CARATTERE

 

CARATTERE

Lo studio del c. è stato di notevole interesse per psicologi, pedagogisti ed educatori, anche se il concetto è rimasto sempre poco preciso e definito. Basterebbe un elenco di definizioni date nel tempo dagli studiosi per capire l’ampiezza entro cui esse si muovono e, in conseguenza, la poca precisione del termine. Si va da definizioni che puntano su caratteristiche quasi congenite e comunque fisse e stabilizzate, a caratteristiche legate al mondo dei​​ ​​ valori e delle​​ ​​ credenze del soggetto interessato.

1. Frequentemente il termine c. è associato a quello di temperamento, dando al primo un peso più «psicosociale» e legato all’educazione e all’ambiente, e al secondo un significato più «somatopsichico» e congenito. Il c., inoltre, ha frequentemente una connotazione morale, assente completamente nelle definizioni di temperamento. Volendo portare agli estremi le varie posizioni degli studiosi potremmo dire che, per alcuni, il c. è qualcosa di strutturale; per altri è qualcosa di reattivo pur garantendo un minimo di «coerenza»del comportamento.

2. Senza impegnarci in un’esegesi delle varie definizioni, ma allo scopo di confermare quanto fin qui detto, eccone alcune, storiche e contemporanee. Per F. R. Paulhan (1902) il c. è «ciò che fa che una persona sia se stessa e non un’altra». Per​​ ​​ Spranger (1927) «il c. è la diversa tipica attitudine assunta dalla persona, di fronte a valori quali quello estetico, economico, politico, sociale, religioso». Molto significativa, nella sua sinteticità, è la definizione di A. Niceforo (1953): «c. è l’io in società». Una delle definizioni che sembra più completa e convincente è quella di R. Diana. Per questo studioso, c. è «l’insieme delle disposizioni congenite e di quelle stabilmente acquisite che definiscono l’individuo nella sua completa attitudinalità psichica e lo rendono tipico nel modo di pensare e di agire». Questa definizione contiene due aspetti significativi della condotta dell’individuo: unità (modo di agire coerente) e stabilità (unità continuata nel tempo). In altre parole, il c. sarebbe una strutturazione psicologica di natura reattiva all’ambiente. Da queste definizioni si coglie bene l’interesse pedagogico della conoscenza del c. e l’attenzione prestata a questa realtà individuale da parte degli educatori di tutti i tempi: atteggiamento di fronte ai valori e disposizioni stabilmente acquisite sono due dimensioni di notevole portata formativa.

3. Nonostante ciò, la sua connotazione di staticità ha reso lo studio del c. meno attuale con il progredire della psicologia dinamica e della personalità (termine, quest’ultimo, molto più usato oggi al posto di c.), che, tuttavia, il termine c. lo ha sempre usato: basti ricordare Freud che, già nel 1908, fece il passaggio da «sintomo» nevrotico a «c.» nevrotivo, comprendendo che il sintomo era radicato nel c. dell’individuo e che l’azione terapeutica doveva essere rivolta al c. e non al sintomo.

Bibliografia

Paulhan F. R.,​​ Les caractères,​​ Paris, Alcan, 1902;​​ Spranger E.,​​ Lebensformen. Geisteswissenschaftliche Psychologie und Ethik der Persönlichkeit,​​ Halle, Niedermeyer,​​ 1927; Niceforo A.,​​ Avventure e disavventure della personalità e dell’uomo in società,​​ Milano, Bocca, 1953; Diana R.,​​ Guida alla conoscenza degli uomini. Tipologia caratterologica,​​ Roma, Paoline, 1964; Fedeli M.,​​ Temperamenti e personalità: profilo medico e psicologico,​​ Cinisello Balsamo (MI), Paoline, 1992; La Marca A.,​​ Educazione del c.​​ e personalizzazione educativa a scuola, Brescia, La Scuola, 2005.

M. Gutiérrez

image_pdfimage_print
CARATTERE

CARATTERE

 

CARATTERE

Lo studio del c. è stato di notevole interesse per psicologi, pedagogisti ed educatori, anche se il concetto è rimasto sempre poco preciso e definito. Basterebbe un elenco di definizioni date nel tempo dagli studiosi per capire l’ampiezza entro cui esse si muovono e, in conseguenza, la poca precisione del termine. Si va da definizioni che puntano su caratteristiche quasi congenite e comunque fisse e stabilizzate, a caratteristiche legate al mondo dei​​ ​​ valori e delle​​ ​​ credenze del soggetto interessato.

1. Frequentemente il termine c. è associato a quello di temperamento, dando al primo un peso più «psicosociale» e legato all’educazione e all’ambiente, e al secondo un significato più «somatopsichico» e congenito. Il c., inoltre, ha frequentemente una connotazione morale, assente completamente nelle definizioni di temperamento. Volendo portare agli estremi le varie posizioni degli studiosi potremmo dire che, per alcuni, il c. è qualcosa di strutturale; per altri è qualcosa di reattivo pur garantendo un minimo di «coerenza»del comportamento.

2. Senza impegnarci in un’esegesi delle varie definizioni, ma allo scopo di confermare quanto fin qui detto, eccone alcune, storiche e contemporanee. Per F. R. Paulhan (1902) il c. è «ciò che fa che una persona sia se stessa e non un’altra». Per​​ ​​ Spranger (1927) «il c. è la diversa tipica attitudine assunta dalla persona, di fronte a valori quali quello estetico, economico, politico, sociale, religioso». Molto significativa, nella sua sinteticità, è la definizione di A. Niceforo (1953): «c. è l’io in società». Una delle definizioni che sembra più completa e convincente è quella di R. Diana. Per questo studioso, c. è «l’insieme delle disposizioni congenite e di quelle stabilmente acquisite che definiscono l’individuo nella sua completa attitudinalità psichica e lo rendono tipico nel modo di pensare e di agire». Questa definizione contiene due aspetti significativi della condotta dell’individuo: unità (modo di agire coerente) e stabilità (unità continuata nel tempo). In altre parole, il c. sarebbe una strutturazione psicologica di natura reattiva all’ambiente. Da queste definizioni si coglie bene l’interesse pedagogico della conoscenza del c. e l’attenzione prestata a questa realtà individuale da parte degli educatori di tutti i tempi: atteggiamento di fronte ai valori e disposizioni stabilmente acquisite sono due dimensioni di notevole portata formativa.

3. Nonostante ciò, la sua connotazione di staticità ha reso lo studio del c. meno attuale con il progredire della psicologia dinamica e della personalità (termine, quest’ultimo, molto più usato oggi al posto di c.), che, tuttavia, il termine c. lo ha sempre usato: basti ricordare Freud che, già nel 1908, fece il passaggio da «sintomo» nevrotico a «c.» nevrotivo, comprendendo che il sintomo era radicato nel c. dell’individuo e che l’azione terapeutica doveva essere rivolta al c. e non al sintomo.

Bibliografia

Paulhan F. R.,​​ Les caractères,​​ Paris, Alcan, 1902;​​ Spranger E.,​​ Lebensformen. Geisteswissenschaftliche Psychologie und Ethik der Persönlichkeit,​​ Halle, Niedermeyer,​​ 1927; Niceforo A.,​​ Avventure e disavventure della personalità e dell’uomo in società,​​ Milano, Bocca, 1953; Diana R.,​​ Guida alla conoscenza degli uomini. Tipologia caratterologica,​​ Roma, Paoline, 1964; Fedeli M.,​​ Temperamenti e personalità: profilo medico e psicologico,​​ Cinisello Balsamo (MI), Paoline, 1992; La Marca A.,​​ Educazione del c.​​ e personalizzazione educativa a scuola, Brescia, La Scuola, 2005.

M. Gutiérrez

image_pdfimage_print
CARATTERE

CARATTEROLOGIA

 

CARATTEROLOGIA

La c. non è certamente di moda, e viene sempre meno presa in considerazione dagli studiosi delle differenze (individuali e di gruppo) del​​ ​​ comportamento. Il calo di interesse per la c. è indubbiamente legato ai limiti intrinseci che essa presenta nel suo intento classificatorio e nella sua staticità, ma è contemporaneamente legato allo sviluppo della psicologia dinamica e della personalità, anche se questa non ha mancato di prendere in considerazione sia l’aspetto classificatorio del carattere che la possibilità di collegare questa tipologia a specifici interventi psicoterapeutici: basti ricordare quanto scritto nella voce «carattere» sul pensiero di Freud e, più recentemente e solo a titolo di esempio, gli studi di Bioenergetica.

1. Lo studio del​​ ​​ carattere nella sua struttura, nei suoi elementi costitutivi, nei fattori che lo influenzano (c. generale) e nei suoi tentativi classificatori in base a elementi comuni (c. speciale) ha comunque costituito un valido tentativo di avvicinamento al singolo individuo, mettendo in risalto elementi caratterizzanti ma paragonabili con altri. Senza addentrarci in approfondite analisi si può dire che le principali scuole caratterologiche hanno avuto alla base dei loro tentativi di classificazione o il tipo (​​ tipologia) o il tratto (​​ tratti di personalità), considerati isolatamente, in rapporto tra essi, con maggiore o minore intensità di presenza.

