spirito, mentre la ragazza deve formarsi alla missione di generatrice e di educatrice dei figli (N. Galli, 1982, pp. 227-229). Mentre gli adulti discutono, i giovani stanno vivendo le loro scelte: convivono a scuola, nelle associazioni, nel tempo libero in modo sempre più evidente. Per quanto si possa correre, si giungerà sempre in ritardo per dare a molti giovani l’aiuto necessario; è necessario ridurre l’effetto negativo sulla crescita umana prodotto dalla promiscuità. Si assiste al fatto che ogni singolo ragazzo rimane arbitro del suo comportamento per quanto riguarda emozioni, sentimenti, preferenze del tutto individuali; vengono incrementati nuovi modelli, come rapporti sessuali anticipati, matrimoni precoci, contraccezione giovanile, aborto. Si tratta di una situazione i cui plurimi fattori e condizionamenti vanno compresi nell’ordine di una disposizione gerarchica che culmina nella maggiore importanza di ciò che soddisfa, procura immediato piacere, favorisce una propria autorealizzazione. E chiaro quindi che quando la cultura risulta riduttiva delle risorse e attese umane, ogni valutazione della vita personale subirà l’incidenza di quel giudizio limitativo e, di conseguenza, verranno attribuiti alle varie istituzioni educative compiti sbagliati e inadeguati. È necessario proporre una disposizione gerarchica che metta al primo posto ciò che è specificamente umano: la mente, la volontà, il cuore. Una strada è vincere le promiscuità con la coeducazione la quale implica sempre un progresso qualitativo nei rapporti fra i giovani e nell’immagine che maschi e femmine hanno di sé.

Mediante la coeducazione, scrive Galli (1982, p. 230), i soggetti di ambo i sessi in tutte le età sono esortati a rispettarsi, a tendere di proposito al dominio delle pulsioni causate dalla mutua vicinanza, a cogliere le diversità attitudinali come complementari, a placare conflitti insorgenti e a evitare di porre in crisi la colleganza amichevole tra i membri, ad assicurare successo all’interazione, a fornire alla propria persona occasioni di arricchimento con la presenza stimolante degli altri. La coeducazione così concepita, conclude Galli, è un metodo assai più severo della separazione sia per gli educandi sia per gli educatori: li vincola infatti a un continuo autotrascendimento, a una purificazione delle intenzioni, a una progressiva maturazione.

In questa prospettiva incontri giusti e adeguati tra ragazzi e ragazze possono risultare positivi, anche quando avvengono fuori da un contesto pedagogico specifico. Sono momenti di relativa autonomia, libertà, o se si vuole di autoeducazione: trovarsi insieme, conoscersi, trascorrere insieme parte del tempo libero, trattare problemi di comune interesse, sono tutte occasioni in cui si è aiutati a combattere una naturale retrazione di fronte all’altro sesso, stati di timidezza, di goffaggine, di insicurezza.

La coeducazione contempla anche momenti in cui l’adulto interviene con metodi e sensibilità, scrive Galli, appropriati per agire sui soggetti e sull’ambiente. Questi momenti potrebbero servire:

1) Per presentare le componenti complementari della mascolinità e della femminilità.

2) Per illustrare ai soggetti di ambo i sessi l’esistenza di vaste zone di attività umana, esenti dalla tematica erotica.

3) Per prospettare la possibilità concreta della convivenza dei sessi. Gli adolescenti vivono in un mondo pervaso di erotismo, che disturba la loro persona non completamente matura dal punto di vista psicologico e umano.

4) Per istituire ambienti idonei a risvegliare le migliori attitudini giovanili.

 

2. Alcuni principi da cui non si può prescindere

Il 1 novembre 1983 la Congregazione dell’Educazione Cattolica pubblicava il documento «Orientamenti educativi sull’amore umano». Esso contiene affermazioni che hanno forza di principi da cui muovere per un discorso pedagogico sulla coeducazione.

 

2.1. La visione cristiana dell’uomo

È anzitutto necessario partire «dalla visione cristiana dell’uomo» (n. 20). Infatti «ogni educazione si ispira a una specifica concezione dell’uomo. L’educazione cristiana tende a favorire la realizzazione dell’uomo attraverso lo sviluppo di tutto il suo essere, spirito incarnato, e dei doni di natura e di grazia di cui è arricchito da Dio» (n. 21). Un discorso pedagogico sulla coeducazione si muove nell’ambito di una visione dell’uomo integrale dal momento che non si può fare nessun progetto educativo sulla coeducazione, serio e scientificamente fondato, che non implichi una matefisica dell’uomo. Non è possibile un serio e positivo servizio al giovane in crescita senza che siano tenuti in considerazione la sua natura, le sue condizioni esistenziali storiche, la sua vocazione al trascendente, e senza l’aiuto delle scienze positive, della saggezza intuitiva ed esperienziale.

 

2.2. Un’educazione adeguata alle personali esigenze

Il giovane ha inoltre diritto «a ricevere un’educazione adeguata alle personali esigenze» (n. 14). L’educazione deve quindi essere assunta e portata avanti in un quadro articolato di valori in vista della promozione di virtù umane e soprannaturali (nn. 18, 24, 32). Con questo si vuole affermare il superamento sia dell’istruzione e della cultura della sessualità, sia della formazione alla continenza e alla castità, pur di fondamentale necessità, per dare posto a una impostazione ricca di impegni e di valori, in riferimento a uno stile di vita che trova la sua realizzazione nel progetto matrimonio: «l’uomo e la donna costituiscono due modi di realizzare, da parte della creatura umana, una determinata partecipazione dell’essere divino: sono creati ad immagine e somiglianza di Dio e attuano compiutamente tale vocazione non solo come persone singole, ma anche come coppia, quale comunità d’amore» (n. 26).

 

2.3. La centralità della persona

Un terzo principio è la centralità della persona nella coeducazione. Tutto il progetto è attorno alla persona che è sessuata e destinata a vivere e collaborare con un’altra persona anch’essa sessuata. «La sessualità è una componente fondamentale della personalità, un suo modo di essere, di manifestarsi, di comunicare con gli altri, di sentire, di esprimere e di vivere l’amore umano (n. 4).

La sessualità quindi caratterizza l’uomo e la donna non solo sul piano fisico, ma anche su quello psicologico e spirituale, improntando ogni loro espressione. Il termine coeducazione non può mai essere assunto indipendentemente dalla realtà dell’uomo, analizzato e studiato come avulso dagli aspetti fisici, relazionali, spirituali. Ogni riduttivismo è contrario alla sua complessità. «Di fronte a una cultura che banalizza in larga parte la sessualità umana, perché la interpreta e la vive in modo riduttivo e impoverito, collegandola unicamente al corpo e al piacere egoistico, il servizio educativo dei genitori deve puntare fermamente su una cultura sessuale che sia veramente e pienamente personale: la sessualità infatti è una ricchezza di tutta la persona — corpo, sentimenti e anima — e manifesta il suo intimo significato per portare la persona al dono di sé nell’amore» (n. 16).

 

2.4. Una persona sessuata

La persona si presenta quindi come sessuata, la qual cosa suppone nell’uomo e nella donna una realtà comune e un’altra differenziante. L’intervento educativo nella coeducazione non può prescindere da questa realtà. «La distinzione sessuale, che appare come una determinazione dell’essere umano, è diversità, ma nella parità di natura e di dignità» (n. 25).

È naturale quindi una ricerca e attrazione mutua, originanti l’intuizione che l’individuo da solo non riesce ad attingere in modo completo la perfezione della specie. Qui c’è possibilità di educazione. Dalla relazione e dall’incontro con l’altro scaturisce un arricchimento di carattere non solo biologico ma anche psicologico e spirituale. La sessualità è sempre richiamo all’altro, nella sua entità fisica e spirituale. Quante possibilità educative nella coeducazione.

 

2.5. La natura evolutiva della sessualità

La coeducazione, infine, deve tener presente la natura evolutiva della sessualità, che «si esprime con caratteristiche particolari nelle diverse fasi della vita. Essa evidentemente comporta ricchezze e notevoli difficoltà ad ogni tappa della sua maturazione» (n. 41).

 

3. Le direzioni dell’impegno educativo e pastorale

La proposta educativa della coeducazione muove dalla convinzione che il soggetto sia sufficientemente capace di disporre di sé e di autodeterminarsi di fronte al dover essere della sessualità propostogli e motivatogli dall’educatore. Le direzioni di impegno che la coeducazione deve indicare ai giovani possono essere così espresse. La coeducazione è chiamata a esprimere valori diversi a cui corrispondono specifiche esigenze morali. Orienta verso il dialogo interpersonale, favorisce la maturazione globale dell’essere, aprendolo al dono di sé nell’amore. E allora la coeducazione deve promuovere quella maturità che comporta non solo l’accettazione del valore sessuale integrato nell’insieme dei valori, ma anche la potenzialità oblativa, cioè la capacità di donazione, di amore altruistico. Quando questa capacità si realizza in misura adeguata, la persona diviene idonea a stabilire contatti spontanei, a dominarsi emozionalmente e a impegnarsi seriamente.

Il giovane, attraverso la coeducazione, deve essere aiutato ad assumere il compito della accettazione della propria e altrui sessualità; a orientarsi all’amore, ad accettare la responsabile tensione alla fecondità interpersonale, a coltivare la disponibilità generosa alla donazione creativa, al vincolo della fedeltà. L’adesione anzitutto totale e gioiosa al proprio sesso, alle attribuzioni e funzionalità che gli sono proprie. Integrare la sessualità nel mondo conoscitivo, affettivo e volitivo è un preciso diritto e dovere etico.

Nella coeducazione assume una grande importanza il corpo. Nella visione cristiana dell’uomo, si riconosce al corpo una particolare funzione, perché esso contribuisce a rivelare il senso della vita e della vocazione umana. La corporeità, si legge negli «Orientamenti educativi sull’amore umano» (nn. 22,24) è il modo specifico di esistere e di operare proprio dello spirito umano. Il corpo, in quanto sessuato, esprime la vocazione dell’uomo alla reciprocità, cioè all’amore e al mutuo dono di sé. Il corpo, inoltre, richiama l’uomo e la donna alla loro costitutiva vocazione alla fecondità, come a uno dei significati fondamentali del loro essere sessuato. L’armonico sviluppo della personalità giovanile attraverso la coeducazione esige quindi la risposta all’amore, che si concreta in una comunione con un’altra persona, alla quale ci si dedica e ci si dona, attraverso un lungo esercizio di progressiva purificazione del proprio affetto e della propria vita: dal bisogno dell’altro, dall’essere con l’altro, alla capacità di essere per l’altro. Amare è uno stile di vita; ha quindi aspetti, caratteristiche e tratti singolari, originali perché molto personale. In ogni soggetto è presente la potenzialità ad amare, anche se a livelli e con caratteristiche molto diversi. Ad amare ci si educa; ad amare ci si addestra.

 

4. Dalla consapevolezza maschile-femminile alla interiorizzazione del valore uomo-donna

La pedagogia oggi, sia nel momento di analisi dei modelli che si riferiscono alla coeducazione, sia nel momento di una sua progettazione deve confrontarsi con le scienze sessuologiche, oltre che con quelle teologiche, filosofiche e psicologiche. Al concetto di «sviluppo psicosessuale» si preferisce sostituire quello di «differenziazione psicosessuale o differenziazione della identità di genere», intendendo con questa espressione il senso di sé stesso, l’unità e la persistenza della propria individualità maschile e femminile, particolarmente come esperienza di percezione sessuata di sé stessi e del proprio comportamento. Ne derivano alcuni principi importanti ai fini della coeducazione.

 

4.1. Le convinzioni del soggetto

Il pensiero e le convinzioni del soggetto hanno un ruolo attivo, di fondamentale importanza nell’organizzazione delle sue esperienze, delle sue percezioni, di ciò che viene a cogliere e a sapere sul suo ruolo, sulle sue idee e opinioni circa il suo corpo, la sua funzione, la propria sessualità. Si tratta di una organizzazione concettuale, che può cambiare con l’età, in quanto è associata alla maturità intellettuale, morale e sociale. In questo processo di organizzazione gli atteggiamenti dei genitori, dei primi educatori, delle persone che risultano importanti e significative stimolano o ritardano o disorientano lo sviluppo di molti atteggiamenti o disposizioni di fondo nei confronti della propria e altrui sessualità, del proprio e altrui ruolo, più che il loro insegnamento diretto con parole o per mezzo di ricompense o punizioni. Gli atteggiamenti sessuali del ragazzo e della ragazza non vanno considerati esclusivamente come riflesso diretto, immediato di modelli culturali o di strutture innate. Sono frutto anche di una sua organizzazione mentale e cognitiva della sua percezione, della sua esperienza. Il bambino, il ragazzo utilizza continuamente l’esperienza del proprio corpo e del proprio ambiente per costruire opinioni e valori sessuali di fondo, come continuamente le esperienze ambientali stimolano la ristrutturazione di questi concetti e valori. Nella vita del ragazzo i valori sono delle rappresentazioni concettuali, che implicano contenuti di bontà, di bellezza, di utilità e di vantaggio. L’identità sessuale si sviluppa e consolida grazie a una accettazione motivata della realtà psicofisica e sociale e alla necessità di conservare una immagine di sé stesso stabile e positiva, che ha cioè valore.

