CICERONE Marco Tullio

 

CICERONE Marco Tullio

n. ad Arpino nel 106 a.C. - m. a Formia nel 43 a.C, filosofo e uomo politico romano.

1.​​ L’uomo.​​ C. occupa un posto significativo sia nella storia della filosofia, che nella storia della letteratura latina, come pure nella storia politica di Roma. Compie i suoi studi umanistici e giuridici a Roma e li completa in Grecia e nelle colonie greche dell’Asia Minore (Atene, Rodi) particolarmente nel campo filosofico. È fortemente impegnato nella vita politica, sia con la sua attività oratoria in processi di grande importanza, sia per aver ricoperto diverse cariche politiche. Eletto Console nel 63 salva lo Stato dalla congiura di Catilina. Muore per mano dei sicari di Antonio. In questa sede ci interessa particolarmente l’apporto che con il suo pensiero, con i suoi scritti e con la sua attività ha dato alla pedagogia romana: alla sua base culturale, alla sua metodologia e particolarmente alla definizione e alla formazione dell’ideale dell’oratore.

2.​​ C. e la cultura romana.​​ C. è tra i più efficaci creatori di quella sintesi culturale che, superando una stretta chiusura sulla tradizione del​​ mos majorum,​​ ma senza sacrificarla, la apre all’apporto della raffinata cultura greca, dando origine a quella nuova cultura latina che prese il nome di​​ humanitas.​​ Una sintesi che allo stesso tempo è guidata dalla mentalità romana e ad essa è ordinata: l’idealità greca è calata nella concretezza e saggezza pratica romana, di cui C. è tipico modello, portando alla reciproca integrazione in un nuovo equilibrio che definisce l’humanitas,​​ cioè la cultura romana del periodo ellenistico. Una​​ humanitas letteraria,​​ etica e politica.​​ Sottolineiamo in particolare l’apporto dato da C. nel campo filosofico, come realizzatore di un​​ eclettismo​​ che compone elementi prevalentemente stoici con elementi peripatetici e anche platonici, con una prevalenza data all’aspetto pratico su quello speculativo e quindi alla dimensione etica su quella contemplativa.

3. C.​​ e la pedagogia romana.​​ Le competenze di C. sopra accennate, di filosofo, di letterato e di politico, determinano anche gli elementi costitutivi del suo apporto pedagogico per una sintesi umanistica unitaria. Esso si concretizza nell’ideale dell’oratore, che C. elabora soprattutto nelle sue opere​​ De oratore,​​ Orator,​​ Brutus,​​ Hortensius​​ (perduto). Nella figura e quindi nella formazione dell’oratore richiede l’integrazione armonica di due aspetti: quello​​ culturale​​ e quello​​ virtuoso,​​ tanto da formare quasi una endiadi di​​ humanitas et virtus.​​ Il primato va però alla virtù e alla sapienza, in continuità con la​​ virtus romana​​ ereditata dal​​ mos majorum.​​ Ha così un senso preciso la definizione dell’oratore ricevuta da Catone il Censore:​​ vir bonus dicendi peritus.​​ E si spiega anche che nella sua formazione il primo posto vada alla filosofia (intesa nel senso eclettico sopraddetto). La sapienza avrà dunque la precedenza sulla tecnica; l’eloquenza sulla retorica. In questo C. combatte l’opinione che riserva ai filosofi i temi relativi alla morale, al diritto, alla pietà; che debbono invece essere, in modo diverso e più vivo, trattati anche dall’oratore. Su questa base C. richiede nell’oratore la massima ampiezza di cultura e ricchezza di erudizione: letteratura latina e greca, storia, diritto, vasta esperienza; oltre alle discipline della comune​​ ​​ paideia ellenistica. Tale ampiezza di preparazione culturale era necessaria nell’oratore anche per la vastità e pluralità dei temi di cui si doveva interessare. Cultura contro verbosità. Per questo suggerisce che la sua formazione comprenda anche una permanenza integrativa nelle città della Grecia. Alla visione dell’ideale​​ dell’oratore si aggiunge in C. una buona sensibilità pedagogica: l’attenzione alla natura del giovane; il primo posto dato al talento, il secondo all’arte e all’esercizio; l’adeguamento anche delle mete da raggiungere, senza provocare scoraggiamento in alcuni o presunzione in altri.

C. «tipo» dell’orator.​​ L’esperienza politica, il profondo senso della romanità (del​​ mos majorum​​ e della​​ virtus romana,​​ dello​​ Stato romano),​​ la sincera ricerca filosofica, la formazione giuridica, l’ampia erudizione e l’eminente capacità oratoria qualificano la personalità di C. e da essa si proiettano nell’ideale che egli elabora dell’orator. In questo senso​​ ​​ Quintiliano ha potuto asserire che il nome di C. è il nome stesso dell’eloquenza (cfr.​​ Inst. orat.​​ 10,1). È anche questo un elemento importante in prospettiva pedagogica, poter offrire un​​ modello concreto​​ dell’ideale prospettato.

5.​​ Influsso e risonanze.​​ L’influsso esercitato da C. in campo culturale e pedagogico si può costatare a vari livelli. Uno immediato, come si è detto, nell’ambito della cultura ellenistico-romana; con una incidenza determinante sulla formazione dell’oratore, anche quando, con la crisi della Repubblica e l’avvento dell’Impero, il suo impatto sulla vita dello Stato sfumò. A lui sarà debitore anche Quintiliano nella sua​​ Institutio oratoria.​​ Nel ritorno alla classicità degli umanisti rinascimentali (​​ Umanesimo rinascimentale) C. non solo è uno dei punti di riferimento più significativi, ma la sua imitazione porta anche a quel fenomeno di decadenza formalistica che si chiamò​​ ciceronianismo.​​ C. resta uno dei maestri validi nella storia della pedagogia.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ C,​​ Opere politiche e filosofiche,​​ a cura di L. Ferrero e N. Zorzetti, Torino, UTET, 1953;​​ Dell’Oratore, a cura di A. Pacitti, Bologna, Zanichelli, 1974-77, 3 voll.; b)​​ Studi:​​ Narducci E.,​​ Introduzione a C., Roma / Bari, Laterza, 1992;​​ Galino M. A.,​​ Historia de la educación.​​ I.​​ Edades antigua y media,​​ Madrid, Gredos,​​ 1960; Bonner S. F.,​​ L’educazione nell’antica Roma: da Catone il Censore a Plinio il Giovane,​​ Roma, Armando, 1986; Montanari F. (Ed.),​​ Rimuovere i classici? Cultura classica e società contemporanea, Milano, Einaudi, 2003.

M. Simoncelli

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CICERONE Marco Tullio

CICLO DI VITA

 

CICLO DI VITA

L’idea di c.d.v. implica una sequenza di eventi che scandiscono l’inizio, lo sviluppo e la conclusione di un processo con caratteristiche di unitarietà interna.

1. La vita dell’uomo nel suo sviluppo dalla nascita alla morte, ha indotto spesso uno studio segmentato per fasi. Del c.d.v. si sono occupati la biomedicina (genetica, auxologia, gerontologia), la​​ ​​ psicologia sociale ed evolutiva (fasi e compiti di sviluppo con le relative soglie critiche), la​​ ​​ demografia, che descrive il c. riproduttivo e i modi in cui si succedono le generazioni dei figli a quelle dei padri, la sociologia della famiglia, che utilizza l’approccio evolutivo o del «c.d.v. familiare» suddiviso in vari stadi, cui competono corrispondenti «compiti di sviluppo familiari».

