CELEBRAZIONE

CELEBRAZIONE

Manlio Sodi

 

1. Uno spazio per il sacro

1.1. All’origine del termine

1.2. Celebrazione di avvenimenti

2. Celebrare la fede

2.1. Le componenti della celebrazione cristiana

2.2. La Pasqua, nucleo unificante

3. Dalla celebrazione alla vita come celebrazione

3.1. La proposta della liturgia

3.2. Condizioni

3.3. Metodo

4. Conclusione

 

L’odierno trapasso culturale non permette all’educatore di dare per scontati elementi che in altri tempi potevano apparire come pacificamente acquisiti dalla maggior parte dei fedeli, giovani compresi. Ad esempio, le sfide che il fenomeno della secolarizzazione ha lanciato nel recente passato, hanno interpellato anche la liturgia, coinvolgendo tempi, luoghi, oggetti, istituzioni, e soprattutto il complesso «pianeta giovani».

Il​​ revival,​​ inoltre, di una terminologia di matrice cultuale (liturgia, culto, celebrare...) nei più diversi linguaggi della vita odierna è segno non solo di un travaso terminologico da un codice linguistico (qual è quello liturgico) ad altri (sport, politica, ...), ma anche espressione del desiderio di riscoprire valori propri di una terminologia che sembrava avere l’esclusiva solo per l’ambito cultuale.

Qui prendiamo in considerazione la parola​​ celebrare​​ sia per la sua frequenza nei diversi linguaggi, e sia perché la riappropriazione dei contenuti che il termine comporta permette di comprendere meglio sia l’insieme dell’azione liturgica, che il rapporto tra liturgia e vita (e viceversa).

 

1.​​ Uno spazio per il sacro

Quando si accostano gli elementi che caratterizzano la​​ festa​​ si nota che essa appare come «un periodo di intensificazione della vita collettiva e dell’esperienza sociale» fino ad assumere «la fisionomia di un tempo sacro» che, attuandosi in forme drammatiche e spettacolari, «diviene, nella sua relazione con il modulo (mitico), azione rituale». Tale modulo mitico ( = celebrazione di una vicenda di origine dei beni culturali, o di un’impresa di liberazione, o di un fatto primordiale che assicura la continuità dei processi di produzione economica, agricoli, venatori, ecc.) opera «una​​ destorificazione​​ della vita del gruppo, il quale viene ricondotto ad una rappresentazione mitica del mondo», con lo scopo di reintegrare il gruppo stesso «nella realtà storica o mondana» e così «liberarlo dalle incertezze e dalle angosce presenti nelle crisi produttive» (A. M. di Nola,​​ Festa,​​ in «Enciclopedia delle religioni», vol. II, Vallecchi, Firenze 1970, 1585-1587).

Nell’ambito cristiano, porre un’azione denominata​​ celebrazione,​​ non implica riferimenti espliciti o impliciti a moduli mitici, a culti misterici, o tanto meno il recupero di situazioni di folklore, ma l’assunzione di «precisi fatti storici che sollevano la storia umana a storia di salvezza e che respingono il linguaggio mitico» (Ibid.,​​ 1588). Alla base del fatto celebrativo cristiano si trova pertanto «un solido fondamento antropologico» che affonda le sue radici «non solo nella realtà stessa dell’uomo e del suo mondo, ma specialmente nella natura specifica del rapporto religioso Dio-uomo... È proprio questo fondamento che, mentre da una parte consente alla ritualità cristiana di conservare immutata ogni sua più vera originalità, le consente, dall’altra, anche di rendersi interprete qualificata di ogni ordinata religiosità naturale» (E. Ruffini,​​ Celebrazione liturgica,​​ in «Nuovo Dizionario di Spiritualità», Paoline, Roma 1979, 154-155).

Nella storia religiosa dell’uomo la celebrazione costituisce, pertanto, il veicolo e il contenuto di una particolare esperienza spirituale. E tutto è mediato attraverso quel mondo di simboli (azioni, gesti, cose...) che caratterizzano in modo essenziale il rito religioso. In questo senso «la simbolicità non rientra più nella categoria dell’irreale, del non vero e del futile, ma diventa un nuovo e più profondo modo di vedere e di sperimentare la realtà e di situare sé stessi in un rapporto più costruttivo con le cose, con gli uomini e con Dio» (Ibid., p. 155).

 

1.1. All’origine del termine

Il valore di alcune indicazioni filologiche risiede solo nel fatto di evidenziare quei significati originari e derivati che il termine mantiene e sviluppa lungo il tempo, per ritrovare i significati odierni sia quando il termine è usato nel contesto religioso-cultuale, sia nel contesto decisamente profano. Originariamente​​ celeber​​ era un aggettivo che indicava un ambiente «frequentato, visitato, popoloso», o che qualificava persone e situazioni con termini come «solenne, magnifico, grandioso, famoso, glorioso, celebre».

Il corrispondente​​ celebrare​​ equivaleva anzitutto a «visitare spesso in folla un luogo»; inoltre a indicare la presenza e la partecipazione di molti che contribuivano a rendere un certo avvenimento ancora più solenne; riferito poi alle persone assumeva il significato di onorare, esaltare, glorificare, circondare di premura e di stima. In senso traslato infine il termine significava: usare, impiegare spesso, esercitare, praticare, ripetere, parlare spesso di qualcosa e quindi «rendere noto, annunziare». Il significato propriamente religioso si colloca al vertice dell’evoluzione semantica del termine, in quanto riunisce in sé l’idea di folla, di solennità, di culto e di lode.

Celebratio​​ assume in sé, sintetizzandoli, tutti questi significati, ed esprime: «affollamento, concorso numeroso, affluenza di persone» - «celebrazione, solennità» - «stima, pregio, favore».

Nel contesto specificamente cristiano​​ celebrano​​ è passato a caratterizzare pressoché esclusivamente un atto liturgico propriamente detto, secondo il senso di «compiere spesso un’azione insieme»; tale uso è sempre in stretto rapporto con la nozione di festa, con un qualcosa cioè che si stacca dal quotidiano.

 

1.2. Celebrazione di avvenimenti

Tra i tanti avvenimenti di cui è intessuta la vita di ogni giorno, ce ne sono alcuni che per la loro decisività si staccano dal quotidiano perché toccano o sottolineano aspetti essenziali: ricordano conquiste, attese; coinvolgono vita, morte, amore, gioia; chiamano in causa Dio. Si tratta di situazioni che sono vissute dalla persona e dal gruppo in un modo tutto particolare; e risultano caratterizzate da questi elementi:

— Il movente che sta all’origine di un particolare coinvolgimento è determinato da un​​ avvenimento passato: il fatto è ricordato perché la capacità di memoria che esso racchiude ha un’efficacia che supera il tempo e coinvolge con i suoi effetti i presenti.