 

4.2. La presenza dell’educatore

La presenza dell’educatore è di fondamentale importanza in questo processo: offre contenuti, fa proposte, sollecita impegno e presa di posizione, esige decisioni responsabili per favorire elaborazioni e organizzazioni cognitive di esperienze attraverso le quali costruire gradualmente la propria identità sessuale. Classificato in modo stabile sé stesso come uomo o come donna, incomincia anche a valutare positivamente quei comportamenti e quegli obiettivi e ideali che sono coerenti con la sua idea di uomo e di donna. Non tutti però sono d’accordo sull’importanza di avere acquisito questa identità di genere per lo sviluppo e la maturazione affettiva e sessuale. Alcuni, sono i teorici dell’apprendimento sociale, sostengono che gli atteggiamenti e la condotta sessuale tipicizzati si acquisiscono o attraverso ricompense che seguono le risposte sessualmente appropriate manifestate dal soggetto, o attraverso l’influsso di un modello rilevante, significativo. Per costoro il soggetto fa questo ragionamento: desidero stare bene, desidero gratificazioni; sto bene, provo piacere, sono gratificato quando mi comporto come «questo» uomo; voglio perciò essere «questo» uomo.

1 teorici dell’approccio cognitivista, invece, sostengono che prima c’è l’organizzazione concettuale della percezione, dell’esperienza «essere uomo» o «essere donna»; non: mi procura piacere, quindi è buono, ma, è buono, quindi desidero fare il bene. In altre parole, il soggetto ragionerebbe in questo modo: sono uomo-donna; per questo desidero comportarmi come uomo e donna; perciò l’opportunità di comportarmi come uomo-donna (e ottenere approvazione, accettazione perché mi comporto così) è gratificante.

 

4.3. I tempi del processo

Quando inizia il processo di costruzione della propria identità di genere? Quando il soggetto sente, percepisce e apprende il significato degli attributi «bambino», «bambina», «maschile», «femminile». Ciò avviene molto presto. Una qualificazione corretta di sé stesso, tuttavia, non implica solo una corretta autoidentificazione in una categoria fisica generale. L’attributo «bambino», «femminile» può essere recepito semplicemente come un nome che serve per qualificare anche tanti altri esseri umani: non è però un criterio fondamentale per determinare cosa è un bambino o una bambina.

Tutti i bambini giungono presto a rendersi conto delle differenze corporali e a coglierne gradualmente il significato; notano una classificazione di base secondo il sesso e percepiscono alcune differenze evidenti tra i modelli maschile e femminile all’interno e fuori del nucleo e dell’ambiente familiare e scolastico. È evidente che in tutto questo processo di organizzazione cognitiva il clima affettivo, emotivo, spirituale dell’ambiente assume un ruolo importante nella stimolazione e nel ritardo dello sviluppo degli atteggiamenti sessuali. Si può pensare che un clima di calore, fiducia, rispetto, sicurezza, tenerezza ed espressività, di integrazione di conflitti e di possibilità di partecipazione sociale, faciliterà lo sviluppo della identità sessuale e della maturazione affettiva; d’altra parte un clima di freddezza, ostilità, ansietà e conflittualità potrà ritardarlo. Nel primo ambiente ricco di proposte di impegno e di calore è permessa — senza troppo pagare — la ricerca, il confronto, l’esplorazione e l’integrazione del nuovo e del problematico: al centro c’è la persona, il tipo di persona che si è-o si desidera essere. Nel secondo invece tutto ciò costa troppo, fino a scoraggiare perché fa paura, è minacciante.

 

4.4. Motivazioni e comportamenti

Questo anche perché il sistema dei valori del soggetto influisce sul comportamento per motivazioni intrinseche o estrinseche; il soggetto si può motivare all’azione o per non perdere l’approvazione dei genitori, degli educatori, dei coetanei, e per non perdere certi vantaggi, oppure per rimanere fedele e essere coerente ai beni che ha interiorizzato. La coeducazione mentre nell’infanzia e nella fanciullezza non può fare a meno di imporre certe norme e regole di condotta conformi al proprio essere sessuato, nell’adolescenza deve mirare alla loro promozione, a favorire motivazioni di «attitudine a», di «autostima», di «effettività e efficienza», che sono per lo sviluppo di atteggiamenti sessuali adeguati e appropriati. Non basta. È necessario che questi atteggiamenti siano anche espressione di interiorità, responsabilità, e quindi personali. Non ogni coeducazione può favorire questa maturità. Il giovane, come si può facilmente costatare, è abbastanza attento alle regole culturali e alle classificazioni di bene e di male, di giusto e di sbagliato in campo di condotta sessuale. In generale però le interpreta o in base alle conseguenze fisiche edonistiche dell’azione (punizione, ricompensa, scambio di favori) o in base al potere fisico e morale di chi annuncia le regole. Sono le conseguenze dell’azione, per lo più, a determinare la bontà o la malizia dell’azione stessa, senza che il giovane non solo non ponga l’attenzione al significato umano o al valore di queste conseguenze, ma ignorando soprattutto di vedere se lui è buono o cattivo. Certa educazione insiste troppo sul bene e sul male di un’azione, in base alla approvazione o disapprovazione di tale azione. Ciò va bene ed è sufficiente solamente per dire al giovane se è opportuno o no fare una determinata azione. Ma chi fa un’azione non approvabile non è necessariamente cattivo. L’educazione punta più sul buono e cattivo, che sul bene e male, giusto o sbagliato. Un certo tipo di pedagogia sessuale fa temere la punizione, sfuggire la vergogna, evitare il discredito, e desiderare la ricompensa e la promozione; è un tipo di pedagogia in cui la paura genera i suoi valori. È una pedagogia della rincorsa, non della crescita.

Il giovane, invece, può essere portato ad apprendere che è buona un’azione e una condotta se soddisfa in modo adeguato i suoi valori e bisogni anzitutto, e occasionalmente i bisogni degli altri. Ci si trova qui di fronte a una organizzazione cognitiva e a una convinzione più positiva di ciò che è buono, di ciò che corrisponde alla propria identità sessuale. La vera motivazione, tuttavia, è l’edonismo, la ricerca del piacere e delle conseguenze piacevoli all’azione, sia pure in un contesto di reciproca e di cordiale accettazione: fa questo perché la ricompensa sarà grande; è bello e buono, purché piaccia a te. È una pedagogia sessuale, ancora assai diffusa e accettata, non adeguatamente respinta per la sua insidiosa perversità.

La giusta strada all’identità sessuale deve contenere una tendenza verso la responsabilità e l’autonomia, verso una coscienza sessuale in cui vengono definiti valori e principi e a prescindere dall’identificazione del singolo soggetto con questi gruppi.

 

5. Le originarie motivazioni della coeducazione

La coeducazione vuole rivolgersi alla persona del giovane, per fargli capire il suo dover essere, il significato della sua esistenza sessuata, la risposta personalizzata che deve dare al proprio impulso sessuale, per fargli raggiungere un obiettivo specifico: quello della maturazione affettiva, della padronanza di sé e del retto comportamento nelle relazioni sociali. Il giovane e la giovane apprendono che la sessualità non è solo una componente della loro personalità da conoscere, amare, ma è anche un compito da assolvere per poter essere pienamente uomini e donne. Ecco perché la coeducazione implica ben più delle singole nozioni biofisiologiche, o organizzazione di incontri. Richiede anzitutto l’interiorizzazione di determinati concetti, una condotta in armonia con essi, un vivere positivamente il contesto della vita relazionale. È il giovane nella sua unità fisica e spirituale, al quale si attribuiscono il corpo e le sue parti, le attitudini sessuali, intellettive e spirituali e le loro operazioni e espressioni che è oggetto di coeducazione, e non il sesso, il genitale, la modalità dell’incontro uomo-donna, dell’esercizio della sessualità.

Questa visione unitaria del giovane aiuta a eliminare sin dall’inizio ogni forma di intervento educativo riduttiva, tendente a privilegiare o sopravvalutare uno sviluppo che favorisce soprattutto i dinamismi e gli aspetti biofisiologici o quelli psicosociali o quelli spirituali.

Da questa visione inoltre riceve grande importanza la funzione e l’uso della ragione nel processo di organizzazione di percezioni e di esperienze per la formazione del concetto di uomo, donna. L’uso della ragione esige anzitutto che il linguaggio dell’educatore sia schietto, realistico, preciso, rispettoso della complessa realtà. Linguaggio privo di qualsiasi intenzione di inganno o di riduttività nel presentare la diversità e la complementarità dei due sessi, la diversità dei ruoli richiesti. Il ruolo della ragione esige ancora che il linguaggio abbia la caratteristica della adeguatezza oltre che della progressività o gradualità: far conoscere e far sperimentare non tutto e subito, ma quanto serve e interessa man mano che il giovane costruisce la propria identità. In questa costruzione ragazzo e ragazza procedono con diversità di percorsi, non solo perché diversi ma anche perché muovono da un contesto di cultura e di costume che ancora li differenzia in modo notevole. Il cammino verso la coscienza di sé come sessuato era fatto dall’uomo in modo più sicuro, tranquillo, rispetto a quello della donna, sostenuto da un insieme di cose a servizio delle sue esigenze (fisiche, spirituali, affettive, sociali, di prestigio). Il cammino che il ragazzo oggi deve fare, spinto a interrogarsi sulla propria mascolinità, passa necessariamente per un confronto con il femminile, data la maggiore possibilità di incontro, di collaborazione.

Le novità maggiori, però, sono per il cammino della donna: è l’elemento della nuova libertà, accanto a quello di pari dignità e di promozione, che le mutate convinzioni e condizioni socioculturali hanno introdotto nelle sue scelte. Dal modo di vestire alle scelte scolastiche, lavorative e professionali, alle amicizie, all’impiego del tempo libero, la ragazza ha davanti una prospettiva di notevole non dipendenza, senza un preciso quadro di riferimento. Il fatto è del tutto nuovo nell’esperienza femminile e costituisce una situazione disagevole e pesante nella misura in cui ci si rende conto della responsabilità che ne deriva. L’adeguatezza nell’intervento è di estrema importanza perché ragazzi e ragazze spesso vivono con un certo timore di non essere all’altezza, cedendo alla tentazione di rinunciare a una propria autonomia, soprattutto interiore. Ma ragazzi e ragazze possono trovarsi anche nel rischio opposto: quello di intendere e vivere la nuova situazione di maggiore permissivismo, oltre che di maggiori opportunità e libertà, con orgoglio, con distorsione mentale, fino a tradire il compito essenziale di crescere nella propria mascolinità e femminilità, ignorare il valore fondamentale del servizio, della donazione di sé nell’amore, sottovalutare la specificità delle caratteristiche proprie e altrui in nome di una malintesa eguaglianza, andando così verso un livellamento che appiattisce la persona mortificandola.

La coeducazione favorisce la maturazione affettivo-sessuale perché sviluppa la capacità del dominio di sé che esige virtù come il pudore, la temperanza, il rispetto di sé e degli altri, l’apertura al prossimo. Tutto ciò con il rispetto delle differenti costituzioni individuali, dei rispettivi stili di vita con cui viene vissuta in modo personale la vocazione umana. Una coeducazione che non tenesse conto di questa enorme diversità di esistenza e andasse avanti nella convinzione che la maturazione morale è uguale per tutti, offrirebbe ai giovani pesi insopportabili e opererebbe delle grosse ingiustizie, creando difficoltà, insicurezze, delusioni, favorendo esperienze di fallimenti disperati e inutili stanchezze. Ecco perché l’educazione richiede saggezza, misura, intuizione delle potenzialità di ognuno, in modo da aiutare ciascuno a trarre da sé gli elementi di autentica vita di cui è capace.

 

Bibliografia

Congregazione per l’Educazione Cattolica,​​ Orientamenti educativi sull’amore umano,​​ Roma 1 novembre 1983; Galli N.,​​ Pedagogia della coeducazione,​​ La Scuola, Brescia 1977, pp. 512 (molto ricco di bibliografia); Id.,​​ Coeducazione,​​ in Giuseppe Flores d’Arcais (a cura) «Nuovo Dizionario di Pedagogia» Paoline, Roma 1982, pp. 225-233; Macario L.,​​ La sessualità valore e compito di tutta la persona creata maschio e femmina,​​ in «Seminarium», Anno XXIV, n. 1-2, Januario-Junio 1984, pp. 117-128.