2. Sono stati molti i criteri in base ai quali le varie scuole hanno costruito le loro classificazioni. Ad es., tratti caratterologici legati a strutture biologiche (bilioso, sanguigno, linfatico, ecc.); ad atteggiamenti generali di approccio alla realtà (introverso, estroverso; oggettivo, soggettivo); alla morfologia (macrosomico, microsomico; endomorfo, mesomorfo, ectomorfo; leptosomico, atletico, picnico); alla patologia mentale (schizotimico, ciclotimico). Qualsiasi caratteristica psicologica, per essere presa in considerazione per una classificazione tipologica, dovrebbe possedere alcuni requisiti: essere di rilievo e bene definita; avere un’altra caratteristica antagonista; indicare qualcosa di sufficientemente stabile; essere un centro nodale con altre caratteristiche ad essa collegate e da essa, in qualche modo, dipendenti.

3. Nonostante i limiti che presenta qualunque tentativo di «classificare» una persona, non si può negare che le varie scuole caratterologiche abbiano dato un notevole contributo allo sviluppo della​​ ​​ psicologia differenziale e abbiano dato un prezioso apporto agli educatori aiutandoli a cogliere almeno alcune caratteristiche significative dei loro educandi e ad impostare azioni educative che tenessero conto di particolari esigenze individuali (Roldán). L’individuazione dei soggetti «più tipici»; la possibilità di avere uno schema di osservazione uguale per tutti, favorendo i confronti; la possibilità di arrivare alla conoscenza di caratteristiche «nascoste» attraverso quelle più facilmente rilevabili, sono tutti elementi che costituiscono un aiuto per l’educatore nella sua azione di orientamento e indirizzo.

Bibliografia

Bertin G. M.,​​ La c.,​​ Milano, Bocca, 1951; Lorenzini G.,​​ Lineamenti di c. e tipologia applicate all’educazione,​​ Torino, SEI, 1954; Allers R.,​​ Psicologia e pedagogia del carattere,​​ Ibid., 1960;​​ Roldán A.,​​ Introducción a la ascética diferencial,​​ Madrid, Razón y Fe,​​ 1960; Rohracher H.,​​ Elementi di c.,​​ Firenze, Giunti Barbera, 1970; Lowen A.,​​ Il linguaggio del corpo,​​ Milano, Feltrinelli, 2006.

M. Gutiérrez

image_pdfimage_print
CARATTEROLOGIA

CARATTEROLOGIA

 

CARATTEROLOGIA

La c. non è certamente di moda, e viene sempre meno presa in considerazione dagli studiosi delle differenze (individuali e di gruppo) del​​ ​​ comportamento. Il calo di interesse per la c. è indubbiamente legato ai limiti intrinseci che essa presenta nel suo intento classificatorio e nella sua staticità, ma è contemporaneamente legato allo sviluppo della psicologia dinamica e della personalità, anche se questa non ha mancato di prendere in considerazione sia l’aspetto classificatorio del carattere che la possibilità di collegare questa tipologia a specifici interventi psicoterapeutici: basti ricordare quanto scritto nella voce «carattere» sul pensiero di Freud e, più recentemente e solo a titolo di esempio, gli studi di Bioenergetica.

1. Lo studio del​​ ​​ carattere nella sua struttura, nei suoi elementi costitutivi, nei fattori che lo influenzano (c. generale) e nei suoi tentativi classificatori in base a elementi comuni (c. speciale) ha comunque costituito un valido tentativo di avvicinamento al singolo individuo, mettendo in risalto elementi caratterizzanti ma paragonabili con altri. Senza addentrarci in approfondite analisi si può dire che le principali scuole caratterologiche hanno avuto alla base dei loro tentativi di classificazione o il tipo (​​ tipologia) o il tratto (​​ tratti di personalità), considerati isolatamente, in rapporto tra essi, con maggiore o minore intensità di presenza.

2. Sono stati molti i criteri in base ai quali le varie scuole hanno costruito le loro classificazioni. Ad es., tratti caratterologici legati a strutture biologiche (bilioso, sanguigno, linfatico, ecc.); ad atteggiamenti generali di approccio alla realtà (introverso, estroverso; oggettivo, soggettivo); alla morfologia (macrosomico, microsomico; endomorfo, mesomorfo, ectomorfo; leptosomico, atletico, picnico); alla patologia mentale (schizotimico, ciclotimico). Qualsiasi caratteristica psicologica, per essere presa in considerazione per una classificazione tipologica, dovrebbe possedere alcuni requisiti: essere di rilievo e bene definita; avere un’altra caratteristica antagonista; indicare qualcosa di sufficientemente stabile; essere un centro nodale con altre caratteristiche ad essa collegate e da essa, in qualche modo, dipendenti.

3. Nonostante i limiti che presenta qualunque tentativo di «classificare» una persona, non si può negare che le varie scuole caratterologiche abbiano dato un notevole contributo allo sviluppo della​​ ​​ psicologia differenziale e abbiano dato un prezioso apporto agli educatori aiutandoli a cogliere almeno alcune caratteristiche significative dei loro educandi e ad impostare azioni educative che tenessero conto di particolari esigenze individuali (Roldán). L’individuazione dei soggetti «più tipici»; la possibilità di avere uno schema di osservazione uguale per tutti, favorendo i confronti; la possibilità di arrivare alla conoscenza di caratteristiche «nascoste» attraverso quelle più facilmente rilevabili, sono tutti elementi che costituiscono un aiuto per l’educatore nella sua azione di orientamento e indirizzo.

Bibliografia

Bertin G. M.,​​ La c.,​​ Milano, Bocca, 1951; Lorenzini G.,​​ Lineamenti di c. e tipologia applicate all’educazione,​​ Torino, SEI, 1954; Allers R.,​​ Psicologia e pedagogia del carattere,​​ Ibid., 1960;​​ Roldán A.,​​ Introducción a la ascética diferencial,​​ Madrid, Razón y Fe,​​ 1960; Rohracher H.,​​ Elementi di c.,​​ Firenze, Giunti Barbera, 1970; Lowen A.,​​ Il linguaggio del corpo,​​ Milano, Feltrinelli, 2006.

M. Gutiérrez

image_pdfimage_print
CARATTEROLOGIA

CARCERE

 

CARCERE

Il c., inteso come luogo di detenzione, è un’istituzione piuttosto recente nella storia.

1. Prima del XIX sec. si ricorreva frequentemente a forme punitive il cui effetto deterrente e dissuasivo consisteva o nelle pene fisiche (torture, lavori forzati...) o in quelle di tipo economico (confisca dei beni, ammende...), mentre per i reati più gravi veniva applicata la condanna a morte. Il c. moderno si fonda invece sulla logica della privazione della «libertà» al fine di rieducare / risocializzare il soggetto che ha «deviato» dalla norma. L’effetto-pena trova applicazione in questo caso nel «luogo» utilizzato per mandare ad effetto tale deprivazione (appunto, il penitenziario), mentre la gravità del reato viene misurata in base al «tempo» durante il quale il cittadino è privato della libertà.

2. Nell’affrontare il tema della funzione educante del c. il legislatore ha tenuto a sottolineare che: «Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi...» (art. 1, Cap. I del​​ Trattamento penitenziario).​​ Questo processo che ha permesso di passare da pene disumanizzanti (come erano in passato quelle fisiche) a forme meno umilianti per la condizione umana e per di più mirate al recupero del soggetto trasgressivo, richiede tuttavia di verificare se sono stati effettivamente raggiunti quegli scopi rieducativi per i quali è stato introdotto l’odierno istituto di pena. Se si misurano i risultati finora conseguiti in rapporto ai fenomeni di recidività dei comportamenti trasgressivi di chi è stato oggetto di un trattamento carcerario, la risposta è doppiamente negativa: un tale trattamento, così come viene attuato oggi, non solo non costituisce un deterrente al reato, ma in genere non serve alla funzione rieducativa / risocializzante del soggetto deviante dalla norma, dal momento che l’istituzione carceraria, pur in presenza di una legislazione innovativa, nella maggior parte dei casi ancora oggi non risponde ai fini per i quali è stata istituita, per cui in pratica perde la sua funzione «correttiva».

3. Il punto debole dell’attuale sistema carcerario va individuato anzitutto nel continuare ad assolvere prioritariamente ad una funzione custodialistica. E fin quando una istituzione («totale», come la definisce Goffman) ricorrerà a metodi repressivi, di emarginazione ed isolamento, è chiaro che essa potrà difficilmente avanzare la pretesa di essere uno strumento riabilitativo nei confronti di un soggetto da rieducare, dal momento che è essa stessa causa di disadattamento. Al suo interno vengono meno infatti quelle condizioni innovative previste dalla legge per assolvere agli scopi rieducativi / risocializzanti: le misure alternative riguardano una parte della popolazione carceraria, il lavoro rimane per molti un «sogno», le nuove figure professionali, le quali dovrebbero operare nel c. con funzioni rieducative, in realtà risultano a tutt’oggi insufficienti ed infine mancano veri e propri programmi d’intervento coordinati tra le differenti parti deputate alla riabilitazione morale e sociale del soggetto in trattamento carcerario.