— Un​​ gruppo dì persone​​ sono cointeressate e coinvolte nel fare particolare «memoria» di un determinato avvenimento.

— Al centro dell’attenzione è posto un elemento che appartiene al passato: il primo atteggiamento del gruppo è perciò quello di​​ fare memoria​​ dell’avvenimento ricordandolo, raccontandolo.

— Ogni memoria coinvolge inevitabilmente​​ l’oggi:​​ il fatto è evocato perché in qualche modo si ripercuote efficacemente nella vita del singolo e del gruppo, chiamando in causa valori essenziali e permanenti della vita e della storia.

— Nessuna realtà comunque, anche se caratterizzata dalla più ampia capacità evocativa, è tale da esaurire la perenne attesa dell’oggi: ogni memoria comporta sempre una prospettiva di​​ compimento​​ che il presente ancora non possiede.

— E tutto questo non è frutto di sforzo psicologico, ma di coinvolgimento della persona nella sua totalità. Ogni persona vive e agisce sempre in un contesto di​​ ritualità.​​ Per questo, la memoria di un avvenimento più o meno passato è evocata non solo attraverso la parola, ma anche con gesti e segni che, in forza della loro specifica capacità espressiva, contribuiscono a rendere ancora più efficace e attuale la memoria tanto da renderla un elemento di coagulo per il gruppo stesso.

— C’è infine un​​ clima​​ particolare, in genere festoso, che scaturisce dalla compresenza di vari elementi e segni, destinato a coinvolgere l’animo dei presenti; un clima che, se da una parte determina uno stacco dal quotidiano, dall’altra rinvia al quotidiano stesso ma con atteggiamento rinnovato. L’insieme di questi elementi lascia intravvedere le più diverse componenti e implicanze che entrano in gioco quando si pone in atto​​ un’azione​​ che con termine ormai usuale è detta​​ celebrazione.​​ Un’azione, cioè, che parte dalla vita e dalla sua storia per tornare di nuovo alla vita dopo aver operato una certa trasformazione della persona e del gruppo qualora vi si sia lasciati liberamente e consapevolmente coinvolgere.

Il passaggio ulteriore consisterà allora nel verificare lo specifico cristiano della celebrazione.

 

2.​​ Celebrare la fede

Liturgia e vita sono chiamate a trovare nell’ambito della celebrazione il punto di convergenza della loro sempre difficile dialettica. Tra le diverse epifanie della realtà ecclesiale (diakonia, kerygma, liturgia, koinonia), la liturgia appare come l’espressione rituale della fede che, proprio da questa ritualità, interpella con maggior forza la vita.

È doveroso dunque domandarsi: cosa è la celebrazione cristiana, quale ne è il senso, come si rapporta con la vita?

 

2.1. Le componenti della celebrazione cristiana

Gli elementi descritti sopra a proposito della «celebrazione» in genere li ritroviamo anche nella celebrazione cristiana, carichi però di una realtà nuova, anzi radicalmente nuova; una novità che chiama in causa soprattutto il contenuto che proviene direttamente dalla storia della salvezza. Infatti:

— Alla base del fatto celebrativo cristiano sta un​​ avvenimento​​ che è il nucleo della fede cristiana:​​ il mistero dì Cristo,​​ prefigurato nella storia di un popolo, realizzato in un determinato segmento di quella storia, e affidato alla Chiesa perché lo prolunghi nel tempo in modo da coinvolgere la vita di ogni persona.

— La struttura della celebrazione (che scaturisce da quella primordiale esperienza celebrativa descritta dei cc. 19-20 e 24 dell’Esodo) mette in evidenza gli​​ interlocutori:​​ Dio e il suo popolo; un popolo che è tale non per vincoli di sangue o di cultura, ma perché formato dalla realtà di quell’alleanza nuova stabilita nel sangue di Cristo.

— Il motivo per cui la comunità cristiana si riunisce​​ per fare memoria​​ non è determinato da un avvenimento qualunque, ma dallo stesso​​ avvenimento-Cristo​​ che costituisce il vertice degli interventi di Dio nella storia dell’umanità.

— La liturgia cristiana fa memoria dell’evento-Cristo perché la capacità evocativa del «fatto» è tale e così reale da incidere nell’oggi della persona e quindi della comunità. Ed è qui che il termine «memoria», rivelandosi incapace di esprimere ciò che di fatto la celebrazione realizza, è sostituito dal biblico «memoriale», la cui forza semantica permette di indicare un’azione che chiama in causa il passato per coinvolgere il presente in vista di un compimento futuro.

— Se il punto di partenza è il passato e l’elemento di costante verifica (oltre che di coinvolgimento) è il presente, il traguardo è tuttavia costituito dalla prospettiva di​​ un compimento futuro.​​ La memoria del passato è per l’oggi; ma ogni «oggi» rimanda continuamente verso una pienezza che raggiungerà il suo pieno compimento quando, superato l’oggi delle realtà visibili, l’umanità intera sarà entrata nell’oggi eterno di Dio.

— E tutto questo continua ad essere raccontato e compiuto in un contesto di​​ ritualità,​​ nel rispetto cioè delle diverse componenti della persona che comunica mediante le modalità del suo essere relazionale e dialogico. Gesti e segni hanno lo scopo di facilitare il rapporto tra l’oggi e il passato, e viceversa, e di proiettare verso un compimento. Il rito diventa allora il tramite che attualizza e rende operativa la Parola; esso è finalizzato ad un’esperienza oggettiva del mistero salvifico del Cristo, oltre che elemento portante per vivere l’esperienza unica e liberante del Cristo.

— Lo stacco dal quotidiano è determinato dal​​ clima di festa,​​ un clima che non è fine a sé stesso, ma che fa parte di un atteggiamento legato ad un’azione che si colloca al limite tra l’umano e il divino, e proprio per questo coinvolge tutte le fibre della persona.

 

2.2. La Pasqua, nucleo unificante

L’esperienza della celebrazione cristiana non ha lo scopo di soddisfare inconsce aspirazioni dell’animo umano, ma di far sì che la persona s’incontri con il mistero di Cristo quale termine unificante di ogni aspirazione e attesa dell’uomo di ogni tempo e luogo. La sua Pasqua infatti è il termine ultimo dell’attesa, ma anche il punto di convergenza dello sforzo di costruzione di una personalità pienamente realizzata in quanto opera una progressiva conformazione alla persona di Cristo, immagine del Padre.

Celebrare la fede non è dunque prolungare verso il nulla progetti e aspirazioni irrealizzabili, ma attuare la più profonda aspirazione dell’uomo, tipica del suo essere relazionale con Dio; sentirsi cioè costruttore e artefice del proprio oggi e domani.