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COEDUCAZIONE

Promozione dell’incontro educativo reciproco dei sessi, sia nell’ambito scolastico, come co-educazione identica o variamente differenziata e integrata, sia nell’ambito estrascolastico, come convivenza, esperienza, dinamica spontanea o intenzionale di mutuo influsso e formazione.

1.​​ Pro e contro la c.​​ L’ambiente familiare ha sempre vissuto la compresenza di fratelli e sorelle. L’ambiente sociale ha ammesso scambi reciproci spontanei. La cultura ha problematizzato il fatto. La pedagogia si è divisa. L’educazione ha inventato linee distinte di cura, modelli e stili di vita, comportamenti, formazione, specialmente nelle classi sociali alte e raffinate. L’offerta moderna di scuola segnata da vasta base elementare, accentuato taglio istruttivo, crescente asse scientifico e tecnico, esigenze pratiche di numero e di ambienti, in tempi di nuove posizioni ideologiche e convinzioni scientifiche, ha posto in evidenza problemi, maturato opinioni, prese di posizione e prassi favorevoli o resistenti a una compresenza educativa paritaria dei sessi. Le​​ ​​ Scuole Nuove si sono fatte generalmente paladine della c. (intesa come co-educazione). Sul fronte opposto ci si è appoggiati e ci si appoggia a ragioni psicologiche (varietà di incidenza delle differenze di struttura mentale, di ritmi di sviluppo), sociali (distinzione o dialogo dei ruoli futuri), morali (pericolosità o positività formatrice di incontri precoci), pedagogiche (crescita psicosociale separata per incontro futuro o logicità di continua e progressiva integrazione educativa per la vera identità).

2.​​ Le diverse motivazioni.​​ Le resistenze culturali sono divenute pedagogiche, sostenendo e organizzando forme di lunga preparazione separata, solida e completa dei sessi per un successivo utile incontro (Reddie, Geheeb,​​ ​​ Förster, per ragioni diverse). Si è rimasti lontani da sintesi mature anche nel campo scolastico (Dale), anche perché la compresenza mista ha disatteso le differenze, è stata incapace di gestirle in effettivo dialogo di integrazione delle due differenti forme di mentalità e personalità. Il mondo cattolico europeo era partito con ostilità e allarmi morali (Pio XI). Insegnanti e educatori si erano trovati sprovveduti per attuazioni significative e valide. Perciò, in molti casi, hanno opposto rifiuti pratici. Poi il tema si è fatto extrascolastico. Si è imposta decisamente la ormai generale e abituale convivenza e promiscuità maschile e femminile nella vita giovanile sociale e di gruppo. Non sono stati senza influenza i mutamenti nel costume sociale sessuale adulto e giovanile e il generale clima di pluralismo, di permissivismo, di soggettivismo veritativo e valoriale (​​ relativismo). Nei casi di maggiore sensibilità la c. si è accollata la necessità di una tempestiva educazione continua e progressiva alla comprensione, alla conoscenza, alla convivenza maschile e femminile, giovanile e adulta. Si sono chiarificate le distinzioni tra convivenza mista, co-istruzione in compresenza, utilità e metodo dell’intreccio di mutui influssi nei processi di insegnamento e apprendimento condiviso e integrato. Si è cercato di approfondire la c. nel e per il dialogo maschile e femminile profondo, psicologico, morale, culturale e sociale, nella scuola e fuori. Pio XII e Paolo VI cambiarono l’atteggiamento e il giudizio della Chiesa. Il primo riconosceva la positività fondamentale della integrazione maschile e femminile. Il secondo apriva alla c. nella scuola cattolica, poi nella stessa pedagogia e pastorale giovanile. Giovanni Paolo II ha coinvolto ragazzi e ragazze nella condivisone di valori grande e in quella che da lui è stata detta la missione giovanile nei confronti del mondo adulto e della storia. La c. è diventata valore permanente, antropologico, culturale, perfino morale e religioso, correttivo dei limiti della pura spontaneità degli incontri e dei rischi della promiscuità, anche se si è coscienti che essa vada attuata come progetto e processo autenticamente educativo. Benemeriti in proposito il pensiero e l’opera di E. Huguenin, L. Kufner, A.-M. Rocheblave-Spenlé, e altri. Sensibili alla c. sono in genere le istituzioni scolastico-educative, come la FIDAE italiana, i​​ ​​ movimenti ecclesiali, l’associazionismo cattolico, l’Azione Cattolica, lo​​ ​​ scautismo (ma di parere diverso è la Federazione Scaut Europa), i​​ ​​ centri giovanili gli​​ ​​ oratori, e perfino i cammini di ricerca e di prima maturazione vocazionale.

3.​​ Problemi aperti e condizioni pedagogiche.​​ Oggi la c. è modalità generalizzata di convivenza e di crescita. Tuttavia in pratica i problemi restano. Separazioni e incontri non sono per sé risolutivi. Coscienza sociale dei problemi e ricerca pedagogica sono necessarie per vincere «effetti perversi» di amore immaturo, di violenze sulle ragazze, di prostituzione giovanile femminile e maschile, precoce fallimento di unioni di coppia e matrimoniali, tensioni maschiliste e femministe nella società, nella chiesa, nel lavoro, nella vita sociale e politica, patologie sessuali più o meno gravi. Il problema si rivela soprattutto culturale, prima che pedagogico. Molti passi sono stati fatti, altri restano da fare. L’attuale ritorno di attenzione alle differenze psicologiche e spirituali, di rispetto della diversità di tratti, stili e ritmi, invitano a ricercare apporti e curare scambi integrativi del diverso. Contro la libertà permissiva e l’apertura alla promiscuità irresponsabile o calcolata e più o meno controllata, con cadute di sfruttamento passionale, consumistico e pornografico, oggi sembrano più decisivi e ispiratori gli sviluppi culturali della comune e fondamentale dignità personale dei sessi, relativizzando e relazionando i caratteri della maschilità e femminilità, interpretandoli come ricchezze: ricercando sintesi nell’incontro e nel dialogo, passando dalla complementarità alla integrazione e alla reciprocità, prima in campi limitati, poi sempre più larghi, totali, non solo familiari, ma sociali e culturali. Ma resta fondamentale la formazione di educatori preparati a una c., dove le preoccupazioni profilattiche o moralistiche cedano il passo a una educazione di giovani uomini e donne impegnati nella integrazione creatrice della umanità futura.

4.​​ L’orizzonte della c.​​ La c., spontanea e programmata, è ormai generalizzata negli ambiti della famiglia, della scuola, dell’associazionismo, della vita sociale, morale, religiosa, politica, professionale. Ciò viene pensato ed attuato anche in vista del superamento del disordine sessuale consentito o violento, delle difficoltà di mature e stabili relazioni amicali, coniugali, e globalmente di una civile e dignitosa convivenza sociale. In questo senso, ultimamente, nella letteratura pedagogica, il termine c. è usato anche per indicare la reciprocità di aiuto tra educatori ed educandi nella promozione e qualificazione dell’esistenza personale; ed in senso ancora più vasto per indicare la necessità di aiutarsi, come comunità, nello sviluppo di una società umanamente degna.

Bibliografia

Foerster W. F.,​​ L’educazione etica della gioventù,​​ Torino, STEN, 1911; Calò G.,​​ Il problema della c. e altri scritti pedagogici,​​ Roma, Albrighi e Regati, 1914; Huguenin E.,​​ La coéducation des sexes,​​ Neuchâtel / Paris, Delachaux, 1929; Gianola P.,​​ Problemi della c.,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 11 (1964) 651-673; Dale R. E.,​​ Mixed or single-sex school?, London, Routledge & Kegan,​​ 31974; Galli N.,​​ Pedagogia della c.,​​ Brescia, La Scuola, 1977; Gianola P.,​​ C.: una parola vecchia - un significato nuovo,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 33 (1988) 897-906; Fornasa W. - R. Meneghini,​​ Abilità differenti. Processi educativi,​​ co-educazione e percorsi delle differenze, Milano, Angeli, 2004.

P. Gianola

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COEDUCAZIONE

COGNITIVISMO

 

COGNITIVISMO

Il c. è uno degli approcci psicologici più antichi ma anche più recenti allo studio dell’attività mentale.

1.​​ Origini e critiche.​​ Le sue origini coincidono con l’apertura a Lipsia da parte di​​ ​​ Wundt di un laboratorio di psicologia sperimentale (1879) e l’esportazione dei principi e idee dello psicologo tedesco negli Stati Uniti per opera di E. B. Titchener (1892). La caratteristica fondamentale della metodologia elaborata nel centro di Wundt era l’uso sistematico della tecnica dell’introspezione nell’indagine sulla mente umana. Soggetti debitamente preparati dovevano osservare la propria esperienza conscia allorché erano colpiti da uno stimolo e tentare di riferirla il più oggettivamente possibile. L’approccio di Wundt allo studio dei processi mentali coscienti dell’uomo suscitò consensi in illustri contemporanei come Ebbinghaus e​​ ​​ James, ma col tempo incontrò crescenti difficoltà sia per l’imprecisione dei risultati che per lo svilupparsi di altri approcci psicologici come: il behaviorismo (Pavlov,​​ ​​ Watson, Thorndike,​​ ​​ Skinner), il gestaltismo (Köhler, Wertheimer) e la​​ ​​ psicoanalisi (Freud). Il primo riteneva che la coscienza fosse un fenomeno dai contorni troppo vaghi e imprecisi perché potesse divenire oggetto di accurato controllo scientifico. Per questo motivo scelse come campo elettivo d’indagine il comportamento direttamente osservabile. Per esso, ad es., l’apprendimento era più un problema di cambiamenti in un comportamento osservabile che qualcosa che avveniva nella mente; allo stesso tempo il pensiero era più un formarsi di associazioni di stimoli che un’attività interna alla persona. Per il gestaltismo, l’attività mentale era frutto di una tendenza innata dell’uomo a dare o trovare ordine nel caos. In contrasto con l’orientamento introspezionista che analizzava uno stimolo in distinte sensazioni, la scuola della gestalt privilegiava i concetti del significato e dell’organizzazione degli oggetti e degli eventi sottolineando come l’esperienza entrasse nella mente in forme strutturate. Per la gestalt molto importante, più delle fasi di un processo, era l’insight,​​ ovvero l’intuizione grazie a cui le varie parti di un problema apparentemente irrelate tra loro diventavano in un istante una struttura coerente. La psicoanalisi sosteneva l’esistenza di un’attività inconscia della mente e la possibilità di trovare in essa la spiegazione più profonda degli atteggiamenti e comportamenti manifesti.