4. La sfida futura di una società che intende essere «democratica» nel pieno senso del termine consisterà perciò nella capacità di saper recuperare il «deviante» lungo il graduale passaggio da forme penitenziarie chiuse / isolate a quelle sempre più aperte e decentratrate nel sociale; fino ad arrivare a proporre una parziale e, chissà, anche totale eliminazione dell’attuale sistema carcerario. Studi e ricerche promosse in ambienti penitenziari (CNOS-FAP, 1989) hanno permesso di rilevare che il c. non è un’isola né deve stare nelle isole; che dare la «morte sociale» al cittadino non assolve alla funzione di riequilibrio dell’ecosistema sociale; che il lavoro è un «diritto per tutti» tanto più per chi intende riscattare la propria posizione di «ristretto»; ed infine che a questa «apertura delle c.», mirata al recupero integrale del soggetto deviante, non può rimanere estraneo il territorio nelle sue variegate componenti, pubbliche e private, le quali sono parte integrante di un «corpo sociale» ove ciascun individuo ha il dovere morale e sociale di assolvere ad un compito di responsabilità nei confronti delle componenti meno sane del sistema.

Bibliografia

Morrone A.,​​ Il trattamento penitenziario e le alternative alla detenzione, Padova, CEDAM, 2003; Santarelli G.,​​ Pedagogia penitenziaria e della devianza, Roma, Carocci Faber, 2004; Benecchi D. (Ed.),​​ Dei diritti e delle pene, Modena, Sigem, 2004; Ferrario G.,​​ Psicologia e c., Milano, Angeli, 2005; Anastasia S. - P. Gonnella,​​ Patrie galere, Roma, Carocci, 2005; Astarita L. (Ed.),​​ Dentro ogni c. Antigone nei 208 istituti di pena italiani. Quarto rapporto sulle condizioni di detenzione, Ibid., 2006.

V. Pieroni

image_pdfimage_print
CARCERE

CARISMA

 

CARISMA

Il c. si può definire come una relazione di potere fra una guida ispirata e i suoi seguaci, che riconoscono in essa e soprattutto nel suo messaggio la promessa di un ordine nuovo a cui essi aderiscono con una convinzione intensa. Per il leader carismatico che occupa una posizione del tutto centrale in un determinato gruppo di adepti o in una comunità emozionale, il messaggio è al tempo stesso una missione.

1. Il termine c., dal gr.​​ charisma​​ (grazia divina), è stato usato in sociologia per primo da E. Troeltsch (1912) e poi approfondito da​​ ​​ Weber (1922). Il c. è il potere straordinario di alcuni personaggi che possiedono un fascino particolare sugli altri. Esso è senz’altro diverso dal potere di un burocrate e si definisce per il suo carattere straordinario, sovrumano e sovrannaturale. Il carismatico è un «inviato da Dio» o da una forza eccezionale. Per lui non sono importanti tanto i compiti da svolgere, che sono vari e molto diversi, ma è importante piuttosto il modo, lo stile con cui realizzare la sua missione. Egli non dispone di un apparato organizzativo, economico o coercitivo perché l’obbedienza è assicurata attraverso la persuasione. L’opposto di un capo carismatico è il tiranno che governa attraverso la forza e la paura, oppure un governante al quale si obbedisce, indipendentemente dalle sue capacità personali.

2. Nel linguaggio corrente c., popolarità e contagio emotivo sono considerati sinonimi: tuttavia, a livello scientifico le differenze non mancano. Un individuo popolare non pretende niente; invece il capo carismatico è molto esigente. Così il c. non è riducibile alla popolarità anche se molte volte è associato a manifestazioni diffuse di entusiasmo. Il potere carismatico è sempre molto personale e per questo rende fragile l’istituzionalizzazione. Gesù è stato un capo puramente carismatico durante tutta la vita. Il carismatico, come portatore di c., ha su molti un fascino che si fonda probabilmente sull’apprezzamento dei comportamenti e delle prestazioni, ma che si sposta poi gradualmente sulla mera esistenza di essi. Così i carismatici, per il fatto stesso di esserci, contano e sono socialmente importanti; soddisfano i bisogni di dipendenza, di comportamenti individuali e collettivi e tendono a diventare criterio di verità e di valore. In tal senso, nel bene e nel male, i portatori di c. vengono ad avere una loro significatività educativa.

Bibliografia

Troeltsch E.,​​ Die Soziallehren der Christlichen Kirchen und Gruppen,​​ Tübingen, Mohr, 1912; Weber M.,​​ Wirtschaft und Gesellschaft,​​ Ibid., 1922; Eisenstadt S. N.,​​ Max Weber​​ on charisma and institution buildings.​​ Selected papers,​​ Chicago, University of Chicago Press, 1968; Ardigò A.,​​ Crisi di governabilità e mondi vitali,​​ Bologna, Cappelli, 1980; Alberoni F.,​​ Movimento e istituzione,​​ Bologna, Il Mulino, 1981; Tedeschi E.,​​ Per una sociologia del millennio. David Lazzaretti: c. e mutamento sociale,​​ Venezia, Marsilio, 1989; Tuccari F.,​​ C. e leadership nel pensiero politico di Max Weber, Milano, Angeli, 1991.

J. Bajzek

image_pdfimage_print
CARISMA

CARITÀ

 

CARITÀ

1.​​ “Carità” è un termine tipico del vocabolario cristiano del quale bisogna mettere in luce la realtà profonda che intende esprimere, riscattandolo da alcune accezioni troppo ristrette o paternalistiche che si riscontrano nel linguaggio quotidiano (fare la carità, le opere di carità, ecc.). Come la fede e la speranza, anche la carità può essere meglio compresa a partire da esperienze umane fondamentali; nel caso della carità, a partire dalla capacità umana di ricevere e di donare amore. Per potersi realizzare, e sviluppare le sue potenzialità latenti, ogni uomo ha bisogno di essere e di sentirsi amato. E proprio dall’”essere amati” comincia per molte persone una vita nuova, mentre la mancanza di amore può condurre a pericolose involuzioni della personalità.

Possiamo ora cercare di chiarire il significato cristiano della carità. Essa designa anzitutto l’amore che discende da Dio e si espande sugli uomini. Tale gratuito amore si manifesta soprattutto nell’incarnazione di Gesù Cristo e nella sua vicenda di morte e di risurrezione. San Giovanni è, fra gli autori del NT, colui che ha espresso questa concezione con maggior insistenza e profondità, condensandola in alcune frasi incisive e pregnanti: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv​​ 3,16); “L’amore è da Dio” (1 Gv​​ 4,7); “In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1 Gv​​ 4,8; cf anche​​ 1 Gv​​ 4,9.16); «Dio è amore» (1 Gv​​ 4,8). Il fatto di essere stati amati da Dio in Cristo ci dischiude la possibilità di amare a nostra volta: “Carissimi, se Dio ci ha amati, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri» (1 Gv​​ 4,11).

Dovrebbero bastare queste citazioni per rettificare una mentalità abbastanza diffusa che riconduce il cristianesimo a un messaggio etico incentrato sull’amore al prossimo. Se così fosse, il cristianesimo dovrebbe essere pensato come una nobilissima esortazione in più nel mondo, ma non potrebbe essere buona novella. Esso invece è tale proprio perché annuncia che Dio si rivela e si comunica agli uomini come amore, e perché ci assicura che in tal modo ci viene donata la capacità divina di amare.

2.​​ Non è solo san Giovanni a dire che la carità è anzitutto l’essere amati da Dio che fa sorgere in noi la possibilità di amare Dio e il prossimo. I temi veterotestamentari della elezione e del patto attestano infatti l’amore assolutamente gratuito di Iahvè per Israele, un amore che i profeti hanno espresso con le forti e delicate immagini della vita coniugale e familiare (Or 2,19-20;​​ Is​​ 2,2; 49,15-16; 54,6-8;​​ Ger​​ 2,2;​​ Ez​​ 16; ecc.). Nei Sinottici Gesù parla dell’amore di Dio verso tutte le sue creature (Mt​​ 5,45; 6,25-32), racconta parabole che attestano l’amore perdonante del Padre (Le 15,11-32), e dimostra questo amore con la sua concreta azione verso i peccatori, gli ammalati, i poveri e gli emarginati.

San Paolo ravvisa nella morte e risurrezione di Cristo la prova suprema di amore di Dio verso l’umanità peccatrice (Rm​​ 5,8;​​ 8,3139;​​ Ef​​ 1,4-11; ecc.). Secondo l’apostolo “l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm​​ 5,5; cf anche​​ Rm​​ 8,14-16 e​​ Gal​​ 4,6). Lo Spirito ci rende capaci di rapporti filiali con Dio. Esso inoltre ci fa liberi, cioè capaci di “camminare secondo lo Spirito” (Gal​​ 5,16), e di amare il prossimo: “Mediante la carità mettetevi al servizio gli uni degli altri. Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso” (Gal​​ 5,13s; cf anche​​ Ef​​ 5,1-2).