 

3. Dalla celebrazione alla vita come celebrazione

La novità del culto cristiano consiste nel non essere più legato a Samaria o a Gerusalemme, ma nell’essere radicato nel cuore della persona, un culto cioè «in spirito e verità» (cf Gv 4, 20-24). L’offerta gradita a Dio è costituita da quel sacrificio spirituale di sé stessi che consiste nel comandamento dell’amore, nella realizzazione della giustizia, nell’offerta e nell’accettazione del perdono..., e che è celebrato nel tempio della vita. «È questo — scrive Paolo ai cristiani di Roma — il vero culto che gli dovete» (Rm 12,1).

Ma come è possibile «celebrare» questo contenuto di fede nelle realtà della vita? Come fare della vita una celebrazione? La liturgia ha una proposta da offrire? Vi sono delle condizioni che, unitamente ad un metodo, permettono di raggiungere questo traguardo senza limiti di età?

 

3.1. La proposta della liturgia

Celebrare Gesù Cristo, vita del cristiano, è rendere presente la sua Pasqua secondo un progetto che sia rispettoso dei ritmi di tempo e della vita della persona: un progetto in cui questi stessi ritmi sono progressivamente ricondotti ad unità.

I dinamismi della​​ sacramentaria​​ accompagnano la crescita e lo sviluppo della persona; i problemi e le realtà vissute nelle diverse tappe della vita sono progressivamente illuminati dalla prospettiva della Pasqua di Cristo. Riportare tutto questo nella dinamica pasquale è dare o restituire il senso alla vita stessa; è celebrare la vita, è esaltare, evocare, gioire, piangere, attendere, continuamente riprogettare le realtà di ogni giorno alla luce della vita che non tramonta.

La struttura​​ dell’anno liturgico,​​ che integra e completa la precedente, è tale da assumere e continuamente riproporre l’intero progetto di vita cristiana. Il contatto vivo e vivificante con la Pasqua di Cristo, infatti, non è affidato ad un momento puntuale (come per il sacramento), ma ad una serie di appuntamenti la cui struttura metodologica risponde alle leggi di crescita e di sviluppo della persona umana.

Aiutare il giovane a rapportare le diverse situazioni della vita al progetto del Padre è offrirgli la possibilità di operare una progressiva trasformazione interiore che Io orienti a collocare le realtà della vita in un’ottica pasquale. Ciò implica:

— un​​ itinerario educativo​​ per conoscere in modo sempre più profondo Cristo e i suoi misteri, per una conformazione sempre più piena al suo progetto di salvezza;

— l’assunzione della​​ liturgia come metodo di vita,​​ per ricondurre e situare le più diverse realtà del quotidiano nella logica di quel «mistero della vita» qual è appunto la Pasqua;

— il​​ superamento di frammentazioni​​ sia nell’orientamento che nelle scelte della vita, perché tutto possa essere ricondotto a quell’unitarietà che solo un progetto chiaro e globale può offrire e di fatto realizzare.

 

3.2. Condizioni

Il non facile traguardo è condizionato dalla compresenza di obiettivi intermedi e concomitanti che, se da una parte costituiscono la premessa per un particolare cammino, dall’altra offrono pure la garanzia per la continuazione e il compimento del progetto.

Il cammino di educazione, soprattutto in ambito giovanile, dopo un approccio che garantisca un minimo di scelta di vita in prospettiva cristiana, passa attraverso l’acquisizione di elementi che costituiscono altrettante condizioni per situare e continuare il discorso formativo:

— Una​​ conoscenza del Dio della Bibbia,​​ anzitutto: è Lui che, dopo essersi rivelato nel tempo fino a farsi storia della nostra storia, interpella con la sua Parola la piccola storia di ogni persona. È la base per ogni tipo di approccio al mistero cristiano e quindi per ogni forma di culto.

— La consapevolezza che Dio continua ad agire nella storia dell’umanità attraverso la​​ Chiesa, sacramento di salvezza.​​ L’incontro con il Dio che si è fatto storia è mediato, lungo il tempo, dalla ministerialità della Chiesa chiamata a trasformare la storia umana in storia di salvezza attraverso l’annuncio e l’attuazione sacramentale del regno di Dio.

— Se l’esperienza del mistero passa attraverso il rito, questo media la salvezza dell’uomo nel senso che la comunica, la rivela, ne dà la percezione, la fa sperimentare... Ciò comporta​​ un’educazione al linguaggio del segno e del rito​​ in modo che segno e rito costituiscano come un ponte (più facilmente percorribile) che metta in comunicazione il mondo dell’umano con quello del divino.

— Quello del​​ linguaggio​​ sembra essere, forse, il problema principale, perché qui il giovane incontra le difficoltà più forti. Da una parte, infatti, si domanda di essere il più possibile radicati nella vita, dall’altra ci troviamo di fronte a testi la cui matrice concettuale e verbale rinvia principalmente al linguaggio biblico.

— Tipico della celebrazione è un particolare​​ clima di festa​​ che scaturisce non dal desiderio di alienazione dalla ferialità (realtà frequentissima nel mondo giovanile, e non solo in esso), ma dalla certezza che chi invita a fare festa è quel Cristo «feriale» (deluso dagli apostoli, stanco, incompreso, morto e sepolto...) che si colloca davanti al credente come termine ultimo di ogni sua aspirazione e come reale incarnazione e trasfigurazione della sua speranza.

 

3.3. Metodo

Credo che sfiori l’utopia il poter offrire un metodo preconfezionato che presuma di far raggiungere ai destinatari gli obiettivi di cui sopra. Si dovranno ovviamente tener presenti gli elementi delineati in precedenza, ma il metodo è quasi tutto da riscrivere ogni volta che ci si trova a dover agire.

A questo livello è sufficiente ricordare i parametri essenziali che possono offrire il quadro di riferimento per una metodologia in ambito di pastorale giovanile:

— Accanto ai contenuti da trasmettere si devono considerare i​​ destinatari,​​ ma i giovani non si presentano come un destinatario omogeneo: la frammentazione si rileva anche nell’associazionismo, nello sforzo di fare gruppo. Ciò implica, in genere, l’elaborazione di programmi a breve durata o a medio raggio.

— Una simile situazione chiama in causa​​ itinerari diversificati​​ e comunque orientati a considerare almeno le condizioni essenziali per un iniziale cammino di formazione, destinato a trovare ulteriori sviluppi nella vita dell’adulto.