2.​​ Le condizioni che hanno favorito la rinascita della prospettiva cognitivista.​​ Vari fattori ed eventi hanno contribuito al risorgere dell’approccio cognitivista: la crisi del behaviorismo, lo sviluppo degli studi sul linguaggio, la diffusione delle idee di​​ ​​ Piaget, la nascita dell’​​ ​​ intelligenza artificiale e le possibilità simulative del computer, i progressi nel campo della tecnologia militare. L’approccio behaviorista si diffuse largamente negli Stati Uniti a partire dal 1913, anno in cui Watson proclamò i principi di una scienza oggettiva del comportamento, ma lentamente manifestò anche i suoi limiti. Al suo rapido declino contribuirono in maniera determinante le teorie di Chomsky sull’organizzazione e sviluppo del linguaggio. La critica che il giovane linguista avanzò a metà degli anni ’50 all’interpretazione behaviorista del linguaggio umano di Skinner fu spietata e raccolse ampi consensi. Gardner (1985) fa coincidere la fine del behaviorismo e la nascita del nuovo approccio cognitivista, ed in particolare della «scienza cognitiva», con il Symposium on Information Theory tenutosi al Massachusetts Institute of Technology tra il 10-12 settembre del 1956. Esso, per dirla con Kuhn (1962), significò l’assunzione di un nuovo «paradigma» che realizzò una «rivoluzione» cognitivista. In tale raduno Chomsky offrì una teoria interpretativa del comportamento linguistico in netto contrasto con le posizioni behavioriste. L’analisi del linguaggio umano rivelava che la mente umana non è affatto un «foglio di carta bianco», ma dispone di proprietà formali innate (simili a quelle della matematica) seguendo le quali è in grado di comprendere, produrre e trasformare qualsiasi tipo di frase. Al raduno del MIT parteciparono anche Newell e Simon, che presentarono un programma computerizzato che simulava i processi umani nell’attività di​​ problem solving.​​ Contemporaneamente o qualche anno dopo la presentazione degli studi di Chomsky e di Newell e Simon vengono pubblicate opere che avanzano ipotesi e modelli della mente umana. Nello stesso anno del raduno del MIT, Bruner, Goodnow e Austin (1956) pubblicano un volume sui processi di formazione dei concetti. L’anno successivo, Miller (1957) evidenzia i limiti della memoria, mentre appena un anno dopo, Broadbent (1958), riprendendo una suddivisione della memoria di James in primaria e secondaria, parla di memoria sensoriale e a lungo termine, di processi di attenzione selettiva e descrive i processi attraverso un​​ flow-chart,​​ includendo sistemi di​​ feed-back​​ (sistemi di fasi di trasformazione dello stimolo iniziale con sistemi di reazione aventi funzione di controllo). La strada era aperta. Negli anni seguenti i progressi della ricerca rinforzarono sempre di più la convinzione che la mente dell’uomo non era una «scatola nera» nella quale era impossibile far luce. Neisser (1967), Atkinson e Shiffrin (1968), Paivio (1971), Newell e Simon (1972), McClelland, Rumelhart e il gruppo di ricerca PDP (1986) sono alcuni degli scienziati che contribuirono allo sviluppo del c. Al crollo del behaviorismo e alla nascita di una nuova prospettiva cognitivista concorse anche la diffusione del pensiero di Piaget sullo sviluppo cognitivo del bambino e la riscoperta degli studi di Bartlett sul comportamento della memoria. Lo studioso ginevrino sottolineò come esso avvenisse non grazie a meccanismi di tipo associativo, ma attraverso un processo di adattamento continuo del bambino all’ambiente con il quale viene a contatto. Quando è posta di fronte ad una situazione nuova, la mente si trova in una condizione di squilibrio (o di disadattamento) il cui superamento si verifica attraverso i processi di assimilazione e di accomodamento. Con il primo qualunque nuovo dato di esperienza (ad es., un oggetto o un’idea) è incorporato in «schemi» mentali che il bambino già possiede; con il secondo gli «schemi» già posseduti si modificano per adattarsi alle caratteristiche inattese del nuovo dato di esperienza. Al di là della plausibilità delle sue interpretazioni e osservazioni, Piaget contribuì a far sentire come assolutamente inadeguata la posizione behaviorista sull’apprendimento. Alle prospettive aperte da Piaget si può anche aggiungere la riscoperta delle ricerche di Bartlett (1932) sulle conoscenze nella mente. Indagando sul ricordo di soggetti dopo la lettura di una storia, egli scoprì che ciò che era riferito non era una registrazione precisa del testo, ma uno «schema» che si andava via via deteriorando con il tempo. Lo scoppio del secondo conflitto mondiale fornì un nuovo e forte impulso all’approccio cognitivista. La guerra favorì la crescita di interesse non solo per la psicologia dell’orientamento, cioè per i procedimenti efficaci e veloci di selezione e addestramento dei giovani da mandare sul fronte, ma anche per le macchine «intelligenti» in grado di simulare, sostituire e potenziare le capacità mentali dell’uomo.

3.​​ Scienza cognitiva e psicologia cognitivista.​​ Attualmente un certo numero di discipline (apparentemente molto lontane tra loro) sono impegnate nello studio e nella comprensione del funzionamento della mente umana. Esse costituiscono ciò che, con un termine molto generale, si definisce «scienza cognitiva» e sono rappresentate dalla psicologia cognitivista, biologia, antropologia, scienza computazionale, linguistica, filosofia, neuroscienza, educazione. La scienza cognitiva non è un campo di indagine coerente in se stesso, ma una prospettiva che orienta le diverse discipline alla ricerca di una risposta agli stessi problemi e interrogativi; come è rappresentata nella mente la conoscenza? Come viene acquisita e modificata la conoscenza umana? Come funziona la mente umana? Che cosa sono e come differiscono tra loro le conoscenze per immagini, quelle esperienziali e quelle astratte? Stillings e altri descrivono concretamente la prospettiva della scienza cognitiva in questo modo: «Gli psicologi enfatizzano gli esperimenti controllati di laboratorio e le osservazioni dettagliate e sistematiche di comportamenti che avvengono naturalmente. I linguisti controllano le ipotesi sulla struttura grammaticale analizzando le intuizioni di un parlante sulle frasi strutturate grammaticalmente e no o osservando gli errori commessi da bambini nel parlare. I ricercatori di intelligenza artificiale controllano le loro teorie scrivendo programmi che riproducono un comportamento intelligente e osservando dove esso non funziona. I filosofi controllano la coerenza concettuale delle teorie cognitive scientifiche e formulano costruzioni generali che teorie corrette devono seguire. I neuroscienziati studiano i fondamenti fisiologici dell’elaborazione dell’informazione nel cervello» (1987, 13). Oltre che da un punto di vista metodologico, la scienza cognitiva può essere definita anche in base alle aree preferenziali di ricerca: la percezione (soprattutto il processo di percezione delle parole fino all’accesso lessicale, oppure i processi di elaborazione delle immagini), la rappresentazione delle conoscenze (concetti o conoscenze complesse), il linguaggio (lessicale, proposizionale e testuale), l’apprendimento (sia di macchine che umano) e il pensare (in modo particolare i processi di ragionamento, di decisione, di soluzione di problemi). La psicologia cognitivista assume sugli argomenti sopra elencati questo particolare punto di vista: ricostruire le fasi e le trasformazioni che uno stimolo subisce dallo stadio iniziale allo stadio finale del processo di elaborazione. Il modello a cui essa si ispira è fondamentalmente quello descritto da Newell e Simon (1972), Lachman, Lachman e Butterfield (1979). Secondo questi studiosi la mente umana va vista come un sistema di elaborazione finalizzato. Nel processo di elaborazione oggetti o informazioni rappresentabili in simboli (cioè elementi connessi da relazioni logiche) sono trasformati in altri simboli da processi che discriminano, selezionano, controllano, confrontano e archiviano. Poiché si svolgono nel tempo, tali processi possono essere analizzati e controllati attraverso il tempo che intercorre tra l’inizio e la fine delle operazioni. Le strutture di elaborazione sono fondamentalmente tre: la memoria sensoriale, la​​ ​​ memoria a breve termine (o anche memoria lavoro) e la memoria a lungo termine.

4.​​ Sviluppi.​​ Dagli inizi e dalle prime intuizioni numerosi sviluppi e differenziazioni si sono avuti in questi pochi decenni. Pur rimanendo identico lo scopo finale di scoprire il processo di trasformazione dal suo input al suo output di una qualsiasi prestazione, diverse metodologie hanno dato origine a diversi sviluppi scientifici distinti e dialoganti tra loro. La stretta analogia posta tra le assunzioni di partenza con la scienza computazionale ha portato molti psicologi a scoprire l’attività mentale umana attraverso simulazioni computerizzate. Altri hanno utilizzato l’approccio sperimentale su soggetti reali e normali e continuano a ricercare l’evidenza di fasi di trasformazione. I neuroscienziati cercano nel sistema nervoso il luogo e lo svolgersi dei processi di elaborazione. Altri, abbandonando uno dei capisaldi dell’approccio dell’elaborazione dell’informazione (la rappresentazione simbolica e le fasi di trasformazione), cercano di spiegare il processo di elaborazione solo attraverso un sistema di unità interconnesse che permettono o inibiscono il passaggio dell’informazione («connessionismo»).

Bibliografia

Bartlett F. C,​​ Remembering,​​ Cambridge, Cambridge University Press, 1932; Bruner J. S. - J. J. Goodnow - G. A. Austin,​​ A study of thinking,​​ New York, Wiley, 1956; Miller G. A.,​​ The magical number seven plus or minus two: Some limits on our capacity for processing information,​​ «Psychological Review» 63 (1957) 81-97; Neisser U.,​​ Cognitive psychology,​​ New York, Appleton-Century-Crofts, 1967; Atkinson R. C. - R. M. Shiffrin, «Human memory: a proposed system and its control processes», in K. W. Spence - J. T. Spence (Edd.),​​ The psychology of learning and motivation,​​ vol. 2, New York, Academic Press, 1968, 89-195; Paivio A.,​​ Imagery and verbal processes,​​ New York, Holt, Rinehart & Winston, 1971; Newell A. - H. A. Simon,​​ Human problem solving,​​ Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1972; Lachman R. - J. L. Lachman - E. C. Butterfield,​​ Cognitive psychology and information processing,​​ Hillsdale, Erlbaum, 1979; Gardner H.,​​ Mind’s new science,​​ New York, Basic Books, 1985; Stillings N. A. et al.,​​ Cognitive science: an introduction,​​ Cambridge, MIT Press, 1987; Kellogg R. T.,​​ Cognitive psychology,​​ Thousand Oaks, CA, Sage, 1995; Murray D. J.,​​ Gestalt psychology and the cognitive revolution,​​ New York, Harvester & Wheatsheaf, 1995.

M. Comoglio

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COGNITIVISMO

COLLABORATORI

 

COLLABORATORI

Jurgen Adam,​​ Bischofliches Ordinariat, Rottenburg (Germania Rep. Fed.)​​ 

Gilbert Adler,​​ Univ. di Strasbourg (Francia)

Emilio Alberich,​​ Univ. Pont. Salesiana, Roma

Angelo Amato,​​ Univ. Pont. Salesiana, Roma

Franco Ardusso,​​ Facoltà teologica di Torino

Tullio Aurelio,​​ Patmos Verlag, Dusseldorf (Germania Rep. Fed.)

Pierre Babin,​​ Centre Recherche et Communication, Écully-Lyon (Francia)

Jean Pierre Bagot,​​ Paris (Francia)

Dante Balboni,​​ Pont. Comm. per l’Arte Sacra, Città del Vaticano​​ 

Annibale Balocco,​​ Torino

Ferdinando Bergamelli,​​ Univ. Pont. Salesiana, Roma​​ 

Paola Bignardi,​​ Azione Cattolica Italiana, Roma​​ 

Ambroise Binz,​​ Univ. di Fribourg (Svizzera)

Cesare Bissoli,​​ Univ. Pont. Salesiana, Roma​​ 

Gottardo Blasich,​​ Riv. “Letture”, Milano

Roman Bleistein,​​ Ph. Th. Hochschule, München (Germania Rep. Fed.)

Luciano Borello,​​ Verona

Mario Borello,​​ Seminario Maggiore di Santiago (Cile)

Claudio Bucciarelli,​​ Pont. Fac. Teol. OFMcap, Roma​​ 

Jef Bulckens,​​ Univ. Catt. di Leuven (Belgio)

Antonio Canizares,​​ Inst. Sup. de Ciencias Rel. y Cat., Madrid (Spagna)

Antonio José Carrilho,​​ Secretariado Nacional da Educ. Cristi, Lisboa (Portogallo)​​ 

Giovanni Catti,​​ Pont. Univ. Lateranense, Roma​​ 

Sofia Cavalletti,​​ Roma

Antonia Colombo,​​ Pont. Fac. di Scienze dell’Educazione “Auxilium”, Roma

Lorenzina Colosi,​​ Pont. Univ. Gregoriana, Roma

Béla Csanàd,​​ Seminario Maggiore di Budapest (Ungheria)

Pietro Damu,​​ Dir. riv. “Catechesi”, Leumann-Torino​​ 

Luigi Della Torre,​​ Dir. riv. “Servizio della Parola”, Brescia​​ 

Walter Dermota,​​ Univ. di Ljubljana (Jugoslavia)

Francis Desramaut,​​ Facultés Catholiques, Lyon (Francia)

Franqoise Destang,​​ Paris (Francia)

Ferdinand Devestel,​​ Univ. Pont. Salesiana, Roma​​ 

Karl Dienst,​​ Oberkirchenrat, Darmstadt (Germania)

Georges Duperray,​​ Facultés Catholiques, Lyon (Francia)

Erich Feifel,​​ Univ. di München (Germania Rep. Fed.)

Franco Floris,​​ Vice-dir. riv. “Note di Pastorale Giovanile”, Roma​​ 

Francesco E. Fortino,​​ Segretariato per l’unione dei cristiani, Città del Vaticano​​ 

Norbert Fournier,​​ Centre de Réflexion chrétienne, Joliette (Quebec, Canada)

Herbert Franta,​​ Univ. Pont. Salesiana, Roma​​ 

Raimondo Frattallone,​​ Univ. Pont. Salesiana, Roma​​ 

Gianfranco Fregni,​​ Ufficio Catechistico Diocesano, Bologna​​ Othmar Frei,​​ Luzern (Svizzera)

James Gallagher,​​ Ufficio Cat. Nazionale, London (Gran Bretagna)

Luis​​ Gallo,​​ Univ. Pont. Salesiana, Roma

Enrique Garcia Ahumada,​​ Oficina Nac. de Catequesis, Santiago (Cile)

Gaetano Gatti,​​ Seminario Maggiore di Como

Guido Gatti,​​ Univ. Pont. Salesiana, Roma

Elisabeth Germain,​​ Institut Catholique, Paris (Francia)

Joseph Gevaert,​​ Univ. Pont. Salesiana, Roma​​ 

Barbara Giacomelli,​​ San Paolo Film, Roma​​ 

Ubaldo Gianetto,​​ Univ. Pont. Salesiana, Roma​​ 

Roberto Giannatelli,​​ Univ. Pont. Salesiana, Roma​​ 

Paolo Giglioni,​​ Pont. Univ. Urbaniana, Roma​​ 

Rina Gioberti,​​ Direttrice didattica, Roma​​ 

Franco Girardet,​​ Scandicci (Firenze)

Angelo Giuliani,​​ Ufficio Catechistico Diocesano, Milano​​ 

André Godin,​​ Institut “Lumen Vitae”, Bruxelles (Belgio)

Giorgio Gozzelino,​​ Univ. Pont. Salesiana, Torino​​ 

Giacomo Grampa,​​ Ascona (Svizzera)

Giovanna Grandi,​​ Centro Catechistico Paolino, Roma​​ 

Bernhard Grom,​​ Univ. di Innsbruck (Austria)

Giuseppe Groppo,​​ Univ. Pont. Salesiana, Roma​​ 

Giuseppe Grosselli,​​ Centro pastorale del lavoro, Trento​​ 

Luigi Guglielmoni,​​ Fidenza (Parma)

Valentin Hertle,​​ Univ. Catt. di Eichstatt (Germania)

Alojzije Hoblaj,​​ Zagreb (Jugoslavia)

John​​ M.​​ Hull,​​ Univ. di Birmingham (Gran Bretagna)

Bernhard Jendorff,​​ Univ. di Giessen (Germania Rep. Fed.)