2. L’uso della categoria del c.d.v. ha diversi pregi connessi sia con la maggior aderenza alla realtà che con la modernità metodologica. Infatti l’attenzione longitudinale ai comportamenti meglio coglie gli eventi consecutivi che definiscono il percorso vitale dei soggetti. Inoltre l’attenzione alla sequenza temporale e delle decisioni fa studiare ogni passo successivo come condizionato dai precedenti. Infine per quanto riguarda la​​ ​​ famiglia,​​ l’approccio del c.d.v. familiare​​ («Developmental Approach») permette di analizzarla come sistema vivente che nasce, si sviluppa e muore avendo in sé una minima relazionalità sociale. Questa verrebbe a cadere quando invece se ne studiano soltanto le variabili singole, come nella prospettiva del concetto di «corso della vita»,​​ che per alcuni Autori (Saraceno, 1986) dovrebbe sostituire il c.d.v. Tale approccio allora enfatizzerebbe soprattutto la dimensione individualistica dello sviluppo e della coppia. Nelle società attuali il c.d.v. è molto più complesso che nel passato per una serie di variabili intervenienti di tipo economico, culturale, strutturale e psicologico che alterano e compromettono la regolarità delle sequenze degli eventi attesi o rendono più imprevedibili gli avvenimenti improvvisi.

Bibliografia

Mcgoldrick M. - E. A. Carter, «Il c.d.v. della famiglia», in F. Walsh (Ed.),​​ Stili di funzionamento familiare, Milano, Angeli, 1986, 259-296; Saraceno C. (Ed.),​​ Età e corso della vita, Bologna, Il Mulino, 1986; Scabini E. - P. P. Donati (Edd.),​​ Tempo e transizioni familiari, Milano, Vita e Pensiero, 1994; Id.,​​ Nuovo lessico familiare, Ibid., 1995; Istat,​​ Indagini multiscopo sulle famiglie​​ (2000-2007), Roma, 2000-2007; Romano M. C. - T. Cappadozzi, «Generazioni estreme: nonni e nipoti», in G. B. Sgritta (Ed.),​​ Il gioco delle generazioni. Famiglie e scambi sociali nelle reti primarie, Milano, Angeli, 2002; Bertocchi F.,​​ Sociologia delle generazioni, Padova, CEDAM, 2004; Romano R. G. (Ed.)​​ C.d.v. e dinamiche educative nella società postmoderna, Milano, Angeli, 2005; Donati P. P.,​​ Manuale di sociologia della famiglia, Roma / Bari, Laterza, 2006.

R. Mion

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CICLO DI VITA

CICLO DIDATTICO

 

CICLO DIDATTICO

Dal lat.​​ Cyclus​​ (cerchio), rappresenta l’idea della serie, chiusa in se stessa, che si riproduce periodicamente; per estensione, nel linguaggio pedagogico-scolastico, corrisponde​​ all’unità comprensiva​​ ​​ una fase della progressione curricolare, in se stessa compiuta – che si ripete modularmente per costituire l’intero del​​ ​​ piano di studi; di fatto, il c si definisce organizzativamente come «multiplo» della classe, che resta l’unità operativa minima.

Storicamente, si può considerare l’analogo della «classe», alla quale si oppone come alternativa mirata a correggerne la rigida scansione annuale, che impone i ritmi dell’artificio cronologico-formale alla varietà dei gradienti di sviluppo individuali.

2. Rispetto alla «classe», c. è una nozione che si distingue per alcuni attributi definienti: a) il riferimento ad uno «stadio»​​ evolutivo della personalità dell’alunno in relazione ai compiti di​​ ​​ apprendimento.​​ Per questo aspetto,​​ il c. si qualifica per la relazione peculiare tra il piano di studi e l’età psicologica del soggetto in formazione, e quindi per​​ la funzione che assolve​​ (come nel francese​​ cycle d’orientation);​​ b) per l’idea di​​ discontinuità​​ che sottolinea, rispetto agli altri c., a ragione della compiutezza interna che esprime; c) viceversa, per l’idea di​​ continuità,​​ connessa alla successione di cui rappresenta una parte; d) per la caratterizzazione del​​ tipo di insegnamento​​ che richiede in relazione allo sviluppo dell’alunno.

3. Introdotto come risposta istituzionale alle istanze dell’attivismo (​​ Scuole Nuove), l’evoluzione dei modelli didattici verso la centratura sulle discipline di studio, sulle metodologie d’indagine e sugli obiettivi da perseguire ha ottenuto di far perdere rilievo ad un termine che si era affermato insieme alle denunce dei ritardi e degli insuccessi scolastici.

4. Il c. è tornato in auge negli ultimi dieci anni in riferimento a due contingenze : a) la riforma della durata ed articolazione interna dell’intero curricolo scolastico – v.​​ riordino dei c.​​ – in particolare per le divergenti politiche in materia di​​ ​​ obbligo scolastico e, più in generale, di «missione» della scuola; b) le strategie di razionalizzazione della rete scolastica, che ha visto la diffusione degli​​ ​​ «istituti comprensivi» e conseguentemente la pratica di «curricoli in verticale» fra diversi gradi scolastici.

Bibliografia

Calidoni M. - P. Calidoni P.,​​ Continuità educativa e scuola di base,​​ Brescia, La Scuola, 2000; Cerini G. - M. Spinosi,​​ La scuola in verticale, Napoli, Tecnodid, 2000; Damiano E. (Ed.),​​ Idee di scuola a confronto, Roma, Armando, 2002.

E. Damiano

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CICLO DIDATTICO

CILE

 

CILE

Hermógenes de la Cerda,​​ direttore-fondatore del Dipartimento di C. di Santiago (1926) animò il Segretariato Cat. nazionale dell’Azione Cattolica (1933-1959). Attraverso la riv. mensile “Sed Catequistas”​​ (1935-1964) divulgò il metodo di Monaco. Lo​​ Hogar Catequístico​​ (1935) prepara professori di religione per le scuole primarie e le parrocchie. Vi sono ore di religione nella scuola fino al 9° anno. I genitori possono chiedere l’esonero per i figli. Il programma approvato dal governo (1948) comprende contenuti, attività e realizzazioni. La Conferenza episcopale (CECH) promulgò un​​ Catecismo Elemental​​ per il 4°-6° anno (1950) e un​​ Catecismo Curso​​ Medio​​ per il 7°-90​​ anno (1952) e così spostò l’impegno docente all’apprendimento mnemonico trascurando la formazione personale.

La CECH (1960) creò come suo organismo la​​ Oficina Nacional​​ de​​ Catcquesis​​ (ONAC). Invece dei grandi congressi nazionali (1938, 1943, 1953) organizzò incontri di studio con specialisti per revisionare la realtà cat. Richiedeva il titolo di professore a coloro che insegnavano la religione nella scuola secondaria. A questo fine furono creati programmi per formare gli insegnanti di religione delle scuole secondarie presso le seguenti università: univ. cattolica di Santiago (1961), univ. cattolica di​​ Valparaíso​​ (1965), IPES​​ Blas Cañas​​ (1984).