— È un dato pacificamente acquisito che l’esperienza del gruppo​​ o della comunità ristretta, è quella che meglio permette al giovane un itinerario formativo sia per la facilità di rapporto interpersonale, sia per un accesso più immediato ad un determinato contenuto da trasformare in esperienze di vita (si pensi all’apertura al linguaggio simbolico, alle forme più semplici di preghiera...).

— L’esperienza della celebrazione liturgica «ideale» va sempre condizionata a​​ momenti celebrativi intermedi,​​ quanto è suggerito a proposito delle celebrazioni con i fanciulli va mutuato per i giovani, e tenendo presente che l’eucaristia si pone sempre come il traguardo della partecipazione al mistero.

— In un settore formativo come questo giocano un ruolo fondamentale​​ celebrazioni liturgiche ben fatte.​​ La liturgia ha la capacità di educare a sé stessa nella misura in cui è vissuta e fatta vivere da coloro che hanno una particolare responsabilità al suo interno; la ministerialità e in genere le diverse forme ed espressioni dell’animazione restano comunque un passaggio obbligato per facilitare la partecipazione attiva dei giovani.

 

4.​​ Conclusione

Celebrare la fede equivale dunque a rapportare continuamente la proposta del progetto unificante e totalizzante di Dio con la situazione di disgregazione e di incertezza che il limite della vita evidenzia.

Una certa schizofrenia fra queste due realtà rimarrà sempre, anche se in misura diversa; ma è proprio dell’azione pastorale lo sforzo di trovare i modi e le forme per continuare a superare questa dicotomia che il giovane vive talvolta senza percepirla in modo riflesso. La pastorale liturgica si aggancia ai momenti celebrativi sia della struttura sacramentale come di quella dell’anno liturgico perché le componenti della ritualità e della ciclicità, unitamente ai contenuti che scaturiscono dal Dio della vita, contribuiscono alla realizzazione di quella sintesi totalizzante che di fatto va recepita come proposta per un orizzonte di significato.

La celebrazione diventa così una sintesi che non va contro la storia, ma che anzi rispetta e fa propria la storicità dell’esperienza umana perché è al suo interno che il giovane è chiamato a celebrare la memoria di colui che ha detto di essere l’alfa e l’omega di questa stessa storia.

 

Bibliografia

Aldazàbal J.,​​ Simboli e gesti. Significato antropologico, biblico e liturgico,​​ LDC, Leumann 1987;​​ Celebrare il mistero di Cristo,​​ Dehoniane, Bologna 1978;​​ La celebrazione cristiana: dimensioni costitutive dell’azione liturgica,​​ Marietti, Genova 1986;​​ Una fede per celebrare. Valore e significato della liturgia,​​ LDC, Leumann 1984; Novella G.,​​ Celebrare con le cose. 24 modelli di celebrazioni,​​ LDC, Leumann, 1986; Scouarnec M.,​​ Vivere, credere, celebrare,​​ LDC, Leumann 1984; Weidinger G. e N.,​​ Gesti, segni e simboli nella liturgia. Guida per la formazione liturgica dei fanciulli e ragazzi, e specialmente dei ministranti,​​ LDC, Leumann 1985.

 


 

CELEBRAZIONE

I. Significato e importanza cat. della​​ celebrazione

1.​​ Utilizzazione e significato del termine.​​ Il termine, oggi largamente utilizzato, ha un significato piuttosto ampio. Si celebra un anniversario, un avvenimento importante, la vita, quanto è stato condiviso durante una giornata, un sacramento. In ambito cat. spesso per Gel. si intende un momento pedagogicamente importante, destinato a interiorizzare e a esprimere nella preghiera una scoperta di fede maturata nella riflessione e nella ricerca di gruppo. Nello stesso ambito, tuttavia, è fondamentale intendere la Cel. — ed è il nostro caso — nel senso specifico di Cel. liturgica, considerata nella sua dimensione cat. e nel suo rapporto con la C.

2.​​ Un preciso riferimento cat.​​ Il rapporto tra Cel. e C. è ripetutamente emerso nel Sinodo del ’77 sulla C. e sottolineato nella CT di Giovanni Paolo II e nei più recenti documenti sulla C. di molte Chiese nazionali. Del resto, “perché ogni forma di C. si realizzi nella sua integrità è necessario che siano indissolubilmente unite: la conoscenza della parola di Dio, la celebrazione della fede nei sacramenti, la confessione della fede nella vita quotidiana” (Messaggio Sinodo ’77,​​ n. 11; cf CT 47; 18). Il rapporto Cel.-C., pur avendo conosciuto la fecondità di una sintesi vitale fin dai primi passi delle comunità cristiane e nell’antico catecumenato, non sempre è stato realizzato in termini adeguati. Oggi, tuttavia, sembra esistere al riguardo una maggiore attenzione e una rinnovata ricerca.

II. Cel. e c.: quale rapporto

1.​​ Dentro un processo unitario di iniziazione cristiana.​​ Cel. e C. fanno parte, entrambe, di un procedimento articolato e dinamico di iniziazione e di approfondimento nella vita di fede di una comunità. La C., in questo procedimento, rappresenta in un certo senso la parte più “illuminativa” e “motivazionale”: essa si caratterizza come educazione alla fede e “comprende in special modo un insegnamento della dottrina cristiana, generalmente dato in modo organico e sistematico, al fine di iniziare alla vita cristiana...” (CT 18). La Cel., invece, rappresenta la parte più simbolica: si esprime attraverso una prassi e mediante simboli, è carica di determinati significati salvifici e “agisce in pienezza per la trasformazione degli uomini” (CT 22). In essa la C. prende particolarmente vita e si fa “professione di fede in atto” (RdC 117).

2.​​ Dimensione cat. della Cel.​​ La Cel. può essere considerata una C. in atto, con linguaggio e modalità specifiche. Essa è parola di Dio per noi oggi, non solo perché questa viene proclamata al suo interno, ma perché tutta la Cel. con il suo complesso di gesti, segni e parole, è comunicazione viva del messaggio rivelato in Cristo e manifestazione del suo mistero. Elementi più esplicitamente cat. nella Cel. sembrano essere: la proclamazione della parola di Dio, la predicazione-omelia, le monizioni, le diverse preghiere e testi dei canti; ma gli stessi segni non verbali e il linguaggio simbolico hanno una loro propria valenza cat., anche quando possono non essere esplicitamente colti (altra è, ad es., la forza cat. e educativa di un gesto celebrativo autentico, altra quella di un gesto puramente formale). Tuttavia, pur avendo una funzione anche cat., la Cel. non può da sola rispondere a tutte le diverse esigenze cat. di una corretta pedagogia della fede. In ogni caso non manca chi sottolinea come in determinate situazioni, con particolare riferimento agli adulti, la Cel. possa risultare l’unico luogo di C.