André Knockaert,​​ Institut “Lumen Vitae”, Bruxelles (Belgio)

Edgar​​ J.​​ Korherr,​​ Univ. di Graz (Austria)

Wolfgang Langer,​​ Univ. di Wien (Austria)

Franco Lever,​​ Univ. Pont. Salesiana, Roma

Horatio Lona,​​ Ph. Th. Hochschule, Benediktbeuern (Germania Rep. Fed.)​​ 

Bernadette Lorenzo,​​ Levier (Francia)

Mieczyslaw Majewski,​​ Univ. Catt. di Lublin (Polonia)

René Marlé,​​ Institut Catholique, Paris (Francia)

Berard​​ L.​​ Marthaler,​​ Univ. Catt. di Washington (USA)

José-Maria Marti'nez Beltràn,​​ Instituto Pio X, Madrid (Spagna)

Maria Luisa Mazzarello,​​ Pont. Fac. di Scienze dell’Educ. “Auxilium”, Roma​​ 

Giacomo Medica,​​ Centro Catechistico Salesiano, Leumann-Torino​​ 

Ralfy Mendes De Oliveira,​​ Niteroi (Brasile)

Giancarlo Milanesi,​​ Univ. Pont. Salesiana, Roma

Gabriele Miller,​​ Bischofliches Ordinariat, Rottenburg (Germania Rep. Fed.)​​ 

Pierre Moitel,​​ Paris (Francia)

Carlo Molari,​​ teologo, Roma

Mario Montani,​​ Univ. Pont. Salesiana, Roma

Roman Murawski,​​ Accademia di Teologia Cattolica, Varsavia (Polonia)​​ 

Bozidar Nagy,​​ Radio Vaticana, Città del Vaticano​​ 

Carlo Nanni,​​ Univ. Pont. Salesiana, Roma

Cesare Nosiglia,​​ Ufficio Catechistico Nazionale, Roma​​ 

Virginia Odorizzi,​​ Aprilia (Latina)

Vito Orlando,​​ Centro Catechistico Meridionale, Bari​​ 

Flavio Pajer,​​ Dir. riv. “Religione e Scuola”, Milano​​ 

Ottorino Pasquato,​​ Univ. Pont. Salesiana, Roma​​ 

Eugen Paul,​​ Univ. di Augsburg (Germania Rep. Fed.)

Vicente Pedrosa,​​ Delegación Diocesana de Catequesis, Bilbao (Spagna)​​ 

Michele Pellerey,​​ Univ. Pont. Salesiana, Roma​​ 

Sergio Pintor,​​ Dir. riv. “Evangelizzare”, Oristano​​ 

Joseph Poovathinkal,​​ Calcutta (India)

Marko Pranjió,​​ Dir. riv. “Kateheza”, Zagreb (Jugoslavia)

José Manuel Prellezo,​​ Univ. Pont. Salesiana, Roma​​ 

Mario Presciuttini,​​ Roma

Luis Resines,​​ Seminario Maggiore di Valladolid (Spagna)

Gerard Rummery,​​ Castle Hill (Australia)

Luigi Sartori,​​ Fac. Teol. di Padova

Ralph Sauer,​​ Univ. di Vechta (Germania Rep. Fed.)

Franz Schreibmayr,​​ München (Germania Rep. Fed.)

André Seumois,​​ Pont. Univ. Urbaniana, Roma​​ 

Werner Simon,​​ Univ. di Berlin (Germania Rep. Fed.)

Mario Simonetti,​​ Univ. di Roma​​ 

Manlio Sodi,​​ Univ. Pont. Salesiana, Roma​​ 

Lucio Soravito,​​ Seminario Maggiore di Udine

Michael Spitz,​​ Ph. Th. Hochschule, Benediktbeuern (Germania Rep. Fed.)​​ 

Gunter Stachel,​​ Univ. di Mainz (Germania Rep. Fed.)

Riccardo Tonelli,​​ Univ. Pont. Salesiana, Roma​​ 

Mario Toso,​​ Univ. Pont. Salesiana, Roma​​ 

Zelindo Trenti,​​ Univ. Pont. Salesiana, Roma​​ 

Achille Maria Triacca,​​ Univ. Pont. Salesiana, Roma​​ 

Donato Valentini,​​ Univ. Pont. Salesiana, Roma​​ 

Mieke Vandekerckhove,​​ Kortrijk (Belgio)

Johannes​​ A.​​ Van der Ven,​​ Univ. Catt. di Nijmegen (Olanda)

Marcel​​ Van​​ Walleghem,​​ Univ.​​ Catt.​​ di Leuven (Belgio)

Gérard Vogeleisen,​​ Univ. di Strasbourg (Francia)

Otto Wahl,​​ Ph. Th. Hochschule, Benediktbeuern (Germania Rep. Fed.)​​ 

Klaus Wegenast,​​ Univ. di Bem (Svizzera)

Jurgen Werbick,​​ Univ. di Siegen (Germania Rep. Fed.)

Marcello Zago,​​ Segretariato per i non cristiani, Città del Vaticano

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COLLABORATORI

COLLEGIO

 

COLLEGIO

Collegium​​ in lat. significa gruppo di persone unite fra loro da vincoli ed interessi professionali comuni, come ad es. i c. di artigiani, medici, maestri, ecc. In contesto pedagogico, s’intende per c. una convivenza di giovani, organizzata a fini istruttivi ed educativi, normalmente in regime di internato (​​ Comunità educativa / scolastica). In ambiente anglosassone e spagnolo, il c. indica anche la scuola secondaria (spesso con seminternato) e determinate istituzioni di livello universitario.

1. Quando sono create le prime università medievali, sorgono intorno ad esse alloggi per studenti (hospitia),​​ nei quali passare la notte. In seguito compaiono i c. nei quali vivono i collegiali in comune, seguendo alcune norme imposte dal fondatore. Questi c. potevano essere destinati a chierici e a laici. I posti erano limitati e questo obbligava chi li occupava a seguire con regolarità gli studi. Nello stesso tempo nel c. bisognava condurre una vita comunitaria molto simile alla vita monacale. I c. clericali erano di solito diretti da un sacerdote responsabile come priore, mentre nei c. destinati alla formazione dei laici vigeva l’autogoverno e tutto dipendeva dagli stessi collegiali, in accordo con delle norme stabilite dalle costituzioni e dai regolamenti del fondatore. Dai collegiali dipendeva la selezione degli aspiranti, l’amministrazione delle rette e l’imposizione delle misure disciplinari necessarie. Tutti gli incarichi erano a rotazione e chiunque poteva essere eletto priore. Il c. offriva gratuitamente alloggio, vitto, uniforme, biblioteca e, in certi casi, lezioni di ripetizione, impartite dagli stessi professori dell’università. Famoso fu il c. fondato a Bologna nel 1364 dal cardinale Gil de Albornoz per studenti spagnoli che si chiamò e si chiama ancora oggi «Colegio de San Clemente». Durante la sua lunga attività è servito da casa di studio e di formazione ad un ridotto e selezionato gruppo di brillanti studenti.

2. In questi c. universitari furono educati i quadri dirigenti sui quali si edificò lo stato moderno dei secc. XV, XVI e XVII, soprattutto in quelli più prestigiosi, nei cosiddetti c. maggiori spagnoli, che erano meglio dotati economicamente e di più difficile accesso, per le impegnative prove di selezione. Ogni nazione ebbe i suoi centri di formazione elitaria. Tutti i collegiali di ogni città universitaria erano obbligati a vestire la propria divisa da studente, di colore diverso, a seconda del c. al quale appartenevano. La divisa consisteva in una tunica senza maniche, aperta ai lati e lunga fino ai piedi, più una sciarpa di colore diverso incrociata sul petto e pendente sulle spalle, oltre ad un berretto nero. Questa uniforme era una specie di passaporto che identificava pubblicamente gli studenti e garantiva loro da parte della popolazione il riconoscimento di appartenere al foro universitario, che dava molti privilegi.

3. I c. universitari cominciarono a decadere a partire dal sec. XVII, quando furono controllati dalla aristocrazia, che vedeva in essi una valida agenzia di collocamento alla fine degli studi. In Spagna, Francia e in altri Paesi scomparvero con l’antico regime. Certamente, mantennero il proprio prestigio aristocratico e gli antichi usi medievali i c. di Oxford, Cambridge ed Harvard. Durante il sec. XIX le scuole private spagnole utilizzarono il nome di c. per distinguersi dalle scuole pubbliche statali, frequentate dalle classi più umili. Nel sec. seguente, sia in Francia che in Spagna, si sono creati c. universitari che hanno poco a che vedere con gli antichi c.; la loro funzione è stata la stessa: formare una​​ élite​​ di studenti meglio preparata degli altri in campo scientifico, politico e nelle scienze religiose, d’accordo con le esigenze dei tempi moderni. Molti degli attuali c. universitari, ciononostante, sono più residenze studentesche che centri di formazione.

Bibliografia

Lafuente V. de,​​ Historia de las universidades,​​ colegios y demás establecimientos de enseñanza en España,​​ 4 voll.,​​ Madrid, 1884-1889;​​ D’Irsay S.,​​ Histoire des universités françaises et étrangères de ses origines à nos jours, 2 voll., Paris,​​ 1933-1935; Misani A.,​​ Educazione di c., Milano, Ancora, 1945; Di Fazio C.,​​ C. universitari italiani,​​ Roma, Fondazione Rui, 1975; Martín L.,​​ La conquista intelectual del Perú: el colegio jesuita de San Pablo, Barcelona, Casiopea, 2001.

B. Delgado

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COLLEGIO

COLLOQUIO

 

COLLOQUIO

Il termine c. non si presta ad una definizione univoca. Infatti, in base allo specifico della disciplina di riferimento che all’interno delle scienze umane è presa in considerazione, possiamo imbatterci in interpretazioni diverse e non sempre sovrapponibili.

1. Trentini (1995) riporta diverse definizioni che ricorrono in letteratura: «una conversazione seria, tendente ad un determinato scopo, ad di là del puro e semplice piacere della conversazione stessa» (Moore, 1941, cit. in Trentini, 1995, 40); «una comunicazione che consiste non soltanto in uno scambio di messaggi verbali, ma piuttosto nello sviluppo di una configurazione delicata e complessa di processi di campo che comportano conclusioni importanti per le persone che entrano a farne parte» (Sullivan, 1954, cit. in Trentini, 1995, 40); «una situazione in cui la comunicazione avviene in primo luogo a voce, in un gruppo di due persone, che si incontrano più o meno volontariamente, sulla base di un rapporto esperto-cliente, con lo scopo di chiarire il modo caratteristico di vivere di una persona» (Stack, 1954, cit. in Trentini, 1995, 40); «un processo di interazione nel quale è importante non tanto il fatto meccanico consistente in una serie di episodi discreti stimolo-risposta; ma piuttosto sono importanti i fini, gli atteggiamenti, le credenze ed i motivi dei protagonisti dell’interazione» (Cannel, 1968, cit. in Trentini, 1995, 40); «un’interrogazione ed un rapporto e più precisamente un’interrogazione diretta a conoscere gli eventi passati della vita del soggetto e a trarre una interpretazione del suo comportamento» (Ancona e Gemelli, 1959, cit. in Trentini, 1995, 40).