Sotto la direzione di​​ Joaquín​​ Matte​​ (19611973)​​ l’ONAC diffonde il rinnovamento cat. promosso dalle Settimane internazionali, dal Concilio e da Medellin, con l’appoggio dell’ICLA​​ (Instituto Catequístico Latinoamericano),​​ insediato allora a Santiago. Il​​ Catecismo Básico​​ del​​ Episcopado Chileno​​ offre orientamenti teologici per gli autori di manuali (1964). I programmi di religione approvati dal governo (1963, 1973) promuovono la pratica della fede, della carità e della giustizia in relazione con le inquietudini intellettuali dell’adolescente. Le​​ Líneas Generales​​ para la​​ Catcquesis en Chile​​ (1974) unificano i criteri a partire dai corsi iniziali per i catechisti.

L’Istituto di catechetica dell’arcidiocesi di Santiago assume criticamente esperienze di C. familiare di Antofagasta (1962),​​ San Felipe, Valparaíso,​​ Santiago e​​ Araucanía​​ (C. Decker et al.,​​ Al​​ encuentro​​ del​​ Dios​​ vivo,​​ 1969). Più che di una preparazione dei genitori per l’iniziazione sacramentale dei figli, si tratta di un catecumenato per adulti, che moltiplica il numero degli evangelizzatori laici nelle parrocchie e nelle scuole. Sviluppa atteggiamenti cristiani a partire da esperienze di fede, superando il metodo deduttivo. Liturgie domenicali della Parola per fanciulli, con animatori giovani, celebrano e consolidano quanto è stato insegnato dai genitori (R.​​ Echeverría –​​ E.​​ García,​​ Celebraciones​​ para​​ niños,​​ 3 vol., Santiago, 1975-1977). Data la grande richiesta di leggere la Bibbia, l’Istituto prepara una sua traduzione popolare con abbondanza di note​​ (Biblia Pastoral Latinoamericana,​​ Concepción, 1971),​​ organizza una breve preparazione dei genitori al battesimo dei figli (R.​​ Echeverría,​​ Catequesis Prebautismal,​​ Santiago, Inst. Arq. Cateq., 1983) e tende a prolungare la preparazione immediata alle nozze (R.​​ Echeverría,​​ Preparamos nuestro​​ matrimonio,​​ Santiago, Inst. Arq. Cateq., 1983).

Oltre ai libri maggiormente diffusi, l’Istituto cat. di Santiago ha pubblicato una storia della Chiesa nell’ottica del catechista​​ latinoamericano​​ di oggi (C. Decker,​​ La​​ Iglesia.​​ Una​​ mirada​​ a su​​ historia,​​ 3 vol., Santiago, Inst. Arq. Cateq., 1984). Pubblica inoltre “Contactos”​​ per la formazione permanente dei catechisti parrocchiali.

Attraverso il bollettino mensile “Hola”​​ (1967) Rancagua promuove l’unità, l’informazione e la formazione dei catechisti. I suoi direttori diocesani hanno un profondo influsso (I. Caviedes,​​ ¿Qué vamos​​ a​​ decirles? Iniciación​​ cristiana de​​ párvulos,​​ Santiago,​​ Paulinas,​​ 1971;​​ ¡Catequista, eres persona!,​​ ivi,​​ 1974;​​ Dinámica de grupos,​​ ivi, 1976;​​ Personalidad y porvenir,​​ ivi,​​ 1980;​​ Sexo y amor,​​ ivi, 1980).

La CECH (1970)​​ richiede come età minima per la confermazione 14 anni (a partire dal 1983: 15 anni). L’ISPAJ​​ (Instituto Superior​​ de​​ Pastoral​​ de​​ Juventud)​​ sintetizza esperienze ed elabora un altro tipo di itinerario catecumenale, per formare comunità cristiane e preparare in due anni alla confermazione (F.​​ Ortega​​ et al.,​​ Juventud​​ y Pueblo de​​ Dios,​​ Santiago, 1974). Questa C. comunitaria della confermazione ha moltiplicato la partecipazione ecclesiale dei giovani evangelizzatori. Con sistemi analoghi si cerca oggi di trovare l’appoggio degli adulti per questi animatori. L’ONAC, sotto la direzione di​​ Enrique García,​​ FSC, organizza la formazione dei catechisti, elaborando sperimentalmente e diffondendo​​ Guiones​​ del​​ Formador​​ con obiettivi, contenuti, attività e schemi di valutazione. Le équipes diocesane organizzano corsi da 30 a 50 ore a tre livelli: elementare (giovani o adulti), specializzato (in metodologia scolastica, C. sociale oppure preparazione a un sacramento particolare), e di perfezionamento (comunicazione evangelizzatrice in gruppi, dinamica di gruppo e comunità, sociologia per l’evangelizzazione, antropologia per il personale apostolico, storia della salvezza, cristologia...). Crea pure materiale audiovisivo rinnovato. Redige la sezione cat. della rivista mensile della CECH “Servicio”​​ (1976). Abbozza un sistema di perseveranza (tre anni) per gruppi pre-giovanili (1979) con diverse attività espressive e creative, ed altri per comunità di adulti e di giovani con il metodo attivo di gruppo, di contenuto sociale, biblico e liturgico (E.​​ García,​​ Catequesis Social,​​ 2 vol., 1980-1983;​​ Catequesis​​ Económico-Política,​​ Santiago, ONAC, 1984). Ambedue i sistemi formativi (con metodi propri, materiali, processi prolungati e formazione degli operatori nelle équipes diocesane) sono complementari ai due programmi catecumenali stabiliti, e favoriscono una C. permanente nelle comunità ecclesiali di base.

Pubblica un catechismo degli adulti, che offre formazione dottrinale, spirituale e pastorale al personale apostolico (C. Muller,​​ Nuestra Fe. Exposición​​ del​​ misterio​​ cristiano para​​ el hombre latinoamericano de hoy,​​ 5​​ vol.,​​ 1979ss).​​ Promuove una C. rurale con un linguaggio e ritmi propri (L. Garcés – A. Guzmán –​​ R. De Riviers,​​ Al​​ encuentro​​ del​​ Dios​​ vivo.​​ Versión rural,​​ Talca,​​ Inst. Cateq., 1978), che comprende anche la preparazione alla confermazione per gli adolescenti delle campagne (I. Caviedes – L. Molina,​​ Testigos​​ de Cristo,​​ Santiago, 1983). Aiuta le comunità ecclesiali di base con schede familiari periodiche in campagne nazionali eucaristiche, di riconciliazione o di fraternità.

Il CEEC (Centro de​​ Estudios y Experiencias Catequísticas)​​ ha pubblicato la rivista trimestrale​​ «Noticia»​​ (1973-1980) per la C. scolastica. Diretto da Mario Borello, SDB, ha elaborato una C. per i quattro anni della scuola media, di natura induttiva, vitale, biblica, liturgica e sociale, con un linguaggio adolescenziale (CEEC,​​ Ven y Verás,​​ Santiago, Ed. Salesiana, 1980-1983).