3.​​ La C. inizia alla Cel.​​ La C., in quanto iniziazione alla vita ecclesiale e itinerario di maturazione graduale nella fede, ha il preciso compito di iniziare alla Cel. Essa è al servizio di una “piena, consapevole e attiva partecipazione alle Cel. liturgiche. In questo settore, oggi, la missione del catechista diviene quanto mai varia e decisiva per l’educazione dei credenti» (RdC 45; cf DCG 25; RdC 113-117; EN 43; CT 23). La C. ha il compito di preparare la Cel. dei sacramenti e di approfondire quanto nei sacramenti viene celebrato e vissuto. Nelle sue realizzazioni concrete la C. introduce in forme molteplici la dimensione celebrativa: riferimenti all’anno liturgico, alla Cel. dei sacramenti, e soprattutto dell’Eucaristia nel giorno di domenica, ai diversi segni della Cel. con i relativi atteggiamenti interiori. In particolare la C. può contribuire a far sì che siano Cel. di fede, dentro la vita e la storia, Cel. trasformanti e liberanti.

4.​​ La Cel. costituisce un preciso punto di riferimento per la C.​​ Il processo di crescita nella fede, che la C. intende favorire, è sempre, di fatto, “strutturato sacramentalmente” (cf CEF,​​ La catéchèse des enfants. Texte de référence,​​ 3.1.3) e legato a momenti celebrativi che ne esprimono il significato profondo. La Cel. diventa, di conseguenza, fonte e meta di C. La C., inoltre, ha bisogno del linguaggio simbolico e totale della Cel. per esprimere in modo più aperto e in profondità l’esperienza di fede.

5.​​ Per una sintesi più vitale e feconda.​​ Nella prassi, in riferimento al rapporto Cel.-C., non mancano certo difficoltà e limiti da superare. Se è bene distinguere le diverse dimensioni della vita cristiana, è pastoralmente dannoso separarle: tra Cel. e C. va quindi sviluppato un corretto e reciproco rapporto, rispettoso insieme della specificità e della complementarità di ciascuna. Una delle esigenze oggi più fortemente avvertite anche in campo cat. è quella di far sì che Cel. e C., insieme all’impegno di testimonianza, costituiscano aspetti complementari di un’unica pedagogia-esperienza maturante di fede. In questa prospettiva la Cel. potrebbe diventare il luogo per una sintesi unitaria del momento cat. con gli altri momenti di educazione alla fede.

Bibliografia

R. Coffy,​​ La célébration, lieu de l’éducation de la fai,​​ in «La Maison-Dieu” 35 (1979) 140, 25-40; E. Costa,​​ La celebrazione come catechesi integrale,​​ in “Rivista liturgica” 60 (1973) 633-653; C. Duchesneau,​​ La celebrazione nella vita cristiana,​​ Bologna, EDB, 1977;​​ J.​​ Gelineau,​​ Célébration​​ et vie,​​ in “La Maison-Dieu” 27 (1971) 106, 7-23; Id.,​​ Celebrare la liberazione pasquale,​​ in “Concilium” 10 (1974) 2, 135-150; G. Genero,​​ Catechesi e celebrazione liturgica,​​ in «Evangelizzare» 7 (1982) 292-310.

Sergio Pintor

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CELEBRAZIONE

CENTRO CATECHISTICO PAOLINO

 

CENTRO CATECHISTICO PAOLINO

Il CCP fu costituito nel 1952 per espresso desiderio del Fondatore delle Figlie di San Paolo: don Giacomo → Alberione, la cui direttiva era elaborare e aggiornare testi cat., secondo gli orientamenti ecclesiali del tempo, sollecitando anche la collaborazione di catecheti di notorietà nazionale. Nello stesso anno ebbe inizio la pubblicazione della rivista “Via Verità e Vita” (oggi monografica) che nacque come integrazione dell’attività editoriale cat. e come espressione della ricerca e delle esperienze del CCP.

Nel 1964 iniziava la pubblicazione della rivista “Catechisti parrocchiali”, diretta esclusivamente ai catechisti delle parrocchie allo scopo di curarne la formazione e l’aggiornamento. Don Alberione, quasi prevenendo gli orientamenti teologici della GS, così sintetizzò il progetto cat. da lui ideato, voluto e sostenuto: tutto l’uomo (mente, volontà, cuore) per portarlo tutto a Dio; tutto il Cristo: Verità da credere, Via da seguire, Vita che dobbiamo vivere; non un metodo, ma il metodo:​​ Gesù Cristo, Via Verità e Vita;​​ un catechismo completo: fede, morale, culto.

Questi slogan possono venire riespressi, senza forzature, col linguaggio di oggi: priorità della missione cat.; centralità di Cristo nella C.; antropologia cristologica alla luce della GS 22; universalità ed ecclesialità dell’annuncio attraverso catechismi differenziati e con l’uso di tutti i mezzi di comunicazione “...più celeri ed efficaci che il progresso fornisce, le necessità e le condizioni dei tempi richiedono” (Cost. F.S.P. n. 3).

Queste direttive del Fondatore costituiscono ancora la caratteristica dello spirito e dell’attività del CCP. Esso infatti, oltre a un centro di documentazione e di ricerca cat., dispone anche di uno studio grafico e di un centro audiovisivo in dinamico sviluppo per esprimere i valori cristiani con il linguaggio della C. attuale.

Accogliendo il discorso post-conciliare e riferendosi in particolare al RdC, il CCP continua la linea che don Alberione ha espresso con le sue intuizioni originali anticipando l’orientamento della Chiesa italiana, e con l’accentuazione — essa pure carismatica — dell’uso dei mezzi della comunicazione sociale per la catechesi.

Giovanna Grandi

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CENTRO CATECHISTICO PAOLINO

CENTRO CATECHISTICO SALESIANO – Leumann-Torino

 

CENTRO CATECHISTICO SALESIANO (di Leumann-Torino)

Fondato nel 1939 da don Pietro Ricaldone, Superiore Generale dei Salesiani di Don Bosco, come “Ufficio Catechistico Centrale Salesiano” a servizio della Congregazione, assume l’attuale denominazione di “Centro Catechistico Salesiano” (CCS) nel 1947, allargando il suo campo d’azione alla Chiesa italiana. Fin dagli inizi, scopo fondamentale del CCS è stato quello di sensibilizzare le comunità ecclesiali ai problemi della C. e dell’IR nella scuola, di preparare e aggiornare gli operatori attraverso corsi e convegni, di elaborare “strumenti di lavoro” per i catechisti e per i catechizzandi (in particolare: sussidi audiovisivi, testi e guide per la C. e per l’IR).