2. I contesti del c. possono essere diversificati: scolastico, giudiziario, aziendale, psichiatrico, giornalistico, ecc. In senso più strettamente psicologico i principali ambiti applicativi vengono suddivisi in : c. clinico, c. di ricerca, c. orientativo. Il c. clinico è una tecnica di osservazione e di studio del comportamento umano i cui scopi sono sia quelli di raccogliere le informazioni, che quelli di motivare il soggetto coinvolto ad un auspicabile cambiamento. Il c. di ricerca ha per oggetto di studio la conoscenza di un determinato oggetto che può riguardare diversi ambiti della psicologia e può essere utilizzato sia come strumento che precede la ricerca vera e propria (analisi preliminare su un fenomeno), sia come metodologia per raccogliere dati. Il c. orientativo mira a raccogliere informazioni su comportamenti, atteggiamenti, motivazioni, interessi al fine di aiutare il soggetto a chiarire le proprie scelte scolastiche e professionali. Esso prevede tre momenti salienti: fase esplorativa (accoglienza ed individuazione della soggettività dell’intervistato); fase diagnostica-valutativa (raccolta di dati specifici); fase progettuale (sintesi orientativa e congedo dell’intervistato). Al di là delle diverse formulazioni e dei diversi ambiti applicativi è comunque rintracciabile nelle diverse forme di c. un elemento comune: l’interazione tra due persone. All’interno di quest’ultima gli elementi che sono ritenuti fondamentali dai diversi autori concernono il cosa le persone dicono e il come lo dicono. Risulta pertanto preziosa la cura degli aspetti contenutistici e relazionali tanto da parte dell’emittente come del ricevente.

3.​​ Dal punto di vista contenutistico​​ ai partners in interazione si richiede in primo luogo di curare la formulazione dei messaggi in vista della comprensione altrui, comprensione che dipende prevalentemente dalla scelta delle parole dal proprio universo linguistico, dalla struttura sintattica utilizzata, e dalla organizzazione stessa del messaggio. A questo riguardo occorre tener presenti i parametri della semplicità, dell’ordine, della brevità e della stimolazione. L’emittente, nel trasmettere i significati, adotta il criterio della​​ semplicità​​ quando fa uso di messaggi accessibili e comprensibili per l’interlocutore rispettandone la singolarità (per es. cultura, età, professione, classe sociale). Al contrario viene meno a questo criterio quando usa messaggi non alla portata degli ascoltatori o si perde nella ricerca della formulazione esteticamente migliore, a scapito della chiarezza. Mentre la semplicità riguarda la modalità di costruzione linguistica del messaggio, il criterio dell’ordine​​ concerne la struttura di tutta la comunicazione ed è tanto più importante quanto più la comunicazione è articolata e complessa. L’ordine nel trasmettere i messaggi è di tipo interno e di tipo esterno. L’emittente realizza l’ordine interno quando comunica secondo una sequenza logica ed evidente. L’ordine esterno riguarda gli aspetti formali della trasmissione che l’emittente esplicita indicando le fasi della comunicazione (per es. introduzione, fase espositiva) e distinguendo le parti essenziali dalle meno rilevanti. Il criterio della​​ brevità​​ richiede che l’emittente trasmetta i significati attraverso messaggi propriamente necessari, evitando ridondanze e prolissità. Il criterio della​​ stimolazione, infine, concerne la capacità dell’emittente di rendere la comunicazione interessante, piacevole e coinvolgente. Se i parametri appena descritti riguardano la formulazione dei messaggi (cosa si trasmette), le qualità processuali si riferiscono agli aspetti più propriamente relazionali (come lo si trasmette). A tal proposito, si richiede all’emittente di prestare attenzione al comportamento non verbale, di esprimersi in modo descrittivo ed orientato al problema, spontaneamente ed empaticamente, rispettando la pari dignità, al fine di instaurare un clima di fiducia ed apertura reciproca con le persone in comunicazione. Al contrario quando l’emittente interagisce in modo valutativo, quando cerca di esercitare il controllo, usa strategie manipolative e non si coinvolge come persona, quando dimostra superiorità ed assume atteggiamenti rigidi e dogmatici, facilmente si può creare un clima di difesa e di ostilità.

4. Oltre a curare gli aspetti contenutistici e relazionali nel ruolo di emittenti, ai fini di un buon c. si richiede ai partners in interazione di sapersi ascoltare. Ciò implica una apertura verso la fonte comunicativa nonché l’impegno a comprendere i messaggi nel significato che essi hanno per la fonte comunicativa. In particolare si richiede al ricevente di essere attento ai messaggi nel loro contesto comunicativo, di effettuare comportamenti di supporto e di sospendere preventivamente un atteggiamento critico-valutativo. Si realizza l’attenzione​​ ai messaggi all’interno del contesto comunicativo, quando il ricevente recepisce questi ultimi con un’attenzione non strutturata (Villard-Whipple, 1976) cogliendoli in riferimento all’intero contesto. Nel caso, invece, in cui una persona recepisse in modo selettivo i messaggi, o li interpretasse indipendentemente dal loro contesto, il ruolo di ricevente sarebbe realizzato deficitariamente. Soltanto quando ci apriamo alla totalità dei messaggi comprendendoli secondo gli schemi, le esperienze e le intenzioni dell’emittente, possiamo soddisfare il criterio dell’apertura e della attenzione non strutturata. Realizzare il ruolo di ricevente comprende anche comportamenti di​​ supporto. L’esperienza quotidiana ci mostra come sia indispensabile vedere che gli altri seguono la nostra comunicazione. Nelle situazioni comunicative in cui il ricevente si mostra freddo, si comporta in modo non autentico ed interviene in modo direttivo, non solo non si stabilisce una piattaforma relazionale, ma si possono anche indurre delle esperienze di scoraggiamento e di disinteresse nel proseguire la comunicazione. Ricevere la comunicazione degli altri non soltanto richiede che il ricevente si apra alla totalità della comunicazione dell’altro e che realizzi un adeguato comportamento di supporto, ma che la​​ interpreti appropriatamente. L’interpretazione della comunicazione può essere facilitata se il ricevente esamina il tipo di messaggi, la loro corrispondenza alla realtà e ai diversi contenuti in essa comunicati. Per quanto riguarda il riconoscere i tipi di messaggi, il ricevente dovrà esaminare se si tratta di una costatazione, una valutazione o di una ipotesi sulla realtà. Nel caso della costatazione l’emittente riporta dati di fatto, possibilmente osservati e documentati; nel caso delle valutazioni o ipotesi circa la realtà vengono comunicati contenuti che riflettono le esperienze e le cognizioni dell’emittente sulla realtà. Questo ultimo tipo di comunicazione è comunque da valutare riguardo alla personalità dell’emittente ed alle sue competenze circa il trattamento della realtà in riferimento. La qualità dell’interpretazione della comunicazione dipende anche dalla capacità del ricevente di esaminarla considerando gli aspetti taciti ed espliciti presenti in un messaggio. A questo riguardo Schulz von Thun (1984, 44s.) suggerisce di discriminare i messaggi secondo tre dimensioni: la dimensione contenutistica («Cosa l’altro dice?»), la dimensione relazionale («Come lo dice?», «Come definisce la relazione reciproca?») ed, infine, la dimensione appellativa («Che cosa devo fare, pensare e sentire di fronte alla sua comunicazione?»). Quando il ricevente legge la comunicazione tenendo presenti queste dimensioni facilmente può cogliere i contenuti nella loro interezza realizzando una buona comprensione. Pertanto, la buona riuscita di un c. non può prescindere dalle competenze comunicative dell’emittente, ma soprattutto del ricevente.

Bibliografia

Schulz von Thun F.,​​ Verständlich informieren,​​ in «Psychologie Heute»​​ 2 (1975) 42-51; Villard K. L. - L. J. Whipple,​​ Beginnings in relational communication,​​ London, J. Wiley, 1976; Franta H. - G. Salonia,​​ Comunicazione interpersonale,​​ Roma, LAS, 1979;​​ Schulz v. Thun F.,​​ Miteinander reden: Störungen und Klarungen. Psychologie​​ der zwischenmenschlichen Kommunikation,​​ Rowohlt, Reinbek,​​ 1984; Franta H.,​​ Comunicazione interpersonale nella scuola: dimensioni di ricerca,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 32 (1985) 428-440; Trentini G.,​​ Manuale del c. e dell’intervista, Torino, UTET, 1995; Lis A. - P. Venuti - M. De Zordo,​​ Il c. come strumento psicologico, Firenze, Giunti, 1995; Pombeni M.,​​ Il c. di orientamento, Bologna, Il Mulino, 1995; Crimini P. - E. Del Pianto,​​ Come affrontare una selezione, Milano, Angeli, 2000.

H. Franta - A. R. Colasanti

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COLLOQUIO

COLOMB Joseph

 

COLOMB​​ Joseph

1.​​ Nato il 21-7-1902,​​ J. Colomb​​ morì 1’8-6-

1979. Originario della diocesi di Lione (Francia), è ordinato sacerdote nel 1926. Entrato nella “Compagnie de Saint-Sulpice” J. C. insegna (in particolare la filosofia) in diversi seminari e nelle Facoltà cattoliche di Lione. Nel 1945 il card. Gerlier lo nomina alla direzione della C. di quella diocesi. Nel 1954 diventa direttore del Centro nazionale della C. In seguito alla crisi della C. francese del 1957 fu costretto ad abbandonare questa carica nel 1958. Nel 1962 fondò a Strasburgo 1’”Instituí​​ de Pastorale Catéchétique” che diresse fino al 1971. Come pensionato si dedicò alla C. degli adulti.

2.​​ L’attività cat. di J. C. è considerevole e diversificata. Autore di numerosi articoli e di molti libri cat., J. C. è anche stato un valido organizzatore, e la sua opera istituzionale merita di essere segnalata. Nel periodo di Lione (1945-1954) si può menzionare per es. la creazione e la direzione della prima * École​​ des​​ Catéchistes” (1946) e della “Licence d’Enseignement Religieux” (1947). Dalla Scuola dei catechisti uscirono i primi “catechisti di professione”. La preoccupazione per la formazione dei catechisti a tutti i livelli (dalla parrocchia all’università), e quella di fornire alla C. personale competente, possono essere indicate fra gli orientamenti più costanti della sua azione, insieme con la rivalutazione del ruolo dei genitori (nel 1953 J. C. fondò la riv. “Parents Chrétiens”) e l’estensione della C. a tutte le età della vita. Il periodo nazionale (1954-1958) è segnato dai grandi “Congressi nazionali della C.”, che assicurarono la coesione e l’estensione del “movimento cat. francese”, e anche il suo influsso internazionale.

L’opera cat. di J. C. deve essere associata a quella di A. → Boyer, M. → Fargues e J.-M. → Dingeon per ciò che riguarda l’ispirazione della pedagogia attiva, e a quella di E. → Lubienska de Lenval e F. → Derkenne per l’ispirazione liturgica. L’orientamento cat. predominante fu quello della reintegrazione della Bibbia come fonte e forma della C., nello spirito delTanno liturgico, considerato come luogo e tempo della vita cristiana e quindi dell’educazione della fede. Ciò significava mettere termine al periodo del catechismo ed entrare in quello della C.

Il «Catechismo nazionale» francese (1937, revisionato nel 1947), orientato unicamente verso un sapere astratto, era definitivamente detronizzato in favore del “catéchisme progressif”, di cui egli pubblicò quattro tappe per i 7-14 anni:​​ Parlez, Seigneur; Dieu parmi nous; Avec le Christ Jésus​​ (Lyon, Vitte, 1950);​​ Au soufflé de l’Esprit​​ (Paris. CNER, 1957).

3.​​ L’influsso delle opere teoriche di J. C. fu ancora più considerevole di quello dei suoi manuali.​​ Aux sources du catéchisme. Histaire sainte et liturgie​​ (Paris, Desclée, 1946, 1947, 1948) comprende tre volumi che mettono in corrispondenza con i tempi liturgici l’AT, il NT e la storia della Chiesa, il tutto nel quadro di una C. progressiva.​​ La doctrine de vie au catéchisme​​ (Paris, Desclée, 1952, 1953, 1954) presenta nuovamente in tre tomi le tappe di una C. dottrinale, ecclesiale e morale, in cui dogmi, sacramenti ed etica cristiana sono messi in rapporto con la Scrittura, con il “soucis de l’Église”, e con l’esperienza spirituale dei catechizzandi. Sensibile a​​ La grande miseria della C.​​ (“Jeunesse de l’Église”, 1946), questa vera​​ Plaie ouverte au flanc de l’Église​​ (Paris, Vitte, 1954), J. C. si impegnò, come si può vedere, per restaurare uno spazio autentico per la C. nell’ambito di una Chiesa che nello stesso tempo era segnata dalla preoccupazione missionaria e dal bisogno di una nuova intelligenza della fede. Egli coronò la sua opera teorica con l’edizione di un manuale di catechetica​​ Le Service de l’Évangile​​ (2 vol., Paris, Desclée, 1968, 630 e 816 pp.; trad. ital.:​​ Al servizio della fede,​​ Leumann-Torino, LDC, 2 vol., 1969-1970). Occorre infine segnalare tra le sue opere principali​​ Le devenir de la fai​​ (Paris, Centurion, 1974).