La Serena (1975) e Talea (1978) diffondono corsi per corrispondenza, con appoggio di presenza, preparando professori di religione per la scuola elementare.​​ Concepción​​ elabora C. per fanciulli handicappati (P. Bultiauw et al.,​​ Vengan ustedes también​​ a mi​​ viña,​​ Concepción,​​ Instit. Cateq., 1981). Vi è pure una catechesi familiare per​​ i mapuches​​ (F. Belek – E. Theisen,​​ Jesus​​ taiñ küme​​ ufisa​​ kamañ,​​ Temuco, Inst. Indigena, 1984).

Bibliografia

E. Chahìn – A.​​ Fuentes,​​ La​​ enseñanza​​ religiosa​​ en los colegios​​ de​​ Chile,​​ in “Catequesis​​ Latinoamericana”​​ 4 (1972) 15, 224-251;​​ Directorio Pastoral​​ de​​ Sacramentos,​​ 1983; E.​​ García,​​ La​​ formación audiovisual, escuela de profetas,​​ in​​ “Servicio” 4 (1979) 33, 14-17; Id.,​​ Una catequesis juvenil de Confirmación,​​ in​​ «Actualidad Catequética” 22 (1982) 110, 631-637; Id.,​​ Por qué ha cambiado la catequesis,​​ in​​ “Sinite” 24 (1983) 73, 267-275; Id.,​​ Hacia una catequesis permanente en Chile,​​ in​​ “Servicio” 8 (1983) 76, 192-196; Id.,​​ Criterios para una iniciación cristiana escolar,​​ ibidem​​ 8 (1983) 77-78, 253-255;​​ Líneas generales para la Catequesis,​​ Santiago, ONAC, 1974.

Enrique García

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CILE

CINEMA

 

CINEMA

1.​​ Storia.​​ La parola «cinema» trae origine dal nome dato a un apparecchio “Cinématografe” (cinematografo) brevettato in Francia il 13-2-1895 dai fratelli Louis e Auguste Lumière, e usato per la prima proiezione pubblica il 28-12-1895. Il sonoro (musica e parlato) si aggiunge, dopo varie sperimentazioni, nel 1929-1930. La possibilità di filmare anche a colori è affrontata fin dal 1903 dagli stessi fratelli Lumière. Si susseguono, nei primi anni del secolo, vari tentativi sia in Europa che negli Stati Uniti. Soltanto nel 1935 si ha il primo film di rilievo artistico (quindi non sperimentale): è “Berky Sharp” di Rouben Mamoulian, che segna ufficialmente per la storia del cinema la nascita del film a colori.

2.​​ Definizione.​​ La definizione di cinema come “linguaggio di immagini in movimento” o forma di comunicazione sociale basata sulla proiezione fotoschermica di immagini in movimento, è una delle più complete, nel senso che ne specifica il genere prossimo: linguaggio, e la differenza specifica: immagini in movimento, che possono essere o meno accompagnate da riproduzioni sonore.

a) Come “linguaggio” il cinema è avvicinabile a tutti gli altri linguaggi (orale, scritto, mimico, musicale, ecc.) e con essi ha delle affinità. Come “linguaggio di immagini in movimento” ha una caratteristica che lo differenzia da ogni altro mezzo di espressione: la possibilità di sintetizzare in uno solo tutti i linguaggi oggi conosciuti dall’uomo. Il cinema, infatti, oltre che dell’immagine si avvale dello scritto, della parola, del gesto, della musica, dei rumori. Per questo il cinema nel suo continuo perfezionarsi costituisce oggi, per l’uomo della cultura di massa, uno dei richiami più “totali”, in quanto per il suo potere di influsso e suggestione investe e coinvolge tutto l’essere.

b) Gli elementi che caratterizzano qualsiasi linguaggio sono i​​ segni, e​​ i​​ criteri​​ di associazione dei segni. Già Pio XII nell’enc.​​ Miranda prorsus​​ scriveva: “L’uomo, per esigenza della sua stessa natura, fin dal mattino della sua esistenza prese a comunicare agli altri i suoi beni spirituali per mezzo di segni che, mutuati dalle cose sensibili, egli si è ingegnato di perfezionare sempre di più”. Nel cinema i segni del linguaggio sono le​​ immagini,​​ e i criteri di associazione dei segni sono le​​ regole di montaggio​​ cinematografico; infatti, se il cinema è linguaggio, deve di necessità manifestare pensieri e sensazioni di un discorso.

Nel cinema si hanno quindi dei discorsi compiuti dove le immagini​​ denotano​​ il segno, e il montaggio ne​​ connota,​​ cioè ne esprime i significati. Si può allora concludere che un testo cinematografico (film) è un discorso quanto mai coinvolgente fatto per immagini (denotazione) o, ancora, che esso è una riunione, ordinata strutturalmente, di immagini avente senso compiuto (connotazione). L’immagine allora è un segno attraverso il quale l’autore cinematografico (regista) rappresenta visivamente una realtà per esprimere un’idea (tema).

3.​​ Rapporto cinema – C.​​ Il cinema trova nel Magistero ecclesiastico una duplice posizione di difesa e di promozione. Un lungo cammino di stimolanti riflessioni, iniziato il 10-12-1912 con un intervento disciplinare della S. Congr. Concistoriale che vietava le proiezioni cinematografiche nelle chiese, passando attraverso i discorsi sul film ideale e Tene.​​ Miranda prorsus,​​ va fino al decreto conciliare​​ Inter mirifica​​ e all’istruzione​​ Communio et progressio​​ (1971). Dalle indicazioni del Magistero della Chiesa appare evidente che una pastorale e una azione cat. condotta nel cinema e con il cinema, implica l’assunzione di scienze ausiliarie quali la sociologia, la psicologia, la pedagogia, ecc., le quali riflettono e aiutano a cogliere le condizioni attuali di una cultura e di una civiltà che si caratterizza come “civiltà delle immagini”. È assodato che il cinema coinvolge anche la morale, ma si può dire che oggi interessa e coinvolge soprattutto la​​ fede​​ e, di conseguenza, l’educazione alla fede.

Nel fenomeno cinematografico sono implicati problemi di estetica, di semiologia, di filosofia, di etica, ecc., tutti presenti e tutti interdipendenti al punto da configurare il fenomeno stesso come uno dei più complessi e, perciò stesso, uno dei più influenti sulla società contemporanea. Esiste influsso ogni qualvolta un fenomeno condiziona il modo di essere di qualche cosa o di qualcuno. Che un influsso del cinema sullo spettatore esista è cosa nota, tanto da ritenerla in questo contesto, e per ragioni di brevità, già scontata. L’influsso del cinema è visibile soprattutto negli atteggiamenti, e nei modi di vita dei singoli e della società in generale. Un’azione cat. che volesse portare avanti il suo discorso di “annuncio della fede oggi” prescindendo da questi mutamenti e influssi, o non ritenesse l’immagine compatibile con il messaggio della salvezza, correrebbe certamente il rischio di non raggiungere le sue mete.

a)​​ Dibattito cinematografico-, una forma di C.​​ Il catechista che assume il film come strumento di comunicazione per educare alla fede, deve soprattutto aiutare il giovane o l’adulto a formarsi uno spirito critico di fronte alla comunicazione cinematografica. L’uomo di oggi, bombardato fin dall’infanzia dalle immagini e dai suoni, ha bisogno di qualcuno che gli insegni a leggere l’immagine per quella che​​ è​​ e non per quella che​​ appare.​​ Ciò è possibile soltanto attraverso una guidata, ma personale e cosciente analisi critica che conduca alla formulazione di giudizi atti a “distaccare” dall’opera filmica, a vederla nel suo rapporto con i veri valori cristiani. E sarà il dibattito cinematografico che aiuterà a eliminare i falsi valori e ad assumere i valori autentici, integrandoli con le prospettive personali.