3.​​ Noi possiamo e dobbiamo amare, essendo stati amati da Dio e gratificati del dono dello Spirito. Amare Dio anzitutto. Il Deuteronomio richiede ad Israele un amore sincero verso Dio consistente nel riconoscimento pratico di Iahvè come unico Signore, facendo la sua volontà e osservando i suoi comandamenti (Dt​​ 6,4-5; 10,12-13; ecc.). Alcuni testi dell’AT insistono sulla necessità che Dio intervenga sul cuore dell’uomo affinché possa amare Iahvè come si deve (Dt​​ 30,6;​​ Ger​​ 31,31-33;​​ Ez​​ 36,25-28). L’amore di Israele verso Dio viene espresso soprattutto col vocabolario della fede che comporta fiducioso abbandono al Dio dell’alleanza.

Gesù accoglie l’insegnamento di​​ Dt​​ 6,5 sul primo (Afe) e più importante (Mt)​​ comandamento di amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente (cf​​ Mc​​ 12,28-34 e par.). San Paolo esprime solitamente la risposta umana “al Dio dell’amore e della pace” (2​​ Cor​​ 13,11) col termine → fede. Raramente parla espressamente di amore verso Dio (Rm​​ 8,28;​​ 1 Cor​​ 2,9; 8,3). È risaputo però che per Paolo la fede autentica comporta l’amore trattandosi di un rapporto filiale di fiducia e di abbandono. Anche san Giovanni predilige il vocabolario della fede per caratterizzare la relazione fondamentale dell’uomo verso Dio e verso Cristo. Non mancano però i testi nei quali si parla dell’amore verso Cristo (Gv​​ 10,14-15;​​ 14,2123;​​ 15,9.13-14; 16,27).

4.​​ I testi più noti del NT sono quelli che inculcano l’amore verso il prossimo. Il cristianesimo viene appunto presentato come la religione dell’amore, della fraternità. Ciò è vero a patto che si inserisca il precetto dell’amore al prossimo nella dinamica dell’amore divino. Altrimenti il cristianesimo resta soltanto un’etica. Gesù congiunge strettamente amor di Dio e amore del prossimo (cf​​ Mc​​ 12,28-34 e par.). Il giudaismo contemporaneo già conosceva la sintesi dei due amori, “ma nessuno prima di Gesù aveva equiparato con tanta lucidità e forza i due comandamenti richiamando i testi di​​ Dt​​ (6,5) e​​ Lv​​ (19,18) e interpretandoli come espressione dell’orientamento fondamentale da assumere nei confronti del regno che bussa alle porte dell’esistenza umana e della storia” (G. Barbaglio 1977, 104). Così pure era già nota la “regola d’oro”, ma era espressa al negativo, mentre Gesù la formula al positivo: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo ad essi; questa è infatti la legge e i profeti” (Mt​​ 7,12; cf​​ Lc​​ 6,31). Già la legislazione di Israele aveva superato una comprensione puramente etnica del prossimo, aprendosi allo straniero dimorante in Israele (cf​​ Lv​​ 19,34). Gesù però rompe decisamente ogni particolarismo religioso ed etnico, invitando a farsi prossimo di chiunque giace nel bisogno (cf​​ Lc​​ 10,29-37). L’amore si estende anche ai nemici (Lc​​ 6,27-36 e​​ Mt​​ 5,38-48).

Per san Paolo la risposta per eccellenza dell’uomo a Dio è la fede con la quale si accoglie la giustificazione (cf​​ Rm​​ 4,16). E tuttavia, in Cristo conta “la fede che opera per mezzo della carità” (Gal​​ 5,6), con la quale ci si mette gli uni al servizio degli altri (Gal​​ 5,14), non avendo altro debito se non quello di un amore vicendevole in cui si riassume tutta la legge (Rm​​ 13,8-10). Non dobbiamo però fraintendere l’insegnamento dell’apostolo: per lui l’imperativo etico dell’amore al prossimo si fonda sulla carità, frutto dello Spirito Santo (cf​​ Rm​​ 5,5;​​ Gal​​ 5,22). La carità inoltre, sempre secondo Paolo, dev’essere ciò che anima i rapporti all’interno della Chiesa (cf​​ 1 Cor​​ 8,1-2;​​ Gal​​ 5,13; ecc.). Fra i vari doni dello Spirito (carismi) la carità è la via migliore, senza la quale parole e azioni eccellenti non sono nulla (cf​​ 1 Cor​​ 13). La carità appartiene, con la fede e la speranza, alle cose che rimangono, “ma di tutte più grande è la carità” (1 Cor​​ 13,13). Degli scritti di san Giovanni già abbiamo parlato (n. 1). È evidente in essi la dinamica discendente dell’amore, come risulta, ad es., da​​ 1 Gv​​ 4,11: «Se Dio ci ha amati, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri” (cf anche​​ 1 Gv​​ 3,16s; 4,7.8). Ecco perché Gesù parla di un “comandamento nuovo” secondo il quale i suoi discepoli devono amarsi come egli li ha amati (Gv​​ 13,34). La novità sta in quel “come”: bisogna amare il prossimo come e perché Cristo ci ha amati (cf anche​​ Gv​​ 17,11.21-23). Ne deriva, secondo la parola di Gesù, che “tutti sapranno che siete miei discepoli se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv​​ 13,35). In conclusione: per Giovanni la vita cristiana si compendia nella fede in Cristo e nel fraterno e operoso amore vicendevole (1 Gv​​ 3,23).

5.​​ Sant’Agostino ha mirabilmente spiegato che nella C., che illustra le azioni di Dio culminanti in Cristo, tutto dev’essere fatto convergere nell’amore di Dio verso di noi, e nell’amore nostro verso Dio, ordinando l’esposizione secondo un crescendo che, partendo dalla fede e passando attraverso la speranza, arrivi alla carità (De Catechizandis rudibus,​​ 8). Fino a che punto, nel corso dei secoli, la C. sia stata fedele a questa prospettiva è difficile dirlo. Si ha l’impressione che, soprattutto nell’epoca moderna, ci sia stata nella C. una prevalente preoccupazione dottrinale-contenutistica per quanto concerne la fede, e precettistica (il → Decalogo) per quanto concerne la morale, non riservando sempre al “primato della carità” la posizione che gli compete. Le recenti indicazioni del magistero assegnano grande importanza al tema della carità (CT 5; RdC 30; 47-48).

6.​​ La carità, non disgiunta dalla fede e dalla speranza, fa comprendere a fondo la vera natura del cristianesimo. Già abbiamo ricordato la diffusa tendenza a interpretare i Vangeli come un messaggio morale, come un insegnamento su ciò che è bene e male nel comportamento umano, anziché come un “vangelo”, annuncio della misericordia, del perdono e della grazia di Dio. Ne deriva che Gesù diventa “maestro di buoni costumi o, al massimo, un esempio da imitare, ma non il Salvatore, dalla cui opera dipende il nostro destino” (Non di solo pane,​​ 237). Certamente la morale fa parte del messaggio di Gesù, “ma non ne costituisce il nocciolo centrale. Costituisce piuttosto l’illustrazione delle conseguenze concrete che l’annuncio del regno deve produrre nelle varie situazioni della vita” (ibid.,​​ 59). Proclamando il regno, Gesù “annuncia da parte di Dio un’inaudita volontà di perdono e riconciliazione, di amicizia e gratuita familiarità, una solidarietà e una presenza nuova di Dio accanto agli uomini” (ibid.,​​ 65). È quanto mai necessario che la C. conservi al messaggio cristiano la sua caratteristica di buona novella da accogliere nella​​ fede​​ e da vivere nell'amore.​​ In altre parole: l’autentica presentazione del cristianesimo è di natura​​ teologale​​ prima che​​ morale.​​ Per questo sarà necessario mostrare l’intima connessione fra la fede, la speranza e la carità, alle quali già alcuni testi del NT riconducono la vita cristiana (1 Ts​​ 1,3; 5,8;​​ 1 Cor​​ 13,13;​​ Col​​ 1,4-5;​​ Gal​​ 5,5-6).

7.​​ Fede, speranza e carità si implicano vicendevolmente, e costituiscono “un’indivisa realtà vitale” (J. Alfaro,​​ Problematica teologica attuale della fede,​​ in «Teologia» 6 [1981] 223): esse infatti si riferiscono a un unico evento che è l’intervento salvifico di Dio nella storia culminante in Cristo. Tale evento è contemporaneamente la​​ rivelazione​​ definitiva di Dio, la​​ promessa​​ della salvezza ventura, la suprema comunicazione​​ A’amore​​ che Dio fa di sé all’uomo. Alla rivelazione corrisponde da parte dell’uomo la​​ fede​​ come fiducia (credo in) e come accettazione del messaggio. Alla promessa corrisponde la​​ speranza​​ come attesa della salvezza ventura e fiducia sulla base del già realizzato in Cristo. All’amore di Dio corrisponde la donazione dell’uomo a Dio​​ nell’amore fiducioso.​​ “È quindi la fiducia ad accomunare vitalmente la fede, speranza e carità, cioè proprio quella dimensione dell’esistenza cristiana che si caratterizza come riconoscimento della gratuità assoluta della rivelazione, promessa e autodonazione di Dio in Cristo, della grazia come grazia. Fede, speranza e carità mutuamente immanenti, come aspetti diversi di un solo e identico atteggiamento, che in fondo è amore” (J. Alfaro,​​ a.c.,​​ 224).