4.​​ In quanto punto culminante del movimento cat. francese, l’opera di J. C. subì gli attacchi e le denunce delle correnti integriste francesi. La crisi del 1957, in cui l’episcopato francese si sforzò di salvaguardare le principali acquisizioni di un movimento che faceva tutt’uno con lo sviluppo pastorale e teologico della Chiesa di Francia, fu per lui una delle prove maggiori. Queste prove però non impedirono l’irradiamento e l’influsso internazionale dell’opera di J. C., in modo particolare nei paesi francofoni e nelle missioni influenzate dall’area francese. Questo influsso va cercato nel ritorno della C. alle fonti (Scrittura, vita liturgica e fede viva della Chiesa); anche nel ritorno a una pratica della C. concepita come un insieme organico in cui il mistero cristiano entra in composizione con i dati provenienti dalla psicologia e dalla pedagogia, dalla situazione culturale e pastorale, e si riproduce nuovamente come fede viva, credibile, intelligente e vitale, sotto il segno della duplice e unica “fedeltà a Dio” e “fedeltà all’uomo”.

Per sua natura, e per quanto accade ad ogni azione pastorale, l’opera di​​ J.​​ C. era destinata a essere superata, vale a dire sviluppata e modificata in funzione di nuove acquisizioni (psicologiche e pedagogiche, per​​ es.)​​ e di cambiamenti culturali e pastorali. Se i manuali del “metodo​​ Colomb”​​ non vengono praticamente più utilizzati, si avrà comunque tutto l’interesse nel ritornare con profitto verso il pensiero di un vero teologo della C. e verso l’esempio metodologico e apostolico di uno dei maggiori artefici del rinnovamento cat.

Bibliografia

La vita e l’opera di​​ J.​​ C. non sono ancora stati oggetto di studi d’insieme. I suoi archivi sono depositati a Parigi (Compagnie de Saint-Sulpice). Per conoscerlo occorre consultare:

G.​​ Adler –​​ G.​​ Vogeleisen,​​ Un​​ siècle​​ de​​ catéchèse en France,​​ 1893-1980:​​ histoire, déplacements, enjeux,​​ Paris, Beauchesne, 1981.​​ (Quest’opera​​ situa il​​ ruolo di​​ J. C.​​ nell’ambito del movimento​​ cat.​​ francese e fornisce una bibliografia dettagliata);​​ Joseph​​ Colomb​​ et le​​ mouvement​​ catéchétique,​​ in “Catéchèse”​​ 20 (1980) n. 80 (in particolare per quanto riguarda la crisi del 1957); A.​​ Boyer,​​ Un​​ demi-siècle au sein du mouvement catéchétique français,​​ Paris, L’École, 1966 (apporta un​​ certo numero di documenti sull’inizio di​​ J. C.);​​ M. Fargues,​​ D'hier à demain,​​ le​​ catéchisme,​​ Paris, Fayard-Mame, 1964 (per i legami Fargues-Colomb).

Georges Duperray

COMPITI (a casa)

I. La scuola e i CP a casa

I CP fanno la loro apparizione nel sec. XV, quando le scuole pubbliche incominciarono a sostituirsi alle scuole dei conventi e alle scuole tenute da insegnanti a casa propria. La loro funzione è anzitutto di esercitare e di consolidare quanto è stato appreso. I CP scaturiscono organicamente dalla lezione, chiedono agli studenti di svolgere un lavoro personale a casa e riconfluiscono nella lezione. Luoghi di apprendimento extra-scolastici e scolastici, ciascuno con specifiche esperienze di apprendimento, vengono collegati tra loro e costituiscono una unità.

Nell’ambito della lingua tedesca i CP sono stati esaminati empiricamente a partire dalla metà del sec. XX, soprattutto nei seguenti aspetti:

— l’apprezzamento dei CP da parte degli insegnanti, degli allievi, dei genitori;

—​​ la loro effettività;

—​​ i diversi modelli di CP e la loro impostazione metodologica;

—​​ la realizzazione dei CP;

—​​ i CP come problema comune della scuola e della famiglia;

—​​ possibili alternative per migliorare l’attuale prassi dei CP.

II. L’IR scolastico e i CP

Inchieste tra insegnanti e studenti hanno messo in luce che una percentuale non trascurabile di insegnanti di religione richiede CP a casa. I CP svolgono diverse funzioni: allargano l’orizzonte esperienziale degli allievi; forniscono ai giovani possibilità di accedere alla realtà pluridimensionale, di conoscere posizioni teologiche divergenti, di rendersi conto della pluralità nell’unità cristiana; favoriscono l’integrazione dell’intelligenza, delle mani, del cuore. Dalle ricerche empiriche non è possibile documentare che la scuola e le famiglie attraverso i CP siano giunte a un colloquio intensivo su religione e fede.

Anche se abbastanza normali — o proprio perché tali — si constata che i CP occupano un posto marginale nelle ricerche empiriche sulla pedagogia religiosa e nelle teorie metodico-didattiche. Per ciò che riguarda i CP nell’ambito dell’IR, si possono soltanto segnalare i primi tentativi per affrontare il problema.

La richiesta di svolgere a casa compiti quantitativamente limitati e qualitativamente di alto livello, si può approvare soltanto a due condizioni:

— i CP devono essere parte integrante degli obiettivi didattici dell’IR scolastico;

— in un IR orientato sull’allievo si ammettono soltanto CP ricchi di varianti metodiche, individualizzati e differenziati.

I CP a casa che stimolano il processo di insegnamento o di apprendimento religioso nella scuola, sono in prima istanza un compito per l’insegnante di religione, il quale programma, attua ed esamina criticamente il proprio insegnamento. Per i CP in quanto sequenza didattica, occorre costruire un piccolo sub-curricolo. La determinazione degli obiettivi, dei contenuti, dei metodi, dei mezzi viene regolata dai principi dell’interdipendenza, della variabilità, della verificabilità.

1.​​ La programmazione​​ dei CP a casa dipende dai presupposti antropologici e socio-culturali degli allievi, che provengono da famiglie cristiane e cattoliche molto eterogenee.

2.​​ L’obiettivo didattico​​ dei CP consiste nel dare un contributo al raggiungimento dell’obiettivo di una lezione. Sei obiettivi globali si affacciano: i CP servono

— soprattutto all’inizio di una unità didattica per motivare gli allievi a confrontarsi con il tema dell’insegnamento;

— per preparare una successiva lezione;

— per prolungare e rinforzare l’insegnamento;

— per fissare con esercizi le nuove conoscenze, abilità o capacità acquisite nella scuola e — per imparare la loro applicazione;

— per verificare se gli allievi hanno raggiunto l’obiettivo didattico. Questa funzione richiede però che il lavoro sia fatto personalmente a casa.

3.​​ I contenuti​​ dei CP si riferiscono sempre al processo di insegnamento e di apprendimento già iniziato nella scuola.

4.​​ La scelta dei metodi e dei mezzi​​ mira a superare il lavoro individuale — ampiamente dominante, come risulta dalle inchieste empiriche — passando al lavoro in coppia o in gruppi, preferito dagli allievi. In tal modo i CP contribuiscono alla formazione sociale. Occorre aprirsi a canali di comunicazione e di informazione meno abituali. La gamma dei metodi e dei mezzi da applicare nei CP a casa va ampliata, in modo che risponda meglio alle diverse categorie di allievi, alle loro capacità e abilità individuali. Si possono indicare cinque grandi gruppi di ÒP: orali – scritti – espressione visiva – gioco – uso di materiale didattico.

5.​​ Differenziazione – individualizzazione.​​ A causa del carattere eterogeneo degli allievi che frequentano l’IR occorre differenziare i CP secondo le possibilità di prestazione, e individualizzarli secondo gli interessi didattici.

Si prospettano cinque possibilità di differenziazione, secondo: la quantità dei CP – il livello di prestazione degli allievi – gli interessi didattici – la durata del lavoro richiesto – il modello di apprendimento.

6.​​ Timing.​​ Non è opportuno assegnare i CP da fare a casa al termine della lezione: gli studenti hanno diritto a cominciare puntualmente la pausa. Perciò l’insegnante di religione li deve indicare 10 o 5 minuti prima del termine dell’ora: li comunica oralmente, li scrive sulla lavagna e richiede che gli studenti li annotino sul quaderno per i CP a casa. Resta poi un breve spazio per chiarirli in collegamento con il processo didattico e illustrare gli obiettivi del lavoro da compiere a casa. Gli studenti ricevono pure indicazioni sul modo di organizzare il loro lavoro.

7.​​ Controllo e discussione.​​ Per l’IR ci vogliono pochi CP, ma ben finalizzati, e vanno controllati e discussi dal punto di vista quantitativo e qualitativo. Questa sequenza didattica è integrata nell’intero processo di apprendimento di una lezione. Spetta all’insegnante di religione programmare gli obiettivi, i contenuti, i metodi e i mezzi dei CP. La scelta dei metodi e delle forme sociali del lavoro deve tener conto non solo dei contenuti ma anche degli studenti. Si preferiscono metodi e forme sociali di lavoro che permettono il coinvolgimento di molti studenti. Il controllo reciproco dei CP, come pure il controllo e la discussione in piccoli gruppi non hanno soltanto il significato di alleggerire il lavoro dell’insegnante, stimolano anche la responsabilità personale e l’autonomia degli studenti. I CP vengono discussi e controllati prima di utilizzarli come parte integrante dell’apprendimento scolastico. Gli studenti devono diventare consapevoli che il lavoro svolto a casa è necessario per il raggiungimento degli obiettivi didattici.

Bibliografia

1.​​ Bibliografia pedagogica

D.​​ von​​ Dekschau (ed.),​​ Hausaufgaben als Lernchance,​​ München, 1979; G. Eigler – V. Krumm,​​ Zur Problematik der Hausaufgaben,​​ Weinheim-Basel, 1972;​​ D.​​ Feiks – G. Rothermel (ed.),​​ Hausaufgaben', pädagogische Grundlagen und praktische Beispiele,​​ Stuttgart, 1981; H. Geissler – H. Plock,​​ Hausaufgaben – Hausarbeiten,​​ Bad Heilbrunn, 19742; H. Kamm –​​ E.​​ H. Müller,​​ Hausaufgaben – sinnvoll gestellt,​​ Freiburg, 19804; B. Wittmann,​​ Vom Sinn und ünsinn der Hausaufgaben.​​ Empirische Untersuchungen über ihre Durchführung und ihren Nutzen, NeuwiedBetlin, 19722.

2.​​ Pedagogia religiosa

8.​​ Jendorff,​​ Hausaufgaben im Religionsunterricht,​​ München, 1983.

Bernhard Jendorff

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COLOMB Joseph

n. a Lione nel 1902 - m. a Strasburgo nel 1979, sacerdote francese, educatore religioso.

1. Ordinato sacerdote nel 1926, insegnò filosofia nella Facoltà Cattolica di Lione, e venne nominato alla direzione della catechesi nella diocesi nel 1945. Divenuto nel 1954 direttore del Centro nazionale francese della catechesi, in seguito alla crisi del 1957 sul «catechismo progressivo», lasciò Parigi nel 1958 e fondò nel 1962 a Strasburgo l’Institut de Pastorale Catéchétique,​​ che diresse fino al 1971. Si dedicò quindi all’educazione religiosa degli adulti e a scrivere un importante manuale di​​ ​​ catechetica.

2. Merita di essere considerato il contributo di C. alla pedagogia religiosa. Valido organizzatore e promotore del movimento per l’educazione religiosa, fondò a Lione una scuola a tempo pieno per la formazione di catechisti di professione, rivalutò l’opera dei genitori come educatori religiosi e propugnò la necessità dell’educazione religiosa per tutte le età della vita. Segnalò fin dall’inizio l’urgenza di una riforma radicale dell’organizzazione, dei contenuti e dei metodi dell’educazione religiosa e cristiana, adatta a una società in avanzata​​ ​​ secolarizzazione. L’istituzione catechistica doveva trasformarsi in vero e proprio catecumenato, i contenuti dovevano essere arricchiti con gli apporti del movimento liturgico e biblico contemporanei (Aux sources du catéchisme,​​ 1946-48) e del rinnovamento teologico (La doctrine de vie au catéchisme,​​ 1952-54): Bibbia, liturgia e dottrina dovevano contribuire a una solida formazione spirituale. Accettò l’ispirazione della pedagogia attiva in campo religioso, e fondò su studi psicologici il lancio di una catechesi progressiva, che le autorità ecclesiastiche ritennero bisognosa di una necessaria e prudente correzione. La sua più importante opera teorica è il manuale di catechetica​​ Le service de l’Évangile​​ (1968), subito tradotto in lingua it. e sp. C. è un vero teologo della catechesi e rimane soprattutto teologo, però con forti interessi verso gli apporti della psicologia e della sociologia (forse meno della pedagogia), nell’intento proclamato di una composizione tra il mistero cristiano e i dati provenienti dalla situazione culturale e pastorale e dalle scienze umane («fedeltà a Dio e fedeltà all’uomo»).