Se il linguaggio cinematografico è “il dire” di un essere umano (l’autore del film), c’è l’obbligo per lo spettatore di rispondervi da persona a persona; e dunque, da persona — secondo l’accezione dettata da Maritain — profondamente libera, non legata alle proprie emozioni, non psichicamente dipendente o condizionata.

b)​​ Ruolo del catechista.​​ Il catechista educatore deve essere in grado di risvegliare nel soggetto la capacità di analizzare, collegare, rapportare e sintetizzare le situazioni, i diversi momenti, le realtà che l’opera cinematografica rappresenta, per raggiungere lo spirito, il “verbum” del film. Se poi l’opera cinematografica è stata realizzata per far conoscere i contenuti della fede, allora se ne potrà far emergere, nel dialogo-dibattito, la risonanza che ha avuto nell’animo dello spettatore.

Si realizza allora un reale dialogo, un vero colloquio e un rapporto, senza soggettivazioni di sorta, che immette nella contemplazione sapiente e nel confronto tra la realtà rappresentata e il messaggio della salvezza, tra​​ l’oggi dell’uomo e la Parola di Dio.​​ Il cinema offre all’incontro catechistico soprattutto le problematiche umane, le uniche che toccano profondamente le fibre più nascoste dell’uomo: la propria vita, la realizzazione di sé come persona libera, tesa in comunione con gli altri e in reciproco potenziamento, nell’attuazione del destino proprio di ciascuno, che è amore salvifico di Dio.

c)​​ Sussidio” o “metodo” di comunicazione?​​ Il discorso, a livello cat., sembra facile, ma l’esperienza insegna che non lo è affatto. Le difficoltà da superare non sono poche, non ultime certi pregiudizi radicatissimi o certi semplicismi riguardanti il cinema quando lo si pone in prospettiva cat.-educativa. Il problema non è tanto quello di accettare o no il cinema come strumento per la C. Si tratta invece di porsi un problema molto più concreto e impegnativo: cioè di rispondere con un’attitudine positiva e creativa alle diverse possibilità che il cinema offre per comunicare Dio all’uomo del nostro tempo. Oggi si comincia a dubitare che gli strumenti audiovisivi (cinema, televisione, ecc.) siano soltanto un “sussidio” a “servizio” della C. e dell’educazione. Si concretizza ogni giorno di più il dubbio che tale concezione sia viziata in partenza, quindi non solo sia superata, ma contenga in se stessa una certa ambiguità frenante e perciò stesso negativa, rispetto ai fini di una C. fondata su una nuova pedagogia che tenga conto dell’uomo di oggi. L’assunzione del linguaggio delle immagini come semplice “sussidio” rischia di darci una C. non coinvolgente l’uomo e il giovane di oggi. Più che un sussidio si ritiene necessario considerare il cinema un “metodo di comunicazione”, alla pari degli altri linguaggi.

Tardy afferma che “cinema e televisione lanciano una sfida alla pedagogia e sono un invito costante a metterla in discussione, e a esercitare una critica radicale al riguardo” (cf M. Tardy,​​ Per una didattica dell’immagine,​​ Torino, SEI, 1968). La Chiesa e la C. si trovano di fronte a una umanità immersa nell’immagine e che dall’immagine trae la propria visione della vita e la gerarchia dei valori. Al punto in cui siamo, non è possibile limitarsi a disciplinare le cose offerte ai nostri occhi.​​ Bisogna educare lo sguardo.​​ La massima che Gide fa meditare a Nathanaele dice: “Che l’importanza sia nel tuo sguardo, non nella cosa guardata” (cf A. Gide,​​ Les​​ nourritures​​ terrestres,​​ Paris, Gallimard, 1921).

Il cinema offre agli educatori e ai catechisti la possibilità di “incarnare la Parola di Dio” nelle realtà del nostro tempo. Questo, è superfluo dirlo, non significa accettazione acritica del cinema e delle opere cinematografiche in particolare (cioè senza una analisi delle ideologie sottostanti, degli imperialismi culturali, della rettifica degli ideali di vita presentati); ma neppure è giustificabile il rifiuto totale, o la diffidenza ad oltranza, perché la creatività e la ricerca di una metodica e di una pedagogia, ancora tutte da inventare, vengono troppo a scuotere il letargo delle nostre certezze.

Bibliografia

A. Ayfre,​​ Contributi a una teologia dell'immagine,​​ Roma, Ed. Paoline, 1966; In.,​​ Verità e mistero del cinema,​​ ivi, 1971; P.​​ Babin,​​ L'audiovisivo e la fede,​​ Leumann-Torino, LDC, 1971; G. Bettetini,​​ La conversazione audiovisiva,​​ Milano, Bompiani, 1984; F. Cacucci,​​ Teologia dell’immagine,​​ Roma, Ed. “i 7”, 1971; B. Caporale,​​ Appunti per una pastorale sul cinema,​​ Presbyterium/Dehoniane, 1966; A. J.​​ Greimas​​ –​​ J. Courtes,​​ Sémiotique. Dictionnaire raisonné de la théorie du langage,​​ Paris, Hachette, 1979; M. Laeng,​​ L’educazione nella civiltà tecnologica,​​ Roma, Armando, 1984; A. Lucano,​​ Cultura e religione nel cinema,​​ Torino, Ed. ERI, 1975; M. Martin,​​ Le​​ langage cinématographique,​​ 7 art,​​ Paris,​​ Cerf,​​ 1962; C. Metz,​​ Semiologia del cinema,​​ Milano, Garzanti, 1972; In.,​​ Cinema e psicanalisi,​​ Venezia, Marsilio, 1980;​​ J. Peters,​​ L'educazione al cinema,​​ Roma, Ed. Paoline, 1968; D. Spoletini,​​ Mass media e catechesi,​​ ivi, 1976.

Barbara Giacomelli

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CINEMA

CIRILLO di Gerusalemme

 

CIRILLO di Gerusalemme

Cirillo di Gerusalemme ha legato il suo nome alle celebri C., passando così alla storia come il Catecheta e il Mistagogo per eccellenza. Egli fu vescovo di Gerusalemme in un periodo di tempo arroventato da dispute teologiche e da fazioni rivali, trovandosi spesso coinvolto, suo malgrado, nelle tortuose vicissitudini che travagliarono la Chiesa orientale. Sulla sua vita tormentata grava il giudizio negativo di autori antichi e moderni che hanno fatto pesare su di lui il sospetto di intrighi politici, di incoerenza e di connivenza con l’eresia ariana. Studi recenti però, in un riesame più critico e obiettivo della sua figura e del suo operato, gli riconoscono una sostanziale coerenza di fondo che non è mai venuta meno ai principi dell’ortodossia nicena.