Per svolgere la sua mediazione cat. il CCS si è servito principalmente della rivista “Catechesi” (fondata già nel 1932), integrata poi — con sensibilità interdisciplinare — da altre riviste (attualmente: “Dossier Catechista”, “Diagroup”, “Rivista Liturgica”, “Parole di Vita”, “Dimensioni Nuove”, “Mondo Erre”, “Armonia di Voci”) e dalla produzione libraria e audiovisiva dell’Editrice Elle Di Ci​​ (fondata nel 1941 e strettamente congiunta al CCS). Nella sua storia il CCS è stato sempre guidato da due grandi istanze, derivanti rispettivamente dalla sua matrice salesiana e da quella ecclesiale italiana.

La​​ matrice salesiana,​​ con la sua spiccata sensibilità pedagogica, ha portato il CCS a sottolineare nell’impostazione della C. e dell’IR l’aspetto antropologico e quello specificamente metodologico (di qui la preoccupazione di “fedeltà all’uomo”, con l’attenzione all’esperienza, all’educazione della domanda religiosa, alla gradualità e progressione nella proposta cristiana, alla “motivazione umana” di essa, alla sua contestualizzazione interdisciplinare, a livello di scienze teologiche e di scienze umane; e, sul piano più direttamente operativo, l’attenzione all’età e alla situazione socioculturale del soggetto, alla creazione dell’ambiente adatto, alla vita di gruppo, al rapporto personalizzato tra educatore ed educando...).

La​​ matrice ecclesiale italiana​​ ha portato il

CCS a un deciso e leale inserimento nel movimento cat. italiano, impegnandosi ad approfondirne, ampliarne e diffonderne gli orientamenti, e proponendo stimoli originali di sviluppo. Circa il contributo dato dal CCS al movimento cat. italiano ricordiamo: l’apporto della rivista “Catechesi”, l’ampia e prolungata azione promozionale nelle varie diocesi italiane (corsi, conferenze, «Bienni Esperti di Pastorale Catechistica”, “Convegni Nazionali Amici di Catechesi”), l’attiva partecipazione al lavoro dell’Ufficio Catechistico Nazionale, in particolare per l’elaborazione del “Catechismo per la vita cristiana” (Documento-base “Il rinnovamento della catechesi”, e i singoli Catechismi per età) e per il rinnovamento dell’IR.

Bibliografia

E. Cesia,​​ Il contributo della Congregazione Salesiana alla crociata catechistica,​​ Colle Don Bosco CAsti), LDC, 1952;​​ Attività del CCS,​​ in “Catechesi” 32 (1963) 167, 1-8; 33 (1964) 210, 1-8; 34 (1965) 255, 1-7; 36 (1967) 343, 1-8; 38 (1969) 440. 14-23: 3S (1969) 455, 26-29; 39 (1970) 16, 19-30.

Pietro Damu

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CENTRO CATECHISTICO SALESIANO – Leumann-Torino

CENTRO GIOVANILE

 

CENTRO GIOVANILE

Vi è anzitutto una questione terminologica che va chiarita. Da una parte la dizione c.g. suppone di assumere il termine come sinonimo (o quasi) di​​ ​​ oratorio (nel qual caso il più delle volte si unificano i due con la terminologia di oratorio-c.g.); dall’altra si suppone una certa differenziazione che esamineremo.

1. Il primo caso è frequente soprattutto fuori Italia, in particolar modo nei Paesi di lingua spagnola. In questi il termine «oratorio» rimanda non alle esperienze ricche che si legano alla tradizione italiana, come ambiente che nel suo insieme risponde al programma di educazione cristiana integrale della gioventù, soprattutto nel tempo lasciato libero da altre istituzioni e passando attraverso le domande più diversificate dei giovani; al contrario esso sta a indicare un luogo di accoglienza di ragazzi e giovani per le sole attività del​​ ​​ tempo libero, e soprattutto per il gioco (come appare a prima vista entrando in un «normale» oratorio: il ricreatorio), oppure come appendice della parrocchia soprattutto per la catechesi dei ragazzi (oratorio), e dunque con connotazioni che potrebbero sapere di passato e di un certo clericalismo. Il termine c.g. allora renderebbe meglio, con la sottolineatura dei destinatari specifici, l’insieme del «progetto». I referenti dei termini diversi sono comunque la stessa realtà che si vuole indicare. Nella realtà italiana in effetti quando si utilizza la dizione ampia oratorio-c.g. è per indicare tutto quell’insieme di progettualità educativa a favore dei giovani stessi, diversificando al suo interno, per le diverse fasce di età, itinerari formativi, attività, metodologie, e sollecitando i giovani a diventare gruppo-circolo e ad aprirsi maggiormente all’impegno nel volontariato socio-politico e nell’animazione educativa.

2. Nel secondo caso (quando si vuole distinguere tra oratorio e c.g.), si intende esprimere, rispetto all’oratorio, una specifica differenziazione. E allora l’oratorio viene inteso come un ambiente indirizzato ai ragazzi (fino alla preadolescenza), con prevalente apertura alla massa, con livelli di appartenenza vari e spontanei, con speciale sottolineatura dell’aspetto ludico ed espressivo, dove l’educazione viene continuata nella forma della socializzazione assieme alle altre agenzie educative, soprattutto la famiglia, e dove l’educazione religiosa avviene soprattutto attraverso la catechesi sacramentale. Il c.g. viene invece pensato come ambiente destinato ai giovani, con un prevalente rapporto di gruppo (gruppi giovanili), con un’organizzazione e aggregazione più determinate e con un peso decisivo dell’impegno umano-cristiano.

3. Nei due casi sono naturalmente i destinatari che determinano la diversità della realizzazione. Si può dire che nel c.g. i giovani sono non solo destinatari, ma promotori, soggetti attivi, assieme agli adulti-educatori, della loro personale formazione ed elaborazione di un progetto di vita, chiamati in causa e sollecitati a liberare le loro risorse e potenzialità, in attivo scambio con le proposte culturali e religiose, con una decisa spinta alla scelta vocazionale. Le proposte dunque diventano più esigenti, le iniziative più diversificate, il grado di coinvolgimento più stretto. Volendo indicare alcuni settori specifici di questo impegno giovanile, si possono citare i seguenti: il settore educativo animativo, quello socioculturale, quello socio-politico, di impegno per lo sviluppo e di educazione al servizio (servizio civile, volontariato, anche missionario), di ricerca anche vocazionale.