8.​​ Se l’amore-carità è la sostanza profonda del cristianesimo, bisognerà ricondurre ad esso tutti i suoi elementi costitutivi. Ad esempio, la redenzione è essenzialmente un fatto di amore, i sacramenti sono segni efficaci dell’amore di Dio in Cristo e nello Spirito, la preghiera è un rapporto di amicizia fra l’uomo e Dio (cf Teresa d’Avila,​​ Vita,​​ 8,5). Il peccato è anche sempre rifiuto dell’amore. Bisogna apprendere dai mistici che l’approdo di ogni vita spirituale è l’amore sino al punto che “tutte le azioni sono amore”, come dice san Giovanni della Croce (Cantico​​ B, 27,8). Norme e precetti morali sono strumenti per discernere la volontà di Dio e attuare il precetto dell’amore (cf​​ Non di solo pane,​​ 239-242).

9.​​ La carità è anche la chiave interpretativa più profonda della → Chiesa. Nel suo​​ aspetto misterico​​ la Chiesa è comunione degli uomini con le persone della Trinità, e degli uomini fra di loro, e dunque mistero d’amore accolto e donato. Nel suo​​ aspetto istituzionale,​​ che comprende l’annuncio della parola, la celebrazione dei sacramenti, i vari ministeri e carismi, dovrebbe trasparire che si tratta di atti d’amore che la Chiesa compie affinché si realizzi la comunione degli uomini con Dio e fra loro. È infatti la carità che edifica (cf​​ 1 Cor​​ 8,2) e tutti i carismi, per poter essere autentici, devono essere permeati dalla carità (cf​​ 1 Cor​​ 13). Lo splendido “inno alla carità” di​​ 1 Cor​​ 13 dischiuse a Teresa di Lisieux il suo posto nella Chiesa. “Capii — scrive la santa — che solo l’amore fa agire le membra della Chiesa, che, se l’amore si spegnesse, gli apostoli non annuncerebbero più il Vangelo, i martiri rifiuterebbero di versare il loro sangue... Capii che l’amore abbraccia tutte le vocazioni, che l’amore è tutto” (S. Teresa di G. B.,​​ Gli Scritti,​​ Roma, Ed. Carmelitani scalzi, 1970, 237-238).

Bibliografia

G. Barbaglio – S. Dianich,​​ Carità,​​ in​​ Nuovo Dizionario di Teologia,​​ Roma, Ed. Paoline, 1977, 98-122; P. Foresi,​​ L'agape in S. Paolo e la carità in S. Tommaso,​​ Roma, Città Nuova, 1965; L. Moraldi,​​ Dio è amore,​​ Roma, Ed. Paoline, 1954; A. Nygren,​​ Eros e agape,​​ Bologna, Il Mulino, 1971; E. Quell – E. Stauffer,​​ Agapao, Agape,​​ in​​ Grande Lessico del NT,​​ vol. I, Brescia, Paideia, 1965, 57-146; J.​​ Pieper,​​ Sull’amore,​​ Brescia, Morcelliana, 1974; C. Spicq,​​ Agape dans le NT,​​ 3 vol., Paris, 1959-1966; M. Sbaffi,​​ Carità,​​ in​​ Nuovo Dizionario di Spiritualità,​​ Roma, Ed. Paoline, 1979, 137-154; V. Warnach,​​ Amore,​​ in​​ Dizionario di Teologia,​​ vol. I, Brescia, Queriniana, 1966, 50-76.

Franco Ardusso

image_pdfimage_print
image_pdfimage_print
CARITÀ

CARLO BORROMEO

S. CARLO BORROMEO

(1538-1584)

 

Agostino Favale

 

1. La vita

2. L’opera riformatrice

3. La strategia pastorale

3.1.7 collaboratori

3.2. Istituzione dei seminari e formazione del clero

3.3. I religiosi

3.4. I laici

3.5. Le confraternite

3.6. Istituzioni culturali e sociali

3.7. Visite pastorali

3.8. Iniziative di soccorso agli appestati

3.9. Rapporto con le autorità civili

4. Influsso delia sua prassi pastorale

 

Sebbene gli studi sull’insieme della figura e dell’opera di Carlo Borromeo necessitino tuttora di ulteriori ricerche e approfondimenti, è nondimeno acquisizione diffusa tra gli storici cattolici che egli debba essere considerato un​​ pioniere della pastorale moderna​​ per il metodo e la tenacia con cui attuò la riforma tridentina, che aveva come supremo criterio ispiratore la salvezza delle anime.

 

1. La vita

Carlo nacque ad Arona il 2 ottobre 1538 da Giberto e Margherita de’ Medici, e siccome era il minore dei figli maschi, fu destinato alla carriera ecclesiastica. Dopo aver compiuto gli studi primari ad Arona e quelli secondari a Milano, egli frequentò gli studi giuridici all’università di Pavia, dove ottenne il dottorato in​​ utroque iure​​ nel 1559. Lo zio materno, Giancarlo de’ Medici, eletto papa col nome di Pio IV, lo chiamò a Roma e nel 1560 lo nominò protonotario apostolico, referendario della Segnatura, cardinale e amministratore dell’arcivescovado di Milano, mentre il fratello maggiore Federico ebbe l’incarico di capitano generale delle armate pontificie. La nuova posizione imponeva a Carlo doveri cui non era stato preparato. Egli si sforzò di acquistare la necessaria dimestichezza negli affari di curia. D’altra parte, Pio IV, abile curiale e buon conoscitore del diritto, più che di consiglieri aveva bisogno di collaboratori, che fossero docili esecutori dei suoi ordini. E tale fu il «Cardinal nepote» anche a riguardo della riconvocazione e felice conclusione del Concilio di Trento.

Agli inizi della sua permanenza a Roma, Carlo si adeguò, mosso dall’esempio di tanti altri, ad un alto tenore di vita. Dato il suo rango, gli pareva cosa naturale possedere le più belle cavalcature e gli arredi più sontuosi, come pure partecipare a ricchi banchetti, ad allegre partite di caccia e a divertenti giochi a scacchi. La sua evoluzione spirituale cominciò verso la fine del 1562. L’improvvisa morte del fratello Federico, avvenuta il 19 novembre 1562, scosse profondamente il suo animo sensibile. Preso contatto con i circoli riformatori romani e influenzato da un prete bresciano di ambiente teatino, Alessandro Pellegrini, egli si sottopose a dure penitenze, intensificò le ore di preghiera, licenziò quasi metà della sua numerosa servitù, trasformò l’Accademia delle Notti Vaticane in adunanze di cultura religiosa e decise di farsi prete, rinunciando al maggiorascato che gli spettava di diritto dopo la prematura scomparsa del fratello Federico, con sorpresa dello stesso Pio IV che non nascose la sua contrarietà alla decisione e disapprovò il rigore ascetico del nipote.

Dopo un corso di esercizi spirituali, dettatigli dal padre gesuita Francesco Ribera, che in seguito scelse come suo confessore, Carlo ricevette l’ordinazione sacerdotale il 17 luglio 1563 nella chiesa di San Pietro in Montorio. Dedicò poi anche un po’ di tempo agli studi teologici sotto la guida dei padri gesuiti e si allenò nella predicazione. Intanto, oltre a svolgere con precisione il faticoso compito di collaboratore di Pio IV, si prodigò anche per il restauro di opere d’arte e per l’abbellimento di chiese e si interessò di archeologia cristiana. Inoltre, per sua ispirazione sorsero opere di assistenza come l’Ospizio per i mendicanti presso San Sisto sulla via Appia, l’Ospizio dei pazzi e la Casa Pia per il ricupero delle giovani sottratte alla strada del vizio e della degradazione. Redasse anche lo statuto del Monte di Pietà, allo scopo di trasformarlo in una istituzione benefica ancorata a principi di cristiana pietà.

Verso la fine di settembre o l’inizio di ottobre del 1563 giunse a Roma il primate del Portogallo, Bartolomeo de Martyribus, un domenicano di solida vita spirituale e deciso fautore della riforma della Chiesa. Il presule portoghese consegnò a Carlo un opuscolo manoscritto dal titolo​​ Stimulus pastorum,​​ dove illustrava la connessione tra virtù personali e interiori e virtù pubbliche e di governo, che avrebbero dovuto accompagnare l’azione pastorale di un vescovo. Egli lo lesse con attenzione e provvide alla pubblicazione dell’opuscolo.

Consacrato arcivescovo il 7 dicembre 1563, Carlo fu trattenuto a Roma per l’esame dei decreti del Concilio di Trento da sottomettere all’approvazione pontificia e avviarne l’applicazione. Ma egli inviò subito a Milano come suo vicario generale Nicolò Ormaneto, un ecclesiastico di esperienza pastorale e aperto alle istanze della riforma. Solo nell’estate del 1565, dopo reiterate insistenze e pressioni, Carlo ottenne il consenso di Pio IV di recarsi nella sua diocesi in ottemperanza al decreto tridentino che imponeva l’obbligo della residenza per i vescovi. Fece il suo solenne ingresso a Milano il 23 settembre e da quella data, salvo alcune impreviste assenze, si occupò della sua vasta arcidiocesi. Morì a Milano il 3 novembre 1584 all’età di 46 anni. Fu canonizzato da Paolo V nel 1610.