1.​​ Vita.​​ Sul periodo di vita che precede l’episcopato di CI sappiamo quasi niente. La data di nascita si colloca generalmente intorno al 315 a Gerusalemme o dintorni. Qui egli ebbe un’accurata formazione letteraria ed ecclesiastica incentrata sullo studio della Sacra Scrittura. L’elezione episcopale è uno degli aspetti più oscuri della sua vita, poiché le fonti storiche al riguardo sono quanto mai confuse e contraddittorie. Sembra che Acacie, l’influente e intrigante metropolita di Cesarea di Palestina, sia intervenuto con l’appoggio del suo potente partito filoariano per mettere sulla sede episcopale di Gerusalemme CI, ritenuto vicino alle proprie posizioni (verso il 349).

I primi anni del suo episcopato furono sereni e fecondi. In questo periodo egli svolse con zelo un’intensa attività pastorale rivolta soprattutto alla formazione dei catecumeni tramite le C. Poi la tranquillità fu turbata a causa dei rapporti divenuti tesi con Acacie per motivi dottrinali e giuridici. In seguito a ciò egli venne deposto (357) e dovette subire un primo esilio (357-359) seguito da un secondo (360-362) e da un terzo più lungo (369-378). Finalmente potè ritornare a governare la sua Chiesa ristabilendovi la pace e l’unità. Nel 381 partecipò al Concilio ecumenico di Costantinopoli sottoscrivendone la formula di fede. Nella lettera sinodale scritta l’anno seguente a Roma, i vescovi orientali riconoscevano ufficialmente la piena ortodossia e i meriti di CI, come anche la legittimità della sua ordinazione episcopale più volte contestata.

2.​​ Le catechesi.​​ L’opera fondamentale, che ha immortalato la fama di CI, è costituita dalle sue celebri C. Si tratta di un corpo di 24 omelie così strutturate: la prima è introduttiva, detta perciò​​ Procatechesi​​ (= P); le 18 seguenti (da 2 a 19) sono le C.​​ Battesimali​​ (= B) rivolte ai​​ photizómenoi​​ o “illuminandi”, che erano i candidati ammessi alla seconda fase del → catecumenato e si preparavano immediatamente al battesimo; le ultime 5 (da 20 a 24) sono le C.​​ Mistagogiche​​ (= M) che introducevano ai misteri dell’iniziazione cristiana i​​ neofiti​​ appena battezzati. L’autenticità è comunemente ammessa per P e B, mentre è contestata quella di M. Vari studiosi infatti, soprattutto a motivo della tradizione manoscritta, preferiscono attribuire M al successore di CI, Giovanni II di Gerusalemme. Recentemente però gli ultimi studi tornano a restituirle a CI, anche se con una datazione posteriore. In mancanza di una edizione critica completa e aggiornata è forse prematuro dare un giudizio definitivo. A noi sembra, stando ai dati finora disponibili, che la paternità cirilliana di M sia abbastanza sicura, soprattutto perché le ragioni contrarie generalmente addotte non ci paiono così cogenti da infirmare le ragioni portate a favore.

Per la datazione, P e B risalgono al primo periodo dell’episcopato di CI, e furono tenute probabilmente nella quaresima del 350 nel​​ Martyrium​​ della Basilica del S. Sepolcro. Invece le M sono da porsi nell’ultimo periodo dell’attività episcopale di CI, e furono pronunciate nella rotonda​​ BAV Anàstasis.​​ Circa il contenuto, P è una C. previa di accoglienza; delle 18 B che seguono, la prima è introduttiva e parla delle disposizioni richieste per il battesimo, la seconda parla della​​ metanoia,​​ la terza del battesimo, la quarta dei dieci dogmi del simbolo, la quinta della fede, le 13 seguenti (da 7 a 19) sono una spiegazione continuata degli articoli del simbolo della Chiesa di Gerusalemme; le ultime 5 (da 20 a 24) sono le M, di cui la prima riguarda i riti precedenti il battesimo, la seconda il battesimo, la terza il crisma, la quarta il Corpo e il Sangue di Cristo, la quinta la liturgia della Messa.

3.​​ Il pensiero catechetico.​​ Condensare in poche righe il pensiero e il metodo cat. di CI è un’impresa ardua. Comunque, pur col rischio di una schematizzazione riduttiva, potremmo dire che la C. cirilliana si sviluppa attorno a tre nuclei fondamentali intimamente collegati fra loro. Un primo nucleo è​​ dottrinale,​​ costituito in gran parte dalla spiegazione del simbolo. Però, con fine intuito pedagogico, CI evita di proposito l’astrattezza delle formule teologiche per presentare invece ai catecumeni l’economia della salvezza introducendoli nel tessuto vivo di una storia di eventi e di persone. Di qui l’uso tipologico delle Scritture, viste sempre nell’unità sinfonica dei due Testamenti che portano al Cristo, il vero centro dell’universo cirilliano. Il secondo nucleo è​​ morale,​​ o meglio​​ vitale,​​ nel senso che il momento della legge del credere deve sfociare nella legge del vivere, trasformando così la condotta del catecumeno nella vita nuova del cristiano. Infine c’è il nucleo​​ mistagogico,​​ che realizza la sintesi dei primi due aspetti finalizzati da CI nell’oggi liturgico della celebrazione dei sacramenti dell’iniziazione cristiana, nei quali si compie ultimamente la salvezza di tutto l’uomo, corpo, anima e spirito. “Eri chiamato​​ catecumeno,​​ circondato da un suono esteriore​​ Iperiecumenop,​​ udivi la speranza, ma senza vederla; udivi i misteri, ma senza capirli; udivi le Scritture, ma senza vederne le profondità. Ora non è più un suono esteriore, ma interiore quello che riecheggia dentro di te (enecumenof,​​ perché lo Spirito che abita dentro fa della tua anima una dimora divina” (P, 6). Testo stupendo con cui CI, giocando sul termine catecumeno, riassume il processo formativo di una catechesi globale nello Spirito.

Bibliografia

1.​​ Opere

L’edizione fondamentale di P e B rimane ancora quella di W. C. Reischl – J. Rupe,​​ Cyrilli Hierosolymarum archiepiscopi opera quae supersunt omnia,​​ 2 vol., Monaco, 1848-1860 (Hildesheim 1967). Per M l’edizione migliore è quella di A. Piédagnel,​​ Cyrille de Jérusalem, Catéchèses Mystagogiques​​ (= Sources Chrétiennes, 126), Paris, 1966. È in preparazione una nuova edizione critica completa ad opera di E. Bihain. In ¡tal.: E. Barbisan, S.​​ Cirillo di Gerusalemme. Le Catechesi. Versione, introduzione e note,​​ Roma, 1966; 19772; A. Quacquarelli,​​ Cirillo e Giovanni di Gerusalemme. Le Catechesi ai misteri. Traduzione, introduzione e note,​​ Roma, 1977.

2.​​ Studi

A. Bonato,​​ La dottrina trinitaria di Cirillo di Gerusalemme,​​ Roma, 1983; A.​​ Paulin,​​ Saint Cyrille de Jérusalem catéchète,​​ Paris, 1959; F. Pini,​​ La Cristologia nelle catechesi prehattesimali di Cirillo di Gerusalemme,​​ in S. Felici (ed.),​​ Cristologia e catechesi patristica,​​ Roma, LAS, 1980, 111-120; E. Yarnold,​​ The Authorship of the​​ Mystagogic Catecheses​​ attributed to Cyril of Jerusalem,​​ in​​ Heythrop Journal”​​ 29 (1978) 143-161.