4. Negli ultimi anni, in Italia, si è notevolmente ridotto l’utilizzo del termine «c.g.» riferito all’oratorio in cui operano da protagonisti anche i giovani, oltre ai ragazzi e agli adolescenti, anche perché la società civile e le istituzioni del territorio (associazioni, partiti politici, assessorati…) hanno dato vita a numerosi centri di aggregazione, ambienti di incontro per adolescenti e giovani (ma anche per ragazzi più piccoli), aconfessionali e destinati a occupare il tempo libero extrascolastico ed evitare che i ragazzi lo trascorrano in strada o a casa perlopiù da soli. La comunità territoriale infatti si è resa sempre maggiormente conto della necessità di occuparsi dell’educazione dei propri ragazzi e ragazze e di organizzarsi e organizzare luoghi adeguati di aggregazione, di offerte soprattutto in campo espressivo e ludico. Il C. promuove così l’incontro tra soggetti diversi e abilita a una capacità e qualità specifica: la «socialità». Esso si propone dunque come palestra e come setting in cui sviluppare abilità e competenze sociali, e insieme come luogo di espressione del riconoscimento del valore e del funzionamento dello spazio sociale.

Bibliografia

Orlando V.,​​ Il​​ c.g. nella Chiesa e nel territorio,​​ in «I Quaderni dell’Animatore» 18, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1985; CSPG,​​ Frontiere per gruppi giovanili,​​ Ibid., 1988; Id.,​​ Gruppi giovanili a servizio nella società,​​ Ibid., 1989; Vecchi J. E., «L’Oratorio salesiano: luogo di nuova responsabilità e missionarietà giovanile», in​​ L’Oratorio dei giovani: insieme per essere fedeli alla vocazione giovanile e popolare,​​ Roma, CISI, 1993, 55-72;​​ Atti del primo Meeting dei c. di aggregazione giovanile, Rovigo, 2006.

G. Denicolò

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CENTRO GIOVANILE

CERRUTI Francesco

 

CERRUTI Francesco

n. a Saluggia (Vercelli) nel 1844 - m. a Torino nel 1917, educatore e pedagogista italiano.

1. Di famiglia contadina, C. rimase orfano di padre a due anni; nel 1856 entrò come allievo nella prima istituzione educativa fondata da don​​ ​​ Bosco a Torino-Valdocco; si fece salesiano (1862) e fu ordinato sacerdote (1866). Ottenne il dottorato in lettere (1866) presso l’Università di Torino, dove ebbe come professore di antropologia e pedagogia​​ ​​ Rayneri. Nel 1885, chiamato al Consiglio generale dei​​ ​​ Salesiani, fu responsabile degli studi e della stampa. Rimase in carica fino alla morte, realizzando una significativa opera di organizzazione e promozione delle scuole salesiane e delle​​ ​​ Figlie di Maria Ausiliatrice.

2. La produzione letteraria di C. è ampia su svariati temi (letteratura, storia, religione, educazione e didattica); un centinaio di scritti riguardano argomenti pedagogici; fra di essi testi per gli istituti magistrali:​​ L’insegnamento secondario classico in Italia​​ (1882),​​ Storia della pedagogia in Italia​​ (1883),​​ Elementi di pedagogia​​ (1895),​​ Norme per l’insegnamento della aritmetica​​ (1897). C. collaborò in diversi giornali («L’Unità Cattolica», «La Stampa», «L’Italia Reale», «Il Momento») con scritti sulla politica scolastica del tempo e a difesa dei valori umanistici e cristiani della scuola. I suoi interventi furono apprezzati dal ministro della Pubblica Istruzione Paolo Boselli. Infine un nucleo significativo di scritti va individuato attorno al sistema preventivo:​​ Idee di don Bosco sull’educazione e sull’insegnamento​​ (1886),​​ Don Bosco educatore​​ (1898),​​ Una trilogia pedagogica: ossia Quintiliano,​​ Vittorino da Feltre e don Bosco​​ (1908),​​ Il problema morale nell’educazione​​ (1916).

3. L’autore è ritenuto il «sistematore delle scuole e degli studi» salesiani (Luchelli, 1917, 22) e «uno dei più fedeli interpreti del pensiero e del sistema pedagogico di D. Bosco» (Atti,​​ 1903, 151). Va ricordata anche la sua opera nell’ambito degli istituti educativi delle Figlie di Maria Ausiliatrice.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ Atti del III congresso dei Cooperatori salesiani,​​ Torino, Tip. Salesiana, 1903; F.C.,​​ Lettere circolari e programmi di insegnamento (1885-1917). Introduzione, testi critici e note a cura di J. M. Prellezo, Roma, LAS, 2006. b)​​ Studi: Luchelli A.,​​ Don F.C. consigliere scolastico generale della Pia Società Salesiana,​​ Torino, S.A.I.D., 1917; Prellezo J. M.,​​ F.C. direttore generale delle scuole e della stampa salesiana,​​ in «Ricerche Storiche Salesiane» 5 (1986) 127-164; Id.,​​ Paolo Boselli e F.C. Carteggio inedito (1888-1912), in «Ricerche Storiche Salesiane» 19 (2000) 87-123.

J. M. Prellezo

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CERRUTI Francesco

CERTIFICAZIONE DEGLI APPRENDIMENTI

 

CERTIFICAZIONE​​ DEGLI APPRENDIMENTI

1.​​ Introduzione.​​ La c.d.a. rappresenta un’azione tesa a descrivere in modo sistematico le acquisizioni della persona ed a registrarle in modo condiviso tra i diversi attori del sistema educativo e del mondo del lavoro, con l’indicazione delle esperienze (formali, non formali ed informali) su cui tali acquisizioni sono state formate. La c. si riferisce a due categorie di fenomeni: a) le​​ competenze​​ intese come fattori che qualificano il grado di autonomia e di responsabilità della persona a fronte di specifiche categorie di compiti / problema dal rilevante valore personale, sociale e professionale; b) nel contempo, essa specifica le​​ conoscenze​​ e le​​ abilità, ovvero le risorse di cui la persona si è impadronita e che ha saputo certamente mobilitare nel lavoro di soluzione dei compiti / problema indicati. Nella c.d.a. debbono essere evidenziati i livelli di padronanza delle competenze, che possono essere indicati per gradi progressivi: basilare, adeguato, eccellente.

2.​​ Spiegazione. La spinta finalizzata alla elaborazione di strumenti atti a certificare gli apprendimenti delle persone deriva da tre cause differenti: a) la necessità di garantire la leggibilità e la confrontabilità degli esiti dei percorsi di apprendimento da parte delle imprese che necessitano di personale da impegnare nella propria struttura, tenuto conto della perdita di valore delle tradizionali declaratorie professionali; b) la necessità di consentire – entro grandi sistemi economici e sociali qual è l’ambito dell’Unione europea – la riconoscibilità degli apprendimenti così da consentire la mobilità delle persone ed il loro accesso ai vari sistemi sociali ed economici propri dei diversi stati nazionali; c) la necessità di finalizzare i percorsi formativi a vere e proprie competenze, ovvero non solo al sapere, ma alla sua attivazione effettiva da parte del soggetto nei contesti reali di impegno e dei compiti-problema che questi evidenziano.