 

2.​​ L’opera riformatrice

Una tabella allegata agli​​ Acta Ecclesiae Mediolanensis,​​ editi per la prima volta nel 1582, dà le seguenti cifre e indicazioni sulla diocesi di Milano negli ultimi anni di episcopato di Carlo. La popolazione contava 560.000 persone, di cui 180.000 in città. Esistevano 46 collegiate, 753 parrocchie, 1.421 chiese sussidiarie e 926 cappellanie. I membri del clero secolare raggiungevano il numero di 3.352 (ivi compresi circa 1.300 ecclesiastici non preti); i religiosi erano 2.114, dei quali 1.207 preti, con 106 chiese; le religiose erano 3.400, di cui 2.638 professe, 619 converse, 143 novizie, con 61 chiese. I pii sodalizi ammontavano a 886 così suddivisi: 556 confraternite del SS. Sacramento, 133 confraternite dei Disciplinati, 130 confraternite intitolate alla Beata Vergine Maria; 24 luoghi pii per l’assistenza a quasi 100.000 poveri; e 16 ospizi che raccoglievano 4.500 persone. Vi erano, infine, 16 case pie: 11 di vergini con 240 persone, 3 per l’assistenza a ragazze pericolanti, alle vedove e alle donne abbandonate dal marito, e 2 per il ricupero delle peccatrici pubbliche. Va anche ricordato che la provincia ecclesiastica, di cui Carlo era metropolita, comprendeva 15 diocesi distribuite nel Milanese, nel Piemonte e nella Liguria. Questi dati, presi da soli, rivelano l’immenso campo di lavoro affidato allo zelo apostolico di Carlo.

Quando egli prese possesso della chiesa milanese, essa aveva bisogno di riforma nelle istituzioni e nelle persone. Pur iniziando un’esperienza pastorale nuova, non si perdette d’animo. Munito di privilegi pontifici, Carlo si impegnò nell’attuazione della riforma e lottò per il ripristino delle immunità ecclesiastiche, facendo valere la sua autorità di vescovo. Tutta la sua laboriosa e dettagliata opera di legislatore, organizzatore e riformatore aveva di mira l’applicazione rigorosa dei decreti del Concilio di Trento nella diocesi e provincia ecclesiastica di Milano, in vista di un capillare riordinamento e rinnovamento della cura pastorale. L’eccezionale impegno apostolico e morale di Carlo va ravvisato nella sua funzione pastorale. Egli si fece santo perché seppe sviluppare nel massimo grado le virtualità della carità pastorale e consacrò tutte le sue energie di mente e di cuore al servizio dei suoi diocesani, facendosi tutto a tutti sull’esempio di Cristo, buon Pastore.

Carlo celebrò 6 concili provinciali e 11 sinodi diocesani, di cui il primo fu tenuto dal suo vicario generale Nicolò Ormaneto, ed emanò parecchi editti, istruzioni, ordinanze e altri provvedimenti, che riguardavano la vita del clero, la disciplina dei religiosi e delle religiose, la liturgia, il decoro del culto, l’amministrazione dei beni temporali, al fine di correggere gli abusi e di rivitalizzare la cura pastorale. La minuziosità delle prescrizioni giuridiche e la determinazione ferrea con cui Carlo ne esigette l’osservanza, trovavano una spiegazione nel fatto che l’arcivescovo puntava verso mete spirituali altissime, intese a favorire uno slancio di autenticità cristiana e di spiritualità in tutti i membri della sua diocesi.

 

3.​​ La strategia pastorale

I già citati​​ Acta Ecclesiae Mediolanensis​​ consentono di seguire passo passo la meticolosa e innovativa strategia pastorale, che Carlo non si stancò di rivedere e di perfezionare, controllandone l’esecuzione in tutto il tempo in cui fu pastore a Milano. Egli divise la diocesi in 12 circoscrizioni ecclesiastiche, di cui 6 in città (le 6 «porte») corrispondenti più o meno ai quartieri cittadini, e 6 per la parte rurale (le 6 «regioni»). Le porte cittadine erano affidate a prefetti, mentre le regioni erano suddivise in tante pievi con a capo vicari foranei, scelti accuratamente tra le persone di sua fiducia. Ridusse le parrocchie cittadine di una trentina, ma ne istituì di nuove nelle campagne. Incaricò speciali visitatori di percorrere la diocesi per vigilare sull’attuazione delle sue disposizioni.

 

3.1. I collaboratori

Da buon organizzatore, Carlo non si limitò a emanare leggi e a dare una nuova ristrutturazione alla diocesi, ma scelse attentamente le persone che dovevano aiutarlo da vicino nell’esercizio della sua attività pastorale. Per questo si attorniò di una schiera di validi collaboratori. Nei primi anni vi erano più di cento persone, che conducevano vita comune con l’arcivescovo, fra segretari, addetti alla curia e domestici. A tutti veniva raccomandata una vita sobria e di pietà. Chi non si sentiva di ottemperare a queste raccomandazioni veniva licenziato. Quando era in sede, Carlo riuniva quasi ogni giorno i suoi più stretti collaboratori, esperti in scienze teologiche, storiche, liturgiche e giuridiche, per studiare insieme i problemi che man mano sorgevano e cercarne le possibili soluzioni. Anche nelle visite pastorali egli era accompagnato da consiglieri che all’occorrenza interpellava sul da farsi, prendendo nota di tutto ciò che aveva attinenza con l’assistenza materiale e l’animazione spirituale del suo popolo. Sollecitava pure la cooperazione delle nuove famiglie religiose, quali i Barnabiti, i Gesuiti, i Teatini, gli Oratoriani, i Somaschi e i Cappuccini, che diedero un contributo prezioso nell’educazione della gioventù e nell’assistenza spirituale del popolo.

 

3.2. Istituzione dei seminari e formazione del clero

Per rendere il clero più efficiente e disciplinato, Carlo provvide a un nuovo tipo di formazione con l’istituzione dei seminari. Nonostante le proteste del clero diocesano, affidò ai Gesuiti la direzione del primo seminario, fondato fin dal 1564 da Nicolò Ormaneto, permettendo che i seminaristi potessero frequentare le scuole in un loro collegio. In seguito, a causa di contrasti con i Padri della Compagnia, accusati di appropriarsi degli alunni più promettenti, l’arcivescovo demandò la direzione del seminario agli Oblati di Sant’Ambrogio, da lui fondati nel 1578 come organismo di preti diocesani a completa disposizione della diocesi. Egli istituì pure seminari minori o specializzati a Celana (Bergamo), a Santa Maria alla Noce presso Inverigo (Como), ad Arona (Novara) e a Pollegio (in Svizzera); seminari per le vocazioni adulte a Milano presso San Giovanni alle Case Rotte e presso la chiesa della Beata Vergine Maria alla Canonica; un pre-seminario per la formazione dei parroci di campagna e il Collegio Elvetico con capienza di 50 posti per i seminaristi provenienti dalla Svizzera, particolarmente dai Grigioni. Soppresse il​​ clero decumano,​​ ossia una parte del clero diocesano che nelle campagne si era costituito in gruppi con proprie regole in opposizione al clero cittadino stipendiato dal vescovo, per evitare rivalità e indiscipline. Riformò pure il capitolo dei canonici del Duomo con una revisione delle dignità e dei benefici.

La sua preoccupazione maggiore, però, fu quella di aiutare i preti a svolgere con competenza e con zelo il loro ministero pastorale e a migliorare la propria vita spirituale. Raccomandò loro l’obbligo di residenza e di tenere aggiornati i registri dello​​ status animarum; li invitò a ritrovarsi periodicamente con i confratelli per pregare e discutere questioni pastorali; insistette perché indossassero abiti consoni con il servizio che dovevano prestare alle comunità ed evitassero i divertimenti pericolosi; indicò loro le letture da fare: ogni giorno la Sacra Scrittura, poi i documenti dei Concili e i Padri della Chiesa, specialmente sant’Ambrogio; non voleva che ci fossero preti senza impegni pastorali; promosse la preghiera pubblica dei preti con la recita del breviario, l’uniformità liturgica con l’imposizione del rito ambrosiano, la dignità e correttezza delle funzioni con il richiamo alla serietà e al decoro; procedette con la massima severità contro il concubinato e la vita scandalosa dei preti; non indietreggiò davanti ad alcune minacce e insubordinazioni, ma trattò sempre con clemenza quelli che si emendavano.

 

3.3. I religiosi

Con i conventi maschili e femminili, dove la disciplina religiosa lasciava a desiderare, Carlo intervenne con ordinanze, ammonizioni, scomuniche e anche soppressioni, come nei casi dei canonici della Scala e degli Umiliati: un Ordine che Pio V aveva messo d’autorità sotto il controllo vigile dell’arcivescovo. Per reazione, quattro Umiliati del convento di Brera organizzarono contro Carlo, mentre pregava nella sua cappella privata, l’attentato del 26 ottobre 1569, eseguito materialmente da Fra Girolamo Donato, detto Farina, da cui rimase indenne per miracolo. Questa e altre ritorsioni non distolsero l’arcivescovo dal suo proposito di riportare i consacrati a vivere nella fedeltà i loro impegni evangelici.