Ferdinando Bergamelli

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CIRILLO di Gerusalemme

CITTADINANZA

 

CITTADINANZA

Con il termine c. si indicano tanto la relazione tra un individuo e uno Stato quanto i diritti e i doveri che tale relazione comporta per l’individuo.

1. La c. moderna è il risultato di un duplice evento storico: l’affermarsi dell’idea di nazione (con la conseguente trasformazione dell’entità politica a cui gli uomini dovevano fedeltà: dalla città, dal clan, dall’aristocrazia alla nazione come entità geografica, culturale e politica) e la distruzione del sistema dei tre «stati» tipica dell’Ancien ré­gime​​ decretata dalla Rivoluzione francese con la conseguente affermazione del principio dell’uguaglianza giuridica di ciascun cittadino. Negli ultimi due secoli questa dimensione della c. si è, d’un lato, arricchita sul versante sociale (con la sempre più avvertita consapevolezza che senza uguaglianza sociale la stessa uguaglianza giuridica finisce per essere meramente formale) e, dall’altro, ha palesato evidenti limiti a fronte della realtà delle grandi comunità governate in modo rappresentativo.

2. Nella cultura politica contemporanea è possibile individuare – ragionando in termini molto schematici – alcune principali posizioni. La prima poggia sul presupposto che non sia più possibile nelle società postmoderne alcun tipo di c. «forte» e cioè poggiata su quel nucleo di valori etico-politici (come ad es. la nazione o i valori borghesi) su cui si è svolta per due secoli la cultura politica occidentale. Nel richiamare preferenzialmente la civiltà del cosmopolitismo ellenistico, anziché quella della​​ polis​​ greca, i sostenitori della c. «debole» rilanciano l’insegnamento di stoici ed epicurei che reputarono superato il modello politico-paidetico della​​ polis​​ e sostennero il valore dell’individuo indipendentemente dall’associazione politica di cui faceva parte. Inoltre essi condividono una concezione di Stato smagrito di qualsiasi contenuto ideale (e, dunque, molto diverso per es. dallo Stato-nazione otto-novecentesco) il cui compito principale dovrebbe essere quello di mediare i conflitti e garantire la molteplicità delle esperienze personali e le pari opportunità per ciascuno, sottraendo la c. a logiche normative, riconducendola ad una rete di rapporti egualitari basati sul reciproco riconoscimento (Habermas, Luhmann). Non mancano anche coloro che, pur riconoscendosi in questo contesto, reputano tuttavia necessarie alcune regole etico-politiche positive generali in grado di promuovere e conservare i valori della democrazia, giudicata il modello politico più perfetto (Bobbio). Negli ultimi anni, segnati dall’intensificarsi dei processi migratori e dal conseguente misurarsi e confrontarsi di culture, religioni, tradizioni diverse, si sono moltiplicati i tentativi per individuare un nucleo di «valori condivisi» o «valori comuni» (Maffettone, Veca, Viano) intorno ai quali elaborare una nozione di c. improntata al reciproco rispetto delle diversità. Questa posizione – che sta notevolmente influenzando i programmi scolastici di numerosi Paesi europei sulla scorta anche delle suggestioni di importanti documenti internazionali (tra tutti il cosiddetto Rapporto Delors,​​ Learning: the Treasure within, 1996) – si sta tuttavia scontrando con le tesi di quelle culture extra europee che rimproverano alla teoria dei «valori comuni» la sua matrice intrinsecamente illuministica ed eurocentrica.

3. Su posizioni del tutto diverse si muovono le tesi comunitariste (MacIntyre, Arendt, Sanders, Taylor) che ripropongono, invece, la validità dell’idea classica di c., prospettando l’esperienza comunitaria della​​ polis​​ greca come esemplare e la​​ Politica​​ di​​ ​​ Aristotele come un testo ancora in grado di parlare all’uomo contemporaneo. La c. è così vista in funzione dell’appartenenza alla comunità e nella prospettiva del bene comune ed è così in- tesa sia come categoria politica e sia come impresa educativa. I comunitaristi ipotizzano infatti uno stretto intreccio tra libertà, solidarietà e responsabilità individuali e comunitarie e le prassi, i riti, i processi socializzanti ed inculturanti attraverso cui essa si costituisce. Anche tra i comunitaristi esistono quanti avvertono tuttavia che l’ipotesi di c. ricca di ideali rappresenta certamente un fondamentale modello teorico, che risulta però di ardua praticabilità nella società complessa nella quale è difficile identificare un nucleo di valori comuni intorno a cui costruire un​​ ethos​​ comunitario. Per questi autori la c. comunitaria dovrebbe costituirsi in forme «societarie» (e non stataliste), facendo riferimento ai diritti dei singoli e dei gruppi sociali così come si realizzano nelle formazioni sociali autonome, quale che sia la loro sfera d’azione (economica, culturale, politica o sociale), intese come insieme o «rete» sociale capace di stabilire ed assicurare nuove e più significative relazioni all’interno della società (Donati).

4. Non è difficile constatare come i due principali modelli di c. oggi vivi nel confronto nella cultura contemporanea (universalistico-individualistico e comunitario) implicano approcci educativi molto diversi. Nell’ipotesi della c. universalistica dominano atteggiamenti formativi ispirati alla tolleranza, al senso di reciprocità delle esperienze, al pieno esplicarsi in senso per lo più individualistico delle attese e aspettative personali, al rispetto della diversità, considerata più come fatto individuale che come valore culturale e collettivo. Nel caso della c. comunitaria prevale, invece, la convinzione che tra la dimensione personale e quella storico-sociale della persona umana non c’è contraddizione e che anzi l’una integra l’altra (la libertà senza solidarietà sconfina nell’egoismo particolaristico). Le categorie pedagogiche prevalenti risultano perciò quelle dell’educazione alla responsabilità (intesa nel duplice senso di responsabilità personale e responsabilità comunitaria), al superamento di sé, alla partecipazione sociale, alla valorizzazione della «memoria» collettiva nella quale s’invera ciascuna esperienza personale.

5. Notevoli suggestioni in prospettiva educativa e pedagogica giungono anche dalle tesi di alcuni autori di ispirazione repubblicana (Gutman, Pettit, Skinner, Viroli) e non (Naval, Höffe) che hanno di recente rilanciato il motivo della «virtù civica» intesa come forma di appartenenza solidale alla società in cui si vive (il cosiddetto «cittadino attivo» o, nel linguaggio americano, il «cittadino patriota»). Lo scopo è quello di sfuggire al rischio intellettualistico connesso alla determinazione del valore condiviso. La virtù civica oltrepassa infatti il principio del valore condiviso, per coinvolgere in presa diretta il cittadino nell’esperienza della socialità civica. Le virtù civiche non pretendono che questi diventi una persona del tutto nuova, ma che più semplicemente sia capace di sacrificare il proprio interesse per il bene comune. Questo approccio di natura politologica manifesta punti di affinità – talvolta anche esplicitamente intrecciandosi – con le iniziative avviate negli Stati Uniti dal Movimento per l’educazione del carattere (tra i suoi maggiori esponenti va segnalato Thomas Lickona). L’obiettivo è quello di creare la «comunità morale» nel senso proposto da Kohlberg attraverso l’esercizio della volontà degli allievi, ponendoli di fronte a impegni severi e stimolandoli a raggiungere risultati eccellenti. Lo scopo è quello di aiutare gli allievi a conoscere l’altro come persona, a stimare i membri della comunità ed a sperimentare sensi di responsabilità verso il gruppo di appartenenza. La scuola della c. attiva non sarebbe perciò tanto o soltanto quella che si riconosce laicamente in alcuni valori condivisi, ma quella che lavora per sfuggire al rischio che la libertà personale si giochi insindacabilmente secondo il principio dell’autonomia il quale più cresce quanto più il soggetto si ritiene svincolato da un orizzonte che lo oltrepassa.