Bibliografia

Boyer A.,​​ Un demi-siècle au sein du mouvement catéchétique français,​​ Paris, L’École, 1966;​​ J.C. et le mouvement catéchétique,​​ in «Catéchèse» 20 (1980) 80 (n. monogr.); Adler G. - G. Vogeleisen,​​ Un siècle de catéchèse en France,​​ Paris, Beauchesne, 1981.

U. Gianetto

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COLOMB Joseph

COMPETENZA

 

COMPETENZA

La parola deriva in realtà dal latino «cum petere», ovvero chiedere insieme, pretendere, ma evoca anche il verbo italiano «competere», cioè far fronte a una situazione sfidante, o il sostantivo «competizione», che riporta all’immagine di atleti che si confrontano per vincere un gara, o di candidati politici, che aspirano a conquistare i voti necessari per ottenere un seggio parlamentare. Le accezioni attuali più comuni sono da una parte di natura giuridica e, dall’altra, di natura professionale. La prima accezione riguarda la legittimità di un mandato, di trattare una categoria di affari, avendo l’autorità per farlo. La seconda, concerne l’autorevolezza che deriva dalla padronanza di un saper condurre in un ambito specifico attività professionali specializzate. L’utilizzazione che progressivamente è stata adottata del termine c. nel mondo della formazione e del lavoro, e poi della scuola, risente di queste due accezioni: è la richiesta di ottenere un riconoscimento della padronanza di capacità specifiche nel contesto in cui si opera; e, contemporaneamente, considerare questo riconoscimento come legittima base per una sua valorizzazione nella propria carriera di studio e / o professionale.

1.​​ Definizione.​​ Una c. è definibile a partire dalla tipologia di compiti o attività che si devono svolgere validamente ed efficacemente. Esse, in base ai compiti per i quali sono richieste, possono essere più specificatamente legate a una disciplina o materia di insegnamento, oppure avere carattere trasversale. In questo secondo caso i compiti hanno caratteristiche comuni quanto a conoscenze, abilità e disposizioni interne che devono essere attivate e coordinate. La complessità e novità del compito o della attività da sviluppare caratterizzano anche la qualità e il livello della c. implicata. Tali caratteristiche dipendono dall’età e dall’esperienza dello studente. È ben diversa la situazione di un bambino della scuola dell’infanzia, della seconda classe della scuola primaria o della terza classe della scuola secondaria di 1° grado. Una c. si manifesta perché si riesce a mettere in moto e coordinare un insieme di conoscenze, abilità e altre disposizioni interne (interessi, significati, valori, ecc.) al fine di svolgere positivamente il compito o l’attività prescelta. Queste risorse interne debbono essere quindi possedute a un grado di significatività, stabilità e fruibilità adeguato, tale cioè da poter essere individuate e messe in moto quando esse siano necessarie per affrontare il compito richiesto. Tra le risorse che occorre saper individuare, utilizzare e coordinare molto spesso occorre considerare non solo risorse interne, ma anche risorse esterne. Non si tratta solo di risorse di natura fisica o materiale come libri, strumenti di calcolo, computer, ma anche umane come il docente stesso, i compagni, altre persone che è possibile coinvolgere nella propria attività. Si parla oggi di comunità di studenti per indicare che molte volte è la capacità di coordinare la pluralità delle c. possedute dai membri del gruppo che consente di portare a termine il compito o i compiti assegnati. Di qui una definizione sintetica di c. valorizzabile in campo educativo scolastico e formativo: capacità di mettere in moto e di coordinare le risorse interne possedute e quelle esterne disponibili per affrontare positivamente una tipologia di compiti da svolgere e / o di situazioni sfidanti.

2.​​ Sviluppo delle c.​​ Lo sviluppo delle c. è certamente legato alla costruzione di conoscenze e abilità significative, stabili e fruibili, allo sviluppo di disposizioni interiori valide e feconde, ma è la pratica, l’esercizio che ne sta alla base. A questo proposito sono state suggerite varie modalità di intervento per promuoverle nel contesto scolastico. Tra queste, quattro presentano aspetti positivi e qualche problema di attuazione: l’apprendistato cognitivo; la presentazione di una famiglia di situazioni; la pedagogia del progetto; la valorizzazione della situazione-problema (Pellerey, 2004). Lo sviluppo delle c. non avviene solo come complessificazione di schemi interpretativi e d’azione, bensì anche sulla base di un loro adattamento e di una loro valorizzazione in situazioni e contesti diversi da quello nel quale esse sono state sviluppate. Si tratta di ciò che è stato denominato il problema del transfer o trasferimento delle c. La capacità di attivare un processo di transfer o trasferimento delle proprie c., implica lo sviluppo di quattro componenti fondamentali (Pellerey, 2002). In primo luogo occorre promuovere la disponibilità a considerare da un punto di vista superiore le proprie c. in relazione alle nuove situazioni o ai nuovi compiti da affrontare. È una forma di consapevolezza del proprio livello di c. di fronte ai nuovi impegni. In secondo luogo, entra in gioco un’adeguata sensibilità per avvertire, se c’è, la presenza di una distanza tra le c. già acquisite e quelle che si richiederebbero nella nuova situazione. Ciò non basta; occorre anche che si riesca ad avvertire l’entità di tale distanza e quindi quanto impegnativo in termini di tempo e di sforzo personale potrà essere l’adattare o il trasformare le proprie c. In terzo luogo è coinvolta la capacità di individuare quali risorse interne o esterne debbono essere prese in considerazione al fine di affrontare la sfida incontrata. Non solo, se si constata che alcune conoscenze e / o abilità sono inadeguate, essere disponibile ad arricchirle opportunamente. Infine, è bene non dimenticarlo, è richiesta la capacità non solo di giungere alla decisione effettiva di affrontare il lavoro necessario per adattare o trasformare le c. in oggetto, ma anche, e soprattutto, la capacità di impegnarsi per un tempo adeguato e mettendo in campo tutte le forme di controllo dell’azione che consentono di portare a termine la decisione presa.

3.​​ Valutazione delle c.​​ Il riconoscimento da parte degli altri della presenza di una c. non è impresa facile, perché per sua natura una c. è una qualità personale interna non direttamente osservabile. Ciò che possiamo cogliere sono le sue manifestazioni esterne, cioè la capacità di portare a termine validamente i compiti assegnati. Occorre anche dire che di per sé non è sufficiente rilevare una singola prestazione positiva (o negativa) per poter certificare il possesso o meno di una c., bensì occorre disporre di un ventaglio o insieme di prestazioni, sulla base del quale sia possibile arguire la presenza di una c. che costituisca ormai un patrimonio stabile della persona. È possibile, dunque, inferire la presenza di una c. non solo genericamente, ma anche in maniera articolata sulla base di una famiglia di prestazioni, e di un insieme di comportamenti, che svolgono il ruolo di indicatori di esistenza e di livello raggiunto. Solo nel caso di c. elementari che mettano in gioco schemi d’azione di tipo ripetitivo, oppure assai semplici applicazioni di regole e principi, è possibile valutarne l’acquisizione osservando una o poche prestazioni. Dalla constatazione della complessità del processo di valutazione e ancor più di certificazione delle c. deriva l’indicazione di procedere a una raccolta sistematica di elementi documentari provenienti da fonti e secondo metodi diversificati per poter giungere a una conclusione sufficientemente fondata e plausibile. Di conseguenza spesso si suggerisce di procedere secondo un piano di lavoro che si richiama al metodo della «triangolazione», a volte utilizzato nella ricerca educativa e sociale. In sintesi, si tratta di raccogliere informazioni pertinenti, valide e affidabili con una pluralità di modalità di accertamento, in genere almeno tre, che permettono di sviluppare un lavoro di interpretazione e di elaborazione del giudizio che sia fondato e conclusivo.

Bibliografia

Le Boterf G.,​​ De la compétence. Essai sur un attracteur étrange, Paris, Éditions d’Organisation, 1994; Id.,​​ Construire les compétences individuelles et collectives, Ibid., 2000; Perrenoud P.,​​ Costruire c. a partire dalla scuola, Roma, Anicia, 2003; Varisco B. M.,​​ Portfolio,​​ valutazione di apprendimenti e c., Roma, Carocci, 2004; Pellerey M.,​​ Le c. individuali e il portfolio, Firenze, La Nuova Italia, 2004;​​ López-Mezquita Molina Ma​​ T.,​​ La evaluación de la competencia léxica: tests de vocabulario,​​ su fiabilidad y validez, Granada, Editorial Universidad de Granada, 2007.

M. Pellerey

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COMPETENZA

COMPETITIVITÀ

 

COMPETITIVITÀ

La c. è quella serie di atteggiamenti, comportamenti e processi messi in atto da una pluralità di individui o gruppi sociali che convergono con uguali pretese per il raggiungimento di scopi o risorse identiche, ma fortemente limitate rispetto ad una domanda sempre relativamente eccedente.

1.​​ Distinzioni.​​ Il moltiplicarsi dei soggetti sociali, tratto caratteristico della società complessa, amplifica anche la concorrenzialità rispetto a obiettivi e beni scarsamente riproducibili. Il primo obiettivo della c. è perciò diretto ad ottenere l’oggetto desiderato più che a concorrere con i competitori. Questi vogliono tutti ottenere per sé, sottraendola necessariamente agli altri, la quota più alta possibile della stessa risorsa (reddito, potere, prestigio). La scarsità delle risorse perciò è un elemento essenziale della c., ma non lo è nello stesso modo del​​ ​​ conflitto. Per Park e Burgess, la c. si distingue dal conflitto, in quanto questa è una lotta tra individui o gruppi che non sono necessariamente in contatto, né comunicano tra loro, mentre il conflitto è una contesa in cui il contatto è indispensabile. La c. inoltre è inconscia, mentre il conflitto è sempre cosciente; si manifestano quindi come due tipi di rapporto sociale assai diversi. Dahrendorf però respinge questa distinzione, affermando che sia il conflitto che la c. comportano sempre una lotta per delle risorse limitate (1963). I primi ecologisti hanno considerato la c. come il processo fondamentale dell’umana organizzazione sociale, capace di determinare la stessa distribuzione spaziale e funzionale della popolazione.

2.​​ Prospettive e tipologie.​​ La c. è perciò una categoria che si pone all’incrocio di un sistema sia sociopolitico (c. sociopolitica)​​ che socioeconomico (c. socioeconomica).​​ In questa seconda prospettiva il modello della c. è definito dalla situazione di mercato, in cui le opportunità per competere sono per principio equamente distribuite, come anche le sanzioni sono le stesse per tutti. La c. però viene limitata quando tra i competitori vi è una disuguale distribuzione delle risorse da scambiare, come nel caso del monopolio, in cui il controllo sulla controparte è virtualmente completo. Ciò avviene in modo tipico tra i Paesi dipendenti e le multinazionali nei mercati delle​​ materie prime basati su uno scambio ineguale. Infine in una società caratterizzata dal pluralismo culturale si assiste all’emergere anche di una​​ c. socioculturale,​​ di cui un esempio tipico è dato nel campo della religione dalla concorrenza delle agenzie di significati diverse da quelle religiose o dal diffondersi a macchia d’olio delle​​ ​​ sette religiose. In una prospettiva​​ pedagogica,​​ è tuttora un nodo di discussione l’efficacia della c. nella ricerca del successo, soprattutto in ambito scolastico. In questo contesto essa può essere considerata secondo​​ tre accezioni:​​ come una​​ struttura per l’​​ ​​ apprendimento​​ (è fatta dal clima, dall’organizzazione, e dall’ethos creato in classe); come​​ tratto di​​ ​​ personalità​​ compulsivamente motivato al successo; come​​ ​​ comportamento teso alla superiorità, nei confronti degli altri, in contrapposizione alla cooperazione. Tutto ciò comporta una serie complessa di fattori dove sono coinvolti atteggiamenti e relazioni interpersonali sia degli insegnanti che degli allievi.

Bibliografia

Owens L. - R. G. Stratton,​​ The development of a cooperative,​​ competitive,​​ and individualised learning preference scale for students,​​ in «British Journal of Educational Psychology» 50 (1980) 147-161; Bagnasco A. et al.,​​ Corso di sociologia,​​ Bologna, Il Mulino, 1997; Comoglio M.,​​ Educare insegnando.​​ Apprendere ad applicare il «cooperative learning», Roma, LAS, 2000; Cesareo V. - M. Magatti (Edd.),​​ Comunità,​​ individuo e globalizzazione, Roma, Carocci, 2001; Vasapollo L. et al.,​​ Competizione globale. Imperialismi e movimenti di resistenza, Milano, Jaca Book, 2004.

R. Mion

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