 

3.4. I laici

Analoga fu pure la metodologia pastorale di Carlo con i fedeli laici: una serie di prescrizioni minute, atte a favorire la pietà, la vita di grazia, la partecipazione al culto, le devozioni popolari, l’istruzione religiosa, e a bandire i giochi, i divertimenti, le parole e le vanità contrari ai comandamenti di Dio e ai precetti della Chiesa. Quando l’esortazione e la persuasione non bastavano a indurre a cambiare vita, egli ricorreva anche alle minacce e alle punizioni. Si impuntò in maniera quasi ostinata contro l’incontenibile smania di spassi che s’impadroniva dei suoi diocesani nel periodo di carnevale, che a Milano cominciava subito dopo il Natale, e non si arrestava con l’inizio della Quaresima. Il 7 marzo 1579 proibì con un editto, sotto pena di scomunica, le giostre e i divertimenti pubblici predisposti dal governatore, Ayamonte, per la prima domenica di Quaresima, suscitando il malcontento della gente, in particolare dei nobili e dei magistrati, che mal sopportavano l’austerità imposta dall’arcivescovo. Egli tuttavia persistette nel difendere il carattere sacro dei tempi liturgici, la loro durata e la modalità di viverli. In tal senso offrì al popolo occasioni di raduni pubblici con processioni penitenziali ed eucaristiche, con sfarzose cerimonie liturgiche e con traslazioni delle reliquie di santi. Senza perdere il loro primario significato religioso, queste manifestazioni rappresentavano anche una valvola di scarico per il popolo, avido di distrazioni per evadere dalla monotona e dura realtà quotidiana.

 

3.5. Le confraternite

Un favore speciale Carlo riservò alle confraternite e ai pii sodalizi dei laici, che si occupavano sia della formazione religiosa e morale dei loro soci e delle opere di carità, sia delle istituzioni culturali e sociali.

Tra le confraternite promosse o create da Carlo si possono ricordare la Compagnia del SS. Sacramento per il culto eucaristico, la Compagnia della Santa Croce per meditare sulla passione e morte di Gesù, la Compagnia della concordia per mettere pace nelle famiglie, la Confraternita dei Disciplinati per confortare i carcerati e i condannati a morte, la Compagnia della carità per aiutare gli indigenti, la Compagnia delle Vedove di sant’Anna, cui l’arcivescovo assegnò, fra le altre attività, anche quella catechistica.

Ma l’opera maggiormente potenziata da Carlo fu la Compagnia della Dottrina Cristiana, fondata nel 1536-1539 dal prete Castellino da Castello, per catechizzare [ ragazzi e le ragazze nelle domeniche e negli altri giorni festivi e per insegnare loro anche a leggere e a scrivere. L’arcivescovo diede una nuova struttura alla Compagnia e moltiplicò le scuole della Dottrina Cristiana, caldeggiandone l’erezione in tutte le parrocchie della diocesi, le estese anche agli adulti e ne affidò l’animazione alla Congregazione degli Oblati di sant’Ambrogio. Da questa Congregazione proveniva la maggior parte degli assistenti spirituali, visitatori e priori delle varie scuole, i quali formavano una specie di «ufficio catechistico diocesano» a struttura piramidale, facilmente controllabile nel suo vertice dall’arcivescovo. Verso la fine dell’episcopato di Carlo, la nuova catechesi contava nella diocesi di Milano 740 scuole su 753 parrocchie; gli scolari raggiungevano le 40.090 unità ed erano guidati da 273 ufficiali generali e 726 ufficiali particolari (scuole locali), e assistiti da 3.000 operai laici. La forza di coesione della Compagnia della Dottrina Cristiana era data dalla vita interiore dei suoi membri, dalla preghiera quotidiana mentale e vocale, dalla frequenza alla Messa, dalla buona azione giornaliera e dal servizio della carità mediante le opere di misericordia spirituali e corporali, e dalla recezione mensile dei sacramenti della confessione e comunione. I parroci, oltre l’obbligo generico di insegnare il catechismo, dovevano assumersi la responsabilità delle scuole della Dottrina Cristiana appartenenti alla loro giurisdizione e renderne conto sia a livello di priori sia in occasione della visita pastorale. Le scuole della Dottrina Cristiana hanno dato un contributo rilevante al processo di evangelizzazione e cristianizzazione della diocesi di Milano.

Pastore aperto al nuovo, Carlo ricorse anche alla collaborazione delle donne nella catechesi, pur subordinandole secondo il costume del tempo al controllo maschile. Angela Merici aveva fondato a Brescia nel 1535 la Compagnia di sant’Orsola: un’aggregazione di vergini secolari dedite all’educazione delle giovani e alle visite agli ammalati. Carlo, dopo aver dato alla Compagnia nuove regole, si servì di queste religiose nel secolo per la catechesi delle ragazze e per il rinnovamento della pastorale femminile nella sua diocesi, valorizzando allo scopo lo spirito della fondatrice, che esortava le sue discepole a educare le giovani «con amore e con mano soave e dolce, e non imperiosamente e con asprezza», cercando «di essere in tutto piacevoli» a imitazione di Cristo.

 

3.6. Istituzioni culturali e sociali

Tra le istituzioni culturali e sociali, legate all’operosità di Carlo, vi sono: la creazione dell’Almo Collegio Borromeo di Pavia per studenti universitari poveri; la fondazione dell’università di Brera con le facoltà di lettere, filosofia e teologia; l’erezione presso quell’università del Collegio dei nobili; la dotazione di una sede migliore al Collegio per fanciulle nobili; voluto da Ludovica di Castro; l’avvio di una tipografia presso il seminario maggiore di Porta Orientale; la creazione dell’« Ospedale dei poveri mendicanti e vergognosi della Stella», una specie di albergo notturno per i vagabondi; la regolamentazione giuridica della casa del Soccorso, ideata da Isabella d’Aragona, per ospitare le spose maltrattate o quelle il cui marito era lontano. Carlo favorì o fondò pure istituzioni per il ricupero delle donne di malavita: l’Opera di santa Maria Egiziaca, l’Opera di santa Valeria e il Deposito o Ricovero di santa Maria Maddalena; ebbe cura delle orfane povere con gli Ospizi di santa Caterina e di santa Sofia; promosse la diffusione dei Monti di Pietà; protesse l’Istituto del patrocinio gratuito per i poveri; riformò il Pio Istituto di santa Corona per i malati indigenti; e, infine, durante la carestia del 1570 organizzò cucine popolari e l’importazione di generi alimentari di prima necessità.

 

3.7. Visite pastorali

Un aspetto originale dell’azione pastorale di Carlo fu la vicinanza alla sua gente. Docile verso le deliberazioni del Concilio di Trento, egli instaurò a Milano una prassi che era andata scomparendo: quella di risiedere in diocesi e quella di visitare la diocesi. Era persuaso che una efficiente cura pastorale richiedeva anche la conoscenza delle situazioni, la vigilanza della disciplina, l’assistenza nelle necessità, la condivisione nelle prove, la correzione degli abusi e l’incoraggiamento nella pratica delle virtù. In città Carlo non mancava di officiare le maggiori festività dell’anno, presiedeva le solenni manifestazioni religiose, distribuiva personalmente l’eucaristia ai fedeli, amministrava a tutti il sacramento della cresima. Compì per tre volte la visita pastorale dell’intera diocesi, lasciando un indelebile ricordo per la sua dedizione al servizio dei bisogni spirituali e materiali della gente. Gli spostamenti da una località all’altra avvenivano spesso a dorso di mulo. Si recò per sette volte nelle vallate svizzere, minacciate dall’infiltrazione delle idee protestanti. Consacrò più di cento chiese fra nuove e rifatte.

Le visite pastorali, anche quelle riservate alle parrocchie sperdute sulle montagne, erano preparate nei minimi particolari. L’arrivo dell’arcivescovo era preceduto qualche giorno prima da un suo delegato e da almeno due confessori, che dovevano preparare gli abitanti alla visita pastorale con la predicazione, la recezione dei sacramenti della confessione e comunione e la soluzione delle questioni da sistemare. La visita aveva inizio con la celebrazione solenne della Messa, durante la quale l’arcivescovo teneva un’omelia e distribuiva personalmente la comunione. Quindi amministrava il sacramento della cresima e si metteva a disposizione di tutti coloro che desideravano parlargli. Dopo aver ispezionato accuratamente gli edifici dedicati al culto, convocava i notabili del paese e li interrogava sul comportamento dei parrocchiani in chiesa; sulle modalità della loro assistenza alle funzioni religiose; se vi fossero nel territorio della parrocchia eretici, usurai, concubini, banditi e criminali; se era osservato da tutti il precetto della confessione e della comunione almeno una volta all’anno; se vi fossero persone che si rifiutavano di sostenere le opere di carità; se i genitori educassero bene i loro figli; se non vi fosse lusso esagerato nel vestire da parte degli uomini e delle donne; se la clausura fosse osservata nei monasteri e nei conventi; se le istituzioni di beneficenza fossero ben amministrate.