Bibliografia

Marshall T. H.,​​ C. e classe sociale,​​ Torino, UTET, 1976; MacIntyre A.,​​ Dopo la virtù. Saggio di teoria morale,​​ Milano, Feltrinelli, 1988; Damiano E. et al.,​​ L’educazione del cittadino,​​ Brescia, La Scuola, 1990; Lickona T.,​​ Education for character: how our schools can teach respect and responsibility, New York, Bantam Books, 1991; Bendix J., «C.», in​​ Dizionario delle scienze sociali,​​ vol. I, Torino, UTET, 1991, 772-777; Habermas J.,​​ Morale,​​ diritto,​​ politica,​​ Torino, Einaudi, 1992; Zincone G.,​​ Da sudditi a cittadini. Le vie dello Stato e le vie della società civile,​​ Bologna, Il Mulino, 1992; Donati P. P.,​​ La c. societaria,​​ Bari, Laterza, 1993; Kymlicka W.,​​ La c. multiculturale, Bologna, Il Mulino, 1999;​​ Putman R. D.,​​ Capitale sociale e individualismo. Crisi e rinascita della cultura civica in America, Bologna, Il Mulino, 2004;​​ Toso M.,​​ Democrazia e libertà: laicità oltre il neoilluminismo postmoderno, Roma, LAS, 2006.

G. Chiosso

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CITTADINANZA

CIVILTÀ

 

CIVILTÀ

Dall’antichità fino ai tempi più recenti la c. è stata generalmente considerata in un rapporto d’identità con la​​ ​​ cultura – intesa in senso prevalentemente classico-umanistico – in quanto designa la forma più alta della vita di un popolo.

1. Tale nozione si fonda sulla preferenza accordata a certi valori; privilegia certe particolari forme di attività o di esperienza umana, ritenute particolarmente indicative del grado di formazione umana e spirituale raggiunta da un popolo; e contemporaneamente esalta quei gruppi umani presso i quali tali forme di esperienza e di attività appaiono particolarmente sviluppate (Abbagnano, 1980, 130-131). Ad es., per i Latini, e per vari secoli,​​ civilitas​​ era la società dei cittadini: il​​ civis,​​ l’uomo della città, raffinato ed evoluto, è contrapposto al​​ ruralis,​​ ossia all’uomo esterno al mondo urbano, e per ciò stesso forestiero ed anche rozzo e villano. Tale concezione di c. ha sempre conservato una notevole connotazione aristocratico / elitaria, sia perché in genere solo una minoranza privilegiata riusciva ad accedere pienamente a tale ricchezza culturale, sia perché l’«uomo civile» tendeva a distaccarsi con disprezzo dal resto dell’umanità. Troviamo la qualifica di​​ volgo,​​ all’interno, di​​ barbari,​​ all’esterno, per designare gli esclusi o gli emarginati, nell’epoca greco-latina, medioevale, umanistico / rinascimentale, illuministica. Celebri, a questo riguardo, le affermazioni di Orazio:​​ Odi profanum vulgus et arceo​​ (Odi,​​ 3,1) e del poeta cristiano Prudenzio:​​ Tantum distant Romana et barbara quantum quadrupes abiuncta​​ est bipedi vel muta loquenti​​ (Contra Symmacum,​​ 2, 817-8).

2. Con l’affermazione della moderna borghesia, quale classe fortemente differenziata, fiorita con il Rinascimento ed esplosa con l’Illuminismo e il Positivismo, la​​ c.​​ ​​ cioè l’autoapprezzamento che si esprimeva nell’attribuzione della​​ civilitas​​ al proprio modo di vita e ai propri ideali, ossia alla propria cultura – «divenne piuttosto il metro sul quale la classe borghese misurava sia gli altri strati sociali, sia anche i popoli stranieri al di là dei propri confini» (Thurn, 1979, 34-35). Sorge così un imperialismo civilizzatore animato da tenace zelo missionario per insegnare ai popoli «non civilizzati» a recepire la cultura europea. Tale mentalità, fondata su una determinata gerarchia di valori e privilegiante l’Occidente cristiano, pur stemperandosi negli estremismi classisti e regionalisti, supporta il classico concetto di c. «come simbolo del traguardo più elevato che viene raggiunto dalle attività culturali degli uomini, di modo che lo si riserva ai livelli più progrediti, nutriti e affascinanti del progresso culturale, mentre lo si nega ai livelli più arretrati, che vengono anche definiti appunto incivili. In questo significato emerge l’aspetto deontologico della cultura superiore, come fonte di orientamenti morali qualificanti e come garanzia di status sociale rispettabile» (Mamo - Minardi, 1987, 638). Una traccia di questa mentalità permane ancora nei nostri giorni: «Alcuni autori riservano il termine c. a manifestazioni superiori e particolarmente importanti della cultura: in tale accezione, il grattacielo è “c.”, la capanna, “cultura”; la bomba atomica è “c.”, la freccia e il​​ boomerang​​ sono “cultura”» (Costanzo, 1988, 506-507).

3. Da quando poi si cominciò a usare il termine c. al plurale – come, per es., fa Toynbee (1889-1975), che lo contrappone a quello di «società primitive» per indicare le società con mondi culturali relativamente autonomi – il termine c. è impiegato semplicemente come​​ cultura​​ (in senso antropologico moderno). Del resto già il classico dell’antropologia culturale,​​ Primitive culture​​ (1871) di Taylor, nella nota definizione, parlava di «cultura o c.». In definitiva, quantunque il concetto di c. presso etnologi e antropologi continui talvolta a sottolineare uno stadio o grado (relativamente) più avanzato di sviluppo di una società, la dicotomia tra c. e cultura sembra non avere reali fondamenti, ragion per cui oggi i due termini vengono considerati comunemente come sinonimi. Oggi, in un contesto di​​ ​​ globalizzazione si parla di incontro tra culture e dialogo interculturale, ma anche di «scontro tra c.».

Bibliografia

Thurn H. P.,​​ Sociologia della cultura,​​ Brescia, La Scuola, 1979; Abbagnano N., «C.», in Id.,​​ Dizionario di filosofìa,​​ Torino, UTET, 1980, 131-133: Mamo D. - E. Minardi, «Cultura», in E. Demarchi - A. Ellena - B. Cattarinussi (Edd.),​​ Nuovo dizionario di sociologia,​​ Cinisello Balsamo (MI), Paoline, 1987, 635-642; Costanzo L., «La cultura», in M. Toscano (Ed.),​​ Introduzione alla sociologia,​​ Milano, Angeli, 1988, 489-525; Torrealta M. (Ed.),​​ Incontro e scontro di civiltà, Roma, EdUP, 2006.

M. Montani

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CIVILTÀ
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