2.1. In campo​​ scolastico​​ la c. mira a sollecitare un approccio per competenze e quindi a superare una metodologia eccessivamente centrata sulla didattica disciplinare per trasferimento di nozioni ed abilità, aprendo la strada ad una formazione più autentica in cui la persona è chiamata a confrontarsi con situazioni reali – più o meno problematiche – che sollecitano la sua attenzione, responsabilità e attivazione al fine di giungere ad una soluzione idonea e soddisfacente. Tali competenze della persona sono dimostrate dalla natura dei problemi fronteggiati, dalla metodologia di intervento, dalla capacità di superare crisi e difficoltà, dalla riflessione discorsiva sulle esperienze attraverso un linguaggio pertinente ed in grado di evidenziare tutti gli aspetti in gioco e quindi di «dimostrare» concretamente l’effettivo possesso del sapere.

2.2. In campo​​ professionale, la c. richiede innanzitutto un’intesa preliminare tra organismi formativi e strutture dell’economia intorno ad un metodo di descrizione delle competenze e ad un repertorio di profili professionali di riferimento per l’azione formativa; inoltre esige una convergenza di sforzi e di strumenti al fine di qualificare il percorso formativo con esperienze virtuali o reali entro le quali la persona sia sollecitata alla mobilitazione delle proprie capacità e risorse; infine richiede un’intesa circa la valutazione ed in particolare la validazione delle competenze acquisite, che rivestono in tal modo un significato non solo legale, ma sostanziale e condiviso. In tal modo la valutazione-c. non si realizza in rapporto a standard «scritti sulla carta», ma in riferimento alla concreta realtà di esercizio delle competenze indicate con il coinvolgimento diretto dei partner sociali. L’azione di c. non può pertanto essere concepita come una mera compilazione amministrativa di schede, ma rappresenta un’azione complessa di natura autenticamente sociale, tesa a soddisfare i seguenti criteri: a) la​​ comprensibilità​​ del linguaggio, che deve riferirsi – in forma narrativa e non quindi in modo stereotipato – a locuzioni e sintagmi che consentano ai diversi attori di visualizzare le competenze descritte; b) l’attribuibilità​​ delle competenze al soggetto tramite l’indicazione delle evidenze che consentano di contestualizzarle entro processi reali in cui egli è coinvolto insieme ad altri attori; c) la​​ validità​​ dei metodi adottati nella valutazione e validazione delle competenze stesse, con specificazione del loro livello di padronanza.

2.3. Circa il​​ modello di c., si prevedono normalmente due fattispecie: a) La c. è​​ legale​​ quando si riferisce al titolo di studio posseduto e indica il rapporto tra il possesso di tale titolo e l’effettiva padronanza delle acquisizioni che vi sono implicate. In tal modo l’atto certificativo risulta un’aggiunta – una sorta di appendice – rispetto alle prassi valutative ed amministrative proprie dei titoli di studio. b) La c. è​​ sociale​​ quando il certificato cui ci si riferisce rappresenta una documentazione composita che consente di rendere trasparente – quindi leggibile entro categorie comprensibili – la dotazione della persona di capacità, saperi, abilità e competenze, in riferimento alle esperienze entro cui queste si sono formate.

2.4. Nel caso italiano, la funzione certificativa risulta variamente citata nelle leggi relative al sistema educativo ed al mercato del lavoro, anche se il sistema difetta di una vera e propria​​ istituzione​​ di tale funzione, con l’indicazione degli organismi e delle figure professionali cui è fatta carico e delle metodologie e con la precisazione del valore di tali certificati per la persona che li possiede come pure degli impegni per i vari organismi una volta che questa esibisca documenti attestanti la sua preparazione. Infatti, l’oggetto della c. non va visto solo in chiave dichiarativa, ma anche valutativa. In questo secondo significato, esso rappresenta un​​ credito formativo, ovvero l’attribuzione alla specifica acquisizione certificata di un​​ valore esigibile​​ presso un organismo formativo, in vista del raggiungimento di uno specifico titolo. Essa quindi presenta un valore di accessibilità oltre che di risparmio del tempo previsto per coloro che non possiedono le acquisizioni dimostrate nel certificato.

2.5. Il​​ peso reale​​ (in termini di accesso alle azioni formative e di risparmio di tempo) di tale valore viene attribuito da parte dell’organismo ricevente, se questo riconosce la c. emessa da quello inviante ed attribuisce a questa c. un valore in ordine ad un quadro metodologico e descrittivo dei fenomeni oggetto dell’atto certificativo. Di conseguenza, il semplice rilascio di un documento certificativo da parte di un qualsiasi organismo non rappresenta di per sé un credito; perché un credito sia tale bisogna che ci sia un «potere» che lo riconosce o che impone alle organizzazioni coinvolte di riconoscerlo. Tale potere risulta da un’intesa condivisa dai diversi attori, in forza della quale si definiscono i criteri di individuazione delle acquisizioni ed il percorso formativo e relativo livello entro cui la persona può indirizzarsi.

2.6. I crediti formativi sono pertanto da intendere in senso sostanziale, ovvero non solo in riferimento allo sforzo necessario in termini di tempo per soddisfarli (è questa la concezione universitaria del credito), ma precisamente agli apprendimenti effettivamente posseduti e validamente accertati. Il credito inteso in senso sostanziale non può essere gestito tramite processi automatici. Esso richiede un approccio discreto, in grado di attribuire alla documentazione attestante gli apprendimenti il giusto valore in termini di personalizzazione del percorso formativo. Ciò richiede comunque un dialogo ed una negoziazione tra i soggetti coinvolti (organismo inviante, organismo ricevente, persona interessata). Ciò definisce un metodo di lavoro necessariamente relazionale e dialogico-narrativo.

Bibliografia

Schön D. A.,​​ Il professionista riflessivo, Milano, Dedalo, 1983;​​ Aubret J. - F. Aubret - C. Damiani,​​ Les bilans personnels et professionnels, Paris, Éditions Eap-Inetop, 1990;​​ Cepollaro G. (Ed.),​​ Competenze e formazione, Milano, Guerini & Associati, 2001; Comoglio M.,​​ La valutazione autentica e il portfolio, paper, Roma, 2001;​​ Ajello A. M. (Ed.),​​ La competenza, Bologna, Il Mulino, 2002;​​ CIOFS / FP,​​ Prova di valutazione per la qualifica: addetto ai servizi di impresa, Roma, 2003.

D. Nicoli

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CERTIFICAZIONE DEGLI APPRENDIMENTI
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