Inoltre, l’arcivescovo controllava resistenza, lo stato e l’aggiornamento dei quaranta libri, registri e repertori, che i parroci dovevano possedere e tener aggiornati sulla situazione delle loro parrocchie. Ma la sua principale attenzione era rivolta a promuovere l’istruzione religiosa, la frequenza dei sacramenti, convincimenti e comportamenti di fede nel popolo. Nessuna categoria di persone era esclusa dalle sue sollecitudini pastorali: dai preti ai religiosi e alle religiose, ai genitori, ai fanciulli e ai giovani, ai poveri, agli ammalati, ai peccatori, agli eretici. Si interessava anche dei problemi della vita sociale, indirizzando consigli ai datori di lavoro e ai lavoratori, perché in ogni ambiente venissero rispettati i principi cristiani. Pur essendo esigente, sapeva temperare la fermezza con la dolcezza per guadagnarsi il cuore delle persone. Oltre la cura pastorale della sua diocesi, Carlo ricevette in tempi diversi il compito di recarsi come visitatore apostolico nelle diocesi di Cremona, di Bergamo e di Brescia e in alcune zone della Svizzera di lingua tedesca per introdurvi la riforma tridentina. Egli si accinse a quest’impresa con lo zelo e la serietà di sempre, cercando di riportare ovunque l’ordine e un più vivo spirito religioso.

 

3.8. Iniziative di soccorso agli appestati

Nessun avvenimento, però, documenta meglio l’impegno pastorale di Carlo della «peste» del 1576. In tale circostanza egli decise di non allontanarsi da Milano e organizzò l’assistenza spirituale, caritativa e sociale per gli appestati e gli agonizzanti del lazzaretto di san Gregorio. Portò a quanti più poteva

11 conforto della sua presenza, della sua parola e dei sacramenti. Date le scarse conoscenze mediche che allora si avevano sulla causa e la modalità del sorgere e del diffondersi della peste, Carlo, persuaso che i flagelli pubblici fossero causati dai cattivi comportamenti degli uomini, ordinò che si facessero processioni penitenziali, non tenendo conto del pericolo che tali assembramenti potevano rappresentare nella propagazione del contagio.

Quando poi il governatore impose una forzata quarantena di clausura dei milanesi nelle proprie case, Carlo ordinò che le Messe venissero celebrate nelle piazze all’aperto, per offrire ai fedeli la possibilità di parteciparvi dai balconi e dalle finestre delle proprie case. Utilizzò, inoltre, le tende delle pareti del palazzo arcivescovile e propri indumenti personali per sovvenire ai bisogni dei poveri e provvide alla distribuzione di viveri. Terminata la peste, l’arcivescovo indisse processioni di ringraziamento con grande concorso popolare e fece erigere come​​ ex voto​​ la chiesa di san Sebastiano.

L’infierire della peste aveva accentuato il fervore di preghiera, di carità e di fede dei milanesi. Carlo s’illudeva che il popolo avrebbe continuato su questa strada. Dovette invece constatare con amarezza che anche i «buoni propositi hanno il fiato corto». Se ne rammaricò in un Memoriale del 1579, in cui rimproverava le infedeltà dei suoi diocesani e li supplicava di riconvertirsi. Ma, vedendo che le sue parole rimanevano inascoltate, si sforzò di riparare l’incoerenza della sua gente con una vita personale sempre più mortificata, penitente e sacrificata, che affinò il suo temperamento rigido e lo rese più tollerante e comprensivo verso gli altri.

 

3.9. Rapporto con le autorità civili

Nell’esercizio del suo ministero pastorale, Carlo era guidato da una concezione gerarchica dell’autorità. Egli riconosceva l’autorità suprema del Papa, ma era pure un convinto assertore dell’autorità del vescovo nella propria diocesi: quanti ricevevano da lui la facoltà di esercitare particolari compiti, dovevano rappresentarlo presso il popolo e ubbidirgli senza riserve. Spinto dal suo zelo pastorale egli esigeva che la vita dei suoi diocesani si svolgesse secondo le sue indicazioni e non temeva di entrare in conflitto con le stesse autorità civili per difendere quello che egli credeva rientrasse nei suoi diritti di responsabile e guida della vita cristiana del popolo. È quindi comprensibile che i rapporti tra l’arcivescovo e i governatori di Milano non siano sempre stati dei migliori. Se da un lato Carlo pretendeva che il braccio secolare assecondasse la sua riforma dei costumi, sostenendo che lo stato avrebbe potuto avvantaggiarsi dalla condotta di cittadini onesti e obbedienti alla Chiesa, dall’altro lato i governatori si sentivano sminuiti nella loro autorità di fronte a un arcivescovo che voleva avere i propri gendarmi, si ingeriva nella vita pubblica e reclamava il diritto di punire anche i semplici cittadini e di imprigionarli per inadempienze di carattere religioso. Ne nacque una estenuante diatriba giuridica con ricorsi a Roma e in Spagna, da dove giungevano inviti alla moderazione e duttilità, indispensabili per favorire rapporti di collaborazione tra chiesa e stato con reciproci vantaggi per entrambi.

 

4.​​ Influsso della sua prassi pastorale

A parte qualche eccesso di intransigenza e di rigorismo e qualche sconfinamento di campo nella difesa di veri o presunti diritti, dovuti alla mentalità del tempo e alla psicologia di Carlo, ma soprattutto alla sua retta intenzione di rimediare alla decadente vita cristiana privata e pubblica dei suoi diocesani, grazie alla pubblicazione e diffusione degli​​ Acta Ecclesiae Mediolanensis​​ la strategia pastorale, da lui inaugurata, ebbe vasta eco in tutta l’Europa cattolica. Tracce delle sue intuizioni e delle sue riforme si ritrovano ancora nella prassi pastorale odierna. Carlo ebbe il merito di dare risalto e di realizzare la figura del vescovo-pastore dei tempi moderni, che sente l’urgenza di una saggia ristrutturazione della propria diocesi, al fine di garantire a tutti quegli aiuti spirituali che vanno dalla predicazione all’amministrazione dei sacramenti; di programmare il lavoro apostolico con la collaborazione di esperti, ecclesiastici e laici; di avvicinare la sua gente per conoscerne i bisogni e farsi conoscere; di aiutare i poveri, i malati, gli emarginati; di formare le nuove generazioni con una catechesi sistematica; di curare la formazione dei candidati al sacerdozio e l’aggiornamento dei preti; di suscitare la cooperazione dei religiosi e delle religiose; di promuovere un rinnovato annuncio del Vangelo, capace di ridare agli uomini quel «supplemento d’anima» che non è possibile ricevere senza il confronto assiduo con la parola di Dio.

Carlo Borromeo non si limitò a legiferare, istruire, correggere e animare, ma, come lampada posta sul candelabro, fu di esempio a tutti, consumando sé stesso in una vita di lavoro, di carità, di preghiera e di penitenza per la gloria di Dio e la salvezza del popolo, affidato alle sue cure pastorali.

 

Bibliografia

Fonti

Opere complete di S. Carlo Borromeo,​​ in 5 voll., a cura di Sassi​​ G. B., prefetto dell’Ambrosiana, Milano 1747; 2a​​ ed., 2 voll., Augusta in B. 1758; Sala​​ A.,​​ Documenti circa la vita e le gesta di S. Carlo Borromeo,​​ 3 voll., Milano 1857-61;​​ Acta Ecclesiae Mediolanensis,​​ ed. Ratti A., vol. II-III, Milano 1890-92.

Studi

Bach H.,​​ Karl Borromàus. Leitbild fiir die Reform der Kirche nach dem Konzil von Trìent. Ein Gedenkbuch,​​ Wienand Velag, Kòln 1984; Bendiscioli M.,​​ Dalla riforma alla Controriforma​​ (= Saggi, 145), Il Mulino, Bologna 1974, pp. 107-182; Crivelli L.,​​ San Carlo. Santo per gli altri,​​ Ancora, Milano 1984; Deroo A.,​​ San Carlo Borromeo.​​ Il cardinale riformatore,​​ Ancora, Milano 1965; Jedin H. - G. Alberigo,​​ Il tipo ideale di vescovo secondo la riforma cattolica,​​ Morcelliana, Brescia 1985, pp. 69-77; 99-167; Jedin H.,​​ Carlo Borromeo​​ (= Bibliotheca Biographica, 2), Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1971; Mols R., S.​​ Carlo Borromeo, iniziatore della pastorale moderna,​​ Scuola Tipografia S. Benedetto, Viboldone 1961; Saba A. - A. Rimoldi,​​ Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, santo,​​ in «Bibliotheca Sanctorum», Istituto Giovanni XXIII, Roma 1963, vol. III, coll. 812-846;​​ San Carlo e il suo tempo.​​ Atti del Convegno Internazionale nel IV centenario della morte (Milano 21-26 Maggio 1984), Ed. di Storia e Letteratura, Roma 1986, 2 voll.

image_pdfimage_print
image_pdfimage_print
CARLO BORROMEO
image_pdfimage_print